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Racconto Società e costume

Ciao, Giuseppe.

È morto Giuseppe Pecora, noto gestore di locali di Roma.Con Bartolo Cuomo e Billy Bilancia, scomparsi a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, Giuseppe fu tra i fondatori dell’Hemingway, poi delle Cornacchie, poi del Caffè della Pace, poi del Bramante. 

Tra gli Ottanta e i Novanta furono loro gli innovatori dei locali, portando a Roma la formula dell’american bar che nella capitale non c’era e che oggi è molto diffusa. Una volta un giornalista definì la serie dei locali che sbocciavano uno dietro l’altro nella zona immediatamente a ridosso di Piazza Navona “il triangolo del Prosecco”, versione capitolina della “Milano da bere”, che oggi si chiamerebbe “movida”.

Perché Giuseppe e gli altri avevano lanciato e gestito la moda dell’aperitivo pre-serale, e insegnato a una nuova generazione di bar tender come si facevano e sprattutto come si servivano i cocktail, come ci si relazionava con i clienti, che musica proporre. Luoghi confortevoli che la sera mescolavano scrittori, giornalisti, pubblicitari, pittori, gente di teatro, del cinema, della tv, e varia altra umanità.

L’ultima volta che l’ho incontrato fu in un bar a Trastevere, mi aveva chiesto un libro in regalo, e gli portai “Le benevole” di Jonathan Littell. Giuseppe leggeva, parlava un buon italiano e un fluente inglese, era dotato di sense of humor, di buongusto e di buone maniere. 

Anche lui una volta mi regalò un libro, “Memorie intime” di Simenon. Me lo ha ricordato Elettra, mia figlia, che ebbe anche lei l’occasione di conoscere Giuseppe e anche Nicola, uno dei suoi due figli. 

Non ci siamo più visti per tanto tempo. Poi la notizia della sua morte improvvisa, come uno shock della memoria, un lutto del tempo che risucchia la mente a frugare nel passato, nei momenti spesi a shakerare un aperitivo con i pensieri, le intuizioni, le chiacchiere, le risate, le riflessioni, le amarezze. Giuseppe è sempre stato un istrione sincero. A volte melodrammatico, a volte esagerato. 

Come quella volta che apostrofò con mali modi due clienti petulanti che risultarono invece essere militari in borghese dei Nas dei carabinieri. Dopo una capziosa ispezione gli comminarono una settimana di chiusura. Una punizione “esemplare” per la sua lingua lunga e tagliente.

Una volta, non ricordo chi tra le amicizie nate al Bramante, qualcuno disse che tra il barman e il cliente si stabilisce sempre una sorta di relazione come tra confessore e peccatore. Ma con Giuseppe era il contrario: perché era lui che si confessava col cliente. 

E forse proprio questo mancherà per sempre a tutti coloro che l’hanno conosciuto. 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Popoli e politiche Società e costume

Se l’inglese diventa un trucco del governo.

C’è una vecchia storiella che parla di un emigrante italiano in procinto di partire per la Gran Bretagna, al quale un amico del suo paese di provincia insegna che l’inglese è come l’italiano, basta parlare lentamente, molto lentamente. Sicché il nostro arriva a Londra, entra in un bar e chiede molto, ma molto lentamente un caffè. Molto lentamente, ma molto lentamente il barman gli risponde chiedendogli come desidera sia fatto il caffè: corto o lungo? Macchiato caldo o freddo? In tazzina o al vetro? Sorpreso, l’emigrante chiede , molto, molto lentamente al barista: ” Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?”.

Dal che si evince, parafrasando un’uscita del celebre Totò, che ogni lingua ha una pazienza.

Dunque rivolgerò lentamente, ma molto lentamente una domanda a chi ha escogitato il trucco semantico che per dire “non vi do un a lira” dice invece “fiscal compact”. La domanda è: perché non parli come tagli?

Anche recentemente, il trucco di mascherare in inglese cose sgradevoli da dire in italiano riguarda, guarda caso, le classi sociali meno abbienti.

Perché chiamare “spending review” il taglio dei soldi alla Sanità, all’Istruzione, ai trasporti pubblici?

Perché chiamare Job Act il peggioramento normativo della condizione del lavoro dipendente, invece che, parafrasando il Belli, “io (imprenditore) sono io e voi (lavoratori) non siete un cazzo”?

È vero che la lingua italiana è sempre stata la lingua delle classi alte, quindi del potere, o meglio dei poteri, per cui tutte le cose importanti vengono ancora oggi scritte e dette con quell’accurata capacità di intimorire, più che farsi capire: basti pensare al linguaggio giuridico, a quello medico, a quello finanziario.

In effetti, oggi sembrerebbe che l’uso della lingua inglese sia come quello del latino ai tempi della nascita del volgare: una roba da pochi eletti, mica da tutti gli elettori.

E allora, invece che spernacchiare, sia pur a ragion veduta, l’uso goffo dell’inglese maccheronico dei nostri politici, dovremmo preoccuparci di come vengono chiamate le leggi.

Non è una questione di purismo linguistico, né di protezionismo sintattico, men che meno di nazionalismo della grammatica. Se una cosa è giusta, bella e fatta bene, sicuramente viene nominata, raccontata, spiegata con semplicità in una lingua a tutti comprensibile.

Al contrario, se si usano artifici linguistici, forzature semantiche, sforzi pirotecnici atti a stupire invece che dialogare; se si fa ricorso a stereotipi e slogan anglofoni, che spesso risultano maccheronici, come un tempo fu il latinorum, allora forte è il puzzo dell’inganno.

Se la lingua inglese diventa la lingua della propaganda del governo, per dire cose che si vergognerebbe di dire in italiano, la domanda che pongo lentamente, molto lentamente è: “Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?” Beh, buona giornata.

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Cinema Cultura Società e costume

Il bello de “La grande bellezza”? Ce lo spiega il filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Paolo Sorrentino
La grande bellezza*

di Riccardo Tavani

Vediamo il film al Cinema Barberini di Roma e andiamo poi a mangiare un piatto di spaghetti a pochi passi da Via Veneto. Gli domando se il raffronto, tanto insistito dalla stampa, tra la Dolce Vita di Fellini e la Grande bellezza di Sorrentino abbia una sua ragione. Il professore Giuseppe Di Giacomo, ordinario della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma, versandomi del rosso, risponde che indubbiamente l’influenza gravitazionale del pianeta Fellini non ha potuto fare a meno di attraversare l’atmosfera di questo distante corpo astrale. Non c’è solo un certo sapore degli scorci e delle riprese, le feste, le suore, i prelati, quanto la mancanza di un vero centro o soggetto narrativo.

La frammentarietà di situazioni diverse, montate insieme, che diventa allegoria, refrattaria a qualsiasi tentativo di unificazione simbolica, secondo quanto indicato da Walter Benjamin nella sua opera filosofica sul dramma barocco del 1928. Il raffronto, in realtà, andrebbe, per Di Giacomo, completamente rovesciato. Il cielo astrale sopra Via Veneto nel 1960 era completamente diverso da quello di oggi. Tutto ciò che nella Dolce Vita e nella realtà della città è all’aperto, pubblico, esplodente sulle strade, nelle periferie mistiche quanto nei caffé del centro, nei locali affollati, nelle auto e nelle situazioni decappottate pronte a scoprirsi per l’assalto delle paparazzate e dei giornali, nella Grande bellezza è invece privato, chiuso, implodente verso un’intimità che non ha neanche più un nome se non quello di vuoto. Persino il fracasso triviale, la cafonalità delle feste avviene in locations prese in affitto, su terrazze e in ville, separate, delimitate innanzitutto da un’aura d’ombra stagnante, prima che da mura e recinti. La Via Veneto di Fellini è pulsante, ricorda Di Giacomo; quella di Sorrentino deserta, spettrale: qualche sparuto puttaniere giapponese, una solitaria, anoressica ragazza con al guinzaglio un’enorme arma da difesa in forma di molosso napoletano e squallidi nigth club con ventenni polacche che non sono certo lì per il vecchio, glorioso spogliarello.

Soprattutto nell’opera felliniana la bellezza di Roma non ha bisogno di essere messa a tema. Essa è parte integrante dell’apertura della città verso il futuro. La sceneggiatura di Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (con la collaborazione anche se non accreditata di Pasolini) respira pienamente di questa apertura, si sedimenta sul nitrato d’argento della pellicola, impastandosi invisibilmente al vagare dei movimenti di macchina e delle immagini tessute da Fellini.

Nel film di Sorrentino non si dà futuro, ma neanche più passato. I marmi porosi e le antiche mura screpolate della città vengono avanti galleggiando nelle inquadrature, come sulla superficie di un tempo lacustre immobile. Lo stesso protagonista, Jep Gambardella, non ha un passato, a parte qualche affiorante sprazzo di memoria per Elisa De Santis, la bellezza della quale s’innamora un’estate sugli scogli assolati di un’isola, ma che non si lascia poi baciare al chiaro di luna da lui. In questo, Jep è uno di quei tipici personaggi di Kafka che non hanno nessuna vera identità al di fuori del presente che stanno vivendo, senza alcun vero senso e scopo. Egli si commuove intensamente di fronte all’opera di un artista che ha allineato una sterminata sequenza di fotografie che lo ritraggono per ogni giorno della sua vita, sedimentando una percettibile scia della memoria.

