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Social card: bidonati 200 mila nonni. Dal governo.

di ANTONELLO CAPORALE da repubblica.it

Si dice: morire di vergogna. “Avevo il Dixan in mano, anche una confezione di orzo e una scatola di tonno ma mi è venuto un presentimento: vuoi vedere che non funziona? Allora ho preso la tessera e ho chiesto alla commessa di digitare i numeri, io non vedo bene. Non era stata caricata. Avevo i soldi stretti nell’altra mano, già tutti contati, e glieli ho dati e così è finita. Non l’ho più usata”. Maria Pia, 67 anni, è fuggita via dal supermercato di Viareggio rossa in viso, e meno male che non c’era nessuno in fila. Comunque in quel supermercato non ci tornerà più.

La tessera di Tremonti è di un bel azzurro sereno. Come il cielo di Forza Italia, quello di una volta. Un tricolore ondulato la attraversa da sinistra a destra e sembra la scia delle mitiche frecce. “E’ anonima naturalmente per non creare imbarazzo”, commentò Silvio Berlusconi il giorno dell’inaugurazione della campagna dei 40 euro mensili ai bisognosi d’Italia.

Anonima. Infatti ieri, supermercato Sma di Roma, commessa indaffarata alla cassa, signore anziano in fila: “Ha per caso la social card?”. Il no è asciutto e risentito. “Scusi, ma era per capire come pagava”.
Lusy Montemarian non ha pagato, anzi è scoppiata in un pianto dirotto quando le hanno comunicato, come fa il medico alla famiglia del congiunto morente, che non ce l’aveva fatta. Un pianto raccolto da una microtelecamera di “Mi manda Raitre” e unito ad altri pietosi casi. Un mattone sull’altro, e un altro ancora. Alla fine si edifica questo incredibile muro della vergogna che attraversa la penisola e la trafigge senza colpa.

La Social Card, il circuito Mastercard. Protagonisti di una favola. Una strisciata e via. La pensionata indigente che alla cassa del panificio, come la donna chic di via Condotti, apre il borsello, non tocca i soldi sporchi, ma sfila la carta di credito. Un secondo magnetico. Se la carta è piena. Se è vuota – e lo sono un terzo delle circa 500 mila distribuite – la pensionata deve restituire il pane e ritirare l’umiliazione pubblica.

Era il 19 giugno, era estate, e il ministro Giulio Tremonti annunciava una vecchia novità: la carta di credito per i poveri. Vecchia perché l’aveva pensata Vincenzo Visco, nell’arcaico ’97: sconti sulla spesa, sugli affitti, sui beni di prima necessità. Vecchia perché l’aveva apprezzata Ermanno Gorrieri, comandate partigiano, fondatore del movimento Cristiano Sociali. Gorrieri è morto nel 2004. Nel 2008 è Tremonti a presenziare e presentare la svolta: una manovrina da 450 milioni di euro, 200 coperti dall’Eni, 50 dall’Enel, altri dalla Robin Tax. Togliere ai ricchi, dare ai poveri: 40 euro al mese, 80 euro accreditati ogni due mesi. Per un anno intero. Quattro mesi di annunci, di serrata organizzazione. Pronti. Si parte il primo dicembre. Attenzione: chi conserva 15 mila euro, in banca o alla posta, pensionato o disoccupato, non ha diritto alla carta di credito dello Stato.

Sono in 520 mila a dicembre a chiedere la social card, pensionati con reddito dai 6 mila euro agli 8 mila, coppie di anziani, famiglie con figli a carico, non oltre i tre anni però. Con una sola casa di proprietà, un’automobile e un’utenza elettrica attiva. In fila, per ore, davanti ai 9 mila uffici postali. Perché chi completava le pratiche entro il 31 dicembre, aveva diritto a 120 euro (ottobre, novembre e appunto dicembre) di partenza. Una corsa verso il nulla. Perché il 30 dicembre, con ottimismo natalizio, l’Inps – che doveva accertare il reddito – dichiarava di aver ricaricato 330 mila tessere. Le altre erano vuote.

Migliaia di italiani si sono ritrovati in mano una patacca. Una carta azzurra, di plastica, con il retro magnetico, il numero, il logo giallo e rosso della Mastercard. Belle, eccome. E di valore: si stima costi almeno 50 centesimi l’una, più 1 euro per la ricarica bimestrale, più il 2 per cento per le spese del circuito bancario. Uno scherzetto da 8 milioni e 500mila di euro, a pieno regime. Una lotteria per il mezzo milione di italiani che, soltanto alla cassa e davanti al commesso, saprà se la sua carta annonaria è buona oppure è uno scherzo del destino, se può permettere di fare la spese oppure di annunciare la propria povertà a tutti.

Duecentomila tessere vagano scoperte di tasca in tasca, sospese o respinte. Duecentomila italiani, forse di più, le possiedono senza poterle utilizzare. Alcuni (pochi) lo sanno. Altri, molti altri, che non sanno, vanno incontro alla sciagura.

Ci vuole del metodo per ideare una così lunga e inutile fatica. Prima fila: farsi certificare la povertà, la disgrazia assoluta. Seimila euro all’anno. In fila, naturalmente per vedersi attestata dal patronato la sospirata povertà. Poi l’Inps, le Poste, sempre in fila, sempre allo stesso modo. Infine, coraggio, andare al supermercato ed esibirla questa maledetta povertà. E poi, duecentomila volte finora, vederla svergognata: “La tessera non è carica”. Ma ha letto bene?

Per la social card un poveretto di Catania è ricoverato (coma farmacologico) in ospedale a seguito di furiosa lite, recita un dispaccio dell’Ansa del 3 gennaio scorso, generata “dalla discussione per l’ottenimento della social card”. Giovanni Spatola, imbianchino di 47 anni, si è costituito ai carabinieri confessando di aver fracassato il cranio del conoscente con una chiave inglese. Chi dei due doveva ottenere la social card? A Verona boom di ritiri. Il dato, riferisce la direzione delle Poste, è connesso alla presenza nel luogo di molti istituti religiosi. Trecento tra suore e frati si sono presentati all’incasso. Nullatenenti. Perciò potevano. A Castelletto di Brenzone, minuscolo villaggio sul lago di Garda, ne sono state elargite più di cinquanta. Come mai? Lì ha sede l’istituto delle piccole suore della Sacra Famiglia. Amen.

“Disagi e umiliazioni di ogni genere. Accreditategli questi benedetti quaranta euro sulle pensioni, così risparmierete dei soldi anche voi”, ha consigliato Pierluigi Bersani ieri alla Camera al ministro dell’Economia. “E’ la truffa del secolo, un flop, il più grande bluff tremontiano”, dice Franco Laratta, il deputato calabrese del Partito democratico mentre raccoglie le firme per un’interpellanza urgente sulla precoce agonia di questa tesserina azzurrissima, molto patriottica con quel fascio tricolore. (Beh, buona giornata).

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Attualità Salute e benessere Società e costume

Quando è “la capa che non è bùona”.

Secondo eminenti scienziati, noi uomini, nel senso di genere umano,  non possiamo rievocare un ricordo e apprendere cose nuove contemporaneamente: il nostro cervello è dotato di una ‘leva di scambio’ tra i due binari di apprendimento e memoria, che spegne le funzioni della memoria e accende quelle dell’apprendimento o viceversa.

 

Pubblicata sulla rivista PLoS Biology, la scoperta è di Sander Daselaar dell’Università di Amsterdam e Roberto Cabeza della Duke University, che sospettavano da tempo che nel nostro cervello due funzioni importanti come apprendimento e memoria non possono attivarsi contemporaneamente, ovvero se siamo presi dal richiamare alla memoria un fatto, difficilmente in quello stesso istante potremo incamerare nella memoria un fatto nuovo di zecca.

I ricercatori hanno monitorato il cervello di un gruppo di giovani con la risonanza magnetica funzionale mentre i volontari erano alle prese con un gioco, in cui dovevano imparare delle parole e contemporaneamente ricordare immagini.

E’ emerso prima di tutto che le due attività svolte insieme mandano ‘in tilt’ il cervello che non si mostra capace di portarle a termine contemporaneamente. E poi si è anche visto che quando si passa dalla ‘modalità  apprendimento’ a quella memoria, o viceversa, si attiva una regione della parte frontale sinistra del cervello, una ‘leva di scambio’ che gli permette di passare rapidamente dalla funzione memoria a quella apprendimento e viceversa.

Conosco un sacco di gente che deve avere un guasto alla leva di scambio: cerca di capire qualcosa quando invece dovrebbe ricordare, cerca di ricordare quando invece dovrebbe capire. Sono quelli che scambiano il passato col futuro, e vivono il presente in perenne tilt. Ne è piena la politica, la televisione e, ahinoi, la pubblicità. Beh, buona giornata.

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Crisi: stiamo perdendo fiducia nella fiducia.

