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Per un 25 Aprile senza retorica.

È una festa nazionale, il 25 Aprile celebra la Liberazione dell’occupazione nazista, la sconfitta del governo fantoccio di Salò, la fine della Seconda Guerra mondiale in Italia. Ci sono, dunque, tre validi motivi per aderire ai festaggiamenti. Tuttavia, la retorica è fuori luogo: agli attacchi contro la memoria storica non bisognerebbe mai rispondere con la nostalglia dei tempi che furono. 

Sono nato dieci anno dopo la seconda guerra mondiale e ho conosciuto molti ex partigiani, tra i quali mio padre. Avevano la riservatezza e la dignità umana e politica di chi sentiva di aver fatto la cosa giusta, dalla parte giusta. Ma non si sentivano nel passato, guardavano, parlavano, credevano in un mondo migliore. Come se la guerra partigiana fosse stato un montento, importante, pericoloso, decisisivo di un percorso ancora lungo da compiere: dalla Liberazione del territorio nazionale, alla liberazione dalle ingiustizie sociali, dallo sfruttamento, dalla sudditanza di larga parte della popolazione dalla schiavitù prodotta da un sistema economico che distribuisce in modo diseguale la ricchezza, che discrimina le persone, che ostacola, quando addirittura non nega apertamente, i diritti.

Questi uomini e donne, posate le armi con cui sconfissero il nazifascismo, si rimboccarono le maniche per ricostruire un paese devastato non solo dalle bombe, dalle carestie, dalle angherie e le stragi degli occupanti e dei loro collaborazionisti italiani, ma per rimettere insieme pezzi di un senso dell’esistenza, di un preciso punto di vista etico, morale, civile. Hanno sconfitto il fascimo prima, hanno fatto un Italia migliore poi.

La ricostruzione non fu solo di case e strade e fabbriche, ma anche dei sentimenti, della cultura, della vita di tutti giorni. 

Tra la ricostruzione di corretti rapporti umani e sociali, vorrei ricordare importanti passi verso il superamento delle differenze di genere. I combattenti antifascisti in Italia furono 300 mila. 54 mila furono uccisi: 17 mila erano militari, 37 mila civili, il 70 per cento dei quali militanti comunisti.

Le donne combattenti furono 35 mila, 70 mila delle quali appartenenti ai Gruppi di difesa delle donne, GDD. La prima donna presidente della Camera dei Deputati, l’on. Nilde Iotti, aveva fatto parte dei GDD.

Durante quei lunghi venti mesi, che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, furono arrestate e torturate 4.653 donne; 2.750 furono deportate in Germania; 2.812 furono fucilare o impiccate; 1.070 caddero in combattimento.

Dopo il 25 aprile del 1945, 19 donne furono decorate con con la medaglia d’oro al valor militare; mentre 21 furono le donne che parteciparono all’Assemblea Costituiente. Quando si parla di “padri costituenti”, non dimentichiamoci le “madri costituenti”. Se lo sono conquistato.

Le donne votaroro in Italia per la prima volta nel 1946, in occasione del Referendum col quale il paese scelse di diventare una Repubblica, che poi la Costituente descrisse come democratica e fondata sul lavoro, come recita, appunto, l’art.1.

La Resistenza, dunque, ha scritto pagine indimenticabili per la nostra vita collettiva, ha prefigurato una nuova visione del mondo, ha tracciato un discrimine invalicabile tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non si tratta di memoria, ma della Storia, con la consapevolezza della quale dobbiamo guardare all’oggi, e saperci orientare tra le contraddizioni, le difficoltà, e sapere immaginare e poi mettere in pratica nuovi strumenti per capire la realtà. Per cambiarla, come riuscirono a cambiarla i partigiani.

La Resistenza fu il momento delle scelte decisive, sia individuali che collettive. Concentriamoci sulle scelte fatte e quelle da fare. Non c’è tempo per la retorica che celebra il passato. Perché qui ci vuole un nuovo 25 Aprile.

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La sconfitta della sinistra-governo.

Con la sconfitta della sinistra di governo si chiude un ciclo storico.

Quando nacque la Lega Nord, che nonostante abbia recentemente cassato il riferimento geografico per prestidigitazioni elettoralistiche è pur sempre il più “settentrionale”partito rappresentato in Parlamento, la politica italiana e di conseguenza i media ebbero un atteggiamento di scherno e repulsa.

La qual cosa determinò due fenomeni: favorì il suo radicamento tra i ceti popolari, a cominciare dalla classe operaia del triangolo di industriale; spinse la Lega nelle braccia della destra ciarlatana di Berlusconi, “sceso in campo” per salvare il suo perimetro di business della tv commerciale. Che poi divenne un partito, Forza Italia, che riuscì a governare, aggregando pezzi della vecchia Dc, qualche ex socialista, i radicali di Pannella e sdoganando la destra fascista, guidata da Fini.

La sinistra, comunista e socialista di allora commise l’errore storico di non raccogliere le istanze sociali dell’elettorato leghista, non capendo che il secessionismo fiscale era una semplice forma di protesta, non la sostanza delle aspirazioni della base leghista, che invece intuiva il pericolo che il progressivo crollo dei pilastri del welfare avrebbe impoverito la capacità di difendere il reddito.

Quel pericolo divenne via via certezza. Il crollo del CAF (I’accordo Craxi-Andreotti-Forlani), che fu il periodo di più alto accumulo di deficit pubblico, fu poi spazzato via da “Tangentopoli” favorì la nascita del berlusconismo. I cui governi favorirono le classi medio alte, oltre che i suoi interessi aziendali. Le tasse non scesero, i salari non aumentarono, il welfare continuò la sua lenta e inesorabile logoramento.

All’errore storico di sottovalutare le spinte centrifughe dalla coesione sociale prodotte dalla Lega di Bossi, si aggiunse la scelta letale di abbandonare l’idea del partito di lotta per imboccare la via a senso unico del partito di governo. Infatti per due volte Prodi tentò di sistemare i conti pubblici, non senza assegnare “sacrifici” al lavoro e allo stato sociale. Ogni volta che avrebbe voluto dare vita alla “fase 2”, cioè una qualche redistribuzione della ricchezza, fatalmente cadde. Per via del “fuoco amico” della sinistra alleata al centrosinistra.

Col Pd, il centrosinistra va al governo dopo il disastro dell’ultima compagine berlusconiana. Ma continua a essere forza di governo e non più protagonista e interlocutore del profondo disagio, dell’impoverimento, dell’insicurezza sociale: è nella miscela esplosiva, composta da meno stato sociale e meno reddito, che vien fuori, in tutta la sua pirotecnica forza distruttiva, il movimento di Grillo.

E di nuovo l’errore storico si riaffaccia nella linea politica del Pd: sottovalutazione delle radici sociali del M5s, denigrazione, mancanza di una vera e propria strategia per gestire le contraddizioni che le politiche neoliberiste hanno prodotto nel tessuto sociale, fina a strapparne a brandelli la stessa idea di democrazia.

Gli errori storici del Pd vengono da lontano, ma, al contrario di quello che sosteneva Togliatti, non vanno lontano. Si sono fermati domenica 4 marzo.

La debacle elettorale marca a fondo la sconfitta dell’idea della “sinistra di governo”.

Dalla teoria del “compromesso storico” che diede vita al “governo di unità nazionale” propugnato da Moro e Berlinguer,ma guidata da Andreotti, fino all’esperienza dell’Ulivo di Prodi, per arrivare al Pd di Renzi, la lunga marcia di avvicinamento al potere ha lasciato dietro di sé, sempre più distanti, milioni di italiani che riponevano nelle idee incarnate dalla Sinistra la speranza, ma anche la convinzione di una sempre realizzabile uguaglianza sociale.

È successo l’esatto contrario: proprio negli anni del cosiddetto “renzismo”, la fotografia mostra ricchi più ricchi e poveri più poveri. I famosi “80 euro” sono stati la paghetta che ha confermato in pieno la sensazione in molti della propria condizione miserevole.

D’altro canto, il declino della sinistra di governo ha travolto come una valanga anche le esperienze della sinistra meno istituzionale – detta “radicale” con un ossimoro inventato da Bertinotti – fino alla sinistra antagonista, come si definisce l’arcipelago dei sindacati di base, dei centri sociali, delle associazioni che si occupano del sociale.

Il definitivo sganciamento dalla complessità sociale della sinistra di governo ha fatto insorgere un sentimento minoritario tra i giovani, i lavoratori più coscienti, i militanti della vertenza sul diritto all’abitare. In un primo momento si è anche creduto possibile un dialogo tra la sinistra antagonista e parte del M5s. Ma poi le strade si sono biforcate.

Oggi la situazione è che le spinte sociale della Lega sono andate spedite a destra. Quelle del M5s al centro, pur con un linguaggio estremista, che via via tenderà a stemperarsi.

Con la sconfitta della sinistra di governo, si chiude un ciclo.

La Sinistra, in tutte le sue espressioni politiche, culturali e sociali è in crisi. Il neoliberismo, forma della propaganda economico-politica del Capitalismo, è riuscito nell’intento di capovolgere il paradigma della lotta di classe, conquistando un vantaggio competitivo sugli stessi sentimenti dei ceti sociali più numerosi e a basso reddito. Non è successo solo in Italia.

Il problema è che in gioco non c’è la tattica migliore per andare al governo, al Parlamento, o nei consigli regionali o comunali. Né è in gioco cosa fare per conquistare spazi di rappresentanza nelle istituzioni.

L’odierno “Che fare?” riguarda quale risposta dare alla domanda di giustizia sociale. Cioè quale capacità critica del sistema capitalistico sia possibile sviluppare, in teoria e in pratica.

C’è un unico modo concreto per capirlo, teorizzarlo e metterlo in pratica: stare all’opposizione è il laboratorio di una nuova visione. E questo vale per la sinistra tutta.

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Una donna minuta, un impegno maiuscolo.

Luigina Di Liegro è una persona minuta, con un bel sorriso e un paio di occhi penetranti. Tuttavia, è capace di sprigionare un’energia e una vitalità davvero invidiabili.
La incontro nel suo ufficio di Roma, presso la Fondazione Luigi Di Liegro, in via Ostiense. Per accedervi bisogna attraversare il cortile della mitica Centrale Montemartini che fu, agli inizi del Novecento, la prima centrale termoelettrica di Roma e oggi è invece un importante museo in cui statue e mosaici di età romana sono esposte nel suggestivo scenario dell’archeologia industriale di questo strabiliante luogo della Capitale.

Conosco Luigina da molti anni. È nipote di don Luigi, fondatore e animatore della Caritas diocesana di Roma, ammirato e stimato oltre gli ambiti del suo impegno religioso. Luigina, che ha dato origine alla Fondazione intestata a don Luigi, si è più volte impegnata in politica.

“Sono l’unica donna candidata nel mio collegio tra i principali schieramenti”, mi dice subito, con quel delizioso e inconfondibile accento italo-americano, che fece dire una volta a Veltroni, durante un’assemblea pubblica al teatro Valle: “Vi presento una candidata che parla come Stanlio e Ollio”. “Le donne che mi voteranno festeggeranno la giornata della donna il 4 marzo”.

D.: Luigina, la politica di questi tempi fa fatica a mostrare i suoi lati positivi. Volano parole grosse, polemiche spesso perniciose, si esagerano dettagli risibili, si sottovalutano cose semplici, ma importanti: per esempio la vita, il lavoro, la salute dei cittadini. Perché hai deciso di accettare una candidatura alle prossime elezioni politiche?

R.: Non c’è dubbio vi sia una brutta sintassi nel discorso politico odierno. Si fatica a sostenere anche un contradittorio, perché subito il livello si ferma ad affermazioni apodittiche, per non dire smaccatamente propagandistiche. Succede tutti i giorni da qualche anno, ma il livello trascende proprio durante le campagne elettorali. È un’abitudine pericolosa, perché influisce sulla capacità di scelta dei progetti politici su cui i cittadini sono chiamati a esprimersi col voto. Ma non si possono abbandonare le persone in balìa di questi momenti confusi.

D.: È come se tu stessi parlando di disagio.

R.: Diciamo che sono abituata a non tirarmi indietro di fronte alle difficoltà delle persone. Io credo che non sia facile essere un elettore. Da un lato grava su di lui il peso di scelte importanti, che riguardano non solo la sua vita, ma quella dei suoi cari, del suo ambiente, del suo futuro. Abbiamo passato anni molto duri, sotto la peggiore crisi economica, forse ancora più tremenda di quella che precedette la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. La crisi del 2008 ha inciso sulla carne e sulla mente delle persone. Un trauma terribile: assistere al proprio impoverimento, non sapere cosa fare col mutuo, veder infrangersi le aspirazioni per un miglior benessere dei figli, veder vacillare il proprio futuro lavorativo e quindi la stessa dignità del proprio ruolo nella società.

D.: Pensi sia questa la causa scatenante del populismo?

R.: Sai, “populismo” è una definizione corretta, ma rischia di diventare un vocabolo del dizionario del politichese. Più semplicemente, direi che la portata della crisi economica globale ha scatenato reazioni tanto comprensibili quanto micidiali: rabbia, rancore, invidia, vendetta. Questi sentimenti, diffusi presso larghi strati di popolazione, che si è sentita abbandonata a sé stessa, hanno gonfiato le vele di idee orribili come le nostalgie delle dittature del passato, ma anche illusioni non fondate sulla realtà dei fatti concreti.