Il riferimenti letterari nel film sono costanti e percorrono tutta la pellicola: dall’esergo iniziale su un brano di Celine, passando per Flaubert, Dostoevskij e Proust. Non sono solo mere citazione, nota Di Giacomo, ma vere e proprie – direbbe un pittore – campiture di significato. In ciò il professore scorge un conflitto tra regia e sceneggiatura. C’è un’eccedenza nella scrittura dei dialoghi e della voce fuori campo che i movimenti macchina e le immagini non riescono a rendere a un pari livello di senso. La stessa cosa, mi dice il professore, e in modo anche più accentuato, è successo per il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. L’intervento poetico di Peter Handke sul copione, espressamente richiesto dal regista, crea poi una diacronia, una sfasatura tra testo e immagine che si incapsula quasi fin dentro ogni singolo fotogramma, venendo a configurarsi come un limite dell’opera. In una delle scene iniziali, ad esempio, Di Giacomo vede un esplicito richiamo a una famosa pagina della Recherche proustiana, relativa proprio al tema della bellezza. È quella che descrive la morte dello scrittore malato Bergotte davanti al quadro La veduta di Delft di Veermer. La bellezza che una piccola ala gialla su un muro conferiva all’opera eccedeva la fragile possibilità umana di contenerla. Nel film, un turista giapponese, contemplando e fotografando Roma dal Gianicolo, collassa improvvisamente sul selciato e muore. La sequenza, però, è realizzata in maniera piana, con la macchina frontale al soggetto e uno stacco di montaggio, senza alcun movimento che conferisca alla scena una densità pari a quella del momento esistenziale in atto.

Consumati con gusto gli spaghetti, passiamo a sorseggiare riflessivamente del whisky. Il vuoto di ispirazione letteraria di Gambardella, ritorna Di Giacomo, si lega non tanto a quello del vuoto lasciato dalla scomparsa della bellezza, quanto a quello di una sua contemplazione in uno stadio ancora meramente estetico, secondo la nota tripartizione di Kierkegaard, che si articola anche in quello etico e religioso. Jep cita e vuole fare propria l’aspirazione di Flaubert a “scrivere un libro su nulla”, nel quale la bêtise, la stupidaggine, la balordaggine degli eventi umani, della storia, della noia e coazione a ripetere, ammutoliscano, indietreggino e lascino di nuovo campo alla vera bellezza, la quale dovrebbe interamente riconquistare a sé il mondo e la letteratura.

Il mondo, però, con il suo dolore e la sua miseria lacera continuamente il velo della bellezza per offuscarne la trama. L’entrata in scena del personaggio di Suor Maria, la cosiddetta Santa, rappresenta l’irruzione di una visione della bellezza che ci propone incessantemente l’opera di Dostoevskij. La pia donna mangia solo radici e vive ventidue ore al giorno con i poveri. Lei si sottrae alla richiesta di un’intervista fatta da Jep sulla sua opera di carità, perché: “La miseria non si racconta – si vive”. La sofferenza non può diventare un fatto estetico, ma si può soltanto condividerla. Sì, la bellezza salverà il mondo, ma essa non è quella di Nastas’ja Filippovna, oggetto di contemplazione, desiderio e contesa, ma quella di chi si prende personalmente carico del dolore dell’uomo, per alleviarlo, ascendendo uno ad uno, in ginocchio, i gradini della sua passione, del suo pathos, ovvero del suo parteciparlo. Sono qui le vere radici che trattengono l’uomo alla terra e impediscono il suo vagare ad ogni soffio.

La decisione di Romano di abbandonare definitivamente la città e di tornarsene deluso in provincia è un altro rovesciamento del vitellonismo felliniano, ma soprattutto, per Di Giacomo, è esattamente la situazione descritta da Flaubert ne L’educazione sentimentale. Gli accadimenti storico-esistenziali sconfiggono i due protagonisti del romanzo e li costringono a tornarsene dove sono nati.

Gambardella, però, nonostante lo vediamo nelle scene finali costeggiare su una nave le sponde natie, non se ne va e decide di iniziare finalmente il suo nuovo libro, proprio come Marcel alla fine de La Ricerca del tempo perduto. Il suo romanzo non sarà più su quell’apparato di spettacolo umano che egli stesso ha finora messo in scena e dominato, fallendo l’appuntamento della sua esistenza con il senso e la letteratura. Jep, a differenza di Proust, sa che in questo mondo non c’è più niente da ricercare, più niente da raccontare, eppure, ugualmente, si deve continuare a scrivere. L’umano – dice amara la sua voce fuori campo – si dà solo tra un frammento e l’altro della bellezza che scompare nell’attimo stesso in cui appare. Il resto è finzione, trucco, trenini sulle terrazze della Roma-cafona-bene che ballando e bla-bla-blando non portano mai da nessuna parte. La materia grafica della sue parole sulla pagina scritta sarà il nulla, il suo sguardo silenzio sullo schermo sgualcito della vita, sul velo d’ombra – soffice di morte – delle antiche mura, sulla pellicola corrosa che avvolge la dissacrata grande bellezza della città.

Ha smesso di piovere e i platani di Via Veneto sono scossi da folate di vento fresco che hanno già asciugato l’asfalto della strada. Un uomo si ferma un istante accanto a noi per accendersi una sigaretta. Indossa una giacca di lino rosso con un fazzoletto candido nel taschino, pantaloni bianchi e scarpe Duilio bicolore. Sentiamo lo scatto del suo accendino d’oro che subito si chiude sull’occhiello di brace e il filo di fumo che vorticando sale verso il residuo di nubi in cielo. Garbatamente ci fa un cenno di saluto e prosegue. Viene voglia di fumare anche a noi, ma ci salutiamo, dandoci soltanto appuntamento alla prossima – pellicola del filosofo. (Beh, buona giornata.)

*Questo articolo risale ai giorni in cui il film uscì per la prima volta nelle sale e fu accolto piuttosto freddamente dalla critica. Oggi risulta di prepotente attualità, dopo l’Oscar come miglior film straniero.

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Attualità Cinema Cultura Società e costume

Pi

di Riccardo Tavani

Scanzonato, profondo, lacerante, senza illusioni apre alla speranza.
Si tratta di un film che non tanto consiglio di vedere, quanto di fare in modo che si possa vedere nelle vostre città. Se conoscete, direttamente o indirettamente, proprietari e direttori di sale cinematografiche cercate almeno di convincerli ad informarsi, perché si tratta di una pellicola di qualità e anche di incasso garantito.

Al Nuovo Cinema Aquila di Roma, in Via L’Aquila, 68, al Pigneto, lo avevano programmato solo per il periodo festivo, ora hanno deciso di prolungarne la visione, perché sta facendo fare le file al botteghino e caricando di entusiasmo il pubblico.

Si vede anche e soltanto al “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.

Spaghetti Story, per il momento solo a Roma, al cinema l' Aquila; “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.
Spaghetti Story, per il momento solo a Roma, al cinema l’Acquila; “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.

Proviamo a fare una campagna perché altre sale, in altre città, offrano la possibilità di vederlo.

Si sentiva il bisogno di una simile ventata di aria fresca nel cinema italiano. È la vera sorpresa del nostro cinema non solo dell’anno appena apparso ma anche di quelli indietro per almeno una decina abbondante di anni a questa parte.

Girato con una manciata di spiccioli (quindicimila euro), di giornate di ripresa (undici) e con una Canon 5D da discount dell’elettronica, ottiene un risultato di forma, narrazione e significati davvero stringente e convincente.

È la vicenda di quattro ragazzi di quella periferia generazionale smarrita dalla mancanza di reddito e prospettive, con sentimenti e cultura ad alta definizione e proprio per questo maggiormente umiliata, negata, cancellata. Tra battute di dialoghi fulminanti e scene da commedia del nostro primo neorealismo, si morde l’amaro di una condizione che non sembra offrire nessuna facile via di riscatto. Una generazione straniera a se stessa, no, anzi! arruolata a forza in una sorta di “legione straniera” di se stessa, e lasciata poi vagare assetata nel deserto, alla ricerca di un’oasi, o forse di una borraccia appena di fiducia nelle sue doti e qualità.

Quattro protagonisti di questa vicenda quotidiana delle nostre strade che non a caso sanno riconoscersi nel volto straniero, sconosciuto, lontano nel quale all’improvviso, riflettendosi, si imbattono e al quale cercano di offrire una possibilità, una speranza.

Scrive Walter Benjamin: “Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”. Questo significa che la speranza autentica è quella che si nutre per altri, mai per se stessi. Essa, infatti, ha in sé quella particolare forza del dono completamente gratuito di spargere intorno la propria aura, la propria energia umana, sociale. Così è questo film.

Un film “ragazzo”, con autori e attori auratici che strameritano anche loro un’apertura di fiducia che sia insieme viatico al cammino del loro talento, come patrimonio che può fare bene a tutti. (Beh, buona giornata).

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democrazia Politica Potere Società e costume

Il vecchio che andava con le minorenni e la buttava in politica.

di Riccardo Tavani

Il Tribunale di Milano non aveva ancora finito di leggere la sentenza contro Silvio Berlusconi sul caso Ruby Karima che già un lupanare mediatico era pronto a spalancare le porte sulle proprie oscenità. È stato tutto non mandato ma “rovesciato” a puttane. “SIAMO TUTTI PUTTANE” ha intitolato la sua manifestazione a Roma Giuliano Ferrara, ribaltando completamente forma e sostanza della sentenza. Questa si divide, infatti, in due parti e nessuna delle due mette in discussione la libertà del Cavaliere di andare o meno a puttane.