Così la crisi cambia il nostro stile di vita

Che cosa temono maggiormente i nostri contemporanei, in particolare gli abitanti delle dieci città più grandi e più importanti del pianeta, e quali sono le loro (e le nostre!) più assillanti e tormentose preoccupazioni, quali le cause più minacciose all’ origine dei loro (e nostri!) incubi (se ne hanno~)?
Dal sondaggio del World Social Survey del luglio 2008 è stato possibile dedurre differenze sbalorditive tra i vari Paesi. Tra le principali preoccupazioni che assillano gli americani in cima all’ elenco ci sono la paura che il loro standard di vita precipiti in un immediato futuro, la paura di perdere il posto di lavoro, il timore che la vita dei loro figli sia più difficile di quella dei loro genitori. Gli americani sono stati i primi a dover stringere la cinghia e ad avvertire la morsa della crisi, poiché gli enti che erogavano mutui subprime, e ancor più coloro che erogavano prestiti, erano nei guai già a luglio.
In Gran Bretagna nessuno di questi cupi presagi ha raggiunto il vertice della classifica delle paure, e nessuno ha trovato posto tra le prime otto preoccupazioni più di frequente citate dagli intervistati. Nel novembre 2008, però – dopo cinque mesi appena – un altro sondaggio ha permesso di apprendere che un britannico su due dormiva meno bene di quanto dormisse sei mesi prima, che uno su quattro si svegliava più di tre volte ogni notte, che due su tre imputavano la loro insonnia soprattutto alla penuria di soldi e allo spettro della disoccupazione.
Uno dei risultati più sconcertanti tra i molteplici della crisi creditizia, è – come possiamo constatare da altre prove e da una consapevolezza comune che si diffonde rapidamente – quanto connesse (anzi, in realtà, interconnesse e reciprocamente dipendenti) siano le nostre vite, le nostre prospettive e le nostre paure nel nostro mondo globalizzato. Non soltanto gli americani e i britannici, che per molti anni hanno vissuto a credito, spendendo e spandendo ben al di sopra dei loro mezzi, ma anche popoli di nazioni relativamente puritane – parsimoniose e prudenti, fiere delle loro esportazioni che superavano le loro importazioni, orgogliose dei loro budget di governo come pure di ogni singolo nucleo famigliare che non precipitavano nell’ insolvenza – avvertono ora queste preoccupazioni e scoprono di colpo che dormire bene di notte è un vero e proprio lusso (come i clienti della Germania, per esempio, che non sono più in grado di permettersi i beni che essa vorrebbe esportare).
In un paese lontano del Queensland in Australia, una giovane che oggi ha 23 anni e si chiama Siobhan Healey alcuni anni fa ha ottenuto la sua prima carta di credito: quello è stato – a suo dire – il giorno della sua emancipazione. Finalmente era libera di poter gestire da sola le proprie finanze, libera di scegliere le sue priorità, libera di far corrispondere i suoi desideri alla realtà. Non molto tempo dopo, la giovane ha chiesto e ottenuto una seconda carta di credito per far fronte agli interessi e ai debiti accumulati sulla prima.
Passato poco tempo ancora, ha appreso altresì il prezzo della sua tanto agognata “libertà finanziaria”, per la precisione nel momento in cui ha scoperto che la seconda carta di credito non bastava a far fronte e a coprire gli interessi dei debiti della prima. Si è quindi rivolta a una banca per ottenere un prestito necessario a saldare gli scoperti di entrambe le carte, che a quel punto avevano già raggiunto la spaventosa cifra di 26.000 dollari australiani. Seguendo però l’ esempio degli amici ha preso in prestito altri soldi ancora, per finanziarsi un viaggio oltreoceano – un must per chiunque abbia la sua età. Adesso, finalmente, è stata assalita dalla consapevolezza di avere pochissime chance di poter mai ripagare da sola il proprio debito, e ha compreso che sottoscrivere sempre più prestiti non è il modo giusto per farlo. E così ha dichiarato – purtroppo per lei, con uno o finanche due anni di troppo – di aver “cambiato completamente mentalità e di aver imparato che per fare acquisti è necessario risparmiare”. Attualmente ha assunto un consulente finanziario, ha interpellato un amministratore e conciliatore che la aiuterà poco alla volta a tirarsi fuori dal baratro nel quale è caduta. Ma costoro la aiuteranno davvero a “cambiare radicalmente mentalità”? Resta da vedere. E quale aiuto trarrà dalle loro lezioni, se nessuno sarà disposto a offrirle un’ altra sospensione della pena? Ben Paris, portavoce di Debt Mediator Australia, non si stupisce né si sconcerta più di tanto: paragona la tragica vicenda di Healey a “giocare al gioco delle sedie sul ponte del Titanic”, per aggiungere quindi senza indugio che è del tutto normale per i giovani “prendere soldi in prestito ben oltre i propri mezzi”, e fa notare che il caso di Siobhan Healey non è affatto unico e fuori dalla norma: «Ogni anno riceviamo 25.000 giovani che sono in situazione critica dal punto di vista finanziario, e questa è soltanto la punta dell’ iceberg».
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, in Germania e in Australia per uomini e donne, per giovani e vecchi è ormai lapalissiano che sono giunti al termine i bei tempi in cui potevano ancora credere che nel caso in cui fossero finiti nei guai ci sarebbe sempre stato qualcuno accanto a loro o nei paraggi disposto in qualche modo a offrire un “prestito ponte” fino al momento in cui le loro fortune non fossero tornate a sorridere loro.
Tre anni fa, mentre raccoglieva materiale per un suo articolo, Tim Adams del londinese Observer riuscì in pochissimo tempo a mettere insieme “la cifra teorica di centomila sterline semplicemente dando ripetutamente il cognome da nubile della madre in qualche telefonata a banche cordiali e società di credito in competizione tra loro per accaparrarsi un nuovo cliente”, mentre di recente non è riuscito a ottenere un’ estensione di diecimila sterline per il mutuo da una società bancaria con la quale ha rapporti da ben quaranta anni.
Molto prima che l’ ultima bolla del mercato esplodesse, c’ erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca – il fatto di credere nella serietà, nell’ affidabilità e nella buona volontà altrui – non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra. Ma l’ esplosione della bolla dei prestiti erogati e sottoscritti ha inferto un duro colpo a quella fiducia, proprio dove più fa male e dove la ferita è più deleteria.
Nel nostro mondo pullulante di rischi, un mondo che ci blandiva, spronava e costringeva a essere temerari e coraggiosi e a proseguire nelle nostre acrobazie al trapezio anche se le reti di sicurezza andavano scomparendo una dopo l’ altra, le banche in fin dei conti si sono presentate come l’ ultimo riparo sicuro, si sono spacciate per l’ ultimo bastione della fiducia: hanno promesso di ammortizzare la nostra caduta, se fossimo mai caduti. E noi abbiamo creduto anche che le banche avrebbero calcolato i rischi meglio di quanto fossimo capaci noi, e che ci avrebbero pertanto difeso dalle temibili conseguenze di mosse azzardate, sconsigliabili e stolte. Il fatto che riconoscessero il nostro status di individui meritevoli di fiducia costituiva una sorta di certificato della nostra sagacia, era la prova indiscutibile della nostra competenza che ci serviva per andare avanti.
Adesso, invece, i direttori di banca hanno perso fiducia nell’ affidabilità di coloro ai quali erogavano i loro prestiti – affidabilità che loro stessi hanno messo maggiorente a rischio, esortando i loro clienti esistenti e i loro aspiranti clienti a vivere al di sopra dei loro mezzi, a spendere soldi non ancora guadagnati e che tutto sommato avevano ben scarse speranze di poter mai guadagnare, rassicurandoli che in caso di necessità il soccorso da parte delle loro banche amichevoli e sorridenti, sempre-pronte-ad-arrivare-anche-con-breve-preavviso non sarebbe venuto meno. Invece, noi tutti abbiamo perso fiducia nell’ affidabilità delle capacità di giudizio delle banche e nell’ attendibilità delle loro promesse. Una volta sparito il sorriso dalle facce benevolenti dei manager di banca, ciò che è affiorato da sotto la maschera non era affatto rassicurante: sinistre e spietate maschere facciali di contenimento di esperti in recupero crediti e agenti addetti agli espropri.
Abbiamo perso fiducia anche nei nostri esperti, nei consiglieri, negli specialisti in previsioni economiche, in coloro che pretendevano di avere una linea diretta con il futuro e di sapere perfettamente come riconoscere le iniziative sicure e prudenti da quelle avventate e stolte. Le banche assumevano – non è forse vero? – i consulenti migliori, quelli che non ci saremmo mai sognati di poter interpellare né tanto meno di retribuire per i loro servigi, e guarda un po’ in quali guai sono finiti! La fiducia – così sembra – sta vivendo tempi quanto mai difficili, come mai prima d’ ora. Non possiamo più seguire la fiducia nello spazio intergalattico nel quale è stata proiettata.
Siamo infatti abituati ad avere a che fare con “questioni di fiducia” a nostra dimensione, umana, modesta: la maggior parte di noi si è imbattuta in questa questione faccia a faccia quando si è trattato di prendere in prestito o di prestare qualche centinaio, forse qualche migliaio di sterline o di euro, al più cento o duecentomila al massimo, nella rara circostanza in cui si comperava una casa o si apriva un’ attività.
Ogni giorno dai giornali apprendevamo che mentre noi eravamo in coda per ricevere magri sussidi statali, le scuole, gli ospedali, i teatri, le ferrovie, i trasporti municipali e altre istituzioni fondamentali per la nostra vita di tutti i giorni dovevano arrabattarsi e farsi in mille per ottenere finanziamenti di un milione o di qualche milione di sterline o di euro che – così sostenevano – avrebbero fatto la differenza tra la normalità e la catastrofe. Adesso su quegli stessi giornali leggiamo che al fine di ripristinare la fiducia tra banche e clienti, occorrono miliardi di sterline o di euro. Anzi, neppure miliardi, ma un numero non meglio quantificato di centinaia di miliardi. Il presidente eletto americano qualche giorno fa ha parlato di un trilione di dollari, nel momento stesso in cui alcuni commentatori facevano notare che le misure e i provvedimenti che egli ha in mente di realizzare costeranno molto, molto di più.
Come ha calcolato Tim Adams, le cifre sbandierate in questi giorni in relazione al probabile costo che comporterà il ritorno alla normalità è equivalente (in valori attuali) all’ importo complessivo speso per il Piano Marshall (l’ Italia e Trieste ricevettero, per procedere alla ricostruzione post-bellica, poco più di un miliardo di dollari del budget complessivo previsto dal Piano Marshall e corrispondente a poco più di 12 miliardi di dollari), per il programma spaziale della Nasa e per la guerra del Vietnam. Tale cifra mette a dura prova la nostra comprensione. Va al di là di quello che riusciamo anche solo a immaginare.
Non siamo più saggi e non sappiamo che cosa fare di più (al di là di quello che noi, intesi come voi e io, possiamo singolarmente fare), non più di quanto saremmo e sapremmo fare se ci fosse stato detto che i ministri delle Finanze nel loro meeting d’ emergenza indetto per un certo giorno avessero convocato una schiera di angeli e l’ avessero fatta arrivare sulla Terra per porre rimedio a ciò che noi – indolenti esseri umani – abbiamo così rovinosamente distrutto. Unica reazione ragionevole dovrebbe sembrarci la preghiera, se solo sapessimo a quale arcangelo in carica indirizzare debitamente le nostre invocazioni.
E’ troppo presto per dire se la crisi finanziaria ci stia cambiando e se all’ uscita dal tunnel saremo di fatto diversi. Per quanto riguarda la prognosi, ammiro – anche se non necessariamente invidio – gli esperti che non avendo apparentemente perduto un briciolo della loro fiducia in loro stessi, malgrado tutti i rovesci di fortuna e il fatto di averci rimesso la faccia, si precipitano a fare previsioni su quanti lavoratori complessivamente perderanno il loro posto di lavoro prima che torni a esserci un certo benessere, a che ora dell’ anno prossimo o di quello dopo ancora le banche riprenderanno a erogare prestiti e noi potremo ricominciare a chiederli, e a quali comodità della nostra esistenza dovremo rinunciare temporaneamente o per sempre: la cena al ristorante? Le vacanze all’ estero? I regali di Natale? Gli alimenti biologici, per altro costosi? Temo che, come il resto di noi, gli esperti siano sopraffatti dalla smisurata entità di questo enorme problema col quale siamo attualmente alle prese. Come i generali, anche loro combattono le battaglie del passato, le uniche che conoscono~
Ma il crollo collettivo di quella fiducia che aveva caratterizzato, sorretto e mantenuto nei binari la nostra esistenza nei decenni recenti, e la sua fuga nel regno dell’ inimmaginabile, non hanno sicuramente precedenti, e pertanto non vi è alcuna ovvia e naturale lezione di storia che possiamo trarre e mandare a mente. L’ unico confronto storico che sembra all’ altezza della nostra situazione è quello con Winston Churchill che dichiarò, proprio mentre stava per diventare palese a tutti, che l’ unica strada verso la vittoria che egli si sentiva di poter responsabilmente promettere alla nazione in difficoltà, era quella che prevedeva ancora più sudore, più fatica, più sacrifici~ (Beh, buona giornata). 
Traduzione di Anna Bissanti
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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto Società e costume

L’Antitrust e le banche italiane:”Un vero e proprio carattere nazionale che postula il prevalere della corporazione sulla concorrenza.”

Il conto al consumatore
 
di FRANCESCO MANACORDA da lastampa.it
E dunque – ci spiega l’Antitrust – i salotti buoni del capitalismo sono presumibilmente salotti dove ci si annoia parecchio: sempre le solite facce; sempre tutti assieme senza troppe distinzioni tra amici e nemici, concorrenti o alleati; sempre tante poltrone occupate da pochi noti e mai una ventata d’aria nuova.
Ci si annoia, ma – dato non secondario – si esercita un potere vero. E un potere tanto più forte perché autoreferenziale.

Basta mettere a confronto le tabelle dell’Autorità con le cronache finanziarie di questi anni – ma anche di qualche decennio fa, proprio a dimostrazione di un sistema bloccato – per vederlo con chiarezza. Sono le Assicurazioni Generali e Mediobanca i grandi gruppi dove si affolla il maggior numero di azionisti che sono anche concorrenti delle società, ossia che di lavoro fanno gli assicuratori o i banchieri. E ancora questi due nomi, assieme alla Premafin dei Ligresti, a Intesa Sanpaolo e alla roccaforte della finanza cattolica lombarda Ubi Banca, sono quelli che spiccano nella classifica delle società dove trionfano i recordmen delle cariche incrociate. Un’intesa cordiale che attraversa il fior fiore della finanza di casa nostra e il cui conto – questo l’indagine Antitrust non lo dice, ma i confronti internazionali sui costi dei servizi finanziari sono lì a dimostrarlo – lo paga il consumatore.