D.: Per esempio?

R.: Un diffuso sentimento xenofobo e addirittura razzista. Eppoi, il ritorno a un’idea di nazionalismo, oggi marcata dal neologismo “sovranismo”, quella tendenza che si esprime con l’idea di “prima gli italiani”. Il nazionalismo ha provocato la terribile sciagura europea della Prima Guerra Mondiale. Quanto all’idea di una stirpe più importante, quella “italica”, essa è stata alla base della tragedia storica della Seconda Guerra Mondiale, della quale l’Italia fu tra i fautori. La propaganda è pericolosa: inventa truci figure retoriche, dall’Irredentismo al Fascismo bastarono pochi anni. Pensare oggi che si possa andare “a battere i pugni sul tavolo” delle istituzioni internazionali per favorire “gli interessi nazionali” è comico, direi grottesco. Ci vogliono idee, forti e condivise per cambiare le cose. Altro che facili slogan propagandistici.

D.: Sembra stia tornando il leitmotiv “meno tasse”.

R.: Il dissesto dei conti pubblici italiani è noto. C’è un macigno fiscale che pesa sulle spalle di tutti. Siamo il paese dell’illegalità, della corruzione e dell’evasione fiscale. Ma quello che mi preoccupa è che immaginare di pagare di meno non tiene conto dell’impoverimento delle risorse pubbliche per il welfare. Una delle ragioni del disagio, sfociato in vero e proprio malessere privato e collettivo sta nella tenaglia che ha stretto le persone: mentre guadagnavano di meno, aumentavano le spese per i servizi sanitari, i costi per l’istruzione, i biglietti dei trasporti, mentre si sono dilatati i tempi per godere della previdenza sociale. Stiamo parlando dei pilastri dello stato sociale. Pagare meno tasse e pagare di più i costi sociali significa dare con una mano e togliere con l’altra. In realtà, favorirebbe solo i ceti sociali forti. Che sono proprio quelli che hanno pagato meno la crisi e in qualche clamoroso caso se ne sono avvantaggiati. La tassazione progressiva è il metodo democraticamente corretto, bisogna calibrarlo in modo flessibile alla ripresa economica.

D.: Un’altra parola chiave è stata “onestà”.

R.: Fammi dire una cosa chiara: questo è un artificio retorico, piuttosto stucchevole. Mio zio, don Luigi, era una persona onesta, infatti non aveva tempo di andare in giro a dire “io sono onesto”. Come tutte le persone oneste, del resto. E in Italia sono molte più di quanto certa propaganda non voglia farci credere. La corruzione è una conseguenza del modo sbagliato di governare i processi di crescita e di sviluppo. Non il contrario. C’è un modo un poco spaccone di vedere le cose: “adesso vado lì e glielo faccio vedere io”. Non funziona così. È vero che ci sono modi sbagliati di affrontare i problemi. Ma spesso sono proprio le soluzioni che non corrispondono più ai risultati che si speravano.

D.: Stai dicendo che mancano idee?

R.: Sto dicendo che le ricette non guariscono il malato. Sono le cure che combattono la malattia. Fare politica significa prendersi cura delle persone. Sono tempi in cui vecchie e non risolte contraddizioni hanno la capacità di presentarsi sotto nuove e inedite forme. Come certe infezioni non più aggredibili cogli antibiotici. E vecchie formule non sono efficaci. E allora bisogna stare lì e non demordere, stare vicino alle persone, perché la loro voglia di stare meglio sia una delle formidabili forme di autoaiuto per trovare le soluzioni adatte e durature. Senza preconcetti, ma neanche accontentandosi di piccoli segnali di ripresa. Che anzi, vanno valorizzati perché da semplici segnali diventino robusti passi in avanti.

D.: Sei candidata nello schieramento di centrosinistra. Non hai niente da rimproverargli?

R.: L’elenco degli errori e delle contraddizioni è tanto lungo quanto a tutti noto. Non riguarda solo l’Italia. Ho vissuto a lungo negli USA e vedere, per esempio, che dopo Obama è arrivato Trump la dice lunga sulla poca capacità della politica di costruire su solide e durature basi. Tuttavia io non ne è ho mai fatto una mera questione di etichette. Chi dice che destra e sinistra non esistono più sa bene di dire una sciocchezza, infatti spesso è un artificio retorico per giustificare brusche sterzate a destra, cioè nel conservatorismo, nell’ineguaglianza, nella brutalità del ragionamento e delle scelte politiche. La semplificazione può portare a situazioni aberranti, come considerare qualcuno come meno umanamente importante di qualcun altro. Come se non fossimo tutti esseri viventi, e quindi titolari di diritti e di dignità di persone.

D.: Dimmi un errore grave del centrosinistra.

R.: Aver ceduto alla tentazione della personalizzazione della politica.

D.: Però sei candidata in un collegio uninominale, ben quattro formazioni politiche si concentrano sul tuo nome.

R.: Una bella responsabilità. Di cui sento il peso. Soprattutto per le aspettative che il mio nome può aver creato tra chi mi voterà. E poi certo, anche in quelle di chi mi ha offerto la candidatura. Sai che sono l’unica donna candidata tra i tre principali schieramenti nel mio collegio elettorale? Mi sento anche la responsabilità di essere un punto di riferimento per le elettrici.

D.: Secondo te chi potrebbe vincere?

R.: L’astensione potrebbe essere il primo “partito”.

D.: Che fare?

R.: No, guarda io non faccio appelli. Posso solo dire che per me non è il tempo né dell’astensione per rabbia e rancore, né del disimpegno per disillusione e amarezza. Sono tutti sentimenti che comprendo e rispetto. Il fatto è che non possiamo pensare che ci sia qualcun altro che risolva le cose se questi non siamo noi stessi. In prima persona. Tra l’ottimismo e il pessimismo, io da tempo ho scelto il cammino: una passo dietro l’altro verso un obiettivo raggiungibile. E poi, di nuovo in marcia. Lo faccio nella vita. Lo farò alla Camera.

D.: Il tuo slogan elettorale, chiamiamolo così, recita “competenza e sensibilità”. Perché?

R.: In realtà lo dice il mio curriculum. La mia competenza specifica deriva dal mio incarico presso l’Anci, l’associazione dei comuni italiani. Grazie a questa esperienza conosco opportunità e procedure per attingere ai fondi utili al sostegno delle attività utili a Pomezia e a Ciampino. Ma anche come assistere i municipi per il miglioramento della qualità dei servizi nei territori compresi tra i il VI e il IX municipio. La mia sensibilità deriva da gran parte della mia vita, dedicata ai disagi psichiatrici, attività svolta da anni dalla Fondazione Luigi Di Liegro.
Competenza politica e sensibilità sociale sono le caratteristiche salienti della mia storia personale e pubblica. Non è uno slogan è la semplice verità.

Luigina vola via, inseguita dai martellanti impegni che la campagna elettorale impone ai candidati. Mi ha lasciato una sensazione positiva. Ha le idee chiare, ma non le urla, non te le vuole imporre. Certo ha molta energia, la qual cosa si confà con il luogo in cui si è svolta la nostra conversazione, cioè la più antica Centrale termoelettrica di Roma.
Il fatto è che mentre parla con te hai la sensazione che in realtà sia lei a essere in ascolto. Che mi sembra la buona dote di una donna che presta alla politica attitudini che si sono formate nel sociale,

Luigina Di Liegro è candidata alla Camera nel collegio Uninominale Roma 7.
Personalmente faccio ancora parte di quei dieci milioni di elettori che non hanno ancora deciso se e chi votare.
E comunque, non avrei la fortuna di avere Luigina Di Liegro tra i candidati del mio collegio elettorale.
Roma, 15.02.18

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democrazia Dibattiti Guerra&Pace libertà, informazione, pluralismo, Movimenti politici e sociali Politica

Il Presidente, il professore e i giovani.

Tanto scipito è stato il discorso di fine anno, che si cerca ora di dargli un qualche sapore. Così, il professor Guido Crainz si è lanciato oltre le trincee del realismo politico alla disperata difesa del discorso del presidente Mattarella. Egli scrive su Repubblica:
“ (…) nella guerra che terminò un secolo fa, ha ricordato, i diciottenni di allora — i «ragazzi del ’99» — andarono a morire nelle trincee, oggi possono dare al Paese non la loro vita ma il loro voto. Possono «essere protagonisti della vita democratica».

I ragazzi del ’99 non furono protagonisti, ma vittime sacrificali di una politica di rapina territoriale, detta “irredentismo”, mandate letteralmente al macello dalla monarchia sabauda, ma anche da una classe politica vecchia e istupidita dal nazionalismo. Quel bagno di sangue immane non battezzò una nuova e più florida epoca, ma spianò la strada al Fascismo, abbondantemente foraggiato da chi – Casa Savoia in testa – temeva che il dopoguerra favorisse il nascente movimento operaio italiano. Il professore Crainz queste cose le sa bene, tuttavia si è lasciato trasportare da una specie di “storicismo all’acqua di rose”, pur di difendere la debole tesi del Presidente Mattarella.

Infatti, Crainz ne è cosciente, al punto di sostenere che “di nuovo la storia aiuta però a ricordare che l’incertezza e la preoccupazione per il futuro, così presenti oggi, non hanno segnato invece altre fasi storiche, pervase da un’idea positiva di progresso.”
È vero. I giovani che aderirono alla Resistenza furono il motore non solo della Liberazione, ma di un vento nuovo che spazzò via, in un colpo solo, occupanti, fascisti e la monarchia corrotta, dando quella spinta alla democrazia del nostro paese, scrivendo pagine di riscatto e riscossa, la cui sintesi è tutt’ora leggibile negli articoli della nostra Costituzione.
Però, stranamente Crainz si è dimenticato di ricordarcelo.

Tuttavia, ci dice finalmente con chiarezza che le difficoltà reali del paese non hanno impedito “ né hanno segnato i primi decenni della nostra storia repubblicana, quando vi era la convinzione che i figli avrebbero avuto un futuro migliore dei padri: fu questa convinzione a farci superare gli anni durissimi del dopoguerra, e poi le asprezze di una modernizzazione che impose anche costi e sacrifici (soprattutto per i più deboli)”.

Vorrei ricordare ai lettori la sostanza di ciò che qui afferma il professor Crainz. Furono i giovani i protagonisti della battaglia per l’attuazione della riforma agraria nel sud, contro i quali si scatenò la violenza mafiosa. Il presidente Mattarella sa bene cosa sia la mafia, che prima di arrivare a colpire gli uomini delle istituzioni, aveva fatto stragi e assassini tra contadini, dirigenti sindacali, militanti politici.

Furono i giovani a battersi contro le “gabbie” salariali, mettendo le basi per la contrattazione collettiva che diede vita ai contratti di lavoro nazionali.

Furono i giovani a dare vita alle grandi battaglie sindacali nel triangolo industriale del nord ovest; furono i giovani a fare delle proteste studentesche del ‘68 non solo un volano di libertà e uguaglianza a fianco della classe operaia, ma anche una formidabile forza di cambiamento nei costumi, nella cultura, nelle relazioni famigliari e nei rapporti tra i sessi, introducendo l’idea dell’estensione dei diritti civili. Senza il protagonismo politico e sociale dei giovani, oggi non avremmo leggi che tutelano il lavoro, le donne, la malattia, le differenze di genere, ecc.

L’Italia cambiò contro il volere dell’establishment a guida democristiana, ma anche oltre le aspettative e l’immaginario politico e sociale della sinistra parlamentare. E qui i giovani divennero un problema politico, che in Italia spesso ha portato a soluzioni di “ordine pubblico”, modo nel quale fu trattato il movimento del ’77, che poneva il problema del reddito, oltre l’organizzazione del lavoro.

È la questione di oggi, a cui però ieri si rispose con la violenza di Stato, accompagnata dalla “scomunica” della sinistra che sedeva in Parlamento, la quale non solo permise la degenerazione dello scontro, ma tentò di gestirla con la repressione assurta a ragion di Stato.

Tra l’altro ci sono amnesie colpevoli. La generazione dei “ragazzi del 1999” è venuta al mondo in contemporanea con il movimento “no global”, nato a Seattle proprio nel 1999. Ma fatto a pezzi a forza di botte e torture al G8 di Genova nel 2001. Il Presidente queste cose dovrebbe ricordarle, perché proprio in quell’anno fu rieletto in Parlamento nelle liste della Margherita.

Ovviamente, il professor Crainz queste cose le sa bene, avendole non solo studiate e insegnate, ma anche vissute. Ed ecco che stupisce la sua difesa d’ufficio del discorso del presidente Mattarella. Tra l’altro, sia detto con grande amarezza, evocare il ruolo dei giovani a poche ore dall’aver permesso di rimandare ancora il diritto di cittadinanza a 815 mila bambini e ragazzi nati in Italia ha avuto il sapore si una gaffe imperdonabile.

Credo sia sbagliato il parallelo storico con i “ragazzi del ’99”; sia retorica fine a sé stessa chiedere ai ragazzi del 1999 di fare qualcosa per salvare il salvabile.