La prima parte della sentenza, quella decisamente meno rilevante, assommante a un solo anno di condanna riguarda non la prostituzione in genere, ma quella minorile. Giuliano Ferrara, Daniela Santanchè, Marina Ripa di Merana hanno tutta la libertà di proclamarsi pubblicamente puttane, ma riguardo la specifica connotazione di “minorenni” sono totalmente fuori bersaglio. La protesta di Piazza Farnese avrebbe dovuto intitolarsi “SIAMO TUTTE PUTTANE MINORENNI” e mettere in piazza non tanta nobile stagionatura quanto la sua progenie, ovvero figli, figlie, nipoti e nipotine.

Il tema delle puttane, però, è solo un plateale rovesciamento cabriato con doppio avvitamento di ciò che realmente è accaduto. Berlusconi è stato soprattutto condannato a 6 anni per “concussione con costrizione”, operata con la sua famosa telefonata diretta alla Questura di Milano la notte che Ruby fu arrestata per furto e fatta scarcerare in quanto “nipotina di Mubarak”. “Concussione con costrizione” è la formulazione prevista dalla nuova legge che prende in considerazione anche il ruolo svolto dalla persona concussa, la quale potrebbe essere attivamente consenziente o collaborante all’atto di concussione. Nel caso del tentativo del Cavaliere di indurre a un comportamento illegale il personale di Polizia presente in quel momento in ufficio, per i giudici di Milano, si è trattato di “costrizione”. Rovesciare questa seconda e più rilevante parte del giudizio, e dunque l’intero suo impianto, a puttane è davvero un bel salto più che mortale mortifero per chi lo azzarda.

C’è da considerare, semmai, che cosa significhi per un uomo di potere chiamare direttamente al telefono un ufficio periferico dell’articolazione istituzionale per impartire un ordine che contravviene alla legalità formale del potere. L’alto grado di un potere è solitamente connotato dal suo muovere in maniera indiretta e occulta le leve a sua disposizione per ottenere qualcosa o far andare le cose in un certo modo. Berlusconi, con la sua stessa discesa politica in campo, smentisce questa consolidata regola storica. Non si limita a costituire e finanziare lobbies a suo vantaggio, vuole agire direttamente. La prassi del potere aziendale la trasferisce direttamente nella sfera politica. È un potere che vuole essere immediato, agire direttamente sul tempo presente, sulla vita.

Qual è, però, il vero potere sulla vita se non proprio quello sessuale, erotico? La sfera più intima, molecolare, atomica del potere è proprio quella erotica. Una persona di potere è inevitabilmente, necessariamente attratta dalla corrusca zona erotica. Come può una famiglia di potere planetario quale i Kennedy non volere per sé quella che è ritenuta nel suo tempo la donna più desiderabile del pianeta, Marilyn Monroe? L’esercizio di qualsiasi tipo di potere è inscindibile dall’ambito e dall’ambizione erotica. Nel suo romanzo “Santa Evita”, sulla vicenda biografica e di potere tra il caudillo argentino Juan Perón e sua moglie Eva Duarte, lo scrittore Tomás Eloy Martínez spiega bene questo connubio di bio-politica, affermando che la prima vera cellula del potere nasce proprio nell’intimità nascosta di un’alcova.

Lo scadimento, però, dalla maggiorata Marilyn alla minorenne Ruby è stridente, fa accapponare la pelle. Nell’era non più del governo ma della “governance”, che è nozione tipicamente aziendale; non più della democrazia e della politica, ma della finanza e della tecnoscienza, il bio-potere tende a controllare e conformare anche gli aspetti più riservati e persino triviali della sfera individuale. Così esso stesso si fa triviale, postribolare, rovescia il simbolo della bellezza come cultura a meretricio diretto della suburra. Una chiamata personale in Questura una notte di maggio: per il Cavaliere c’è più orgasmo che nella dazione diretta di danaro al senatore Sergio Di Gregorio o in una notte elegante con Patrizia Daddario. Il rovescio delle sentenze nelle puttane è anche il più classico rovescio da contrappasso. (Beh, buona giornata).

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Attualità Marketing Media e tecnologia Nessuna categoria Società e costume

Ultimo telegramma da Calcutta.

di Riccardo Tavani

“Ultimo telegramma Stop Da Calcutta Stop Oggi 14 luglio 2013 Stop Ultimo telegrafico bye da intera India STOP”.

Il prossimo 14 luglio chiuderà ogni ufficio e cesserà definitivamente qualsiasi servizio telegrafico su tutto il vasto territorio di quel sub continente chiamato India. Un sevizio garantito dal 1850 dal Bharat Sanchar Nigam Limited (BSNL), compagnia di comunicazioni che è arrivata a inviare oltre sessanta milioni di telegrammi, attraverso quarantacinquemila uffici nel 1985, anno che segna il vertice della sua storica attività.

Oggi siamo a soli 75 uffici con un movimento di appena cinquemila telegrammi l’anno e addetti che passano da circa tredicimila a mille unità, anche se esistono altri seicento sportelli in franchising, che hanno garantito il loro servizio in tutti i 671 distretti territoriali dell’India. Il primo telegramma fu spedito 163 anni fa da Calcutta, (oggi Kolkata), a Diamond Harbour, a 50 km di distanza.

Shamim Akhtar, direttore generale dei servizi telegrafici di BSNL ha dichiarato: “SMS e smartphone hanno reso obsoleto il servizio telegramma, stiamo perdendo oltre 23 milioni di dollari l’anno”.

Non è dello stesso parere RD Ram, un nome che è già una memoria elettronica in sé e che ha lavorato però per 38 anni proprio in un ufficio telegrafico di Delhi. Afferma Ram:

“La penetrazione della telefonia mobile è molto più bassa di quella pubblicizzata, ha raggiunto appena un triste 26 per cento, anche se qualcuno nel più remoto villaggio ha un telefono cellulare.
Il telegramma ha la sua valenza legale, come una valida forma di prova è ancora accettato dai tribunali. Ed è preso sul serio da un giudice, quando un funzionario del governo invia un telegramma per avvertire che non potrà essere presente in Tribunale perché non sta bene.
Il sessantacinque per cento dei telegrammi quotidiani è inviato dal governo. Io mi preoccupo per il restante trentacinque per cento, un certo numero di telegrammi è inviato da coppie in fuga, si sposano segretamente perché i loro genitori non permettono unioni di casta differente, classe, o religione non gradita. Le coppie di sposi, temendo vendette da parte dei congiunti, con il telegramma informano la polizia e la Commissione nazionale per i diritti umani”.

Aldilà del valore legale e istituzionale del telegramma in India e altre parti del mondo, dell’importante e anzi cruciale ruolo storico e sociale che ha svolto, va considerato il fatto che mai fino ad oggi un nuovo medium ne aveva completamente divorato un altro, dai messaggi con segnali luminosi, alle lettere d’amore, ai “pizzini” tra mafiosi e carcerati.

Il teatro non è stato mangiato dal cinema, il cinema dalla Tv, la Tv da DVD e Internet. Si è avuta una nuova “dislocazione” nel sistema di relazione tra i vari media, però mai una completa cannibalizzazione.
Il teatro non è stato mangiato dal cinema, il cinema dalla Tv, la Tv da DVD e Internet. Si è avuta una nuova “dislocazione” nel sistema di relazione tra i vari media, però mai una completa cannibalizzazione.

Sono certo, Ferri, ci fossi tu in India avresti già ideato e lanciato una campagna a favore di un altro telegramma ancora dopo quel monsone il 14 luglio 2013 spazzerà via pali e linee del servizio telegrafico tra i più vasti del mondo STOP (Beh, buona giornata).

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Attualità Cinema Politica Società e costume

La ministra, la santa e la leghista.

di Riccardo Tavani

Dolly Velandro, la leghista che ha elevato una così commossa invocazione al cielo, affinché mandi in terra un angelo giustiziere, nelle sembianze di uno stupratore della ministra Cécile Kyenge, ha immediatamente precisato di non essere una persona “cattiva”. No, e come si potrebbe soltanto sospettarlo?! Anzi, al cielo invocato lei indubbiamente salirà come una santa! Una santa figlia che, considerata la fede-idea fissa della sua anima e missione, non potrà che somigliare a Santa Maria Goretti, la martire della palude pontina, concupita e uccisa non da un bruto bracciante foresto, ma dal figlio del più intimo amico di famiglia.

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Cinema Cultura Società e costume

Roma alla ricerca della sua “grande bellezza” perduta.

Lo schermo cinematografico come velo della bellezza e sedimento della memoria. Un flaneur dell’apparenza sul filo narrativo-filosofico di Proust e Benjamin.

Un punto di vista filosofico su "La grande bellezza" di Sorrentino.
Un punto di vista filosofico su “La grande bellezza” di Sorrentino.
Una scena di "La grande bellezza":
Una scena di “La grande bellezza”:

di Riccardo Tavani

Nel suo saggio sulle Affinità Elettive di Goethe, Walter Benjamin scrive che la bellezza è inseparabile dall’apparenza. Il termine apparenza va qui inteso nel suo senso etimologico e filosofico più profondamente originario, ossia del rendersi manifesto, del presentarsi di qualcosa allo sguardo. L’apparenza è così una sorta di velo che si offre come mezzo diafano sul quale la bellezza si proietta, rendendosi così visibile, ma che allo stesso tempo la cela, per custodirne il segreto inespresso e mai del tutto esprimibile. In questo senso niente come la pellicola e lo schermo cinematografico si offrono in tutta la storia dell’Occidente come quel velo primordiale che manifesta e cela al tempo stesso la bellezza nella sua vibrazione più intensa e struggente. Ciò vale anche per il film di Paolo Sorrentino, ma certamente non solo perché il tema della Grande bellezza è già inciso nel titolo.