Certo, dopo le tempeste finanziarie che hanno spazzato via tanta finanza anglosassone con relativa pretesa di superiorità etica e funzionale, ci sarà anche chi cercherà di dimostrare che il rugginoso sistema italiano non è così malvagio: avremo pure banchieri inamovibili, ma da queste parti ancora non si è visto un Bernie Madoff. Il punto però non è questo, bensì il fatto che – patologie alla Madoff a parte – un sistema così bloccato è un sistema che in una certa misura assicura dai rischi, ma di sicuro elimina a monte molte opportunità: siano quelle di potenziali concorrenti che si vedono la strada bloccata da una concentrazione anche informale come quella che si crea nella riservatezza dei consigli d’amministrazione, e per questo ancor più difficile da affrontare, o quelle dei consumatori. E che il bilancio tra rischi evitati e opportunità perdute alla fine sia positivo è tutto da dimostrare.

Ma in fondo è miope anche gettare tutte le colpe sulle stanze chiuse del capitalismo. I risultati dell’indagine Antitrust si possono allargare ben oltre quei confini – per quanto significativi – arrivando a definire un vero e proprio carattere nazionale che postula il prevalere della corporazione sulla concorrenza, l’affermarsi della pura e semplice relazione su qualsiasi criterio di merito. Se ne trovano tracce ovunque, anche scendendo le scale che portano dall’empireo della grande finanza al mondo reale: dai piloti Alitalia sicuri che senza di loro non si vola, ai notai davanti ai quali si blocca ogni semplificazione burocratica, passando per farmacisti, tassisti, dinastie universitarie. E anche per i giornalisti, tuona chi propone di abolirne l’ordine professionale.

Poco da meravigliarsi, allora, se il tema civile prima ancora che politico del conflitto d’interessi è affondato in Italia per anni nella palude del dibattito a oltranza fino a scomparire definitivamente. L’affermarsi di quello che Guido Rossi ha chiamato il «conflitto endemico» nasce anche da un terreno assai propizio dove nessuno ha interesse a riconoscere il conflitto d’interesse altrui perché troppo spesso ne ha a sua volta un altro da difendere. E dove alla concorrenza si preferisce troppo spesso la connivenza: seduti nello stesso cda o magari in due botteghe o due scrivanie vicine. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Società e costume

Piombo fuso, la trottola che allieta i bimbi israeliani nei festeggiamenti di Hanukkah e terrorizza i bimbi palestinesi nella Striscia di Gaza.

Piombo fuso

di ALBERTO PICCININI da il manifesto.

In molti hanno ricordato che il termine «Operazione Piombo Fuso», usato per indicare i bombardamenti su Gaza, deriva da una filastrocca scritta dal poeta Hayyim Nahamat Bialik in onore dei festeggiamenti di Hanukkah. La «trottola di piombo fuso» cui si fa riferimento è un gioco popolare tra i bambini, il dreidel. Sulle quattro facce della trottola, a forma di parallepido, stanno le lettere «nun», «gimel», «hei», «shin», acronimo per «un grande miracolo è successo laggiù».
Ecco la traduzione della filastrocca:
«Mio padre ha acceso candele per me/ risplendeva come una torcia la candela Shamash (*)/ in onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Il maestro mi ha comprato una trottola di piombo fuso, il migliore che si trovi/ In onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Mia madre ha fatto una torta/ calda e dolce, tutta coperta di zucchero/ in onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Lo zio ha un regalo per me/ un vecchio penny tutto per me/ In onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto».
(*)La «candela Shamash» è la candela centrale del candelabro a nove braccia, che si usa per accendere le altre.
Beh, buona giornata.
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Attualità Società e costume

“Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi”.

Italiani brava gente.

di Barbara Spinelli, da lastampa.it

Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre – la società italiana consentì passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò, nonostante «luminose eccezioni» – che le parole in Italia si pervertono così facilmente e ciclicamente. Non scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti accertati. Quel che è normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e presentato come normalità. Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è smarrita la via, che si va in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un luogo: perdi le coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano tanto a dirle, se spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non manipolabili da chi tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).

Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.

Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.

Non così in Italia, dove proprio queste parole – eversione, guerra – s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile – ogni politico lo è – ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.

Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c’è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.

Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d’Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».

All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.

Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando». (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume Teatro

I soldi tagliati al cinema e al teatro andranno per allestire uno altro spettacolo: il G8 costerà 400 milioni. Presenta Silvio Berlusconi. Dall’8 al 10 Luglio non cambiate canale (di Sardegna), rimanete con noi.

di Sergio Rizzo, da laderiva.corriere.it

Non è uno scherzo: avete capito bene. Per il G8 in programma sull’Isola della Maddalena, dirimpetto a villa Certosa, residenza privata del premier, dall’ 8 al 10 luglio 2009 si spenderanno 400 milioni di euro.

Quattrocento milioni, per intenderci, è l’entità dei tagli apportati dal governo di Silvio Berlusconi ai fondi per lo spettacolo e il cinema che metteranno in ginocchio un bel pezzo delle cultura italiana.

Questa somma sarà spesa per le opere accessorie al vertice, come una nuova strada che collegherà Olbia a Sassari (ma che c’entra con il vertice?), i lavori per il palazzo della conferenza (58 milioni), l’hotel sede del vertice (59 milioni), la riconversione dell’ospedale militare (73 milioni) e perfino la rete fognaria dell’isola. Siccome il G8 è classificato come Grande evento, la sua gestione sarà curata dalla Protezione civile nella persona del commissario straordinario Guido Bertolaso, sottosegretario alla presidenza. Quanto costerà l’organizzazione: “soltanto” 30 milioni.

“Soltanto”, dicono gli esperti, considerando che giapponesi e tedeschi per i vertici internazionali spendono molto di più. Bene. Ma ammesso che sia giusto che pure Giappone e Germania spendano una barca di soldi in questo modo, per i paragoni è meglio restare in Italia.

L’ultimo G8 è stato quello tragico del 2001 a Genova. Per l’organizzazione vennero stanziati 20 miliardi di lire, cioè un terzo di quello che verrà messo a disposizione per la Maddalena. Per le opere accessorie, invece, lo Stato stanziò 90 miliardi (meno di 47 milioni di lire) in quindici anni.

Considerando tutti gli altri fondi, compresi quelli del Comune, il conto fu di 200 miliardi. Poco più di un quarto di quello che si spenderà nel 2009.

Perché, signori, 400 milioni di euro sono sempre 774 miliardi di lire. Ma ha un senso spendere una somma del genere per un vertice alla Maddalena? (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Società e costume

Venti (per cento) di crisi.

Il Paese virtuoso

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Il venti per cento in meno dei consumi per il Natale è un indubbio segno di sacrifici e di timore, ma vi si può leggere anche un segno di virtù delle famiglie italiane. Un’indicazione degli umori con cui il Paese si prepara ad affrontare la tempesta.Va detto che la stretta nei consumi non era affatto scontata. Come spesso ci ricordano gli economisti e come abbiamo imparato dalle esperienze di questi ultimi decenni, non c’è nulla di scontato nel comportamento collettivo. Nemmeno nella reazione a una crisi economica. In particolare se questa è – lo ha scritto su questo giornale il 22 dicembre Luca Ricolfi – una crisi che ha molte sfaccettature, come sfaccettato è del resto il profilo del reddito italiano. «È possibile che il 2009 sia un anno molto duro per molti, sia in basso (disoccupati, precari, piccoli esercenti), sia in alto (imprenditori, commercianti, lavoratori autonomi in genere). Però, attenzione a non generalizzare. Disoccupati, precari e lavoratori indipendenti non sono tutta la società», ricordava Ricolfi. A guardarla da vicino, senza paraocchi di pregiudizi, questa crisi è, come sempre succede, una realtà piena di differenze e sfumature, in cui accanto alla radicalizzazione della sofferenza di molti strati, permangono zone di stabilità se non di sicurezza.E’la differenza che sperimentiamo ogni giorno e che viene riflessa nell’informazione, che ci mostra da una parte spensierate vacanze e dall’altra famiglie in difficoltà. Ma, pur essendo la crisi una realtà a molti strati, il Paese ha avuto una reazione unanime: una frenata dei consumi, una scelta di parsimoniosa oculatezza che non era affatto scontata. Al bando il solito falò delle vanità italiane/occidentali, il culto del corpo, con i suoi annessi di creme, scarpe, borse e abbigliamento; decurtate le spese delle abbuffate, delle vacanze stravaganti, ma non quelle dell’interrelazione. Che si tratti di giocattoli, di sport o telefonini, l’elettronica non crolla perché è parte essenziale della vita.

Questa unanimità di comportamenti è forse la novità più rilevante del momento. Perché ci può far pensare che non è solo il frutto obbligato della diminuzione del denaro da spendere, ma anche di decisioni «psicologiche». Insomma, a differenza di quel che abbiamo visto in passato in altre crisi – l’esempio più potente che mi viene in mente è quello dello scoppio della bolla della nuova economia – durante le quali le difficoltà sottolinearono le differenze di reddito, nella crisi di oggi sembra di poter leggere anche il segno di una turbata coscienza nazionale che, al di là dei propri mezzi, sceglie la cautela e la parsimonia. Naturalmente è del tutto possibile che queste osservazioni siano più che altro una speranza, un riflesso di ottimismo natalizio sul nostro Io collettivo. Ma in parte sono basate anche sulla memoria di quella che è poi la natura del nostro Paese.

Solo mezzo secolo fa eravamo una nazione di contadini, ci diciamo spesso, per poi dimenticarlo più spesso. Gli attuali capifamiglia, cioè la maggioranza di chi produce in Italia, hanno genitori contadini o operai, e i nostri preziosi figli, che all’apparenza sembrano viziatissimi principini, hanno i nonni la cui parlata ha profonde radici nei dialetti locali. Sulle nostre tavole natalizie questi legami sono ovvi. Meno ovvi sono invece nel corso della nostra vita quotidiana. Il merito maggiore dell’Italia del dopoguerra è proprio questo: aver saputo diventare in due generazioni un Paese benestante e colto, e questo cambio è stato possibile grazie alla prudenza, al realismo, alla flessibilità e al coraggio con cui gli italiani hanno sempre affrontato le proprie traversie.

In questo Natale il solido spirito del Paese sembra ritrovarsi. Uno stato d’animo che ci dice molto del pessimismo con cui i cittadini guardano oggi alle cose a venire, ma ci dice anche della virtù italica di saper sempre ritrovare la propria bussola in quella serietà di comportamenti che è la base di ogni rispetto degli altri. Non sarà certo un caso se il tema politico prevalente in queste feste siano i contratti di solidarietà. Il Palazzo invece sembra per ora assorbito come sempre dalla riforma della giustizia. Ma se possiamo fare un augurio anche ai nostri governanti e ai politici tutti, governo e opposizione uniti, auguriamogli di non sprecare con una gestione irrazionale, partigiana e opportunista della crisi questa disponibilità di fondo del Paese. (Beh, buona giornata):

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Attualità Natura Società e costume

Il sindaco che straparla di un fiume che non straripa.