Siamo noi che dobbiamo fare qualcosa per salvare la loro generazione dallo sfacelo nel quale li abbiamo cacciati, (basti prendere in esame il tasso di disoccupazione giovanile). Uno sfacelo che rischia di essere – come ho già avuto modo di dire in un’altra occasione – una Caporetto democratica che incombe nelle prossime elezioni, disfatta il cui sentore si è avvertito nelle stesse parole del Presidente.

La “chiamata alle armi” dei diciottenni rischia di trasformarsi in un bagno di sangue virtuale, in cui veder naufragare non solo la fiducia nella politica –già da tempo bell’e affogata- quanto la stessa fiducia nella cultura democratica, cui tra differenza, scontri e accesi contrasti abbiamo fin qui comunque contribuito per generazioni.

La retorica del macello.

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Attualità Lavoro Movimenti politici e sociali

Come una vertenza sindacale può rendere sostenibile lo shopping on line.

Si chiama logistica, è un sistema industriale che permette di ordinare merci e riceverle a domicilio. Quando acquistiamo via internet un prodotto, questo viene portato in un grande centro di raccolta, che si chiama piattaforma logistica.

Da lì, nottetempo, viene smistato su un camion che porta quel prodotto in un magazzino vicino alla città di consegna. E’ poi proprio da lì che la mattina presto il prodotto viene caricato su un furgone, quello che vedete quando suonano alla porta per consegnarvelo.

La quasi totalità dei lavoratori della logistica sono stranieri.

Bel sistema, eh? Tutto parte da un click sulla tastiera del vostro pc. Ma tra il click sulla tastiera e il driiin sul vostro citofono ci sono persone che lavorano sodo: devono fare di tutto per rispettare l’orario di consegna che avete selezionato sul sito dell’azienda che vi ha venduto on line il prodotto.

A questo punto vi starete chiedendo: dov’è la novità che ti spinge a scrivere queste righe?

La novità è una notizia: a Riano Flaminio, vicino Roma, l’azienda che movimenta le merci per conto della multinazionale GLS ha raggiunto un accordo sindacale con i dipendenti: gli si riconoscono i diritti del contratto nazionale collettivo, l’aumento del monte ferie annuo, la stabilizzazione dei precari, il diritto a una lista di precedenza di assunzione tra gli attuali organici a tempo determinato.

Altra domanda: che c’entra tutto questo con il fatto che posso acquistare via internet?

Molto semplicemente è successo che una vertenza sindacale ha reso “sostenibile” l’e-commerce. Vale a dire che chi acquista un prodotto che viene distribuito da quella azienda logistica non viola i diritti sindacali; che chi compra non lo fa a spese della dignità delle persone che lavorano per rendere possibile la soddisfazione di vedersi recapitare puntualmente ciò che si è acquistato con tanto desiderio di possederlo il prima possibile.

Questa è una bella notizia.

La si deve a un sindacato di base che si chiama Usb, Unione sindacale di base. Fu proprio durante una vertenza guidata dall’ Usb che perse la vita, schiacciato da un Tir, Abdel Salam, lavoratore egiziano che partecipava a un picchetto davanti ai cancelli della GLS, a Piacenza.

Ho conosciuto la moglie di Abdel Salam in occasione del 22° MedFilm Festival: consegnò un premio intitolato al marito a Ginella Vocca, direttrice di quel prezioso festival di cinema del Mediterraneo, che si svolge a Roma con gran successo di pubblico. L’accompagnava uno dei suoi figli, un adolescente dalla sguardo attento. Questo ragazzo cui è stato strappato il padre, oggi potrebbe essere fiero di lui: il sindacato a cui era iscritto il padre ha ottenuto una importante vittoria per i lavoratori di un’appaltatrice dell’azienda per cui lavorava.

Ho raccontato questa piccola storia perché ha dentro di sé un grande significato.

E’ un buon segno per gli acquirenti, perché sanno che lo sconto per chi compra on line non è un prezzo che paga chi lavora per consegnarglielo; è buono per chi vende, perché fa guadagni senza togliere nulla a nessuno; è buono per l’azienda della logistica perché preferisce accordi intelligenti allo sfruttamento bestiale; è buono per chi ci lavora: per la quasi totalità sono stranieri, che hanno la prova che la loro dignità sta nel rispetto dei loro diritti, per i quali è giusto e possibile lottare e vincere, offrendo in cambio i propri doveri. È la democrazia: cambiando le regole s’impara a rispettarle. Un buon sindacato vale più di mille appelli alla civile convivenza.

Aver reso sostenibile lo shopping on line è un bel colpo.

Se abitate a Roma, non vi resta che sperare che la prossima volta che suonano alla porta per consegnarvi un pacco sia un addetto GLS. Mentre firmate il ritiro, fategli un sorriso. Magari lui non sa perché. Ma di certo voi adesso sì.

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Attualità Leggi e diritto Movimenti politici e sociali

“Siamo tutti sullo stesso autobus”.

In cinque domande, il perché dello sciopero del 5 dicembre, che il Prefetto di Roma ha differito ad altra data.

Roberto Cortese guida gli autobus a Roma, è impegnato nella difesa dei diritti dei lavoratori del trasporto pubblico, è un dirigente dell’Usb, il sindacato di base che a Roma è capace di avere altissimi livelli di adesione agli scioperi.

Roberto Cortese ha 58 anni, 29 dei quali spesi in Atac, l’azienda municipalizzata del trasporto pubblico del Comune di Roma (“Quando sono entrato in Atac il sindaco era Giubilo, di lì a poco scoppiò “Tangentopoli” e Roma fu commissariata”).
È sposato, ha due figlie di 29 e 22 anni. La famiglia Cortese vive a Castel Madama, un comune di 7.500 abitanti lungo la valle dell’Aniene. Per andare a lavorare al deposito dell’Atac dove è in forza, Roberto Cortese prende tre mezzi pubblici: una corriera, la metropolitana e un autobus che infine lo porta al suo luogo di lavoro, il Deposito di Portonaccio, sulla Tiburtina. Da lì ogni giorno prende servizio su un autobus come autista. A fine turno, percorso inverso: autobus, metro, corriera. E’ un uomo gentile, sorridente, con un delizioso accento regionale. E’ come se il cognome gli si addicesse alla perfezione. Cortese è a tutti gli effetti un dipendente e contemporaneamente un passeggero di mezzi pubblici.

D. Cortese, lo sciopero del 5 dicembre è stato precettato. Cioè, il Prefetto di Roma, la dottoressa Basilone, ne ha ordinato il differimento ad altra data. Un sindacato che riesce a organizzare scioperi con alto consenso nella categoria viene indicato all’opinione pubblica come un pericolo per i cittadini. Come mai?
R. La precettazione è solo propaganda. La situazione politica generale del Paese esprime sempre più spesso l’idea che lo sciopero sia uno strumento di comodo per fannulloni, un pericolo per il servizio ai cittadini, addirittura un sabotaggio contro le amministrazioni comunali. Siamo di fronte a un attacco frontale a un diritto dei lavoratori: lo sciopero è uno strumento di difesa legittimo, costituzionalmente garantito. Nel trasporto pubblico, inoltre, gli scioperi vanno al vaglio di un organismo di garanzia che ne certifica la legittimità. Con la precettazione, un organo pubblico contraddice un’altra istituzione. Queste misure sembrano le fermate a richiesta: qualcuno suona e lo sciopero si deve fermare. I lavoratori non stanno giocando. Personalmente, ogni sciopero mi costa 80 euro. E vi assicuro che chi guida un autobus a Roma non naviga certo nell’oro.

D. Però gli scioperi sono tanti. Non sono troppi?
R. Il problema è che sono pochi i mezzi pubblici, hanno una pessima manutenzione, il trasporto pubblico è stato di anno in anno finanziato sempre meno, in parte dato ai privati. L’unica cosa che è aumentata è il disagio dei dipendenti e degli utenti. Invece che innalzare la qualità del servizio pubblico, sono aumentati i biglietti. Sono le aziende che ignorano le rivendicazioni dei lavoratori. Questo i sindaci non dovrebbero permetterlo. La precettazione è una toppa che non copre il buco. Appare anche un atto di intromissione autoritaria nelle vertenze sindacali. È grave non sentire neanche una parola da CGIL, CISL e UIL, per esempio.

D. I cittadini se la prendono con voi: siete scortesi, menefreghisti, trasportate persone come fossero cose da sballottare. E poi fate pure sciopero.
R. Ogni servizio al pubblico che non funziona come dovrebbe attira le giuste ire di chi avrebbe invece il sacrosanto diritto di muoversi in città comodamente.
Noi al volante siamo la rappresentazione fisica del pessimo servizio. Siamo facili obiettivi di giuste rimostranze. Il fatto è che siamo vittime della pessima gestione aziendale e contemporaneamente nel mirino del risentimento del pubblico. Mi piacerebbe si capisse che su quei mezzi noi ci passiamo ore, la nostra giornata lavorativa, tra passeggeri incazzati, traffico impazzito e mezzi vecchi, pieni di guasti, che addirittura s’incendiano. Siamo tutti sullo stesso autobus. Sarebbe come se un operaio, un impiegato, uno studente lavorassero o studiassero in un ambiente fatiscente, con tutti intorno che lo incolpano. Noi lottiamo per un buon servizio pubblico perché siamo cittadini come chi sale a bordo. Ma anche perché abbiamo il diritto di lavorare in condizioni professionali adeguate alle nostre responsabilità.

D. Ma sembra che le cose non migliorino affatto. Che scioperate a fare?
R. Se invece che criminalizzare i lavoratori, come si cerca di fare con la precettazione, si avesse come obiettivo la qualità della vita delle città, si metterebbero al centro i cittadini, i loro bisogni, la loro stessa dignità umana: come si può ogni giorno essere accalcati come bestie su mezzi di trasporto fatiscenti, che non rispettano gli orari? Con noi costretti a dare un servizio scadente, del quale siamo addirittura additati come colpevoli? Le aziende del trasporto pubblico promettono un servizio che non sono in grado di svolgere. Questo è il vero e grave problema, che accomuna dipendenti e passeggeri. Bisogna che la battaglia per un trasporto pubblico veda uniti dipendenti e passeggeri. Bisogna investire nel trasporto pubblico. Bisogna smettere di svendere ai privati, che spesso non pagano neanche regolarmente gli stipendi.

D. Cortese, ma voi che fate per dialogare coi passeggeri?
R. Noi di Usb ci stiamo organizzando per aprire un canale diretto con i cittadini. Anche perché spesso le nostre iniziative vengono tenute nascoste: o non si dice niente e quindi molti vengono presi alla sprovvista o si lanciano allarmi di paralisi del mezzi pubblici. Mai, dico mai, informando del perché organizziamo gli scioperi. La leggenda metropolitana, la “fake news” come si dice oggi, che facciamo sciopero per rubacchiare un ponte nel fine settimana è la prova provata di come si vogliano mettere i lavoratori che usano i mezzi pubblici contro i lavoratori che li guidano. Bisogna rompere questo circolo vizioso. Su questo dobbiamo fare di più. E posso garantire che lo faremo. Sono convinto che passeggeri e dipendenti insieme siano imbattibili.

La qualità e l’efficienza del trasporto pubblico sono risorse insostituibili per la città, per i suoi abitanti, per i suoi visitatori. Sono tra gli indicatori della qualità della vita. Dicono chiaro se una città è tenuta bene o se è in declino. Perché un’azienda funzioni è necessario che si rispettino le esigenze dei passeggeri e i diritti dei suoi dipendenti. Che è quello che non succede da troppi anni. Le agitazioni sindacali sono effetti, non le cause. Le cause sono più che note: è tempo si affrontino, senza indulgere a trucchi propagandistici, capaci solo di esasperare gli animi e tirare la volata all’ingordigia di soggetti privati.

Il caso Roma è più che chiaro: il 20% delle linee sono gestite da privati. Ma nulla è migliorato. Sono anzi peggiorati sia il servizio che le condizioni di lavoro. Ce n’è abbastanza per dire basta. Le precettazioni sono una pantomima, per non dire un’invasione di campo. Prima di prendersela con chi sciopera c’è da puntare il dito verso chi governa l’azienda. A cominciare dall’azionista principale: il Comune.

(Marco Ferri)

Roma, 1 dicembre 2017

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Elezioni comunali: il voto utile, il voto vano o il voto “meno peggio, tanto meglio”?

Le elezioni comunali che si terranno domenica 5 giugno sono un nuovo passo avanti nella degenerazione modernista della democrazia rappresentativa.

Dopo il “voto utile”, categoria utilitaristica della partecipazione democratica, che tante soddisfazioni ha regalato a liste dimostratesi poi combriccole di arruffoni, stiamo per assistere al varo di una nuova categoria politica: il “voto vano”.

Se Montanelli consigliò di votare turandosi il naso, il “voto vano” si esercita semplicemente tappandosi gli occhi.

Infatti, il “voto vano” è un atto ideologico che non organizza né teorie né idee, solo auspici, al massimo indici di gradimento sulle persone.

Il “voto vano” sarà, per esempio quello che verrà espresso da chi pensa all’ideologia della riunificazione della destra, colla leadership di Berlusconi; o di Salvini (la destra ex fascista sta alla “frutta”, infatti candida Meloni a Roma); il “voto vano” sarà anche alla base dell’ideologia dell’onestà in politica (l’onesta è come la salute, quando c’è, c’è tutto!); il “voto vano” sarà pure conferito a chi professa l’ideologia di una sinistra a sinistra della sinistra del Pd.