Questa pellicola, però, è segnata anche da un significato oggi più in uso dell’apparire, ovvero quello del voler sembrare, dare l’impressione, prevalentemente, se non completamente, volgarmente ingannevole, falsa. Fin dalle prime scene si mostra il tema della bellezza di Roma, città eterna, accanto alla triviale apparenza umana. Vorremo anche notare che il titolo del romanzo giovanile scritto da Jep Gambardella, il protagonista della vicenda, è L’apparato umano. Il sostantivo apparato non ha una radice etimologica lontana da quella di apparenza, tanto che originariamente apparato è l’insieme di addobbi, ornamenti, paramenti che servono a fare da involucro e sfondo alle feste – sacrali o profane che siano – e agli spettacoli in genere. In termini propriamente sceno-tecnici l’Apparato è il complesso delle scene, dei vestiari, delle comparse, con il quale si rappresenta un’opera o un ballo a teatro: la mise-en-scène dei Francesi.

Siamo proprio al centro della scena di questo film: l’ammasso rutilante, ributtante, ridicolo e pietoso insieme, di personaggi e comparse che ruota attorno al raffinato napoletano, trapiantato Roma, Jep Gambardella, magistralmente interpretato da Toni Servillo. Re delle feste e delle prestigiose terrazze romane, Jep percorre le vie e le situazioni notturne della città come quel flaneur baudeleriano, descritto proprio da Walter Benjamin nei suoi Passagen su Parigi.

Lo spirito di Jep non è però tanto quello di chi deambula attentamente distratto per le strade e le ombre della città, lasciandosi assorbire dai sui fracassi e dai suoi silenzi. No, l’animo di Jep è quello di un flaneur completamente disincantato, ironicamente agrodolce e feroce. Beve un certo numero cocktail fino all’alba, ma non tanti da stordirsi del tutto e perdere la coscienza critica. Lui solca il suo film, come Marcel Proust attraversa la sterminata tessitura della sua Recherche, descrivendo luoghi, volti, modi, mode, smorfie, linguaggi, flatulenze, singhiozzi e sberleffi. E la pellicola è contrappuntata da alcune peculiari citazioni proustiane.

“Jep, perché non hai più scritto nessun romanzo celebrity pokies, eri davvero bravo?”, gli domandano continuamente. Lui, che ora fa il giornalista per una raffinata rivista culturale, una volta, all’improvviso, risponde: “Io cercavo la bellezza”. La bellezza non c’è più, muore attorno a lui. Il suo amico, aspirante scrittore, Romano non riesce ad afferrarla, né quella fisica di una donna che gli piace, o di Roma che parimenti lo respinge, né nei suoi tentativi di scrittura per il teatro. Ramona, che Jep incontra in un nigth di Via Veneto, è l’emblema della bellezza che gli si spegne tra le braccia, senza neanche poter fare più l’amore.

La bellezza, per lui ora sessantacinquenne, è rimasta Elisa, quella lontana ragazza, innamorata di lui, ma che poi lo ha lasciato, con la quale si scambiavano sguardi intensamente perduti sugli scogli di Capri. Lei, una volta, gli si svela, nella luce sul mare da cui sorge Venere e, come una vera dea, senza mai dirgli neanche una parola. Gli mostra la sua nudità, si toglie la camicetta, il velo della bellezza, poi fa un passo indietro sullo scoglio e sparisce, ovvero, senza una ragione, un perché non appare mai più nella sua vita. Ora la notizia della sua morte lo precipita di nuovo nell’enigma, nel segreto di quel remoto ricordo, del suo amore, custoditi, come per l’Ottilia delle Affinità Elettive, in un diario per sempre muto.

“Solo il ricordo dà all’amore la sua anima”, scrive Benjamin. La bellezza – per parafrasare una celebre espressione del suo amico Theodor Adorno sulla forma artistica– è memoria sedimentata. Il soffitto della camera da letto diventa per lui lo schermo cinematografico, dalla cui impercettibile increspatura riaffiorano le immagini silenziose del mare e della sua giovane, inafferrabile dea.

Schermo, velo, pellicola, sedimento: non è solo una delle tante, possibili storie del presente che si mette nella forma d’arte peculiare del cinema per raccontare e veicolare un senso. È anche il cinema che assume le sembianze di un racconto d’oggi per parlare di sé, dell’apparenza, del trucco, del non senso che gli sono propri. Il vero cinema, parlando della vita, è sempre anche una metafora velata di se stesso. E il film di Sorrentino riesce bene a ri-velare questo suo imprescindibile aspetto.

Sotto le stelle di Caracalla, Jep, come il Gattopardo nel film di Visconti, sente che l’ombra tra le antiche rovine è soffice di morte. Vorrebbe sparire, come in un trucco tipico del cinema, tra quelle mura, pregne del bello in ogni loro sacro, corroso poro. La stella della sera, però, ci dice sempre Benjamin, è anche quella della speranza, di una pur fragile possibilità di riscatto, di una debole forza messianica, che offriamo al passato e a chi in esso è rimasto ammutolito.

Così, proprio come il Marcel della Ricerca del tempo perduto, Jep termina il filo narrativo dei suoi smarriti passagen attraverso l’eterna, grande bellezza di Roma, affermando che ora può cominciare a scrivere il suo romanzo. Romanzo che, esattamente come in Proust, altro non è che quello appena finito di scorrere sotto i nostri occhi di lettori o di spettatori.
(Beh, buona giornata).

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Campagna elettorale: le frecciate di Carlo Freccero.

Freccero: "Grillo non è articolato, né argomentativo. Non è un teorico, né un ideologo. Se deve sostenere una discussione approfondita, probabilmente perde. Ma e’ il nostro sismografo. Se si guardano attentamente le oscillazioni, siamo di fronte a un terremoto".
Freccero: “Grillo non è articolato, né argomentativo. Non è un teorico, né un ideologo. Se deve sostenere una discussione approfondita, probabilmente perde. Ma e’ il nostro sismografo. Se si guardano attentamente le oscillazioni, siamo di fronte a un terremoto”.
di Luca Casarini (rifondazione.it)

Ho ascoltato Carlo Freccero in Tv, già dopo aver letto alcune sue interviste, e mi sono deciso a chiamarlo. Mi è sembrato uno dei pochi “lucidi” ed interessanti sulla visione del panorama politico pre elettorale italiano. Già il fatto che sia un grande studioso ed esperto di comunicazione e in particolare di quella televisiva, mi fa pensare che solo attraverso questa chiave si può ormai affrontare il nodo del voto…gliel’ho chiesto all’inizio:

Freccero: Nel nostro paese la tv è lo strumento principe della formazione del consenso. E questo la dice lunga su quanto poco in realtà valgano i “programmi” dei partiti. Conta chi sa starci dentro, e una tv generalista, con i suoi talk show e siparietti, è quanto di più lontano possa esistere dal ragionamento. Il 78% degli italiani usa questa tv per orientarsi al voto. Di questa stragrande maggioranza ben dodici milioni, usano solo e solamente quella. Berlusconi lo sa e infatti punta a quello. Si afferma come il prototipo massimo della commedia all’italiana e in confronto a Monti è come vedere da una parte l’Alberto Sordi de“il sorpasso” e dall’altra un Max Von Sidow ne “Il Settimo Sigillo” di Bergman. Da una parte la barzelletta, la cialtroneria spaccona, l’arcitaliano aapunto, e dall’altra un film svedese in bianco e nero di un regista luterano.

Monti sta tentando di cambiare personaggio: parla del nipotino, sorride, promette…

Freccero: Monti cerca di fare il comico, ora, ma non può riuscirci: lui, come figura politica, è nato dallo shock, dalla paura: prova a far ridere, con il copione che gli detta David Axelrod il suo consulente di immagine americano, ma non può riuscirci. Uno che ha fatto passare le pene dell’inferno a tutti, quello del terrore del crollo, del baratro, come può pensare adesso di diventare “pop”? E Berlusconi, che certo non riuscirà a far dimenticare tutto, però si avvantaggia, proprio grazie a Monti. Credetemi, nel quadro della politica spettacolo, dell’audience/consenso, Monti favorisce Berlusconi e Grillo invece penalizza Berlusconi, perché raccoglie anche una parte dei delusi del Pdl, che sono il vero obiettivo del cavaliere.