Alemanno, il Tevere e il linguaggio dell’emergenza
di Giulio Gargia

Il 12 dicembre il Tevere minaccia di invadere Roma. La Protezione Civile ha proclamato lo stato di calamità naturale. Intere zone sono pronte all’evacuazione. Alle 15,31 il sindaco Gianni Alemanno detta una dichiarazione, riportata tra le altre , dall’Adn Kronos. Il primo cittadino informa che le forze di sicurezza stanno evacuando il Coni, spiega che “l’ Isola Tiberina non è a rischio evacuazione” (dall’ospedale Fatebenefratelli fanno sapere che sono comunque pronti ad affrontare l’emergenza) e ricorda che le zone più in pericolo “restano Ponte Milvio e le aree golenali, sia a valle che a monte della città, dove possono esserci degli straripamenti”.

Insomma , il sindaco ha dato indicazioni chiare e pronunciato parole precise: il pericolo sta nelle aree golenali a monte e a valle della città. Ed è imminente. La furia del Tevere si concentrerà lì.
Ma , mentre è chiaro dove sia Ponte Milvio, non è affatto precisato quali siano queste “ aree golenali” dove bisogna temere il peggio. Quali diavolo sono ?
La Prenestina, Monti, il Ghetto, Prati ? Come si differenziano dalle “aree non golenali “ ? Quando la notizia mi raggiunge, come mi accorgo se sto passando per una di queste ? Alemanno non ritiene di doverlo divulgare e ci lascia soli con la madre di tutte le domande.
Questione che in tempi normali avrebbe interessato solo specialisti e cultori dei quiz di Gerry Scotti, che pero almeno ti dà 4 opzioni e un aiutino da casa. Ma che ora, con il Tevere che sta per straripare, sembra drammaticamente urgente risolvere.

Ora, chi scrive confessa la sua ignoranza. Pur essendo mediamente ritenuto dai suoi studenti dell’Università e dai diversi giornali con cui collabora una persona mediamente colta e informata, non ha la minima idea di cosa possa essere “un’area golenale”. Ora, si potrebbe fare una ricerca
e saperlo in una mezz’oretta. O in un paio d’ore al massimo. O forse telefonare a qualche amico geologo.

Ma certo la prospettiva di una drammatica inondazione in quelle aree ( che si continua a non dire dove siano ) non aiuta a mantenere la calma. E soprattutto innervosisce un’altra domanda : ma perché Alemanno non le indica, come ha fatto con Ponte Milvio ? Ha voglia di giocare al piccolo geologo ? Perché obbliga tre milioni di romani a una gigantesca caccia al tesoro al contrario per sapere se si trovano in queste benedette aree o no ?

Ora che il peggio è passato, questa notazione può avere il sapore di una beffa. Ma sarebbe bastato un ferito o un metro d’acqua in più del fiume per far assumere alla criptica indicazione del sindaco un tono tragico. Immaginate infatti lo scenario prefigurato da molti : il Tevere esonda, e colonne di auto e di persone pressate dall’acqua chiedono, bestemmiando con un certo vigore, ai pizzardoni e agli uomini dell’ineffabile Bertolaso di portarli fuori dalle “ aree golenali”…
Dulcis in fundo, anche i colleghi dell’Adn Kronos ( non so cosa abbiamo fatto quelli delle altre testate cui è stata resa la dichiarazione – ndr ) avrebbero potuto, con poco sforzo, tradurre in nomi l’enigmatica espressione geologica del sindaco. Ottemperando a un preciso dovere giornalistico: la divulgazione di notizie di interesse pubblico.

PS – Naturalmente, ora chi scrive sa cosa sono e dove si trovano le “aree golenali “ a Roma. Ma non ritiene di dovervelo svelare. Perché , in fondo, un umile cronista non può contraddire la volontà di un sindaco eletto dal voto democratico, e particolarmente apprezzato proprio nelle “ aree golenali”… (Beh, buona giornata)

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Alla faccia di Facebook.

Con Amici come questi…
di Tom Hodgkinson – The Guardian

Facebook ha 59 milioni di utenti – e due milioni di nuovi iscritti ogni settimana. Ma tra questi non troverete Tom Hodgkinson che rilascia volontariamente i propri dati personali; non ora che conosce la politica delle persone che stanno dietro questo sito di social networking.

Io disprezzo Facebook. Questa azienda statunitense di enorme successo si descrive come «un servizio che ti mette in contatto con la gente che ti sta intorno». Ma fermiamoci un attimo. Perché mai avrei bisogno di un computer per mettermi in contatto con la gente che mi sta intorno? Perché le mie relazioni sociali debbono essere mediate dalla fantasia di un manipolo di smanettoni informatici in California? Che ha di male il baretto?

E poi, Facebook mette davvero in contatto la gente? Non è vero invece che ci separa l’uno dall’altro, dal momento che invece di fare qualcosa di piacevole come mangiare, parlare, ballare e bere coi miei amici, mando loro soltanto dei messaggini sgrammaticati e foto divertenti nel ciberspazio, inchiodato alla scrivania? Un mio amico poco tempo fa mi ha detto di aver trascorso un sabato notte a casa da solo su Facebook, bevendo seduto alla sua scrivania. Che immagine deprimente. Altro che mettere in contatto la gente, Facebook ci isola, fermi nel posto di lavoro.

Per di più, Facebook fa leva, per così dire, sulla nostra vanità e autostima. Se carico una mia foto che ritrae il mio profilo migliore, e assieme metto una lista delle cose che mi piacciono, posso costruire una rappresentazione artificiale di me stesso, con lo scopo di essere sessualmente attraente e di guadagnarmi l’altrui approvazione. («Mi piace Facebook», mi ha detto un altro amico. «Mi ha fatto trombare»). Incoraggia inoltre una inquietante competitività intorno all’amicizia: sembra che nell’amicizia oggi conti la quantità, e la qualità non sia affatto considerata. Più amici hai, meglio sei. Sei “popolare”, nel senso che i liceali statunitensi amano tanto. A riprova di ciò sta la copertina della nuova rivista su Facebook dell’editore Dennis Publishing: «Come raddoppiare la tua lista di amici».

Sembra, però, che io sia piuttosto solo nella mia ostilità. Mentre scriviamo, Facebook sostiene di avere 59 milioni di utenti attivi, compresi 7 milioni dal Regno Unito, la terza nazione per numero di clienti dopo gli Usa e il Canada. Cinquantanove milioni di babbei, che hanno dato tutti volontariamente le informazioni della propria carta d’identità e le proprie scelte di consumatore a un’azienda statunitense che non conoscono. Due milioni di persone si iscrivono ogni settimana. Se proseguirà all’attuale volume di crescita, Facebook supererà i 200 milioni di utenti attivi nello stesso periodo dell’anno prossimo. E personalmente prevedo che, anzi, il suo volume di crescita subirà un’accelerazione nei mesi venturi. Come ha dichiarato il portavoce di Facebook Chris Hughes: «[Facebook] ha raggiunto una tale integrazione che è difficile sbarazzarsene».

Tutto ciò sarebbe sufficiente a farmi rifiutare Facebook per sempre. Ma ci sono altre ragioni per odiarlo. Molte altre ragioni.

Facebook è un progetto ben foraggiato, e le persone che stanno dietro il finanziamento, un gruppo di capitalisti “di rischio” della Silicon Valley, hanno un’ideologia ben congegnata che sperano di diffondere in tutto il mondo. Facebook è una delle manifestazioni di questa ideologia. Come Paypal prima di esso, è un esperimento sociale, un’espressione di un particolare tipo di liberalismo neoconservatore. Su Facebook puoi essere libero di essere chi vuoi, a patto che non ti dia fastidio essere bombardato da pubblicità delle marche più famose al mondo. Come con Paypal, i confini nazionali sono una cosa ormai obsoleta.

Malgrado il progetto sia stato concepito inizialmente dalla star da copertina Mark Zuckerberg, il vero volto che sta dietro Facebook è il quarantenne venture capitalist della Silicon Valley e filosofo “futurista” Peter Thiel. Ci sono soltanto tre consiglieri di amministrazione per Facebook, e sono Thiel, Zuckerberg e un terzo investitore che si chiama Jim Breyer, che proviene da un’azienda di venture capital, la Accel Partners (di lui parleremo più avanti). Thiel investì 500 mila dollari in Facebook quando gli studenti di Harvard Zuckerberg, Chris Hughes e Dustin Moskowitz lo incontrarono a San Francisco nel giugno del 2004, non appena fecero partire il sito. Thiel, secondo la stampa, oggi possiede il 7 per cento di Facebook, quota che, secondo l’attuale stima del valore dell’azienda di 15 miliardi di dollari, vale più di un miliardo. Chi siano esattamente i cofondatori originali di Facebook è controverso, ma chiunque siano, Zuckerberg è l’unico rimasto nel consiglio d’amministrazione, malgrado Hughes e Moskowitz lavorino ancora per l’azienda.

Thiel è considerato da molti nella Silicon Valley e nel mondo del venture capital a stelle e strisce come un genio del liberismo. È il cofondatore e amministratore delegato del sistema bancario virtuale Paypal, che vendette a Ebay per un miliardo e mezzo di dollari, tenendo per sé 55 milioni. Gestisce anche un hedge fund da 3 miliardi di euro, il Clarium Capital Management, e un fondo di venture capital, Founders Fund. La rivista Bloomberg Markets l’ha recentemente descritto come «uno dei manager di hedge fund più di successo del paese». Ha fatto i soldi scommettendo sul rialzo del prezzo del petrolio e azzeccando la previsione che il dollaro si sarebbe indebolito. Lui e i suoi straricchi compagni della Silicon Valley sono stati recentemente etichettati come “La mafia di Paypal” dalla rivista Fortune, il cui cronista ha notato anche che Thiel ha un maggiordomo in livrea e una supercar della McLaren da 500 mila dollari. Thiel è anche un campione di scacchi ed ama la competizione. Si dice che una volta dopo aver perso una partita, in un accesso d’ira, abbia gettato a terra tutte le pedine. E non si scusa per la sua iper-competitività: «Un buon perdente resta sempre un perdente».

Ma Thiel è più di un semplice capitalista scaltro e avido. Infatti è anche un filosofo “futurista” e un attivista neocon. Filosofo laureato a Stanford, nel 1998 fu tra gli autori del libro The Diversity Myth [Il Mito della Diversità, ndt], un attacco dettagliato all’ideologia multiculturalista e liberal che dominava Stanford. In questo libro sosteneva che la “multicultura” portava con sé una diminuzione delle libertà personali. Da studente di Stanford, Thiel fondò un giornale destrorso, che esiste ancora, la Stanford Review, il cui motto è Fiat Lux (“Sia la luce”). Thiel è membro di TheVanguard.org, un gruppo di pressione neoconservatore basato su internet, nato per attaccare MoveOn.org, gruppo di pressione liberal attivo sul web. Thiel si dichiara «estremamente libertario».

TheVanguard è gestito da un certo Rod D. Martin, capitalista-filosofo molto ammirato da Thiel. Sul sito, Thiel dice: «Rod è una delle menti di spicco nel nostro paese per quanto riguarda la creazione di nuove e necessarie idee sulle politiche pubbliche. Ha una comprensione dell’America più completa di quella che hanno della propria azienda molti amministratori delegati».

Il piccolo assaggio che segue, preso dal loro sito, vi darà l’idea della loro visione del mondo: «TheVanguard.org è una comunità online che crede nei valori conservatori, nel libero mercato e nella limitazione del governo come gli strumenti migliori per portare speranza e opportunità sempre maggiori per tutti, specie per i più poveri fra noi». Il loro scopo è quello di promuovere linee politiche che «diano nuova forma all’America e al mondo intero». TheVanguard descrive le proprie politiche come «reaganiane-thatcheriane». Il messaggio del presidente recita così: «Oggi daremo a MoveOn [il sito liberal], a Hillary e ai media di sinistra una lezione che non si aspetterebbero mai».