E all’amministrazione dei servizi che la città dovrebbe somministrare ai cittadini? Chi ci pensa? Quale nuovo modello, progetto o prospettiva connota e differenzia candidati e schieramenti? Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.

Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.
Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.

Ecco il punto. L’unica possibilità di garantire un minimo dignitoso nella gestione dei servizi ai cittadini e quindi di proteggere e magari accrescere il tenore e la qualità della vita nelle città italiane è “rinegoziare” col governo il debito che gli enti locali hanno accumulato negli anni, dopo i continui tagli lineari che gli inquilini di Palazzo Chigi hanno inferto ai trasferimenti di risorse economiche dallo Stato ai Comuni.

Da anni, nei comuni italiani, la Capitale in testa, si è sedimentato il più bizzarro schema di marketing del mondo: al cittadino è stato imposto di pagare di più per avere sempre meno e male.

Ora, la domanda è: chi è in grado di poter ottenere più facilmente dal governo un allentamento dell’austerity imposta al proprio comune?

Badate: ho detto allentamento, mica ripristino dei finanziamenti statali ai Comuni. Va precisato, perché i candidati non lo fanno, le loro sono spesso ricette elettoralistiche, che servono forse come lo zucchero che addolcisce l’amara pillola, sono mica vere medicine per curare seriamente i bilanci malati.

Non è difficile capire quali e candidati e schieramenti abbiano, in teoria, questo “vantaggio competitivo”.

Al “voto vano” si contrappone, allora, l’opportunismo politico, il pragmatico senso del “meno peggio, tanto meglio” che è la forma di adesione ideologica offerta dai candidati espressi o sostenuto dal Pd, per il semplice motivo che è il partito di governo.

Tuttavia, le elezioni comunali di domenica 5 giugno non cambieranno né il quadro politico né fermeranno lo smantellamento, pezzo a pezzo della spesa pubblica a favore dei servizi ai cittadini, a favore della qualità delle città. Uomini e donne che in queste ore stanno promettendo, se eletti, di cambiare tutto, in realtà stanno trattano gli elettori come bambini.

Chiunque vinca, soprattutto a Roma, l’idea di privatizzare e portare a valore economico i servizi di cui i cittadini avrebbero pieno diritto continuerà ad avvilire, umiliare e depotenziare il concetto di uguaglianza, per continuare ad arricchire i ricchi e impoverire i poveri, come ci ha insegnato la lunga crisi economica.

Forse, non bisognerebbe cambiare candidato, ma cambiare politica. Ma per ottenere un vero cambiamento più che il voto può la lotta. La lotta “contro” ha fatto sempre venire buone idee “per”.

Le donne e gli uomini appartenenti alla classe lavoratrice e ai ceti medi impoveriti dalla crisi e dallo sbriciolamento sistematico dello stato sociale sono quelli su cui è gravato il peso economico e sociale delle bancarotte comunali, sono quelli che hanno visto tagliare servizi e aumentare tariffe, che hanno visto peggiorare le condizioni di vita nelle città in cui lavorano; che si spostano faticosamente nel traffico urbano, che mandano a scuola i figli, mettendogli nella cartella la carta igienica o che portano dal medico gli anziani facendo i conti coi ticket; che vanno a fare la spesa stando attenti ad arrivare alla fine del prossimo mese, loro che sono la maggioranza degli elettori dovrebbero smetterla di dare ancora credito al “voto vano” o al “meno peggio, tanto meglio”. Si sta dimostrando dannoso, peggio di quello che fu “il voto utile”. Beh, buona giornata.

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Il bello che c’è nelle cose sbagliate, il brutto che si trova nelle cose giuste.

Cominciamo dal brutto. Una manifestazione per il Primo Maggio a Milano viene affumicata dai black bloc e oscurata dai media. “I black bloc si nascondono nella pancia dei cortei” dicono gli esperti dell’ordine pubblico. E allora: se la testa e il corpo dei militanti di un corteo non si occupano della pancia, c’è qualcosa che non va nel modo di andare in piazza. Bisognerebbe che se occupassero finalmente gli organizzatori di quelle manifestazioni. La questione della gestione dell’agibilità politica in piazza è una questione non più rimandabile.

Continuiamo col brutto. Un nutrito gruppo di giovani si organizza per scatenare gli scontri con le forse dell’ordine. Sono furiosi, odiano, spaccano tutto. Se la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato dei giovani in Italia ha raggiunto livelli mai visti, forse bisognerebbe occuparsene. Se c’è chi si sente legittimato a rappresentare la rabbia giovanile, più che degli arrabbiati, bisognerebbe occuparsi dei motivi che scatenano la violenza. Certo, dire, come a detto il capo del governo che “sono quattro figli di papà” non aiuta, semmai aizza. Senza contare che il capo di un governo democratico dovrebbe occuparsi di tutti i cittadini, anche di quelli che fanno solo casino, anche di quelli che lo contestano. Per fermare la violenza politica di piazza del ’77, l’allora governo Andreotti non usò solo la polizia, ma chiese un prestito internazionale col quale finanziò la famosa legge 285/77 per l’occupazione giovanile, che favorì un reddito e di conseguenza fermò le manifestazioni violente. L’attuale governo Renzi dovrebbe essere meno burbanzoso. E, per continuare col brutto, quello che è successo a Bologna, dove la polizia ha respinto manifestanti che volevano entrare alla Festa de l’Unità per contestare il capo del governo non s’era mai visto. Un partito di sinistra che sa parlare solo con gli industriali e non sa dare risposte ai precari della scuola non è né un partito di governo, né è di sinistra.

E adesso veniamo al bello. Il bello è stato la partecipazione di migliaia di cittadini milanesi che volevano rimettere a posto le cose sfasciate dagli scontri del Primo Maggio. L’orgoglio di sentirsi una comunità solidale è un sentimento puro. Purtroppo la causa è sbagliata: le città non sono vetrine, né Milano si può trasformare in un “temporary store”. Milano è molto di più della città che ospita Expo. Expo non è la soluzione della crisi, né rappresenta un prospettiva per il prossimo futuro. È un evento commerciale, fra sei mesi finirà quello che ancora non è stato neppure finito in tempo. Si dice Expo sia un’opportunità. Se lo sarà, lo sarà per le grandi corporazioni, per le multinazionali, per il mercato. Non per i cittadini di Milano, o comunque non per tutti. Bisognerà, allora raccogliere e coltivare questo sentimento di comunanza e di cura della città, e indirizzarlo verso l’innalzamento della qualità della vita e la gestione positiva della differenza sociali che convivono nella metropoli lombarda. Il sindaco Pisapia ha avuto una felice intuizione a indire l’assemblea pubblica a piazza Cadorna. La domanda è: quei cittadini che hanno partecipato a “nessuno tocchi Milano” sapranno darsi strumenti autonomi di protagonismo politico o arriveranno di nuovo i partiti a spartirsi il consenso per le prossime scadenza elettorali?

Ancora sul bello nelle cose sbagliate. È bello che si protesti con veemenza contro l’arroganza della maggioranza parlamentare che vorrebbe imporre la nuova legge elettorale. Ma è brutto il modo in cui forze politiche di opposte posizioni politiche, per non dire di contrapposte sensibilità democratiche hanno voluto praticare l’opposizione parlamentare. Neanche nei reality show televisivi la pantomima delle contestazione sarebbe riuscita a rappresentarsi tanto finta e strumentale al gioco delle parti. Se le giuste preoccupazione della coerenza democratica tra la Costituzione e le leggi che regolano la partecipazione dei cittadini della Repubblica alle elezioni vengono rappresentate con queste modalità, è chiaro che non c’è da fidarsi della buona fede dell’opposizione.

Poi c’è il brutto che si ritrova a suo agio nello sbagliato. La politica sull’immigrazione del governo è sbagliata, perché tende non a trovare una soluzione equa, quanto piuttosto a camuffare il problema di fronte all’opinione pubblica, inorridita dai naufragi e preoccupata dall’accoglienza. C’anche il più brutto nel peggior modo di sbagliare. Quando per mera propaganda, certe froze politiche vorrebbero respingimenti e affondamenti, mentre sventolano lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, succedono cose brutte nel modo peggiore: la Lega ha partecipato a tutti quei governi che durante i G8 e G20 promettevano aiuti ai paesi africani, senza mai poi versare un euro. Se i nodi non vengono al pettine, è il pettine che si incarica di sciogliere con durezza i nodi: è vero che l’Italia è molto esposta all’immigrazione di masse di disperati, ma è altrettanto vero che la nostra politica ha commesso errori drammatici nei confronti di quei paesi che oggi “esportano” fame e miseria in Europa, passando per le nostre coste.

Infine, il bello delle cose giuste. Un ragazzo disabile non è potuto salire sul pullman della gita scolastica e tutti i suoi compagni di scuola non sono voluti partire e quella gita che non si poteva fare per uno, nessuno ha voluta farla. Questa si chiama solidarietà. Non quella di un euro via sms, perché quella è elemosina. La solidarietà è quel sentimento collettiva di rinuncia a un privilegio per pochi perché possa essere condiviso da tutti. Anche se i tutti sono uno solo, quel ragazzo in carrozzella.

Manifestazione "Nessuno tocchi Milano", piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Manifestazione “Nessuno tocchi Milano”, piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Dovremmo ricordarcelo più spesso. Beh, buona giornata.

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Vetrine e scassavetrine.

Non mi meraviglio di vetrine scheggiate, di un paio di vetture bruciate, di muri imbrattati. 

Mi meraviglio dell’arretratezza del ragionamento politico antagonista: se la rabbia è il fine, invece che il tramite del cambiamento, la logica della rottura dell’ordine pubblico prende il sopravvento sulla prefigurazione di un nuovo ordine sociale. 
Non mi meraviglio di tecnicalità della guerriglia urbana: roba da “comici spaventati guerrieri”. Non è l’odore di bruciato e di lacrimogeni, ma il sentore della mancanza di un’offerta credibile da dedicare a un paese la cui crisi economica ha devastato il lavoro, la piccola impresa, i risparmi delle famiglie, ma anche la loro coscienza politica; il sentore di una distanza stellare tra la condizione materiale dei milioni di giovani disoccupati e precari e le forme della protesta. 
Fare di tutto per finire in tv a farsi raccontare, invece che entrare nelle menti e nei cuori delle vittime della proposopea neo liberista che 
Expo vuole rappresentare in mondo-visione -per raccontare che alternativa c’è o potrebbe esserci-significa voler entrare a far parte della sceneggiatura del programma prestabilito, come fosse rivendicare un invito al reality show che ha messo in onda l’inaugurazione del grande centro commerciale del pianeta. 
Black block non esiste, è un brand inventato dai media. Ma il punto è che in Italia non esiste neanche quel vasto movimento politico e sociale capace di modificare il corso della storia, che continua a correre spedita lungo i binari dell’austerity, verso il più drammatico disastro sociale.
Non mi meravigliano gli scontri di Milano. Sono frutto di una visione annebbiata delle contraddizioni tra le classi sociali. D’altronde,  è la stessa nebbia che offusca la visione del ruolo della politica, che si manifesta nei partiti rappresentati in Parlamento, completamente soggiogati dai dettami delle oligarchie finanziarie e commerciali globali. 
Gli uni tentano di spaccare la vetrina che gli altri hanno tentato di allestire. 
Se la politica continua a essere considerata una vetrina – invece che lo strumento adatto a sconfiggere le politiche neoliberiste, che flagellano i ceti più deboli in tutta Europa- questo è quello che succede. Poi, raccolti i cocci, tutto torna come prima. Beh, buona giornata. 

 

 
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Sugar Man, alla ricerca del poeta perduto.

Quando Einstein chiamò lo spazio-tempo “quella bobina cinematografica”

di Riccardo Tavani

Dove è scritto “genere: Documentario” dovete sostituire con “classe: Capolavoro”. La vittoria dell’Oscar holliwoodiano e del Bafta, il prestigioso premio dell’Accademia Cine Tv Britannica, entrambi come “Miglior Documentario 2013”, sono un riconoscimento mai tanto giusto e mai tanto riduttivo allo stesso tempo. Una pellicola va riconosciuta per la qualità della sua storia e della sua forma artistica, indipendentemente dal fatto che sia una fiction o un documentario. Anzi, andrebbe sempre ricordato che la vera precipua caratteristica del cinema è più nella presa diretta con la realtà che nella finzione narrativa, essendo quest’ultima di evidente derivazione letteraria e teatrale, ovvero di media comunicativi antichi che non rappresentano in sé la specifica modernità del cinema.

Il titolo originale del film è Searching for Sugar Man, ovvero “Alla ricerca di Sugar Man”, e mai titolo fu più azzeccato nel riecheggiare il titolo della grande opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”. La ricerca del poeta, del profeta, del musicista cantante perduto di cui narra questo film è davvero una ricerca che riguarda in maniera sconvolgente il senso del tempo, soprattutto inteso come senso della memoria, del destino e del reciproco riconoscersi, restituirsi la voce e rendersi piena giustizia. Una giustizia che si presenta nella forma di una caparbietà del destino che si mantiene salda nel sottosuolo delle coscienze e della storia umana, intese entrambe come scenario dell’esistenza nel quale si succedono eventi, popoli e individui e si smarrisce progressivamente la memoria di essi.

Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
La vicenda vera del poeta cantante smarrito Sixto Rodriguez nel farsi film, pellicola cinematografica, opera d’arte per lo schermo, non fa che manifestare la sua vera, profonda natura di film che in se stessa già da sempre essa è, al pari di molte altre misconosciute, trascurate, obliate od occultate vicende di umana storia, cronaca e quotidianità. Anzi, potremmo dire che quella di Sixto è l’emblema stesso dell’essere ogni singola, perduta vicenda esistenziale già avvolta e salva dentro il film, la bobina cinematografica di ciò che chiamiamo “tempo”.

Il paragone tra la bobina cinematografica e il piano esistenziale di tutti gli eventi fisici che accadono nell’intero Universo non è di un filosofo in senso stretto. È invece del padre della fisica moderna Albert Einstein, secondo il quale tutti gli eventi universali giacciono in una dimensione di contemporaneità, simultaneità, ovvero senza passato o futuro, proprio come dentro la bobina di un film. In una pellicola cinematografica tutti i fotogrammi e le scene che essi formano sono già tutti da sempre presenti, ovvero si possono dare soltanto come presente. Il passato e il futuro sono fittizi, ovvero sono relativi alla successione nelle quali noi le guardiamo.

Eppure questa visione di Einstein ha molto a che fare proprio con il senso più profondo e originario della filosofia. A rivelarlo e farlo notare allo stesso scienziato fu Karl Popper, uno dei più grandi filosofi ed epistemologi del ‘900. Popper contestò ad Einstein che la sua visione dell’Universo e del tempo fosse esattamente quella di Parmenide, il padre del primo grandioso e sorprendente sguardo della filosofia greca sul mondo. Popper, nella sua polemica, arrivò a rivolgersi ad Einstein chiamandolo direttamente ‘Parmenide’, cosa che Albert accettò immediatamente e ben volentieri.

Per Parmenide la stessa semplice forma verbale ‘è’ sta come irreversibile dimostrazione logica e ontologica che il Nulla non può darsi in nessun modo, al pari del divenire, del trasformarsi del mondo, dato che tutto è già da sempre e per sempre come eterno presente. L’Universo è una sfera illimitata ma non infinita, perfettamente chiusa, compatta e connessa nella totalità dei suoi eventi. Proprio come in Einstein, l’evento più remoto e invisibile è connesso nel presente a quello più vicino e apparente, perché essi giacciono sullo stesso piano spazio-temporale.

È quello che succede con il long play Cold Fact, inciso negli anni ’70 da un operaio edile con una vena poetica e musicale che non ha niente da invidiare a Bob Dylan ma che non ha il suo stesso successo, anzi, non ne ha per niente e per questo viene licenziato dalla sua etichetta (cosa che Rodriguez aveva profeticamente previsto in anticipo in una sua canzone persino nel giorno del licenziamento). Una sola copia del disco finisce per caso in Sud Africa ai tempi dell’apartheid e comincia – nonostante sia messo sotto severissima censura – a diffondersi clandestinamente tra i giovani della classe bianca e colta che contestavano il regime. Quelle parole e quei profondi ritmi blues alimentano la loro identità politica e fanno sbocciare le prime band musicali alternative. Un’intera generazione di sud africani si forma sulla lezione misconosciuta in patria di Sixto Rodriguez e il disco vende – a sua totale insaputa – più di mezzo milione di copie.

La lontananza degli eventi nella bobina spazio-temporale e anche la loro sconnessione è solo apparentemente. Sugar Man ci racconta come quei fatti freddi e remoti all’improvviso si riavvolgano e trovino finalmente nella pellicola una trama logica ma calda, proprio a partire da quegli ex ragazzi senza voce poetica e politica ai quali Rodriguez ne aveva data una. Ora sono essi a ridarla al vecchio Sixto, rimasto tutta la vita a fare anche i lavori più umili nelle viscere di una grande città industriale americana, ma sempre fedele al suo pensiero e al suo stile. “Grazie di avermi tenuto in vita”, sussurra nel microfono prima di riattaccare a suonare e cantare la sua “Sugar Man”, con la sua voce e le sue profonde inflessioni immutate, come se tutto quel tempo perduto non fosse davvero mai passato. Un film da non perdere in nessun modo, perché niente come quell’ora e mezza seduti davanti allo schermo il tempo – insieme a Parmenide, Proust ed Einstein – ce lo fa ritrovare. (Beh, buona giornata).

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Cose turche: un video girato dai manifestanti a piazza Taksim.

di Riccardo Tavani

Turchia contro l'arroganza del potere.
Turchia contro l’arroganza del potere.

Ecco un contributo in video, direttamente a Istanbul, realizzato dai manifestanti.
Ogni tanto qualche piazza del mondo si accende e brilla su tutto il pianeta come una stella della speranza nel cielo della sera. Subito accorrono i troni e i loro stregoni a spegnerla, occultarla, affinché i cuori dei giovani, anche degli altri popoli e delle altre metropoli, non si aprano alla sua struggente bellezza.

E i cuori dei vecchi rimangano il polveroso campo di selce di un falso destino di rimpianto e tristezza. Saluti da Piazza Taksim, Istanbul, Europa.
(A chi impasta di stelle quelle piazze, beh, buona giornata).

http://www.youtube.com/watch?v=T91ve_KTTgM

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Generazioni contro

Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Un Grillo nella testa dei giovani

Marco Albertini, Roberto Impicciatore e Dario Tuorto-lavoce.info

Una prima analisi dei risultati elettorali sembra mettere in luce un voto generazionale. Alla Camera, quasi la metà dei giovani hanno votato il Movimento 5 stelle. Sarebbe il più rilevante spostamento di voto della storia elettorale italiana.

UN VOTO GENERAZIONALE

Nei primi commenti al risultato delle elezioni molti opinionisti hanno suggerito che l’affermazione del Movimento 5 Stelle (M5S) ha fatto finalmente emergere il tema della frattura tra le generazioni – sia nel modo di fare politica, sia nella visione di cosa debba fare e di chi debba proteggere lo stato sociale. Lo stesso Grillo, il 27 febbraio, attraverso twitter e il suo blog, ha suggerito tale interpretazione: “Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per molto”; “Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c’è l’età” (post del “6 Febbraio). E anche la composizione per età degli eletti del M5S sembra confermare questa interpretazione: 33 e 46 anni l’età media per Camera e Senato.
Se così fosse queste elezioni avrebbero dato una risposta a uno dei puzzle di più difficile soluzione per gli studiosi di relazioni intergenerazionali: l’assenza di conflitto generazionale pur in presenza di forti squilibri di welfare tra giovani e anziani.
La natura del rompicapo può essere sintetizzata come segue. Negli ultimi decenni v’è stato in Italia (e, in misura minore, anche in altri paesi Europei) un forte inasprimento delle disparità tra le condizioni socio-economiche della popolazione giovane e quelle dei non-giovani:

1) una flessibilizzazione del mercato del lavoro avvenuta “al margine”, ovvero scaricandola completamente sui nuovi entrati nel mercato senza nemmeno sfiorare chi nel mercato del lavoro c’era già (gli insider, i protetti)
2) un sistema di welfare in cui la spesa sociale per la popolazione anziana è pari a 12 volte a quanto speso per i giovani (la media nella EU15 è di 3 volte)(1);
3) la rottura del patto generazionale alla base del sistema pensionistico con il passaggio da sistema retributivo a quello contributivo.

Nonostante tutto questo, però, numerosi dati sembravano indicare l’assenza – o irrilevanza – di conflitto generazionale.

a) le indagini mostravano che i giovani, al pari dei loro genitori, erano a favore del mantenimento degli attuali assetti di welfare (pensioni incluse);
b) erano assenti movimenti di protesta giovanile chiaramente connotati a livello anagrafico e che coinvolgessero quote rilevanti di popolazione;
c) la distribuzione del voto giovanile era relativamente omogenea rispetto a quella del voto dei genitori (2).

Non sorprende, quindi, che molti studiosi suggerivano che quello del conflitto generazionale fosse solo un mito delle società contemporanee (3). L’unica risposta plausibile al rompicapo sembrava essere che le differenze tra classi sociali (attorno a cui si è fin qui organizzata buona parte della rappresentanza politica) e l’influenza delle subculture politiche superavano di molto le diseguaglianze tra generazioni.

QUALCOSA È CAMBIATO

Le recenti elezioni sono un segnale che il panorama è mutato? è vero che è emerso un chiaro comportamento di generational voting?
In attesa dei dati di future indagini campionarie sul tema, tentiamo di dare una prima risposta al quesito utilizzando l’informazione relativa alla differenza nella quota di voti ai vari partiti alla Camera e al Senato. Attribuire tale differenza al voto giovanile, in particolare ai giovani nella fascia 18-24 anni (presenti alla Camera, assenti al Senato) necessita di due assunti forti. Primo, assumiamo che l’astensione sia sostanzialmente simile per giovani e non. Secondo, dobbiamo assumere che tra gli ultra 24enni il voto disgiunto risulti trascurabile, cioè che tutti, o quasi, abbiano votato al Senato lo stesso partito scelto alla Camera. Il primo assunto è sostenuto dal fatto che il tasso di partecipazione non presenta differenze tra Camera (75,19 per cento) e Senato (75,11 per cento ) (dati Ministero dell’Interno). Per quanto riguarda il secondo va detto, innanzitutto, che in assenza di dati completi sui flussi e da indagini campionarie post-elettorali è molto difficile depurare l’effetto del voto giovanile dalla pratica del voto disgiunto nello spiegare la differenza di voti al M5S tra Camera e Senato. Non possiamo escludere a priori che un gruppo consistente di individui abbia votato M5S alla Camera e un altro partito al Senato. Elettori mossi da calcolo razionale (votare diversamente al Senato nelle regioni più contendibili) o anche elettori “critici” – in particolare del Pd – che lanciano un segnale di protesta rivolto al partito o all’area politica in cui si identificano. Nel primo caso dovremmo attenderci uno scarto maggiore tra Camera e Senato nelle regioni in cui alla vigilia si pensava che ci sarebbe stato un risultato incerto (particolarmente in Lombardia), nel secondo che lo scarto sia maggiore nelle regioni “rosse”. Tuttavia, come mostrano le analisi seguenti, la stima del voto per il M5S tra gli under 24 rimane di molto sopra la media in tutte le regioni e non solo in quelle cosiddette contendibili (dove poteva agire una scelta razionale di voto difforme) o in quelle “sicure” della protesta da sinistra (le regioni della “zona rossa”): un possibile indizio del fatto che il voto disgiunto abbia giocato un ruolo marginale nel determinare il differenziale Camera-Senato nei voti per il M5S.

LA DIFFERENZA TRA CAMERA E SENATO

Al netto di questi caveat passiamo alle nostre stime. In tabella 1 abbiamo riportato i voti ottenuti dai principali partiti alla Camera e al Senato, e la relativa differenza. In termini assoluti, il M5S ha incassato un numero di consensi alla Camera superiore di oltre 1.400.000 voti rispetto a quanto ottenuto al Senato. Tra i principali partiti è quello che registra il differenziale più elevato. Sotto l’ipotesi che la differenza sia in toto voto giovanile possiamo stimare la percentuale di voti al M5S tra giovani di età 18-24. La percentuale, calcolata a livello regionale e nazionale, si ottiene dal rapporto tra la differenza nel numero di voti ottenuti alle due Camere e la stima dei voti validi attribuibili alla fascia di età 18-24. Quest’ultima viene calcolata riproporzionando i voti validi totali alla quota dell’elettorato di questa fascia di età (essendo la popolazione di riferimento quella fornita dall’Istat al 1.1.2011, abbiamo considerato come gruppo di interesse quello di età 17-23 anni).

Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Adottando questa procedura arriviamo a stimare che la quota di consensi per il partito di Grillo tra i giovani tra i 18 e i 24 anni ha superato il 47 per cento, contro una percentuale media del 25,6 per cento. Tale dato sembrerebbe indicare con tutta chiarezza l’emergere di un fenomeno di generational voting, ovvero un profilo di voto per i giovani drasticamente diverso rispetto a quello generale, con una forte sotto-rappresentazione del voto per gli altri partiti e per il Partito democratico in particolare. Un dato particolarmente significativo se si considera che applicando la stessa procedura all’elezione del 2008 la stima della percentuale di 18-24enni che votavano Pd non si discostava dal valore dell’intero elettorato. Il fenomeno peraltro rappresenterebbe la conferma di un trend rilevato già nel periodo pre-elettorale: nel corso del 2012, infatti, le intenzioni di voto per il M5S erano cresciute esponenzialmente prima e dopo la tornata di elezioni comunali, e con una velocità maggiore proprio nella fascia 18-24 anni (4). Nello stesso senso vanno anche i risultati di una recentissima indagine pubblicati sul Corriere della Sera: Tecné, infatti, stima che il 37,9 per cento degli elettori con meno di 30 anni hanno votato M5S alle ultime elezioni politiche (5).