Dopodichè c’è il Pd, il centrosinistra…

Freccero: E che dire? Allargo le braccia…come si fa a star dietro, se ci si candida ad essere alternativi, a questa follia? Il pensiero unico domina totalmente. Lo spiega Monti, per il quale la democrazia consisterebbe nel tagliare gli estremi per convergere tutti, appassionatamente, verso il centro. Un’immagine orribile, inquietante, il contrario esatto con il concetto di pluralismo e differenze con i quali è cresciuta la mia generazione. E invece il Pd accetta il gioco, lo teorizza, ci sta. E balbetta, tra il comico e il serioso, tra Alberto Sordi e Max Von Sidow…

In tutto questo un comico di professione c’è…

Freccero:In effetti. Quello che arriverà terzo. Prima di Monti, dopo Berlusconi che sarà sorpassato alla Camera dal Pd. Ma quel terzo posto non avrà il peso dell’ultimo gradino sul podio, dobbiamo farci attenzione. E’ un fenomeno problematico, ma sarebbe sbagliato non cogliere le caratteristiche dello spazio politico che sarah ferguson cthru pokies va a ricoprire. Ad esempio Grillo punta su internet e non va ai Talk. Strategia perfetta per chi sa come funziona la finta democrazia, trappola, della tv generalista. E’radicale, sceglie e decide una parte, non tutte. E ad esempio si rivolge a chi usa internet e cioè il 40% dei cittadini ma soprattutto i giovani che dai 14 ai 29 anni lo usano moltissimo. Ricordiamoci, e le metafore sono quello che conta per chi comunica, che internet è anche lo strumento contemporaneo delle rivoluzioni. Questa scelta poi gli consente di “rimbalzare” nella Tv, perché parlano di lui proprio perché egli si sottrae e crea suspence, audience. E quindi, rifiutando la Tv e i siparietti, vi irrompe più degli altri. Ciò lo fa risultare più simpatico al “popolo”, che per il 65% lo considera più efficace e coinvolgente come leader e come messaggio. Grillo ha conosciuto e lavorato con Coluche, e dal comico francese che per lottare contro il pensiero unico ipotizzò persino di candidarsi alle presidenziali, fu segnato. C’è molto del Coluche di allora in Grillo.

Nella società dello spettacolo in effetti i comici bravi sono avantaggiati…

Freccero: La comicità è una forma di verità. Una critica immediata, diretta, che non concede chance e può distruggere in poche battute avversari e partiti. Berlusconi e il suo editto bulgaro poi, l’hanno enormemente valorizzata.
Io dico che insieme ad una valutazione problematica, con tutte le criticità che vogliamo su ciò che Grillo ha messo in moto, non possiamo non vedere che lui è arrivato a colmare un vuoto, perché l’offerta politica italiana è terribilmente desolante. Non si può valutare Grillo senza rendersi conto cosa di cosa c’è attorno. Di come ad esempio nessuno risponda alla richiesta di un cambiare rotta rispetto alla degenerazione della politica dei professionisti, dei privilegi, della corruzione. Oppure di come Grillo rappresenti in qualche modo quella rottura con il sistema che ormai la maggioranza o tollera o subisce. O teme o odia. Ormai il discorso politico ha perso ogni passione nelle elezioni: si vota valutando chi è il meno peggio, ma dove sta il phatos, l’ideale, l’utopia, il combattimento? La politica somiglia sempre più a un’assemblea di condominio e ha sepolto ogni afrore rivoluzionario, in tutte le sue forme. Però quando giornali come il New York Timeshanno parlato di Grillo, l’hanno fatto in termini di novità. Non lo sottovalutate. Mi ripeto. Non è antipolitica, ma al limite, a-politica.

Un populismo digitale moralizzatore?

Freccero:La denuncia della corruzione non basta. Per invertire la congiuntura economica, la moralizzazione grillesca è insufficente. Ma coglie un aspetto fondamentale, che gli altri non osano affrontare per paura di essere “esclusi” dal loro giocattolino. La verità è che bisognerebbe prima o poi prendere sul serio l’idea che se identifichiamo la politica con la liberazione dell’individuo dalle limitazioni che gli impediscono di conseguire il massimo profitto individuale, non dobbiamo meravigliarci poi che chi ha raggiunto un minimo di potere lo utilizzi per i propri interessi. E’ un tema globale, legato all’ideologia neoliberista, e in Italia si è sovrapposto alla nostra “genetica” arte di arrangiarsi. Grillo non è articolato, né argomentativo. Non è un teorico, né un ideologo. Se deve sostenere una discussione approfondita, probabilmente perde. Ma e’ il nostro sismografo. Se si guardano attentamente le oscillazioni, siamo di fronte a un terremoto.(Beh, buona giornata).

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Marketing Pubblicità e mass media Società e costume

La Coop sei tu. Ma la copy chi è?

di AM

Qualche tempo dopo il lancio dello slogan “La Coop sei tu. Chi può darti di più!”, un cliente della Coop di Ravenna scrisse una lettera ad Andrea Necchi, l’account che all’epoca gestiva il budget Coop in Tbwa, per fare personalmente i complimenti all’autore, dato che lo riteneva “un’autentica cannonata”.

Questa richiesta fu subito girata a Maria Carla Elvetico, la copywriter che, nel 1982, creò quello che sarebbe diventato uno degli slogan più longevi della pubblicità italiana, lavorando alla campagna di rilancio del supermercato in coppia con l’art director Patrizia Bona. La Coop era la più grande organizzazione di consumatori in Italia, con oltre 1 milione di soci. Associarsi costava 10.000 lire e dava diritto alla remunerazione delle quote sociali, alle offerte speciali e agli sconti, segni della partecipazione attiva alla gestione della cooperativa. Da qui l’idea del payoff.

La sua forza risiede nella verità: la Coop è un’associazione dove chi vende e compra sono la stessa persona, e nella brevità della proposizione. Nelle quattro parole che lo formano, è inserito il nome del prodotto, che rimane così legato allo slogan in modo indissolubile. Nel 1985, il fortunato motto divenne ulteriormente popolare con gli spot di Peter Falk, un attore molto noto in Italia, che si proponeva come il tenente Colombo, detective e cliente “ingenuamente” curioso.

Nel 1992, Woody Allen accettò di girare quattro spot televisivi, ricevendo un compenso piuttosto elevato che scatenò qualche polemica proprio tra i consumatori che sentivano di appartenere alla Coop. Quest’autunno lo slogan compie trent’anni ed è da lungo tempo entrato a far parte dei modi di dire della lingua italiana, e delle frasi più citate nella storia della pubblicità.

Per fare qualche esempio: in occasione dello scandalo sui presunti finanziamenti illeciti a Botteghe Oscure da parte della Lega delle Cooperative, in seguito alle accuse lanciate da Craxi ad Occhetto, Giannelli esce sul Corriere con diverse vignette. In una, Di Pietro dice ad Occhetto: la Coop sei tu. Chi può dirmi di più? In un’altra, Fassino chiede a D’Alema: La coop sei tu? Nel 2000, Staino usa lo slogan per parlare della proposta di creare le cooperative di prostitute. La moglie di Bobo: “Le prostitute in cooperativa?”. E Bobo: “Addio allo slogan la Coop sei tu, spero.” Una nefasta previsione.

Nel 2008, il claim fu sostituito da un obamiano “Insieme si può”, tentativo presto abortito con il ritorno al vecchio inossidabile slogan, in una campagna ora affidata a Luciana Littizzetto. Sono molti i copywriter che se ne sono attribuiti la maternità o la paternità (almeno una decina, secondo Aldo Cernuto, direttore creativo di Cernuto, Pizzigoni & Partners che, nella sua carriera, di portfolio ne ha visti davvero tanti). Roberto Caselli, Mauro Costa, Pepe Sangalli sono alcuni dei creativi della Tbwa, allora colleghi di Maria Carla Elvetico, testimoni della nascita di uno degli slogan più riusciti, che ha accompagnato e promosso la crescita della più grande catena di distribuzione in Italia.

Peccato che nessun altro sapesse chi ne è l’autrice. Forse è giunto il momento di chiedere i diritti d’autore, per evitare anche l’appropriazione indebita delle idee. Firmato: Copywriter senza copyright (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura Guerra&Pace Società e costume Televisione

Degli Europei se parla troppo, de “Il mundial dimenticato” troppo poco.

Le possibilità negate della Storia e come il cinema le restituisce,
di RICCARDO TAVANI

Partiamo da un termine tecnico del glossario cinematografico: “mockumentary”. Cosa significa e cos’è un mockumentary? È la fusione di un verbo e di un sostantivo entrambi della lingua inglese: “to mock”, fare il verso, e “documentary”, documentario. In termini pratici, un film che sembra un documentario, perché ne “rifà il verso”, ne riprende il registro tecnico e stilistico, ricostruendo una vicenda verosimilmente reale, ma che in verità è una pura finzione cinematografica.

Il mockumentary si è affermato come un vero e proprio genere del cinema e della televisione, fin dal suo primo riuscito colpaccio nel 1965, quando con “The War Game”, Peter Watkins, simulando un più che realistico attacco atomico all’Inghilterra, si aggiudicò l’Oscar come migliore documentario. Famoso e più recente il tiro messo a segno anche da “The Blair Witch Project”, con cui un gruppo di ragazzi sbancarono i botteghini di mezzo mondo, simulando una situazione horror da loro direttamente vissuta e ripresa con videocamera in un bosco di notte.

Premessa necessaria, questa, per parlare di un altro geniale mockumentary di due scapestrati registi italiani, coprodotto dalla Rai e presentato a Venezia nel 2011. Si tratta de “Il mundial dimenticato”, dei toscanacci Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, in cui si ricostruiscono con il respiro e il puntiglio professionale di una appassionante inchiesta giornalistica le vicende di un Campionato Mondiale di Calcio disputato nel 1942 in Patagonia, Argentina, mentre l’Europa è già avvolta dalla follia della Seconda Guerra Mondiale.

Il racconto si mostra più avvincente hilary duff pokies di qualsiasi pellicola esplicitamente di finzione narrativa. Perché? Perché quello che viene messa in scena, nelle sembianze della realtà storica, è proprio una possibilità realistica della storia, non solo passata ma anche presente e futura. Che questa grande passione planetaria che è il gioco attorno a una sfera di cuoio possa essere usata contro il razzismo, la violenza, la follia guerrafondaia delle grandi potenze politiche ed economiche è qualcosa che può e, anzi, dovrebbe avvenire.