Non ci sono dubbi sulle idee politiche di Thiel. Ma qual è la sua filosofia? Sono andato ad ascoltarmi, in un podcast, un discorso di Thiel circa le sue idee sul futuro. La sua filosofia, in breve, è questa: fin dal XVII secolo, alcuni pensatori illuminati hanno strappato il mondo dalla sua antiquata vita legata alla natura – e qui cita la famosa descrizione fatta da Thomas Hobbes della vita come «meschina, brutale e breve» – per portarlo verso un nuovo mondo virtuale nel quale la natura è conquistata. Il valore è ora assegnato alle cose immaginarie. Thiel afferma che PayPal è nato proprio da questa credenza: che si possa trovare valore non in oggetti concreti fatti da mano d’uomo, ma in relazioni fra esseri umani. Paypal è un modo di spostare denaro in giro per il mondo senza limitazioni. Bloomberg Markets la pone così: «Per Thiel, PayPal significa libertà: permetterebbe alla gente di scansare i controlli sulla valuta e spostare denaro in giro per il mondo».

Chiaramente, Facebook è un altro esperimento iper-capitalista: si possono ricavare soldi dall’amicizia? Si possono creare comunità libere dai confini nazionali, e poi vendere loro Coca Cola? Facebook non è per niente creativo. Non produce assolutamente nulla. Tutto quello che fa è mediare relazioni che si sarebbero allacciate in ogni caso.

Il mentore filosofico di Thiel è un certo René Girard dell’università di Stanford, ideatore di una teoria del comportamento umano chiamata “desiderio mimetico”. Girard ritiene che le persone siano essenzialmente come pecore e si imitino l’una con l’altra senza pensarci troppo su. La teoria sembra essere provata anche nel caso dei mondi virtuali di Thiel: l’oggetto desiderato è irrilevante; è sufficiente soltanto che gli esseri umani abbiamo la tendenza a muoversi in greggi. Da qui derivano le bolle finanziarie. Da qui deriva l’enorme popolarità di Facebook. Girard è un habitué delle serate intellettuali di Thiel. Tra l’altro, una cosa che non potrete trovare nella filosofia di Thiel sono gli antiquati concetti che appartengono al mondo reale, come Arte, Bellezza, Amore, Piacere e Verità.

Internet è un’immensa attrattiva per i neocon come Thiel, perché promette, in un certo senso, libertà nelle relazioni umane e negli affari, libertà dalle noiose leggi nazionali, dai confini nazionali e da altre cose di questo genere. Internet apre un mondo di espansione per il libero mercato e per il laissez-faire. Thiel sembra approvare anche i paradisi fiscali offshore, e sostiene che il 40 per cento della ricchezza mondiale si trova in posti come Vanuatu, le isole Cayman, Monaco e le Barbados. Penso sia giusto dire che Thiel, come Rupert Murdoch, è contrario alle tasse. Gli piace anche la globalizzazione della cultura digitale, perché rende quasi inattaccabili i padroni delle banche: «I lavoratori non possono fare una rivoluzione per impossessarsi di una banca, se quella banca ha sede a Vanuatu», dice.

Se la vita del passato era meschina, brutale e breve, Thiel vuole rendere la vita del futuro molto più lunga, investendo a questo fine in un’azienda che esplora tecnologie per allungare la vita. Ha promesso tre milioni e mezzo di sterline a un gerontologo di Cambridge, Aubrey de Grey, che sta cercando la chiave dell’immortalità. Thiel è anche membro del collegio dei consulenti di qualcosa come il Singularity Institute for Artificial Intelligence. Nel suo fantastico sito internet, si trovano le seguenti parole: «La Singularity è la creazione tecnologica di un’intelligenza superiore a quella umana. Ci sono parecchie tecnologie […] che vanno in questa direzione […] l’Intelligenza Artificiale […] interfacce che collegano direttamente computer e cervello […] ingegneria genetica […] differenti tecnologie che, se raggiungessero una certa soglia di complessità, permetterebbero la creazione di un’intelligenza superiore a quella umana».

Per sua stessa ammissione, quindi, Thiel sta cercando di distruggere il mondo reale, da lui chiamato anche “natura”, e di installare al suo posto un mondo virtuale. Ed è in questo contesto che dobbiamo vedere il successo di Facebook. Facebook è un esperimento volto deliberatamente alla manipolazione mondiale, e Thiel è un brillante personaggio del pantheon neoconservatore con un debole per incredibili fantasie “tecno-utopiche”. E io non voglio aiutarlo a diventare più ricco.

Il terzo membro del consiglio di amministrazione di Facebook è Jim Breyer. È parte della ditta di venture capital Accel Partners, che ha messo 12 milioni e 700 mila dollari per il progetto Facebook nell’aprile 2005. Oltre a essere membro di questi giganti statunitensi, della stessa caratura di Wal-Mart e Marvel Entertainment, è anche ex presidente della National Venture Capital Association (NVCA). Sono queste le persone che hanno successo in America, perché investono in nuovi e giovani talenti, come Zuckerberg. La più recente raccolta di finanziamenti di Facebook fu portata avanti da un’azienda, la Greylock Venture Capital, che fornì 27 milioni 500 mila dollari. Uno dei più vecchi soci di Greylock è Howard Cox, altro ex presidente della NVCA, e membro del CdA di In-Q-Tel. Che cos’è In-Q-Tel? Beh, che ci crediate o no (andatevi a vedere il suo sito), è la costola della Cia nel capitale di rischio. Dopo l’Undici Settembre, la comunità dei servizi segreti Usa divenne così entusiasta delle possibilità della nuova tecnologia e delle innovazioni del settore privato, che nel 1999 costituì il proprio fondo di capitale di rischio, l’In-Q-Tel, che «identifica e collabora con le aziende che sviluppano tecnologie all’avanguardia, per aiutare a rilasciare questi ritrovati alla Central Intelligence Agency e alla più vasta US Intelligence Community (IC) al fine di promuovere la loro missione»*.

Il dipartimento della difesa statunitense e la Cia amano la tecnologia perché rende lo spionaggio più facile. «Abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per dissuadere i nuovi avversari», disse nel 2003 il segretario della Difesa Donald Rumsfeld. «Dobbiamo fare il salto nell’era dell’informatica, che costituisce le fondamenta essenziali dei nostri sforzi di cambiamento». Il primo presidente di In-Q-Tel fu Gilman Louie, che sedette nel CdA di NVCA assieme a Breyer. Un’altra figura chiave nel team di In-Q-Tel è Anita K. Jones, ex direttrice della sezione ricerca e ingegneria del dipartimento della Difesa, e, assieme a Breyer, membro del CdA di BBN Technologies. Quando abbandonò il dipartimento della Difesa, il senatore Chuck Robb le fece questo omaggio: «Lei ha unito tecnologia e comunità militari operative per dare vita a piani dettagliati con il fine di sostenere il dominio Usa sui campi di battaglia del prossimo secolo».

Ora, anche se non si accetta l’idea che Facebook sia una specie di estensione del programma imperialistico statunitense incrociata con uno strumento per raccogliere immense quantità d’informazioni, non si può in nessun modo negare che, come affare, sia davvero geniale. Qualche smanettone online ha fatto intendere che la sua valutazione di 15 miliardi di dollari sia eccessiva, ma io direi semmai che è troppo contenuta. La sua grandezza dà le vertigini, e il potenziale di crescita è virtualmente infinito. «Vogliamo che tutti siano in grado di usare Facebook», dice l’impersonale voce del Grande Fratello sul sito. E penso proprio che lo faranno. È l’enorme potenziale di Facebook che spinse Microsoft a comprarne l’1,6 per cento per 240 milioni di dollari. Recentemente circolano voci secondo cui un investitore asiatico, Lee Ka-Shing, il nono uomo più ricco della terra, abbia comprato lo 0,4 per cento di Facebook per 60 milioni di dollari.

I creatori del sito non fanno altro che giocherellare col programma. In genere, stanno seduti con le mani in mano a guardare milioni di “drogati” di Facebook fornire di spontanea volontà i dettagli della loro carta d’identità, le loro foto e la lista dei loro oggetti di consumo preferiti. Ricevuto questo smisurato database di esseri umani, Facebook vende semplicemente le informazioni agli inserzionisti, o, come ha detto Zuckerberg in uno degli ultimi post sul blog, «cerca di aiutare le persone a condividere informazioni con i loro amici riguardo alle cose che fanno sul web». Ed è infatti proprio ciò che accade. Il 6 novembre dello scorso anno, Facebook annunciò che 12 marchi mondiali erano saliti a bordo. Tra essi, c’erano Coca Cola, Blockbuster, Verizon, Sony Pictures e Condé Nast. Ben allenati in stronzate da marketing di altissimo livello, i loro rappresentanti gongolavano con commenti come questo:

«Con Facebook Ads, i nostri marchi possono diventare parte del modo di comunicare e interagire degli utenti su Facebook», disse Carol Kruse vicepresidente della sezione marketing interattivo globale, gruppo Coca Cola.

«È un modo innovativo di far nascere e crescere relazioni con milioni di utenti di Facebook permettendo loro di interagire con Blockbuster in maniera conveniente, pertinente e divertente», disse Jim Keyes, presidente e amministratore delegato di Blockbuster. «Ciò va al di là della creazione di pubblicità efficaci. Si tratta piuttosto della partecipazione di Blockbuster alla comunità dei consumatori, cosicché, in cambio, i consumatori si sentano motivati a condividere i vantaggi del nostro marchio con gli amici».

“Condividere” è la parola in lingua di Facebook che sta per “pubblicizzare”. Chi si registra a Facebook diventa un girovago che parla delle reclame di Blockbuster o della Coca Cola, e tesse le lodi di questi marchi agli amici. Stiamo assistendo alla mercificazione delle relazioni umane, l’estrazione di valore capitalistico dall’amicizia.

Ora, in confronto a Facebook, i giornali, per esempio, come modello d’impresa, sembrano disperatamente fuori moda. Un giornale vende spazi pubblicitari alle imprese che cercano di vendere la loro roba ai lettori. Un sistema che è però molto meno complesso di quello di Facebook. E questo per due ragioni. La prima è che i giornali debbono sopportare fastidiose spese per pagare i giornalisti che forniscono contenuti. Facebook, invece, i contenuti li ha gratis. La secondo è che Facebook può calibrare la pubblicità con una precisione infinitamente superiore rispetto a un giornale. Se, per esempio, si dice su Facebook di amare il film This Is Spinal Tap, quando uscirà nei cinema un film simile, state pur sicuri che vi terranno informati. Mandandovi la pubblicità.

È vero che Facebook ultimamente è stato nell’occhio del ciclone per il suo programma di pubblicità Beacon. Agli utenti veniva recapitato un messaggio che diceva che i loro amici avevano fatto acquisti in un certo negozio online. Furono 46 mila gli utenti a reputare questo tipo di pubblicità troppo invasiva, tanto che giunsero a firmare una petizione dal titolo «Facebook, smettila di invadere la mia privacy!». Zuckerberg si scusò nel blog aziendale, scrivendo che il sistema era ora cambiato da “opt out” [1] a “opt in” [2]. Io ho il sospetto però che questa piccola ribellione per essere stati così spietatamente mercificati sarà presto dimenticata: dopotutto, ci fu un’ondata di protesta nazionale da parte del movimento delle libertà civili quando si dibattè nel Regno Unito l’idea di una forza di polizia a metà del XIX secolo.