CONCLUSIONI

I dati di survey pre-elettorali lasciavano intravvedere che l’attesa crescita dei consensi verso il M5S fosse trainata dai new voters o, comunque, dagli elettori più giovani. I risultati delle elezioni del 24-25 febbraio sembrano aver confermato (e rafforzato) questo fenomeno, tanto che è plausibile argomentare che il voto “grillino” abbia agito in modo deflagrante sulle dinamiche elettorali anche sul piano generazionale. La nostra tesi è che probabilmente siamo di fronte a una nuova dinamica del comportamento elettorale, con un forte e rapido allineamento del voto (anche) su basi generazionali. L’emergere di tale dinamica è di particolare rilevanza non solo dal punto di vista della soluzione del puzzle dell’assenza del conflitto generazionale, ma anche perché i giovani, al primo o al secondo voto importante, potrebbero avere trovato il loro partito e iniziato a esprimere un chiaro pattern politico, diverso da quello delle altre generazioni, con conseguenze importanti per le future tornate elettorali. Se ciò non fosse avvenuto, e il differenziale positivo di voti per il M5S alla Camera risultasse effettivamente da una generalizzazione su larga scala del voto disgiunto, saremmo di fronte a uno dei più rilevanti spostamenti di voto della storia elettorale italiana, assolutamente inatteso almeno quanto il riallineamento compatto dei giovani attorno a un nuovo partito. Attendiamo dati più solidi per scoprire il seguito. (Beh, buona giornata).

(1) Börsch-Supan, A. (2007) European Welfare State Regimes and their Generosity Towards the Elderly, in «Mea Discussion Papers», n. 128.
(2) Si veda ad esempio Arber, S. e Attis-Donfut, C., 2007, “The myth of generational conflict”, Routledge.
(3) Si veda l’indagine Demos 2008, http://www.demos.it/a00200.php
(4) Corbetta, P.G. e Gualmini, E. 2013 “Il partito di Grillo”, Il Mulino. Pagina 96.
(5) http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1T9KQJ

Bio dell’autore
Marco Albertini: è ricercatore presso l’Università di Bologna e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Carlo Cattaneo. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la sociologia della famiglia e i sistemi di welfare. Sito personale https://sites.google.com/site/mrcalbe. Twitter @madmakko.

Roberto Impicciatore: è ricercatore presso l’Università di Milano e membro del Consiglio Scientifico dell’Associazione Italiana per gli Studi di Popolazione. Si occupa di comportamenti demografici e transizione allo stato adulto.

Dario Tuorto: È ricercatore presso l’Università di Bologna, membro di Itanes (Italian National Election Studies). Ha fatto ricerca e pubblicato prevalentemente nell’ambito della sociologia politica.

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Attualità democrazia Movimenti politici e sociali Politica

Se avessimo votato col proporzionale?

di Giovanni Bronzino –

L’incertezza politica in cui versa l’Italia dopo le ultime elezioni politiche è stata da più parti addebitata al fatto che per la terza volta si è votato con le regole del cosiddetto porcellum. Nonostante per anni i partiti si fossero dichiarati quasi unanimamente d’accordi sulla necessità di una nuova legge elettorale, non si è mai riusciti a trovare un accordo che soddisfacesse tutti. Anche perché da anni il vizio d’origine è che le leggi elettorali non devono essere neutre, ma costruite su misura delle esigenze di questo o quel partito.

In verità stavolta il porcellum c’entra poco. La legge elettorale di Calderoli non ha comunque smentito la sua impressionante capacità di deformare il parlamento e la volontà del popolo sovrano secondo un bislacco sistema di sbarramenti plurimi, ma ad aver destabilizzato la relativa quiete della seconda Repubblica è stato semplicemente il fatto che il MoVimento 5 Stelle abbia preso il 25,55% dei voti validi.

Ipotizziamo che la ripartizione dei seggi alla Camera dei Deputati fosse avvenuta con la vecchia legge elettorale (ex art. 77 del DPR 361/1957) in vigore fino al 1993: un democratico proporzionale con attribuzione dei resti più alti col metodo del collegio unico nazionale e lasciando immutata la quota estero e l’uninominale della Valle d’Aosta, avremmo avuto questa situazione:

Si può notare che ci saremmo ritrovati con 5 liste extraparlamentari in meno (Rivoluzione Civile, Fare, La Destra, Grande Sud-Mpa e Die Freiheitlichen), e quindi oltre un milione e mezzo di cittadini avrebbero avuto una loro legittima rappresentanza in Aula, ma ai fini della cosiddetta governabilità sarebbe cambiato poco.

Le sinistre (Pd, Sel, Rc, Cd, Svp) avrebbero avuto 209 seggi contro i 190 delle destre (Pdl, Ln, Fd’I, Fare, La Dx, Gs-Mpa, Die Freih.) e i 66 del centro (Sc, Udc). Fatichiamo a collocare i 4 deputati Vallée d’Aoste, Maie e Usei, anche se dovrebbero essere di centro.

A fare pertanto la differenza anche con questa legge elettorale sarebbero i 161 grillini. Tuttavia la prassi del proporzionale imporrebbe in questo caso al M5s l’onere e l’onore di dover formare un governo e quindi ai grillini di doversi cercare in aula gli almeno 155 deputati necessari per formare una maggioranza. Non è una cosa da poco.

Poiché il porcellum ha dato una maggioranza d’ufficio alla coalizione di Bersani, tocca a quest’ultimo rincorrere Grillo e Casaleggio e rimanere in attesa di un sì o un no come in certi film i gladiatori sconfitti guardavano alla mano dell’imperatore per capire se avrebbero visto la luce del giorno dopo. Con un proporzionale onesto invece chi gode della massima popolarità nell’elettorato avrebbe dovuto farsi subito carico di tutto il peso dell’essere il partito più votato del paese. (Beh, buona giornata).

Se avessimo votato col proporzionale oggi sarebbe Grillo a inseguire Bersani.
Se avessimo votato col proporzionale oggi sarebbe Grillo a inseguire Bersani.

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democrazia Leggi e diritto Movimenti politici e sociali Politica Potere

Attenti al voto futile.

Tra poche ore si vota. Si vota prima della scadenza, perché il partito di Berlusconi ha tolto la fiducia parlamentare al governo Monti. Berlusconi, che era stato costretto alle dimissioni per manifesta incapacità di governare un paese in crisi, ha scatenato una campagna elettorale furibonda, a colpi di promesse irrealizzabili, come la presunta restituzione della tassa Imu sulla prima casa, invadendo i media, come in nessun altro paese del mondo gli sarebbe stato permesso.

Non solo, Berlusconi ha trascinato il paese alle elezioni politiche anticipate con una legge elettorale truffaldina, detta, appunto, “porcellum”. Berlusconi va punito per sempre perché ha fatto di tutto per non cambiare questa legge. Vanno puniti con lui tutte le forze politiche e sociali che lo hanno sostenuto anche in questa ultima sciagurata avventura: la Lega Nord, la Destra, Grande Sud e tutta quella “corte dei miracoli” al seguito, composta da partitini, formati da piccole personalità di grande appetiti di potere, sparse in tutt’Italia. Vanno puniti i candidati nelle liste del Pdl, liste piene di inquisiti dalla magistratura, liste di mezze figure, sia dal punto di vista politico che etico.

L’attuale “offerta” politica che si offre domani agli elettori italiani è apparentemente ricca di scelte. Dico apparentemente, perché in realtà l’unica possibilità di fermare Berlusconi e i suoi accoliti è una vittoria al Senato del centrosinistra.

Infatti, quello che è consigliabile è tenere ben presente che, proprio per colpa di Berlusconi, andremo a votare con due sistemi elettorali, uno alla Camera e uno al Senato. Alla Camera i sondaggi, finché sono stati pubblici, non segnalavano grandi chances per il partito di Berlusconi. Qui votare chi ognuno pensa possa svolgere un ruolo migliore non troverebbe ostacoli.

Il pericolo viene dal Senato: se in alcune regioni, per esempio come la Lombardia, la legge elettorale dovesse premiare il partito di Berlusconi, ecco che egli riuscirebbe a mettere un’ipoteca sulla formazione del nuovo governo. Sono convinto che chi vota Grillo o Monti o Giannino o Ingroia certo non vorrebbe succedesse un Berlusconi ancora in sella.

Si è parlato del ricatto del voto utile. Io direi, piuttosto, del pericolo del voto futile: chi è conservatore come Monti, di sinistra come Ingroia, barricadero come Grillo, o moderato come Giannino (al netto dei titoli di laurea) non è giusto che non abbia la possibilità di esprimere il proprio voto. Ma è proprio quello su cui contano Berlusconi e accoliti: sfruttare i vantaggi del “porcellum” e fregare ancora una volta la democrazia, i cittadini, gli elettori, grazie al differente meccanismo elettorale.

Dunque, perché il voto non sia una esercitazione futile, è necessario prendere seriamente in considerazione il “voto disgiunto” tra Camera e Senato. Per sicurezza, consiglierei di fare lo stesso anche per le Regionali in Lombardia e nel Lazio. Maroni e Storace, sodali di Berlusconi
devono perdere sonoramente. Solo così, sconfitto su tutti i fronti, Berlusconi uscirà dalla cronaca politica e per entrare, senza più ostacoli in quella giudiziaria. Beh, buona giornata.

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Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Movimenti politici e sociali Politica Popoli e politiche

Elezioni, pareggio di bilancio e recessione: attenti alle frottole.

di MARCO PALOMBI-Il Fatto Quotidiano
Quale sarà la vera agenda del prossimo governo? È questa la domanda da cui siamo partiti per spiegare che la libertà d’azione macroeconomica di qualunque esecutivo si insedi a marzo sarà, per usare un eufemismo, piuttosto limitata. Se si volesse usare uno slogan, ad esempio, si potrebbe dire che le vere elezioni italiane saranno quelle tedesche del prossimo ottobre: è tutto nel rapporto con l’Unione europea infatti – e, ancor più, con gli altri paesi dell’eurozona – che si gioca il destino del nostro paese e, per quelli a cui interessa, del prossimo governo. Ecco un breve riassunto per capitoli dello stato dell’arte e di quel che c’è da aspettarsi tra poche settimane.

Il punto di partenza. Gli schieramenti in campagna elettorale possono promettere molto, ma occorre sempre ricordare che gli esecutivi si muovono ormai in un meccanismo di sovranità limitata. Il governo italiano, infatti, non solo ha rinunciato tempo fa alla leva monetaria, ma in sostanza anche a quella fiscale: il pareggio di bilancio inserito in Costituzione, e promesso ai partner continentali entro quest’anno, lo obbliga infatti ad agire in una sola direzione. La faccenda si farà ulteriormente complicata con la legge di stabilità del prossimo anno: dal 2015 scatta, infatti, l’obbligo sancito dal Fiscal compact (approvato in tutta fretta dalla strana maggioranza nell’ultimo scorcio di legislatura) di diminuire la parte del debito pubblico che supera il 60% del Pil di un ventesimo l’anno. In soldi fanno una cinquantina di miliardi l’anno: siccome i conti si faranno sul prodotto nominale – e non quello depurato dall’inflazione – il problema non sarebbe insormontabile se ci fosse un po’ di crescita. Solo che non c’è, e qui veniamo al vero problema.

La recessione. Dall’inizio della crisi abbiamo perso 7 punti di Pil, dice Bankitalia, e l’emorragia non accenna a finire e colpisce ormai la struttura stessa del tessuto produttivo che ha fatto grande l’economia del nostro paese. Sempre dal 2008, per dire, la produzione industriale è scesa del 25%, il suo volume rilevato all’indice grezzo segna 82,9, al minimo dal 1990. Riassunto: le aziende chiudono, aumentano i disoccupati, calano i consumi e le entrate dell’erario. Questa è la spirale, questa è la priorità di qualsiasi governo nell’immediato. Poteri di intervento? Nei limiti di bilancio di cui abbiamo parlato, molto pochi, anche perché lo stato dei conti pubblici non è quello raccontato da Mario Monti in questi mesi (“siamo fuori dall’emergenza”).

Una nuova manovra? Forse sarà la prima cosa che il prossimo esecutivo dovrà fare per ottenere il famoso pareggio di bilancio obbligatorio, nonostante sia pensiero comune che la cosa non farà che peggiorare la recessione in atto (se mi tassi spendo meno, se lo stato spende meno qualcuno – pensionati, lavoratori, aziende – vedrà diminuire i suoi introiti e spenderà meno). I problemi sono due. Intanto nel bilancio pubblico 2013 ci sono alcune spese non finanziate interamente: le missioni militari all’estero sono scoperte da settembre, il rinnovo dei contratti di oltre 200mila precari della P.A. da giugno e anche le risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione in deroga su tutti) scarseggiano. Totale: 5-7 miliardi di euro. In secondo luogo, le previsioni del governo sulla (non) crescita sono assai ottimiste: -0,2% nel 2013, mentre quelle di Bankitalia, Confindustria, Fmi etc veleggiano verso una contrazione dell’1%. Essendo il rapporto deficit/Pil appunto un rapporto, se il denominatore è più basso il risultato è peggiore. In sostanza la manovra necessaria potrebbe aggirarsi attorno ad un punto di Pil – circa 15 miliardi – ma fonti della Ragioneria generale dello Stato hanno parlato negli ultimi giorni di un importo più contenuto (7-10 miliardi). È tanto vero che il governatore della Banca d’Italia ha appena ribadito che “l’Italia non deve abbassare la guardia” sui conti pubblici e che per farlo servono “ulteriori, prolungati sforzi”.