Appare così estremamente realistico che il film ci mostri un conte trasmigrato in Argentina da quella terra martoriata per secoli da guerre di ogni tipo che sono i Balcani, il quale concepisca e realizzi questo progetto visionario di una Coppa Rimet contro la voragine bellica e razzistica in cui l’Europa sta precipitando.

La situazione “precipizio” è una “possibilità” sempre incombente nella storia, e così anche la “possibilità” di un antidoto a esso deve essere realisticamente contemplata, come possibilità e atto concreto di salvezza messianica, secondo quanto scriveva il filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, prima di suicidarsi per sfuggire alla cattura dei nazisti.

L’amore per il calcio è in questo film una coniugazione particolare dell’amore in sé, della sua forza naturale che si oppone e tenta di arginare quella del male. Così alla vicenda calcistica si intreccia una straordinaria narrazione d’amore umano che è anche una storia d’amore per il cinema e per il suo compito artistico di dare visibilità e voce proprio a ciò a cui la Storia ha finora protervamente negato “possibilità”.

Locandina de “Il Mondial Dimenticato”.
(Beh, buna giornata).

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Attualità Cultura Politica Scuola Società e costume

Titoli di studio, titoli di pagamento, titoli dei giornali.

Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord.
Le lauree in canottiera, di Francesco Merlo-la Repubblica

Sono il rogo dei libri nelle valli dei dané. E certo si capisce che ora circolino le battute sulla Lega che «chiude per rutto». E si sprecano le volgarità su Rosy Mauro, la nera che «sta rovinando il capo», «la dottoressa ‘Mamma Ebe’» che ha laureato in Svizzera anche il suo giovane compagno, poliziotto ed artista che cantando «ci hanno ridotto a culi nudi» un po’ si presta alla ferocia della satira sboccata. Perciò Mamma Ebe promette di riempire l’Italia di sganassoni con le sue grandi mani di fatica, rosse e nodose, il cerchio all’anulare, mani laureate in Svizzera che è un dettaglio gradasso di Bossi, una pernacchia in più all’Italia dei saperi: «non solo regalo la laurea alla mia badante, ma la compro addirittura in Svizzera», insomma meglio di quella di Mario Monti, meglio di quella della Fornero.

Come si vede, dunque, la degradazione del titolo di studio in patacca da rigattiere nella zona più ricca d’Italia non è il dettaglio pittoresco di una ben più seria sconfitta politica. Al contrario, nel Trota che manda in pensione l’asino e, dopo tre bocciature, il partito gli compra l’agognato e immeritato diploma al mercato nero di chissà dove, c’è già la secessione in atto.

Sulle spalle di questo povero figlio, che dal 2010 frequenta a Londra una misteriosa università («in economia» disse a Vanity Fair) pagata dagli italiani sotto forma di rimborsi elettorali, non c’è solo l’ennesimo aggiornamento del ‘tengo famiglia’ e della logica del cognome che pure spiegano la sua carriera politica.

Ma c’è l’aggressione a quel primato dell’ingegno che ancora ci identifica in tutto il mondo, all’Italia che ora cammina sulle gambe di Riccardo Muti e di Renzo Piano, di Umberto Eco e di Carlo Rubbia, a quella che sarà pure diventata una retorica già gravemente minacciata di decadenza, ma che solo la faccia del trota economista a Londra riesce profondamente a umiliare.

Papà Bossi, che lo voleva come delfino ed erede politico, gli ha negato un’individualità, lo ha azzerato e senza offrirgli via di scampo lo ha modellato come pataccaro leghista, ancora più pataccaro e leghista di sé, ha marchiato la sua giovane coscienza con il dio Po e con tutte le altre corbellerie padane sino a fargli presentare, agli esami di maturità, delle tesi su quel Cattaneo che solo papà ha ridotto a piazzista politico e a imbroglione, ma che in realtà è un autore difficile anche per i professori. Il risultato ovvio non è solo la bocciatura, ma anche quella sua faccia apatica su cui si sarebbero esercitati Piero Camporesi e Arnold Gehelen, la faccia come modello d’inconsistenza che sognavano d’incontrare Walter Chiari, Cochi e Renato e i cabarettisti del Derby, la faccia su cui ora si sta crudelmente divertendo l’Italia.

Ebbene, quella faccia andrebbe presa drammaticamente sul serio perché esprime benissimo l’aggressione dell’incultura leghista all’identità nazionale, è la faccia-bandiera della competenza degradata ad incompetenza nella provincia nordista degli Aiazzone dove i libri sono da sempre arredamento.

Ecco perché il cerchio magico che si compra le lauree non è l’evoluzione nordista della vecchia e gloriosa truffa all’italiana. Qui non ci sono Totò e Peppino a Gemonio. E nella signora Bossi, premiata con una scuola privata, la Bosina, per la quale il marito chiede al partito un milione e mezzo di euro, non c’è solo il Pokies paese delle mogli, il trionfo della solita economia domestica che è l’unica scienza finanziaria nazionale, né c’è solo il tributo del celodurista spelacchiato all’Italia del matriarcato dove, nonostante la biologia, è sempre la moglie che ingravida il marito.

Certo, la signora Manuela, governando il marito ha governato l’intero governo italiano che della Lega è stato lungamente ostaggio, ma in quella scuola privata c’è qualcosa di più e di peggio, qualcosa forse di irreparabile nel mondo del mito sciaguratamente brianzolizzato del self made man che ora ricicla danaro illecito, nella fuga dalla condizione operaia verso quella dei piccoli padroni che evadono il fisco, nella corruzione politica da record che devasta la Lombardia… La scuola della Bossi è il dileggio finalmente realizzato della cultura che in quel mondo ha una sola funzione: essere dileggiata dall’asino, e dunque comprata ed esibita.

È la scuola in canottiera, l’antiscuola, non un nuovo modello Montessori ma il raglio al posto delle grammatiche.
Non sarà facile liberare dall’anticultura e svelenire quella parte dell’Italia del Nord che con Bossi ha ancora un rapporto di identità corporale, non sarà semplice restaurare nei villaggi della val Brembana l’anima italiana, l’identità nazionale fondata sulle eccellenze dei saperi coltivati e depositati. Non c’è infatti nessuna simpatia canagliesca, non c’è nessuna allegria manigolda nelle due lauree — due — che il tesoriere Francesco Belsito, ex autista ed ex venditore di focacce, ‘indossa’ sul corpaccione da buttafuori, il tesoriere più pazzo del mondo, il gorilla leghista dottore in Scienza della comunicazione (università di Malta, scrisse nel sito del governo quando era sottosegretario) e dottore in Scienze politiche a Londra, dove, non avendo valore legale, si vendono lauree ai cialtroni di tutto il mondo, italiani, libanesi, ucraini…

Attenzione, dunque: questo Bossi non è il terrone padano, il solito terrone capovolto. Qui c’è infatti l’attacco alla scuola che non ha solo alfabetizzato l’Italia ma l’ha unita nell’orgoglio rinascimentale, nell’amore per le eccellenze, da Dante sino a Rita Levi Montalcini. Bossi nella sua vita di pataccaro si è finto medico, ha festeggiato per tre volte la laurea mai conseguita e non dimenticheremo mai che la Gelmini, ministro della Pubblica istruzione, convocò il senato accademico dell’Università di Varese pretendendo di dare il tocco e la toga alla volgarità del linguaggio politico, di maritare il Sapere con l’indecenza grammaticale, di adottare l’insulto come forma di comunicazione colta: «Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il buon diritto di Umberto Bossi, che è parte della storia di questo Paese, a ricevere una laurea honoris causa».

Battistrada della via culturale alla secessione la Gelmini, appoggiata da un gruppetto di intellettuali disorientati e rampanti, diffondeva — ricordate? — tutta quella paccottiglia contro i professori meridionali, voleva gli esami in dialetto, fece guerra alla lingua del Manzoni in nome di una improbabile matematica, i numeri contro le lettere, roba che solo adesso, dinanzi al mercato della lauree, assume il suo vero volto di pernacchia.

Il cerchio magico acquista solo lauree vere, non cerca la falsa laurea dei vecchi magliari del sud che, sia pure delittuosamente, esprimevano rispetto e soggezione per i professori che imitavano. Non viola in segreto la legge, ma la raggira alla luce del sole: non il delitto che collide con la norma, ma la patacca che collude con la norma; non il delitto che è grandezza e castigo, ma il valore comprato ed esibito, che è scherno e disprezzo. È l’unico vero sputo con cui la Lega ha davvero sporcato l’Italia.(Beh, buona giornata).

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La rivolta degli Zero: i cittadini in croce contro discariche e inceneritori.

Dal 4 al 12 aprile 2012 un cittadino si metterà in croce davanti al Ministero dell’Ambiente.
Chiediamo al Ministro Clini, al governo e alle autorità competenti di attuare la strategia Rifiuti Zero per la gestione dei rifiuti di Roma: raccolta differenziata porta a porta spinta, riuso, riciclo, riduzione dei rifiuti.
Basta con la vecchia politica delle discariche e degli inceneritori. Basta inquinare il territorio e avvelenare i cittadini. Crediamo in un’Italia migliore, attenta all’ambiente e alla salute, finalmente cosciente delle sue ricchezze naturali, culturali 7drugs priligy, umane.