E per di più, voi utenti di Facebook avete mai letto davvero l’informativa sulla privacy? Ti dice che non è che di privacy ne hai poi molta. Facebook fa finta di essere un luogo di libertà, ma in realtà è più simile a un regime totalitario virtuale mosso dall’ideologia, con una popolazione che molto presto sarà superiore a quella del Regno Unito. Thiel e gli altri hanno dato vita al loro paese, un paese di consumatori.

Ora, voi, come Thiel e gli altri nuovi signori del ciberuniverso, potreste reputare questo esperimento sociale tremendamente eccitante. Ecco qui finalmente lo Stato illuminista desiderato ardentemente fin dal tempo in cui i Puritani, nel XVII secolo salparono verso l’America del Nord. Un mondo dove tutti sono liberi di esprimersi come vogliono, a seconda di chi li sta guardando. I confini nazionali sono un’anticaglia. Tutti ora fanno capriole insieme in uno spazio virtuale dove ci si può esprimere a ruota libera. La natura è stata conquistata attraverso l’illimitata ingegnosità umana. E voi potreste decidere di inviare a quel geniale investitore di Thiel tutti i vostri soldi, aspettando con impazienza la quotazione ufficiale dell’inarrestabile Facebook.

O, in alternativa, potreste riflettere e rifiutare di essere parte di questo ben foraggiato programma, volto a creare un’arida repubblica virtuale, dove voi stessi e le vostre relazioni con gli amici siete convertiti in merce da vendere ai colossi multinazionali. Potreste decidere di non essere parte di questa Opa contro il mondo.

Per quanto mi riguarda, rifuggirò Facebook, rimarrò scollegato il più possibile, e trascorrerò il tempo che ho risparmiato non andando su Facebook facendo qualcosa di utile, come leggere un libro. Perché sprecare il mio tempo su Facebook quando non ho ancora letto l’Endimione di Keats? Quando devo piantare semi nel mio orto? Non voglio rifuggire la natura, anzi, mi ci voglio ricollegare. Al diavolo l’aria condizionata! E se avessi voglia di mettermi in contatto con la gente intorno a me, tornerei a usare un’antica tecnologia. È gratis, è facile da usare e ti permette un’esperienza di condivisione di informazioni senza pari: è la parola.

L’informativa sulla privacy di Facebook

Per farvi quattro risate, provate a sostituire le parole “Grande Fratello” dove compare la parola “Facebook”

1 Ti recapiteremo pubblicità

«L’uso di Facebook ti dà la possibilità di stabilire un tuo profilo personale, instaurare relazioni, mandare messaggi, fare ricerche e domande, formare gruppi, organizzare eventi, aggiungere applicazioni e trasmettere informazioni attraverso vari canali. Noi raccogliamo queste informazioni al fine di poterti fornire servizi personalizzati»

2 Non puoi cancellare niente

«Quando aggiorni le informazioni, noi facciamo una copia di backup della versione precedente dei tuoi dati, e la conserviamo per un periodo di tempo ragionevole per permetterti di ritornare alla versione precedente»

3 Tutti possono dare un’occhiata alle tue intime confessioni

« […] e non possiamo garantire – e non lo garantiamo – che i contenuti da te postati sul sito non siano visionati da persone non autorizzate. Non siamo responsabili dell’elusione di preferenze sulla privacy o di misure di sicurezza contenute nel sito. Sii al corrente del fatto che, anche dopo la cancellazione, copie dei contenuti da te forniti potrebbero rimanere visibili in pagine d’archivio e di memoria cache e anche da altri utenti che li abbiano copiati e messi da parte nel proprio pc».

4 Il tuo profilo di marketing fatto da noi sarà imbattibile

«Facebook potrebbe inoltre raccogliere informazioni su di te da altre fonti, come giornali, blog, servizi di instant messaging, e altri utenti di Facebook attraverso le operazioni del servizio che forniamo (ad esempio, le photo tag) al fine di fornirti informazioni più utili e un’esperienza più personalizzata».

5 Scegliere di non ricevere più notifiche non significa non ricevere più notifiche

«Facebook si riserva il diritto di mandarti notifiche circa il tuo account anche se hai scelto di non ricevere più notifiche via mail»

6 La Cia potrebbe dare un’occhiata alla tua roba quando ne ha voglia

«Scegliendo di usare Facebook, dai il consenso al trasferimento e al trattamento dei tuoi dati personali negli Stati Uniti […] Ci potrebbe venir richiesto di rivelare i tuoi dati in seguito a richieste legali, come citazioni in giudizio od ordini da parte di un tribunale, o in ottemperanza di leggi in vigore. In ogni caso non riveliamo queste informazioni finché non abbiamo una buona fiducia e convinzione che la richiesta di informazioni da parte delle forze dell’ordine o da parte dell’attore della lite soddisfi le norme in vigore. Potremmo altresì condividere account o altre informazioni quando lo riteniamo necessario per osservare gli obblighi di legge, al fine di proteggere i nostri interessi e le nostre proprietà, al fine di scongiurare truffe o altre attività illegali perpetrate per mezzo di Facebook o usando il nome di Facebook, o per scongiurare imminenti lesioni personali. Ciò potrebbe implicare la condivisione di informazioni con altre aziende, legali, agenti o agenzie governative»

*Nota del Redattore: nella versione originale l’articolo è preceduto dalla seguente rettifica:

“La rettifica che segue è stata stampata nella sezione Rettifiche e chiarimenti del Guardian, mercoledì 16 gennaio 2008

L’entusiasmo della comunità dei servizi segreti statunitensi per il rinnovamento hi-tech dopo l’Undici Settembre e la creazione dell’In-Q-Tel, il suo fondo di venture capital, nel 1999, sono stati anacronisticamente correlati nell’articolo qui sotto. Dal momento che l’attentato alle Torri Gemelle avvenne nel 2001, non può essere stato ciò che ha portato alla fondazione dell’In-Q-Tel due anni prima.”

NOTE DEL TRADUTTORE

[1] Con il termine inglese opt-out (in cui opt è l’abbreviazione di option, opzione) ci si riferisce ad un concetto della comunicazione commerciale diretta (direct marketing), secondo cui il destinatario della comunicazione commerciale non desiderata ha la possibilità di opporsi ad ulteriori invii per il futuro. (fonte: Wikipedia)

[2] Si definisce opt-in il concetto inverso, ovvero la comunicazione commerciale può essere indirizzata soltanto a chi abbia preventivamente manifestato il consenso a riceverla. (fonte: Wikipedia)

Tom Hodgkinson è uno scrittore britannico. Ha collaborato con testate quali ‘The Sunday Telegraph’, ‘The Guardian’ e ‘The Sunday Times’ ed è direttore della rivista ‘The Idler’. Hodgkinson è autore di due libri: ‘How To Be Idle’ (‘L’ozio come stile di vita’, Rizzoli, 2005) e ‘How To Be Free’ (‘La libertà come stile di vita’, Rizzoli, 2007).

Titolo originale: “With friends like these…”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
Tradotto da PAOLO YOGURT per ComeDonChisciotte ;
Link originale: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5266
(Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

E’ brutta, stupida, fa pena: ecco a voi la pubblicità italiana sul finire del 2008.

Spotandweb.it nel numero del 28 novembre, in una intervista raccolta da Stefania Salucci mi ha proposto una riflessione sulla stato dell’arte della pubblicità italiana, in occasione di Eurobest, un premio europeo dedicato alla creatività, organizzato da un consorzio di riviste del settore della comunicazione commerciale nella Eu. Ecco il testo dell’intervista.

Lei ha seguito numerosi clienti internazionali. Esiste una creatività europea? Se sì, per cosa si caratterizza rispetto alla creatività americana, o asiatica, o africana?

Poiché la presenza sul mercato globale delle marche made in Usa ha fatto scuola, è abbastanza complicato immaginare che esista una comunicazione commerciale di stampo continentale. Basti pensare alle grandi holding finanziarie che posseggono le più importanti sigle della pubblicità quotate in borsa. In questo senso, quando parliamo di pubblicità europea ci riferiamo soprattutto a quella generata in Gran Bretagna e in Francia e in parte in Germania. Si tratta di paesi che hanno un posto solido nella globalizzazione, perché le loro aziende si sono da tempo internazionalizzate, e le loro agenzie hanno fatto network, a seguito della globalizzazione dei loro clienti e della commercializzazione dei prodotti su più mercati. Anche dal punto di vista della cultura della comunicazione commerciale, fare network ha finito per significare l’annullamento delle caratteristiche stilistiche, derivanti dalla cultura specifica di un paese, di un continente. Il capitalismo globale fa presto a fare a meno di tutto ciò che non gli è utile. La pubblicità si è adeguata: la creatività è di un mega-brand, non di un paese, figuriamoci di un continente.

L’Italia come si “posiziona”, creativamente parlando, in Europa?

La pubblicità italiana è l’unica in Europa, ma anche nel mondo che ha una caratteristica peculiare, riconoscibile, inimitabile: è brutta, stupida, fa pena. E’ arroccata, con le unghie e con i denti all’ultimo banco, e come il più ottuso dei ripetenti, se ne vanta. Come la scema del villaggio globale, la pubblicità italiana continua infarcire la tv di migliaia di spot, si è immolata al tubo catodico come a un totem. Ha perso il senso della realtà, più è ossessiva più è distante dalla mente dei consumatori. Siamo il paese con la più alta concentrazione di pubblicità televisiva, ma siamo anche il paese che in Europa soffre di più la crisi dei consumi. Come un gregge senza pastore, ce ne stiamo andando allegramente giù per il dirupo del ridicolo. Comunque, segnali della consapevolezza di un approccio più moderno ci sono, bisognerebbe tenerli d’occhio con più attenzione: penso a Draftfcb, a Brand Portal o ad Altavia. Da quelle parti possono venire stimoli rigeneratori del nostro mercato.

Di chi è la colpa se la pubblicità italiana è è brutta, stupida, fa Pena? Dei creativi, dei clienti o degli italiani?

Parlavo di questo con Hans Suter, la S della mitica STZ. Mi diceva che quando, anni fa, era andato per la prima volta a New York, era rimasto terribilmente deluso dalla pubblicità americana, print, tv, outdoor, tutto.
Forse si sentiva condizionato dalle grandi campagne americane che conosceva, ma che tutte queste belle campagne non rappresentavano più dello zero virgola per mille della comunicazione commerciale, questo non se lo sarebbe l’aspettato. Secondo lui, e mi pare di essere d’accordo, l’unico paese che è un poco diverso è la Gran Bretagna, così come avevano e forse ancora hanno un serbatoio enorme di attori bravi così avevano e forse hanno ancora un serbatoio enorme di art director e copywriter. Questo favorisce che la buona qualità arriva anche a livelli più estesi. Credo che non sia più tempo della ricerca delle colpe, quanto sia urgente investire nei creativi, creargli intorno un ambiente favorevole alla creazione di nuove idee. E’ l’unico vero antidoto al conformismo, a quella diffusa dittatura dell’autocensura che ha fatto retrocedere in serie B la nostra creatività, una mediocrità che arriva anche nei concorsi internazionali. Siamo ancora in tempo per invertire la tendenza che ci fa apparire rinunciatari di fronte alle innovazioni e refrattari alla sfida nei confronti di regole che sono superate dai fatti economici, sociali e culturali di questi primi otto anni del Terzo millennio.

Cosa possiamo aspettarci dall’Italia in occasione di Eurobest?

Che non ci caccino, una volta per tutte.

E cosa può dare Eurobest all’Italia?

L’ennesima lezione, come succede ormai in tutti i consessi internazionali, a cominciare dal festival di Cannes. Ormai siamo un lontano cugino un po’ intronato del mondo della pubblicità, di quelli che si sopportano, perché tanto non cè proprio niente da fare. Ogni volta torniamo a casa piagnucolando come mocciosi, poi tiriamo su col naso e ricominciamo a fare le stesse cazzate di prima.