Soluzioni. Mantenendo inalterata la struttura dei rapporti con l’Europa (moneta unica e relativi trattati di funzionamento), l’unica via d’uscita è rappresentata dalle scelte della Germania. Negli ultimi anni Berlino ha basato la sua strategia economica sulle esportazioni, in particolare nei paesi dell’eurozona, tenendo bassi i suoi salari e la sua inflazione. Il risultato è che ha mandato in deficit i suoi partner europei che ora, però, hanno smesso di comprare i suoi prodotti (e infatti recentemente le stime di crescita tedesca sono state tagliate). Ha spiegato al nostro giornale, ad esempio, il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo: “La nostra parte noi l’abbiamo fatta, ora la Germania deve fare la sua. Ha due strade: o rilancia la sua domanda interna aumentando i salari e/o la spesa pubblica oppure consente un certo grado di europeizzazione dei debiti pubblici”. Sulla stessa linea il responsabile economia del Pd Stefano Fassina: “La Germania deve fare la sua parte aumentando i salari e spingendo la sua domanda interna e poi basterebbe una diversa politica di bilancio Ue che escludesse alcuni investimenti dai saldi validi per il Patto”. A guardare la campagna elettorale tedesca – Cdu o Spd non fa differenza – non c’è molto da sperare: non solo nessuno propone politiche espansive interne per essere davvero “la locomotiva d’Europa”, ma tutto si gioca sulla critica ai cosiddetti Piigs fannulloni (e, in qualche caso, ai “terroni germanici”, che sono i poveri del nord e dell’est).

Sogni elettorali. In questo contesto le promesse di mirabolanti tagli di tasse fatte soprattutto da Silvio Berlusconi e Mario Monti non solo sono poco credibili, ma non sembrano tener conto delle priorità nella situazione attuale: come ha recentemente ribadito un working paper del Fmi – firmato dal capo economista Olivier Blanchard e da Daniel Leigh – non solo l’austerità fa male, ma il moltiplicatore (l’effetto positivo/negativo delle varie politiche economiche) della spesa pubblica, in particolar modo quella per investimenti, è assai superiore a quello fiscale. Tradotto: in una recessione bisogna fare politiche anticicliche e, tra queste, meglio che lo Stato spenda di più piuttosto che tagliare le tasse. Una proposta in questo senso in campagna elettorale l’ha lanciata ad esempio Pier Luigi Bersani sui debiti della P.A. verso le imprese. Si tratta, ma non c’è una stima ufficiale, di 90 miliardi in tutto che, al momento, non sono registrati dal nostro bilancio: tutti sanno che c’è un debito e che andrà saldato ma, secondo le stesse regole Ue, può essere tenuto fuori dai conti finché lo Stato non paga. Il Pd adesso propone di stanziare 50 miliardi per rifondere le Pmi emettendo titoli di stato vincolati a quel fine. Il problema? È un’uscita che inciderebbe significativamente tanto sul deficit quanto sul debito pubblico e per fare una cosa del genere – o altre che prevedano questi livelli di spesa – serve il permesso di Bruxelles. Ce lo daranno? (Beh, buona giornata).

Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall'altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.
Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall’altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.

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Cultura Fumetti. Guerra&Pace Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

Mauro Biani si aggiudica il Premio Nazionale Nonviolenza 2012.

Come recita il comunicato ufficiale, è Mauro Biani il vincitore del Premio Nazionale Nonviolenza 2012, che sarà consegnato a Sansepolcro il prossimo sabato 16 febbraio 2013.

Mauro Biani, è vignettista, illustratore, scultore. E’ inoltre educatore professionale per ragazzi disabili mentali, presso un centro specializzato. I suoi disegni hanno fatto il giro del mondo su carta stampata, sul web e in mostre personali e collettive. E' stato vignettista di Liberazione, per cui ha anche curato l'inserto satirico Paparazzin e attualmente collabora come free lance con riviste e quotidiani nazionali e internazionali, organi di informazione indipendenti e riviste del terzo settore. Fa parte del gruppo internazionale “Cartooning for Peace”, sotto l’Alto Patrocinio dell’ONU. E’ uno dei fondatori di “Mamma!”, rivista di satira, giornalismo e fumetti. Ha ricevuto il XXXV Premio di Satira Politica nel 2007 il premio per la miglior vignetta europea del 2011, istituito alla Rappresentanza italiana della Commissione Europea in collaborazione con la rivista Internazionale. Nel 2009 ha pubblicato il fortunato “Come una specie di sorriso” (Stampa Alternativa), attraverso cui si è misurato con i temi più cari a Fabrizio De André interpretando in 15 tavole alcune delle canzoni più celebri del cantautore. A seguito della mostra personale ospitata dal Museo della satira di Forte dei Marmi, nel 2012 è uscito il volume “Chi semina racconta” che raccoglie il meglio della sua produzione, edito dall'associazione culturale Altrinformazione nella collana "I libri di Mamma!" (http://www.mamma.am/maurobiani)
Mauro Biani, è vignettista, illustratore, scultore. E’ inoltre educatore professionale per ragazzi disabili mentali, presso un centro specializzato. I suoi disegni hanno fatto il giro del mondo su carta stampata, sul web e in mostre personali e collettive. E’ stato vignettista di Liberazione, per cui ha anche curato l’inserto satirico Paparazzin e attualmente collabora come free lance con riviste e quotidiani nazionali e internazionali, organi di informazione indipendenti e riviste del terzo settore. Fa parte del gruppo internazionale “Cartooning for Peace”, sotto l’Alto Patrocinio dell’ONU. E’ uno dei fondatori di “Mamma!”, rivista di satira, giornalismo e fumetti. Ha ricevuto il XXXV Premio di Satira Politica nel 2007 il premio per la miglior vignetta europea del 2011, istituito alla Rappresentanza italiana della Commissione Europea in collaborazione con la rivista Internazionale. Nel 2009 ha pubblicato il fortunato “Come una specie di sorriso” (Stampa Alternativa), attraverso cui si è misurato con i temi più cari a Fabrizio De André interpretando in 15 tavole alcune delle canzoni più celebri del cantautore. A seguito della mostra personale ospitata dal Museo della satira di Forte dei Marmi, nel 2012 è uscito il volume “Chi semina racconta” che raccoglie il meglio della sua produzione, edito dall’associazione culturale Altrinformazione nella collana “I libri di Mamma!” (http://www.mamma.am/maurobiani)
ultimi vincitori del Premio sono stati Don Luigi Ciotti, Fondatore del Gruppo Abele e di Libera e a Christoph Baker, Scrittore e Consulente Internazionale Unicef.

Il Premio – che ha cadenza biennale – viene assegnato a personaggi che si sono impegnati a far sì che le modalità di soluzione dei conflitti non violente possano essere sempre più conosciute e realizzate nel quotidiano. Il destino del premio Nonviolenza è strettamente legato al Premio Nazionale “Cultura della Pace-Città di Sansepolcro” nato nel 1992 grazie all’iniziativa del Comitato Promotore per l’Obiezione di Coscienza (oggi Associazione Cultura della Pace) e che quest’anno è assegnato all’attore Marco Paolini. La premiazione si terrà
sabato 16 Febbraio 2013 alle ore 16.00 a Sansepolcro (AR), presso il Teatro INPDAP e sarà preceduto da un incontro con gli studenti delle scuole superiori, alle ore 11.30.

In occasione dell’assegnazione del premio, inoltre, si terranno due mostre personali di Mauro Biani: una a Città di Castello dal 9 al 16 febbraio 2013 presso Palazzo del Podestà e l’altra dal 16 al 23 febbraio 2013 presso Palazzo Pretorio di Sansepolcro, organizzate in collaborazione con l’Associazione “Amici del fumetto” di Città di Castello. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia libertà, informazione, pluralismo, Movimenti politici e sociali Politica Società e costume

Campagna elettorale: le frecciate di Carlo Freccero.

Freccero: "Grillo non è articolato, né argomentativo. Non è un teorico, né un ideologo. Se deve sostenere una discussione approfondita, probabilmente perde. Ma e’ il nostro sismografo. Se si guardano attentamente le oscillazioni, siamo di fronte a un terremoto".
Freccero: “Grillo non è articolato, né argomentativo. Non è un teorico, né un ideologo. Se deve sostenere una discussione approfondita, probabilmente perde. Ma e’ il nostro sismografo. Se si guardano attentamente le oscillazioni, siamo di fronte a un terremoto”.
di Luca Casarini (rifondazione.it)

Ho ascoltato Carlo Freccero in Tv, già dopo aver letto alcune sue interviste, e mi sono deciso a chiamarlo. Mi è sembrato uno dei pochi “lucidi” ed interessanti sulla visione del panorama politico pre elettorale italiano. Già il fatto che sia un grande studioso ed esperto di comunicazione e in particolare di quella televisiva, mi fa pensare che solo attraverso questa chiave si può ormai affrontare il nodo del voto…gliel’ho chiesto all’inizio:

Freccero: Nel nostro paese la tv è lo strumento principe della formazione del consenso. E questo la dice lunga su quanto poco in realtà valgano i “programmi” dei partiti. Conta chi sa starci dentro, e una tv generalista, con i suoi talk show e siparietti, è quanto di più lontano possa esistere dal ragionamento. Il 78% degli italiani usa questa tv per orientarsi al voto. Di questa stragrande maggioranza ben dodici milioni, usano solo e solamente quella. Berlusconi lo sa e infatti punta a quello. Si afferma come il prototipo massimo della commedia all’italiana e in confronto a Monti è come vedere da una parte l’Alberto Sordi de“il sorpasso” e dall’altra un Max Von Sidow ne “Il Settimo Sigillo” di Bergman. Da una parte la barzelletta, la cialtroneria spaccona, l’arcitaliano aapunto, e dall’altra un film svedese in bianco e nero di un regista luterano.

Monti sta tentando di cambiare personaggio: parla del nipotino, sorride, promette…

Freccero: Monti cerca di fare il comico, ora, ma non può riuscirci: lui, come figura politica, è nato dallo shock, dalla paura: prova a far ridere, con il copione che gli detta David Axelrod il suo consulente di immagine americano, ma non può riuscirci. Uno che ha fatto passare le pene dell’inferno a tutti, quello del terrore del crollo, del baratro, come può pensare adesso di diventare “pop”? E Berlusconi, che certo non riuscirà a far dimenticare tutto, però si avvantaggia, proprio grazie a Monti. Credetemi, nel quadro della politica spettacolo, dell’audience/consenso, Monti favorisce Berlusconi e Grillo invece penalizza Berlusconi, perché raccoglie anche una parte dei delusi del Pdl, che sono il vero obiettivo del cavaliere.

Dopodichè c’è il Pd, il centrosinistra…

Freccero: E che dire? Allargo le braccia…come si fa a star dietro, se ci si candida ad essere alternativi, a questa follia? Il pensiero unico domina totalmente. Lo spiega Monti, per il quale la democrazia consisterebbe nel tagliare gli estremi per convergere tutti, appassionatamente, verso il centro. Un’immagine orribile, inquietante, il contrario esatto con il concetto di pluralismo e differenze con i quali è cresciuta la mia generazione. E invece il Pd accetta il gioco, lo teorizza, ci sta. E balbetta, tra il comico e il serioso, tra Alberto Sordi e Max Von Sidow…

In tutto questo un comico di professione c’è…

Freccero:In effetti. Quello che arriverà terzo. Prima di Monti, dopo Berlusconi che sarà sorpassato alla Camera dal Pd. Ma quel terzo posto non avrà il peso dell’ultimo gradino sul podio, dobbiamo farci attenzione. E’ un fenomeno problematico, ma sarebbe sbagliato non cogliere le caratteristiche dello spazio politico che sarah ferguson cthru pokies va a ricoprire. Ad esempio Grillo punta su internet e non va ai Talk. Strategia perfetta per chi sa come funziona la finta democrazia, trappola, della tv generalista. E’radicale, sceglie e decide una parte, non tutte. E ad esempio si rivolge a chi usa internet e cioè il 40% dei cittadini ma soprattutto i giovani che dai 14 ai 29 anni lo usano moltissimo. Ricordiamoci, e le metafore sono quello che conta per chi comunica, che internet è anche lo strumento contemporaneo delle rivoluzioni. Questa scelta poi gli consente di “rimbalzare” nella Tv, perché parlano di lui proprio perché egli si sottrae e crea suspence, audience. E quindi, rifiutando la Tv e i siparietti, vi irrompe più degli altri. Ciò lo fa risultare più simpatico al “popolo”, che per il 65% lo considera più efficace e coinvolgente come leader e come messaggio. Grillo ha conosciuto e lavorato con Coluche, e dal comico francese che per lottare contro il pensiero unico ipotizzò persino di candidarsi alle presidenziali, fu segnato. C’è molto del Coluche di allora in Grillo.