In concomitanza con l’iniziativa e sempre davanti al Ministero dell’Ambiente, un cittadino sarà in sciopero della fame per tutto l’arco della protesta. Ogni giorno invierà una lettera aperta diretta ai principali soggetti coinvolti nel problema dei rifiuti (l’iniziativa ‘TRE CAPPUCCINI E UNA LETTERA AL GIORNO’ potrà essere seguita sul sito www.larivoltadeglizero.it

Le iniziative sono promosse dal Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio.
Informazioni su www.coordinamentorifiutizeroperillazio.it

Coordinamento Rifiuti Zero per il Lazio
inforzlazio@gmail.com
www.coordinamentorifiutizeroperillazio.it

La rivolta degli Zero.

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Pirella c’

Emanuele Pirella, 1940-2010.
Per Emanuele Pirella, la pubblicità doveva essere tangibile, criticabile, condivisibile. E un prodotto andava scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.

Questa impostazione culturale e professionale è stata una cifra precisa, riconoscibile, direi una costante del segno che Emanuele Pirella ci ha lasciato, quando ci ha lasciato due anni fa.

E fa per niente impressione che le sue parole trovino piena cittadinanza nell’attualità: l’impoverimento culturale delle agenzie di pubblicità italiana ha toccato i minimi storici, ormai completamente fuori combattimento dal dibattito, non dico culturale, ma neppure sulla società o il costume.

E allora, alla maniera del meccanismo del rovesciamento, tanto caro alla buona pubblicità, non è stato Pirella a mancare due ani fa alla pubblicità italiana, ma l’esatto contrario: in effetti, la pubblicità italiana non c’è più, mentre VolumePills Emanuele Pirella è molto presente nella formazione culturale, nella mentalità aperta, nello stile di lavoro di chi considera il linguaggio creativo un modo stimolante per veicolare pensieri, produrre concetti, creare occasioni ghiotte di comunicazione, capaci di svicolare, surfare, sgambettare, arrampicarsi, volteggiare, scantonare in ogni media: cose che rimangano nella mente dei lettori, perché argute, intelligenti, intriganti, che esse siano lette su un autorevole quotidiano o su un sms; dette dallo speaker di uno spot o colte al volo su un twitter.

L’unica chance che la pubblicità italiana ha per tornare a essere un luogo sano sta nel sottrarsi alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla nostra epoca. Consapevoli di correre il rischio dell’innovazione, questo è l’impellente compito dei creativi pubblicitari italiani. Con Emanuele nel cuore. Beh, buona giornata.

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3DNews torna in edicola con Terra.

Il naufragio del Concordia a fumetti.
Con un supplemento di 16 pagine, 3D disegna la “cronaca a fumetti” del naufragio del Giglio

Il giornale ecologista Terra torna in edicola in tutta Italia, e si fa mensile; da venerdì 9 marzo, nelle principali edicole in Italia, con 68 pagine, carta ecologica, al prezzo di 4 euro.

Insieme a TERRA torna anche l’inserto 3D, diretto da Giulio Gargia . Questo mese, la cronaca a fumetti, consolidata formula del supplemento, ci racconterà aspetti inediti del naufragio del Giglio.

Curata dalla Scuola Italiana di Comix, la storia del Concordia diventa un fumetto, che si occupa dei tanti “ eroi “ meno conosciuti che hanno fatto il loro dovere fino in fondo e così hanno permesso di limitare il bilancio delle vittime.

Altri contenuti : un intervento di Umberto Eco su memoria e dimenticanza, un reportage sul fallimento di Audiradio, una recensione “ filosofica” di “ In Time” di Zap Mangusta, e un intervento su cinema e filosofia del professor Giuseppe Di Giacomo.

Il fumetto di questo mese è stato realizzato dalla Scuola Italiana del Fumetto di Napoli e nasce dall’enorme interesse che la vicenda del Concordia ha generato in tutto il mondo vigrx reviews, diventando una metafora – nel bene e nel male – dell’attuale situazione dell’Italia.

“ Schettino e De Falco, nella percezione dei media di tutto il mondo, sono diventati personaggi simbolo, archetipi dell’eroe e dell’antieroe, sintesi di quanto di peggio e di meglio ci sia in Italia. – dicono Giulio Gargia e Mario Punzo, promotori dell’iniziativa – Perciò abbiamo proposto a un serie di siti di fumetto anglosassoni di realizzare il racconto in inglese della vicenda, per entrare nel circuito mediatico internazionale con un linguaggio universale che raccontasse anche i tanti “ eroi “ meno conosciuti che hanno fatto il loro dovere fino in fondo e così hanno permesso di limitare il bilancio delle vittime.

Questo anche perchè il fumetto permette un racconto più completo, meno soggetto alle semplificazioni che la cronaca del giorno per giorno quasi sempre comporta. Le tavole che pubblichiamo sono la traduzione in italiano di questa nostra iniziativa ”

Realizzata in 2 puntate, con l’ideazione e soggetto di Giulio Gargia, lo script di Michele Assante del Leccese, e i disegni di Ferdinando Silvestri, la storia del Concordia a fumetti è in predicato di essere pubblicata in diversi siti esteri, grazie all’enorme interesse che la vicenda ha suscitato in tutto il mondo.

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business Marketing Media e tecnologia Società e costume Televisione web

Oggi c’

Chi ha vinto la serata Auditel di ieri sera, sabato 3 marzo ? La risposta è : chissenefrega. Così, in pratica, si traduce lo sciopero Auditel proclamato per oggi, 4 marzo, da diverse realtà che in genere si occupano di analisi degli ascolti.

A fine giornata, si tireranno le somme di un’iniziativa che sottolinea il rapporto dialettico tra web e tv. Si chiama WIGD, la tv che vorrei, ed è promossa da una serie di blog e di siti che in genere si occupano di ascolti tv. Blog e siti che abitualmente informano i propri lettori su tutto quel che accade in tv, e quindi anche sui dati d’ascolto, dopo una settimana dedicata alla qualità in tv, oggi hanno sospeso la pubblicazione dei numeri per un giorno, oscurando i dati. Tra i promotori : TvBlog , Televisionando e CineTV.

Perché? L’iniziativa è simbolica e provocatoria e arriverà al termine di una settimana in cui la piattaforma di WIDG si è occupata di qualità in televisione. L’Auditel scatena il tifo e fa perdere di vista il senso più profondo della qualità in televisione. Tutto semenax hoax è sottomesso alla logica degli ascolti.
Qual è lo scopo? Uscire dalla schiavitù degli ascolti, dalle diatribe, dalle lotte che rendono l’Auditel l’unico parametro per valutare la tv italiana. Pensiamo che si possa vivere anche senza percentuali di share e valori assoluti: l’Auditel è una convenzione, una misurazione che ha assunto un valore che non dovrebbe avere. E’ diventato l’unico parametro di riferimento per chi fa tv. E decreta, senza motivo, anche i successi qualitativi“, recita il manifesto di presentazione.

Se anche voi pensate “che si possa vivere anche senza percentuali di share e valori assoluti“, aderite all’iniziativa, dicendo la vostra, nei commenti o sulla pagina Facebook, o su Twitter, usando l’hashtag #WIDG.
Vedremo quali saranno i risultati di questa azione che ha certamente un grande valore dimostrativo, e che ha il merito di mantenere alta l’attenzione sui meccanismi nefasti dell’auditelismo. Certamente, ormai la coscienza che in tv c’è bisogno di nuovi parametri si sta ampliando. Il prossimo passo dovrà essere necessariamente quello di proporre un nuovo meccanismo che si contrapponga all’Auditel. Per mezzi e per filosofia.

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Attualità Fumetti. Media e tecnologia Società e costume

La sciagura della Concordia a fumetti.

La storia del Concordia diventa un fumetto. Con testi in inglese, per un pubblico anglosassone, in attesa di essere pubblicato nei prossimi giorni sui siti http://www.newsarama.com, http://www.comicbookresources.com, http://www.millardword.com, http://www.comicon.com/pulse la storia sarà anticipata dal lancio in Facebook sulle pagine di autori di comics come C.B.Cebulski.

Il lavoro è stato realizzato dalla Scuola Italiana del Fumetto di Napoli e nasce dall’enorme interesse che la vicenda del Concordia ha generato in tutto il mondo, diventando una metafora – nel bene e nel male – dell’attuale situazione dell’Italia.

“ Schettino e De Falco, nella percezione dei media di tutto il mondo, sono diventati personaggi simbolo, archetipi dell’eroe e dell’antieroe, sintesi di quanto di peggio e di meglio ci sia in Italia. – dicono Giulio Gargia e Mario Punzo, promotori dell’iniziativa – Perciò abbiamo proposto a un serie di siti di fumetto anglosassoni di realizzare il racconto in inglese della vicenda, per entrare nel Pokies circuito mediatico internazionale con un linguaggio universale che raccontasse anche i tanti “ eroi “ meno conosciuti che hanno fatto il loro dovere fino in fondo e così hanno permesso di limitare il bilancio delle vittime. Il fumetto permette un racconto più completo, meno soggetto alle semplificazioni che la cronaca del giorno per giorno quasi sempre comporta.”

Realizzata in 2 puntate, con l’ideazione e soggetto di Giulio Gargia, lo script di Michele Assante del Leccese, e i disegni di Ferdinando Silvestri, la storia del Concordia a fumetti sarà successivamente pubblicata in italiano su 3D, il settimanale di cronaca a fumetti, sul sito www.3dnews.it e poi arricchita di nuovi episodi per la pubblicazione cartacea prevista a marzo come inserto di TERRA.

Website : http://www.3dnews.it
disegni: Ferdinando Silvestri
Colori: Marco Matrone
Sceneggiatura: Michele Assante del Leccese
Coordinamento per Scuola Italiana di Comix: Mario Punzo
Art director: Pasquale Pako Massimo

(Beh, buona giornata).