Cosa ne pensa dei concorsi internazionali: sono ancora un valido termometro per misurare la creatività di un’agenzia? E di una nazione? Sono un traguardo o un trampolino professionale per i creativi?

Tutte le occasioni di incontro e di confronto tra le idee sono utili. Parlo di idee, quelle che da noi sono viste come la peste. Infatti, quando raramente ancora vinciamo qualcosa, il dibattito, invece che sull’idea, si sposta sull’auto-valorizzazione delle sigla o del creativo che ha vinto. Vedere, capire e approfondire le ragioni di una approccio creativo vincente è qualcosa di molto più importante che trastullarsi all’idea di dove mettere il trofeo: in sala riunioni dell’agenzia o sul tavolo del creativo che lo ha vinto? Qui il problema non è il trampolino di lancio, quando ogni giorno c’è chi toglie l’acqua dalla piscina. Vincere un premio fa bene alla salute, diceva un famoso creativo italiano. Ma i premi passano, le campagne restano, come segnale del livello raggiunto dalla creatività sul quel prodotto, su quel settore merceologico, sul quel media. I concorsi internazionali sono un contributo alla crescita della cultura professionale. Tutto il resto ha un valore relativo al contesto al quale si è partecipato. Sedersi sugli allori fa venire i foruncoli sulle natiche.

Secondo lei, c’è una tendenza internazionale (e di questi festival) a premiare campagne che funzionano visivamente (o concettualmente) indipendentemente dal testo? Se sì, cosa ne pensa?

In genere vincono idee innovative, approcci sorprendenti, esecuzioni inusuali. In una parola, quello che chiamiamo creatività. C’è stata una certa tendenza a produrre campagne “da concorso”, con grandi foto e piccoli testi.
Però, l’esame autoptico di una campagna, del rapporto tra immagine e testo, francamente non mi appassiona. Anzi, lo trovo un bel po’ fuorviante, mi fa pensare alla relazione che sempre si stabilisce tra il saggio, lo stolto, la luna e il dito.

Esiste davvero e funziona una comunicazione globalizzata, standard in tutto il mondo, oppure per essere efficacie deve adattarsi (in termini creativi e di contenuti) al paese in cui viene trasmessa?

Tra le esigenze della marca globale e le aspettative del consumatore locale si stabilisce sempre una relazione dialettica, che deve essere interpretata dalla creatività. Le strategie della comunicazione commerciale moderna non sono semplicemente riconducibili alle esigenze tra globale e locale di uno specifico veicolo, come la tv o la stampa. Le marche moderne usano tutta la filiera della pubblicità. Ciò che conta, che fa la differenza tra una campagna di successo e un flop, sta nello stesso superamento del concetto di campagna, così come lo abbiamo pensato nel ‘900. La grande marca ha aperto una piattaforma multicanale di comunicazione col suo mercato, di cui la campagna specifica è solo un segmento. Internet ha svoltato il Terzo millennio della comunicazione commerciale, rendendo mobile sulla filiera degli strumenti la sintesi che una volta era di puro appannaggio dell’advertising classico, con la tv come punta di diamante. A seconda della risposta dei mercati, la sintesi si può verificare in altri ambiti, che non è detto siano semplicemente le azioni sulla pubblicità tabellare. L’attuale grave crisi finanziaria ed economica che sta attraversando tutto il mondo spingerà sempre di più la pubblicità verso multidisciplinarità e multicanalità. Non è una mera questione di economie di scala, ma la prospettiva di nuovi traguardi che le grandi marche devono sapersi dare. Questo è il grande compito che abbiamo davanti. E’ con questo spirito che dobbiamo andare ai concorsi internazionali: prendere le misure di una nuova realtà, prepararsi a esserne all’altezza. Qui se non si è capaci di volare alto, possiamo dire addio a ogni velleità, a cominciare da un ambìto pezzo di latta da mettere nella bacheca dei trofei. (Beh, buona giornata.)

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Attualità Pubblicità e mass media Società e costume

Non crocefiggete quel manifesto.

Cucù: non appena ha fatto capolino, un annuncio dedicato alla giornata mondiale contro la violenza sulle donne ha fatto polemica. L’annuncio, che è visibile sul sito di Telefono Donna di Milano, mostra una donna sdraiata su un letto, come fosse stata crocefissa. Il titolo dice: “Chi paga per i peccati dell’uomo?”.

La polemica è nata perché un assessore del Comune di Milano, competente per le affissioni comunali, si sarebbe rifiutato di concedere gli spazi pubblicitari, perché “lede il sentimento religioso dei cittadini”. La campagna sarebbe dovuta uscire il 25 novembre prossimo, in occasione, appunto, della giornata mondiale sulla violenza contro donne.

In aggiunta, pare che il presidente di una nota associazione di pubblicitari abbia invitato i propri iscritti a pronunciarsi in merito all’eventualità che il Giurì di Autodisciplina pubblicitaria censuri l’annuncio, anche prima della sua uscita sui manifesti. Segno dei tempi: la pubblicità italiana è la più fiacca d’Europa, perché c’è chi crede che i creativi debbano essere i notai del comune senso del pudore.

I fatti si sono messi in modo che la campagna in questione è uscita, ma non è uscita. Cioè, è uscita sul web ed è stata citata dai giornali che hanno riferito della polemica suscitata. Però, non è uscita perché il Comune di Milano non ha concesso gli spazi, alimentando così la polemica e dando una spinta alle visite sul sito web, ove è tutt’ora possibile vedere la donna crocefissa. Altro segno dei tempi: internet batte le baruffe chioggiotte (in questo caso meneghine).

Dunque, Telefono Donna ha pienamente raggiunto l’obiettivo: far parlare di sé, attraverso un annuncio, contemporaneamente pubblico e clandestino.
La qualcosa è una metafora dell’oggetto della comunicazione dell’annuncio stesso: lo sanno tutti che spesso le donne vengono maltrattate, però nessuno vuole che si dica, spesso neppure le donne vittime delle violenze. Infatti, nell’annuncio c’è scritto che solo il 4 per cento delle donne che hanno subito violenze hanno il coraggio di denunciarle.

La domanda è: che cosa è lesivo della sensibilità dei cittadini? La violenza clandestina sulle donne o la denuncia pubblica, attraverso un annuncio pubblicitario? Non vi possono essere dubbi: la violenza sulle donne c’è ed è in crescita. Calano tutti i reati, meno che quelli perpetrati contro le donne. Dunque, l’annuncio in questione è giusto, perché dice una cosa vera.

Però, si è voluto entrare nel merito dell’aspetto creativo dell’annuncio, invece che sul merito della questione all’origine dell’annuncio. E questo è sbagliato, tanto quanto sottovalutare la questione stessa. Ed è sbagliato proprio perché si è voluto limitare la libertà di espressione di un preciso punto di vista: nell’Italia di oggi essere donna significa ancora troppo spesso portare la croce di una condizione discriminatoria, nel lavoro, nella famiglia, nell’intimità, che rende possibile l’impunità dei comportamenti violenti nel lavoro, in famiglia, nell’intimità. Difficile non inquadrare le polemiche nate intorno al manifesto in questione come una logica conseguenza di atteggiamenti di stampo maschilista, confezionati con il trito moralismo da negozio di barberia di paese.

Quanto all’immagine-scandalo della donna seminuda sdraiata su un letto matrimoniale, c’è da ricordare che la violenza sulle donne avviene proprio sul talamo nuziale, lo stesso su cui si manifesta la presunta supremazia sessista, che pretende poi omertà e impunità.

Per questa semplice ragione l’annuncio non è solo giusto, ma anche corretto. Qualcuno teme sia troppo forte? E’ la creatività, bellezza. Beh , buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Scuola Società e costume

La crisi economica? Prima le donne e i bambini.

Nel suo intervento al convegno celebrativo la giornata del risparmio, Giulio Tremonti ha detto: “Dobbiamo portare al primo posto l’etica e puntare sui valori e non sugli interessi”. Bello a dirsi, però in Italia sta succedendo l’esatto contrario.

 

La legge 133, “la legge Gelmini” taglia fondi e personale alla scuola primaria. Sordi a ogni istanza non solo di modifica, ma nemmeno di dibattito il governo ha deciso, il Parlamento ha ratificato. Considerando che la stragrande maggioranza delle maestre, costrette a diventare “maestro unico” sono appunto donne, ecco chi sono le prime vittime del taglio del personale docente. Contemporaneamente, altre donne, cioè le mamme lavoratrici  subiranno il taglio da 40 a 24 le ore scolastiche nelle elementari. I loro bambini, a parte la decurtazione delle ore dedicate alla loro istruzione,  dunque alla qualità della loro crescita, subiranno il prevedibile scompaginamento della loro vita: chi lo va a prendere a scuola? Chi me lo tiene nel primo pomeriggio? Quanto mi costa una baby sitter? Ecco che in un colpo solo, a maestre, mamme e ai loro bambini è stata rovinata la vita, oltre che colpita la loro economia. Dunque, si è puntato sugli interessi di bilancio, niente affatto su l’etica e sui valori.

 

Nel comparto dell’editoria e della pubblicità soffiano venti di crisi, a causa proprio della crisi, che riduce copie vendute, raccolta pubblicitaria, come conseguenza del taglio della spesa nella comunicazione commerciale. In questi settori le donne sono in maggioranza, anche se, come è noto, con ruoli quasi mai dirigenziali. Chi sta lasciando il posto di lavoro, o si appresta ad essere costretto a farlo, per via dei tagli al personale? Loro, le donne, con buona pace dell’etica e dei valori.

 

La Cai, la compagnia aerea italiana, quella cordata di industriali italiani che ha “coraggiosamente” salvato Alitalia, secondo i dettami delle promesse elettorali del governo in carica, ha in animo di non procedere all’assunzione delle donne con prole, perché, proprio per questo,  avrebbero l’esenzione dal lavoro notturno. Ancora una volta, le prime vittime degli interessi economici sono le donne e i loro bambini. Ancora una volta gli interessi prevalgono, senza curarsi degli aspetti più odiosi, quelli che contrastano palesemente con l’etica e i valori.

 

Secondo Giuliano Amato, politico italiano di lungo corso, già presidente del consiglio e più volte ministro, grazie alla recessione avremo presto un milione di disoccupati, contemporaneamente la cassa integrazione guadagni è in riserva, per non dire a secco. Quante saranno le donne coinvolte?

 

Dovrebbe potercelo dire il ministero delle pari opportunità, ma  la ministra competente non può, ha altro da fare e da pensare.  Si deve occupare della sua immagine, deve fare la portavoce di un governo di neodestra, neodecisionista e neoliberista, che aiuta banche e grandi imprese, oltre che se stesso e i propri interessi e abbandona piccole imprese, famiglie e lavoratori dipendenti al ruolo di agnelli sacrificali della recessione economica. A cominciare proprio dalla donne e dai bambini. Caro signor ministro dell’economia, invece che a un consesso di banchieri, glielo vada a dire a loro che “dobbiamo portare al primo posto l’etica e puntare sui valori e non sugli interessi”. Beh, buona giornata.

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Attualità Natura Salute e benessere Società e costume

La birra fa fare pipì ecologica.

Lo so, lo so che lo sanno tutti che la birra è diuretica. Quello che non sapevo è che la birra diminuisce il contenuto salino nelle urine. Come lo so? Lo hanno detto gli esperti dell’università di agronomia di Vienna, che hanno lanciato un allarme inquinamento da urina a Euro 2008 in Austria.

Gli esperti temono infatti danni per alberi e cespugli nelle zone frequentate dai tifosi che potrebbero cercare di evitare le file davanti alle toilette pubbliche e urinare nel verde.

Secondo gli esimi scienziati della pipì, il ‘problema delle acque gialle’ riguarda soprattutto la cosiddetta ‘fan-zone’ di Vienna, un’area con maxi-schermi e gastronomia lungo il ‘Ring’, lo storico viale verde che delimita il centro, dove sono attesi 70.000 tifosi per ogni partita.

Grazie ai loro studi, apprendiamo che l’urina umana di per sé non è velenosa per le piante, ma il sale in essa contenuto potrebbe costituire una vera minaccia per gli ippocastani ultracentenari che punteggiano il Ring, ma anche per l’erba, i fiori e altre piante storiche dei giardinetti dell’area che sarà frequentata dai tifosi, perché la loro abbondante pipì potrebbe ostacolare l’assorbimento di acqua dal terreno.

È a questo punto che fa il suo ingresso la buona notizia: il consumo abbondante di birra diminuisce il contenuto salino nell’urina. Dunque, ora che lo sapete, potete farla fuori senza problemi ecologici. Ah, che sollievo.

A parte ogni altra considerazione di ordine pubblico, tipo quelle cose che hanno a che vedere con la buona educazione, il pudore, per non dire il convitato di pietra dell’epoca moderna, vale a dire il buon senso, questa straordinaria scoperta degli ineffabili esperti viennesi significa almeno un paio di cose: la prima è che sarebbe meglio aumentare il numero di vespasiani; la seconda è che sarebbe meglio aumentare la vendita e il consumo di birra.

La cosa di per sé fa scompisciare dal ridere. Però, è una buona opportunità per le marche di birra a Euro 2008, i campionati europei di calcio. O no?! Beh, buona giornata.

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Società e costume

La creatività salva la vita.

Quante volte avete visto filmati in tv che ritraggono motociclisti senza casco? Quante volte avete li avete visti sfrecciare davanti alla polizia municipale, senza che quelli manco se ne accorgono. Succede quasi tutti i giorni: nei servizi giornalistici che ritraggono scene di vita a Napoli, quello che colpisce è che si va in giro senza casco, senza problemi.

La legalità è fatta di cose piccole, infatti quando le cose piccole non vengono rispettate, né perseguite è il segnale che neppure le cose grandi vengono fatte rispettare. Questa è la storia di un napoletano che ha inventato un rimedio all’incuria e alla noncuranza: ha inventato un congegno che non fa partire il motorino se chi lo guida non ha il casco.
L’idea, geniale, si chiama Simotronic ed è grande come un pacchetto di sigarette. Una volta montato sul ciclomotore è impossibile mettere in moto il mezzo senza avere prima infilato il casco.

Il sistema di funzionamento è semplice: una volta indossato il casco, un sensore trasmette un segnale radio a una ricevente montata sul ciclomotore, che riconosciuto il codice consente l’accensione del motore.

“Il congegno – spiega Patrizio Loffredo, l’inventore – può essere utilizzato su qualsiasi mezzo a due ruote. Indirettamente serve anche da antifurto, dal momento che senza il casco del proprietario non è possibile avviare il motore”.

E’ una bella idea, perché è intelligente e socialmente utile. Adesso bisognerebbe si trovasse un sensore che quando un ragazzino viaggia senza casco fa licenziare il vigile che non lo ferma, e fa passare un brutto quarto d’ora ai genitori che non gli impediscono di avere comportamenti rischiosi per sé e per gli altri. Forse sarebbe meglio che poi piangere sul latte versato, strappandosi i capelli per il dolore di un figlio sul letto d’ospedale. Per non dire peggio.

La creatività è un bene prezioso. Se ne ricordino quelli che tanto la sottostimano, la sottopagano, la sottovalutano. E poi piangono sul latte versato dei loro insuccessi.

Forse bisognerebbe installare il dispositivo elettronico inventato da Patrizio Loffredo anche alle Agenzie di pubblicità: quando un cliente non si mette in testa che ci vuole una buona campagna, l’azienda si spegne. E non riparte fino a che non ammette che l’idea era buona. Beh, buona giornata.

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Società e costume

I campionati di marcia indietro.

Apparentemente è una specialità podistica. La corsa all’indietro, o, come dicono gli addetti ai lavori il “retro.running”. Si sta tenendo in Svizzera il campionato mondiale della nuova specialità: 42 atleti provenienti da molti Paesi si sono sfidati nel campionato del mondo di “Retro-running”, su un percorso di undici chilometri di dislivello partendo da 1900 metri per raggiungere la pianura.

In realtà è una straordinaria metafora del mondo attuale, un formidabile tributo all’arretramento su tutti i fronti delle relazioni umane, sociali e politiche. Un icona dell’esser tornati indietro di anni, per ritrovarci immischiati negli scontri di civiltà, nell’era dei diritti negati, dell’intolleranza, della manipolazione dei fatti, dell’intossicazione dell’aria, dell’acqua e della mente.

Tuttavia, il retro-running è spaventosamente moderno e attuale. Più che una specialità olimpica sembra essere l’attitudine odierna della maggioranza delle persone: tirare avanti, con la testa rivolta all’indietro.

Cambia anche il modo di tagliare il traguardo: invece che con la testa in avanti, nel retro-running il filo di lana di taglia con il culo. Apoteosi sublime del fattore C. Beh, buona giornata.

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Era ora.

La discoteca piace sempre meno ai giovani, in cerca di luoghi più ‘intimi’, dove attardarsi con gli amici a chiacchierare bevendo qualcosa.

Spiagge, parchi e piazze sono da qualche anno i luoghi privilegiati per gli incontri di giovani e meno giovani, e i dati lo confermano: se erano 5 mila i locali in Italia fino a dieci anni fa, oggi non arrivano a 3 mila.

‘Il rischio – avverte Antonio Degortes, presidente di Asso-Intrattenimento – è che tra qualche anno siano solo 800’. Auguriamoci che il rischio si avveri, un po’ prima che di qualche anno e un po’ meno di ottocento. Beh, buona giornata.

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Società e costume

Tua sorella.

Come ragazzini problematici , piccoli bulli di periferia, attaccabrighe da campetto spelato di periferia. Ecco dunque come è andata alla finale dei Mondiali, di fronte a un miliardo e mezzo di telespettatori, di fronte a al Segretario Generale dell’Onu, ai Capi di stato francese e italiano, di fronte al capo del governo del Sud Africa, paese che ospiterà i prossimi mondiali di calcio, di fronte al Cancelliere tedesco, a mister Kissinger e all’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton: una testata sul torace, per via di un presunto insulto alla sorella di Zidane, dopo una strattonata alla maglietta.

Magia della televisione in mondo visione: la testata di Zidane è già passata alla storia come il simbolo di Germany 2006. E’ diventata icona. Come se la finale fosse stata una puntata qualsiasi di una reality show qualsiasi. E quell’espulsione una normale “nomination”. Zidane come Taricone, come Pappalardo, er Mutanda; Zidane e Materazzi come le due sciagurate che si strappavano i capelli sull’Isola dei famosi.

Tutto purché si faccia sensazione, share, audience. Peti, sputi, corna, copule e capocciate: che spettacolo televisivo. I campionati mondiali di calcio sono stati un grande evento sportivo? Hanno esaltato lo spirito olimpico della fratellanza tra i popoli?
I campionati mondiali di calcio sono stati un fattore di coesione nazionale in un contesto internazionale, uno spettacolo gratificante per i valori democratici occidentali, una competizione atletica emozionante, leale, epica? Il calcio ha dimostrato di essere un gran bel gioco? Tua sorella.

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Società e costume

Il supporto cartaceo.

Ricevo un invito per una mostra via e-mail. Nella riga di accompagno l’allegato, trovo scritto: “Segue invito cartaceo”. Un giovane art director mi chiede un colloquio e mi dice se preferisco vedere i suoi lavori su cd o su “supporto cartaceo”. Vado da un cliente che premuroso mi chiede: “ Ha bisogno un proiettore e presentate su “cartaceo”. Cartaceo, suona spregiativo, sa di vetusto, di out. La carta stampata è diventata “cartaceo”. Dunque, non si giudicano i contenuti, ma i veicoli che li trasportano. Vanno di moda i giornali on line, le riviste on line, anche i libri stanno per lasciare il passo agli “audiolibri” su cd. Così uno va dal giornalaio e chiede: “mi da il cartaceo di oggi?” Oppure va in libreria e chiede un libro: “Mi dispiace, è terminato. Se vuole ho una copia cartacea.” Cartaceo. Come se non si dovesse leggere, ma guardare. Vedere. Ascoltare. Uno che legge è rimasto all’età del Cartaceo, era primordiale più vicina all’età della pietra che a quella dell’oro.
Uno degli scrittori giapponesi più noti in Italia, Haruki Murakami, sta vincendo una singolare battaglia: difendere chi scrive ancora a mano. Murakami settimane fa ha scritto sulla rivista ‘Annali letterari’ un articolo in cui si sollevava per la prima volta in Giappone il problema della destinazione dei manoscritti affidati agli editori. Lo scrittore giungeva a definire “una sorta di furto” la tendenza nipponica a non restituire all’autore la stesura originale di un’opera dopo la pubblicazione. La domanda è: gliel’ha scritta via e-mail o a mano su un “supporto cartaceo”?Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Società e costume

E’ stato inventato il computer da polso.

E’ una invenzione tutta italiana, è stata messa a punto dall’azienda Eurotech, specializzata nella produzione di computer miniaturizzati.
Pesa meno di 300 grammi, due etti e nove, si connette in rete e ha un cinturino rigido per agganciarlo al polso, in modo da lasciare le mani libere a chi lavora in situazioni difficili, come vigili del fuoco e medici.
“I computer indossabili ci regaleranno nuova libertà di movimento, rivoluzionando le nostre abitudini”, ha detto Roberto Siagri, presidente dell’Eurotech. Vero. Sarà come avere un orologione, sul quale digitare con un mano sola. E mentre si fanno cose con le mani, l’orologione sarà sempre a portata di coda dell’occhio.
Questo nuovo pc da polso ha un display da 65k 72 x 55 mm da 65.000 colori TFT, e grazie ad una penna apposita applicata al laccio (che è flessibile e disponibile in diversi modelli anche a seconda che siate destrorsi o mancini) è possibile interagire con il touchscreen. Il nuovo pc da polso include un ricevitore GPS, Bluetooth v1.1 e, grazie alla tecnologia wireless, può essere tranquillamente connesso senza cavi ad un qualsiasi computer centrale. Le batterie hanno una durata di sei ore in utilizzo continuo.
Secondo gli uomini della Eurotech, il pc da polso è stato studiato per le attività di logistica (magazzinieri), per la sanità (paramedici), per i vigili del fuoco, per la polizia e, immancabilmente, per le forze armate. Come per tutte le innovazioni, questo pc da polso ha senza dubbio il suo fascino, non solo legato al suo desing, ma per fatto che sancisce, è proprio il caso di dirlo, l’avvento dell’informatica pret a porter. Con quel tanto di attrattiva “fantascientifica” che ci restituisce la tecnologia miniaturizzata: dal calcolatore ai pc, dal pc al portatile, dal palmare al pc da polso prosegue imperterrita la corsa della fantatecnologia, come dire che le grandi idee diventano sempre più piccole, più comode, più maneggevoli.
Rimane il problema dell’uso che se ne fa, esso dipende da larghe vedute, ampie intuizioni, grandi idee umane. Che si scontreranno sempre con la mediocrità e la pochezza di chi crede che la tecnologia risolve tout court tutti i problemi umani. Mettete un computer miniaturizzato al poso di un microcefalo e avrete la certezza che sta per succedere un grosso guaio. (Beh, buona giornata)

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