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3DNews/Lusi e Margherita: una nuova versione della famosa canzone di Cocciante.

“ Margherita”, scoperta una versione hard. Cocciante fa causa a Lusi
di Velociraptor

Dopo la guerra delle battute rubate tra Crozza e il web, arriva la battaglia delle canzoni sul caso Lusi. Ci si divide tra chi aveva intuito tutto da anni leggendo i testi di “ Lucy in the sky with diamonds “ e chi invece sostiene che Parisi aveva denunciato tutto in anticipo perchè da sempre è stato un appassionato di Cocciante. Gli ultimi ritrovamenti dei magistrati, ovvero una sceneggiatura inedita della videoclip di “Margherita”, ritrovata nascosta in un ripostiglio dell’ultima villa comprata da Lusi, sembrano avvalorare la seconda tesi. Ecco infatti lo script originale con i suggerimenti delle inquadrature per il video, per il quale Cocciante ha già diffidato Lusi. Senza sapere che è già pronta per un’edizione della sora Cesira :

“ Margherita” di Cocciante- Lusi- Fioroni

Io non posso stare fermo
con le mani nelle mani,
tante cose devo fare
prima che venga domani…

vediamo firme in veloce successione su assegni bancari

E se Rutelli sta dormendo
io non posso riposare,
farò in modo che al risveglio
non mi possa più scordare.

Lusi al computer di notte che scorre indici di Borsa

Perché questa brutta Borsa
non sia nera più del nero,
comprerò una bella casa
e risparmierò sul serio

vediamo una delle case di Lusi dall’esterno

E perché l’orrido spead
possa non tornare no fax payday loans canada ancora,
spendo soldi domattina
come non ho fatto ancora…

vediamo macchine contasoldi in azione frenetica

E per poi farli incantare
senza avermi mai sgamato
io mi muoverò in silenzio
che nessuno ha mai sentito…

vediamo Rutelli, Marini e Franceschini che parlano con Lusi

Sveglierò tutti gli agenti
e promotori finanziari
investiamo ancor più soldi
perché lei vuole un villone.

Scorrono immagini della moglie di Lusi in Agenzie immobiliari

Poi corriamo per le strade
e mettiamoci a cercare,
perché qui non serve gloria,
ma bensì un restauratore,
poi con secchi di vernice
ripittiamo tutti i muri,
case, vicoli e palazzi,
perché salgon di valore

in successione, cartelli di vendesi di case

raccogliamo tutti i soldi
che può darci questa sigla,
costruiamoci una villa,
per tornarci quando è sera.

Immagini di manifesti in campagna elettorale

Poi saliamo in direzione
e contiamole una balla,
perché Margherita è buona,
perché Margherita è bella,
perché Margherita è dolce,
perché Margherita è scema,
perché Margherita paga,
e lo fa una vita intera.

Vediamo Parisi arrabbiato che lascia un riunione

Perché Margherita è un sogno,
perché Margherita è soldi,
perché Margherita è un conto
che non può mai andare male,
perché Margherita è tutto,
ed è lei la mia pazzia.
Margherita, Margherita,
Margherita adesso è mia,
Margherita è mia…

Lusi porta un mazzo di margherite al manifesto della Margherita.

Soldi che vanno, soldi che vengono.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Politica Potere Società e costume

3DNews/IL SENSO DI GIANNI PER LA NEVE.

di Giulio Gargia
Vogliamo le dimissioni di Alemanno. Non da sindaco, da alpinista. Uno che si è fatto riprendere in montagna in tutte le salse, in teoria dovrebbe avere una qualche dimestichezza con la neve. E dovrebbe sapere che 35 mm di pioggia si trasformano in centimetri, se nevica, come molti prevedevano. Uno che non si vorrebbe mai avere come compagno di cordata, visto come si comporta davanti a una tempesta imprevista.

Riepiloghiamo le azioni del degli ultimi giorni del sindaco alpinista, per dirla alla Silvio .
Innanzitutto, con una decisione degna della Sibilla romana, sospende le lezioni ma lascia aperte le scuole. Poi rifiuta l’aiuto della Protezione Civile, salvo richiederlo quando è troppo tardi. Ancora, in ordine di apparizione mediatica : chiama l’Esercito, chiude gli uffici pubblici, allerta i volontari, obbliga gli automobilisti a circolare in catene, fa spargere il sale quando piove ( così che non ne rimane per quando nevica ) richiude le scuole ( stavolta per intero ), chiede ai romani di rimanere a casa, e poi gli chiede di uscire di casa a spalare i marciapiedi. Si lamenta che Roma sia stata lasciata sola e poi dice che se l’è cavata bene da sola . Ma se la prende con Gabrielli e vuole la commissione d’inchiesta .

Per non sbagliare, domenica gira per le strade scortato dai vigili con un paio di mezzi del Comune, mettendo in piedi la grottesca sceneggiata del sindaco- spalatore. Si fa riprendere mentre si dà da fare sui marciapiedi di piazzale Clodio, S. Giovanni e Re di Roma, dove incontra cittadini plaudenti che lo ringraziano.

Una Viagra Online cosa a metà tra a “ battaglia del grano” del Duce a torso nudo che miete nei campi e il Berlusconi con casco giallo da operaio all’apice della forma. Pubblicato sul blog ufficiale del sindaco, il video di Alemanno spalatore è già oggetto di una serie di esilaranti risposte alla You Tube alla retorica finto moderna dell’alpinista de noantri. Si rivede un video del 2010, costruito come un cinegiornale dell’Istituto Luce di fascista memoria, è diventato un piccolo cult, postato sulle bacheche di Facebook e sui siti amici . “Alemanno regala la neve a Roma” è il titolo del video, girato in bianco e nero, sulla nevicata del 12 febbraio 2010: occasione che offre al giovane autore, Dario Comel, lo spunto per fare ironia sul “podestà Alemanno”, con l’inno ufficiale del Ventennio “Giovinezza” di sottofondo.

Appena sfornato, invece è “ALEMANNIUM – uomini che odiano la neve”. Un breve montaggio delle dichiarazioni del sindaco alternate alle immagini di Roma di questi giorni è sufficiente a inchiodare il sedicente amante della montagna al senso del ridicolo. E non c’è nemmeno bisogno di montaggio quando il nostro fa il suo accorato appello a Sky : “ E ora tutti con le pale in mano “. Risposta dal web : “ Un sindaco che ci fa girare le pale” . Oppure quando attacca e dice : “ Chi è il responsabile di questo disastro ? “. Ovvero la stessa domanda che la CONSOB si fece dopo il crack Parmalat, il Sant’Uffizio dopo lo scandalo dei preti pedofili e Ranieri dopo la partita di ieri con la Roma. L’unico posto, lo stadio, dove tutto ha funzionato benissimo. (Beh, buona giornata).

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Cinema Fumetti. Società e costume Televisione

3DNews/I Simpson ospitano Julian Assange.

Da http://insidetv.ew.com

Julian Assange interpreterà sé stesso nella 500esima puntata dei Simpson. Lo ha rivelato il sito di Entertainment Weekly, secondo cui quest`estate il fondatore e redattore di Wikileaks avrebbe registrato la sua voce per l`iconica puntata che andrà in onda, negli Stati Uniti, il prossimo 19 febbraio.

Il produttore esecutivo, Al Jean, ha detto che il creatore della serie, Matt Groening, aveva sentito dei “rumors” secondo cui il creatore di Wikileaks era interessato a una comparsata. «Quindi – ha spiegato Jean – abbiamo chiesto al direttore del casting Bonnie Pietila, che in passato, oltre ad aver coinvolto l`ex primo ministro inglese Tony Blair, era stato capace di scovare l`altrettanto sfuggente scrittore Thomas Pynchon, di trovare Assange. E lo ha fatto».

Assange ha registrato la propria voce in un luogo sconosciuto ai produttori dei Simpson, mentre era agli arresti domiciliari in Inghilterra, ricevendo istruzioni da Los Angeles. Jean ha spiegato che gli era stato fornito «solo un numero di telefono». Nell`episodio, Homer e Marge scoprono che i cittadini di Springfield hanno organizzato un consiglio cittadino segreto per scacciarli dalla città.
«I Simpson si danno pertanto alla macchia – ha spiegato Jean – e come nuovo vicino, al posto di Flanders, si ritrovano Assange che li invita in casa sua a guardare un film, un matrimonio afgano che viene bombardato».

«È un personaggio controverso. C`è una ragione per cui è controverso – ha detto Jean – c`è stata una discussione interna per decidere se ospitarlo allo show, ma alla fine abbiamo deciso di fare la puntata». In fin dei conti, ha assicurato il produttore, la puntata «non ha nulla a che fare con la situazione legale in cui si trova Assange. volevamo accertarci che la sua apparizione fosse satirica, e lui era d`accordo».

Per il biondo “pirata” australiano è un periodo di intensa attività nel mondo dello spettacolo. A marzo, infatti sarà anche conduttore di un nuovo show (in inglese) che verrà. In ogni caso ‘interpretazione più importante è quella prevista per domani, quando comparirà davanti alla Corte Suprema britannica per l’udienza di appello contro la sua estradizione in Svezia, dove è stato accusato di aver commesso crimini sessuali.
Assange non è il solo ospite illustre del 500esimo episodio , c’è un coppia di altri camei di personaggi che sono meno controversi e più familiari ai fans dello show come Kiefer Sutherland, Micheal Cera, Jane Lynch, Andy Garcia, e Jeremy Irons. (Beh, buona giornata.)

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