Nella società dello spettacolo in effetti i comici bravi sono avantaggiati…

Freccero: La comicità è una forma di verità. Una critica immediata, diretta, che non concede chance e può distruggere in poche battute avversari e partiti. Berlusconi e il suo editto bulgaro poi, l’hanno enormemente valorizzata.
Io dico che insieme ad una valutazione problematica, con tutte le criticità che vogliamo su ciò che Grillo ha messo in moto, non possiamo non vedere che lui è arrivato a colmare un vuoto, perché l’offerta politica italiana è terribilmente desolante. Non si può valutare Grillo senza rendersi conto cosa di cosa c’è attorno. Di come ad esempio nessuno risponda alla richiesta di un cambiare rotta rispetto alla degenerazione della politica dei professionisti, dei privilegi, della corruzione. Oppure di come Grillo rappresenti in qualche modo quella rottura con il sistema che ormai la maggioranza o tollera o subisce. O teme o odia. Ormai il discorso politico ha perso ogni passione nelle elezioni: si vota valutando chi è il meno peggio, ma dove sta il phatos, l’ideale, l’utopia, il combattimento? La politica somiglia sempre più a un’assemblea di condominio e ha sepolto ogni afrore rivoluzionario, in tutte le sue forme. Però quando giornali come il New York Timeshanno parlato di Grillo, l’hanno fatto in termini di novità. Non lo sottovalutate. Mi ripeto. Non è antipolitica, ma al limite, a-politica.

Un populismo digitale moralizzatore?

Freccero:La denuncia della corruzione non basta. Per invertire la congiuntura economica, la moralizzazione grillesca è insufficente. Ma coglie un aspetto fondamentale, che gli altri non osano affrontare per paura di essere “esclusi” dal loro giocattolino. La verità è che bisognerebbe prima o poi prendere sul serio l’idea che se identifichiamo la politica con la liberazione dell’individuo dalle limitazioni che gli impediscono di conseguire il massimo profitto individuale, non dobbiamo meravigliarci poi che chi ha raggiunto un minimo di potere lo utilizzi per i propri interessi. E’ un tema globale, legato all’ideologia neoliberista, e in Italia si è sovrapposto alla nostra “genetica” arte di arrangiarsi. Grillo non è articolato, né argomentativo. Non è un teorico, né un ideologo. Se deve sostenere una discussione approfondita, probabilmente perde. Ma e’ il nostro sismografo. Se si guardano attentamente le oscillazioni, siamo di fronte a un terremoto.(Beh, buona giornata).

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“Cambiare si pu

/ COMUNICAZIONE

Dal 1° dicembre, quando le assemblee per il lancio sul territorio di “Cambiare si può” del 14-16 dicembre sono state varate, sono intervenuti diversi fatti nuovi. Uno ci riguarda direttamente: ad oggi sono in preparazione ben 84 assemblee ( elenco in completamento al link http://www.cambiaresipuo.net/primo-elenco-di-assemblee/ ) e l’integrazione tra i promotori (singoli e forze organizzate) procede in maniera soddisfacente, pur scontando fisiologiche difficoltà determinate da esperienze e incomprensioni del passato; è un fatto molto positivo perché significa che l’idea e il progetto funzionano e possono crescere ancora. Parallelamente c’è un continuo mutamento del contesto con un precipitare della crisi e l’ormai certa anticipazione del voto (anche se ancora indeterminato nella data): è un fatto che non possiamo ignorare e che ci impone di stringere i tempi e, quando avremo un quadro di riferimento temporale più chiaro (e comunque a partire dalla prossime assemblee), di valutare l’incidenza dei tempi sulla qualità dell’iniziativa.

In questa prospettiva e per rispondere alle molte richieste può essere utile fornire alcune indicazioni per dare alle assemblee una prospettiva unitaria, fermo che un cantiere politico come il nostro si alimenta dal basso e che le assemblee non devono limitarsi a formalizzare scelte già fatte ma avere un vero e proprio carattere costituente:

1) la discussione delle assemblee – in particolare nel contesto di cui si è detto – non potrà che essere a tutto campo e dovrà estendersi anche alle tappe dell’impresa. A questo fine è opportuno che si tengano presenti alcuni dati di fatto:

a) se le elezioni saranno il 10 marzo il decreto presidenziale di convocazione dei comizi elettorali, che deve essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale almeno 45 giorni prima delle elezioni, interverrà, se non prima, il 24 gennaio. Ciò significa che tra il 25 e il 28 gennaio dovranno essere depositati al Ministero dell’interno i contrassegni delle liste e entro il 4 e il 5 febbraio (35° e 34° giorno precedente le elezioni) dovranno essere raccolte, autenticate e depositate circa 80.000 firme di presentazione, pari a un numero variabile tra le 1.500 e le 4.000 a seconda delle circoscrizioni elettorali (che sono, per la Camera, 27). Se poi la data del voto dovesse essere anticipata – come oggi si dice da più parti – al 24 febbraio tutto sarebbe anticipato di 15 giorni e, dunque, le liste dovrebbero essere presentate intorno al 20 gennaio;

b) i tempi che abbiamo di fronte sono, dunque, strettissimi: entro la fine dell’anno (e, dunque, con l’assemblea del 22 dicembre o immediatamente dopo) dovremo avere un nome, un simbolo, dei criteri per la designazione dei candidati, un comitato di garanti (composto da persone che non si presenteranno alle elezioni) per seguire la formazione delle liste, una segreteria organizzativa nazionale (che coordini le operazioni materiali necessarie, la comunicazione, il sito etc.). Quanto ai criteri per la designazione dei candidati e la formazione delle liste va ribadito il rifiuto di ogni logica di contrattazione e lottizzazione: le candidature devono avere un segno di forte discontinuità rispetto al passato e devono essere individuate con la massima pubblicità e con il coinvolgimento e l’approvazione finale dei territori;

c) una campagna elettorale costa e noi – orgogliosamente – siamo senza soldi e finanziamenti. Ciò richiede che si attivino dei meccanismi di autofinanziamento a partire dalle assemblee (tenendo presente che 20 euro a testa da parte di 10.000 persone bastano a fare 200.000 euro: insufficienti per la campagna, ma sufficienti per una buona partenza).

2) le assemblee sono la prima presentazione di “Cambiare si può” ai cittadini che vogliamo coinvolgere nel progetto. Ciò significa che è opportuna l’introduzione informativa di uno dei promotori o di qualcun altro già coinvolto nella campagna e, possibilmente, la diffusione del documento costitutivo o la proiezione di alcuni passaggi dell’assemblea di Roma (tutti reperibili sul sito) anche per ribadire il carattere radicalmente alternativo del nostro progetto. Inoltre è importante che le assemblee abbiano carattere aperto, cioè che si discuta non tanto di noi quanto delle prospettive che vogliamo aprire nella scena politica e delle modalità per rendere praticabile l’impresa (tenendo conto – altro dato conoscitivo necessario – che il numero minimo di voti per avere una rappresentanza alla Camera – dove c’è, secondo la legge vigente, la soglia minima del 4% – è di circa 1.500.000 voti).

3) come contributo alla discussione e prima base di uno schema di programma, proponiamo di seguito una bozza di 10 punti irrinunciabili da sottoporre all’assemblea per valutazioni e integrazioni;

4) le assemblee dovranno anche discutere la struttura della campagna “Cambiare si può” e le regole per definire le liste dei candidati in caso di partecipazione alle elezioni, a partire da alcuni punti fermi fissati nel documento costitutivo: il carattere di originalità del progetto (che non può essere la semplice sommatoria di articolazioni preesistenti), il segno di novità nelle candidature (in termini di netta discontinuità rispetto al passato), la designazione dei candidati in modo pubblico e trasparente;

5) è importante che all’esito dell’assemblea (o della sua fase preparatoria) si individuino per ogni realtà territoriale un coordinamento organizzativo in modo da costruire una rete operativa immediatamente e facilmente attivabile (posto che una impresa che nasce dal basso deve valorizzarne le indicazioni ed essere in grado di coordinarle).

Buone assemblee!

10 punti programmatici minimi irrinunciabili

1. Sì a un’Europa dei cittadini, alla rinegoziazione del debito pubblico e delle normative europee al riguardo attraverso una alleanza dei Paesi mediterranei oggi devastati dalla crisi e a un progetto di riconversione di ampi settori dell’economia in grado di rilanciare l’occupazione con migliaia di piccole opere di evidente e immediata utilità collettiva. No all’Europa delle banche e dei banchieri e delle politiche recessive in atto.

2. Sì a un grande progetto di riconversione ecologica dell’economia e di riassetto del territorio nazionale e dei suoi usi per garantire la sicurezza dei cittadini e la riduzione del consumo di suoli agricoli. No alle grandi opere (dal Tav Torino-Lione al Ponte sullo stretto e al proliferare di autostrade e raccordi) inutili, dannose all’ambiente e alla salute ed economicamente insostenibili.

3. No a contrazione del lavoro e al precariato e alla riduzione di fatto dei salari e delle pensioni. Sì al ripristino delle tutele del lavoro e dei lavoratori cancellate dai Governi Berlusconi e Monti (anche con sostegno ai referendum) e alla sperimentazione di modalità di creazione diretta di occupazione, anche in ambito locale, all’introduzione di un reddito di cittadinanza, al potenziamento degli interventi a sostegno delle fasce più deboli e dei presidi dello stato sociale (nella prospettiva di un welfare dei diritti e non di forme di assistenzialismo caritatevole).

4. No agli attuali costi fuori controllo della politica e alla rappresentanza come mestiere. Sì alla autonomizzazione della politica dal denaro, all’abbattimento dei relativi costi, alla previsione di un tetto massimo per i compensi pubblici e privati, all’azzeramento delle indennità aggiuntive della retribuzione per ogni titolare di funzioni pubbliche.

5. Si a un’imposizione fiscale più incisiva sui redditi elevati, sui patrimoni e sulle rendite finanziarie (con estensione alle proprietà ecclesiastiche). No ad aumenti delle imposte indirette e a inasprimenti della fiscalità nei confronti dei redditi medio-bassi.

6. Sì a un’azione di ripristino della legalità, di contrasto della criminalità organizzata, dell’evasione fiscale e della corruzione con recupero di risorse da destinare a un welfare potenziato e risanato dal clientelismo. No alle politiche dei condoni e alle leggi ad personam.

7. No a tutte le operazioni di guerra e drastica riduzione delle spese militari. Sì alla destinazione dei corrispondenti risparmi e di risorse adeguate a sanità, scuola pubblica, ricerca e innovazione (nella convinzione che sapere e istruzione sono prerequisito della democrazia e intervento strategico).

8. Sì a politiche di valorizzazione dei beni comuni e a forme di sostegno e promozione delle esperienze di economie di cooperazione e solidarietà. No allo svuotamento di fatto dei referendum del 2011 e alla vendita ai privati dei servizi pubblici locali.

9. No ad ogni forma di discriminazione e di razzismo (e alle leggi che ne sono espressione, a cominciare dalla Bossi-Fini). Sì al pieno riconoscimento dei diritti civili degli individui e delle coppie a prescindere dal genere, a una cultura delle differenze, a politiche migratorie accoglienti e all’accesso alla cittadinanza per tutti i nati in Italia.

10. Sì a una riforma democratica dell’informazione e del sistema radiotelevisivo che ne spezzi l’attuale subordinazione al potere economico-finanziario. No al conflitto di interessi e alla concentrazione dell’informazione.

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“L’Europa rischia di diventare terreno di conquista del particolarismo e del populismo.”

Londra 20 ottobre 2012, 100 mila manifestanti contro l’austerity.
CRISI E’ POLITICA, NON SOLO ECONOMICA- Critica Sociale

Il Regno Unito e il resto dell’UE si dirigono in direzioni diametralmente opposte, constata il Guardian. Dal punto di vista britannico il Continente farebbe meglio a sottrarsi ai disegni egemonici tedeschi
“Man mano che va avanti la più grande crisi della storia d’Europa, il Regno Unito e il resto dell’Unione si dirigono in direzioni diametralmente opposte. Concentrata ormai da tre anni sulla crisi dell’euro, Berlino chiede di riaprire i trattati europei per facilitare una maggiore convergenza – o abdicazione, a seconda del punto di vista – della sovranità nazionale per rendere possibile la creazione di un’Europa federale. Ciò porterebbe alla nascita di un governo centrale europeo che avrebbe prerogative esclusive in tema di potere fiscale e di spesa. Ma il Regno Unito ne è escluso”. Questo l’incipit del contributo di Ian Traynor per il Guardian, che mette in guardia, dal punto di vista britannico, dai disegni egemonici tedeschi sul rinnovato processo di integrazione europea. Berlino sta manovrando per rafforzare la sua egemonia economica (e ormai politica) sull’Europa continentale, privilegiando l’interesse nazionale a una profonda, inclusiva e democratica riforma dell’architettura europea.

Le recenti scelte di politica europea prese dell’esecutivo di Angela Merkel sono avversate da Juergen Habermas che, insieme ad altri intellettuali tedeschi di area riformista, mette sotto accusa “le reazioni particolaristiche degli interessi nazionali (che spiegano) il fallimento di quell’approccio globale coordinato (contro la crisi) proposto per la prima volta al G-20 di Londra nel 2009″. Secondo il noto filosofo e storico tedesco: ” Una grande potenza economica come la UE … dovrebbe svolgere una funzione di avanguardia … Il trasferimento di sovranità alle istituzioni europee è ormai inevitabile, se si vuole applicare efficacemente la disciplina di bilancio e garantire un sistema finanziario stabile. Allo stesso tempo, si avverte l’esigenza di un maggiore coordinamento delle politiche finanziarie, economiche e sociali dei paesi membri con l’obiettivo di compensare gli squilibri strutturali nell’area della moneta unica”.

I mali europei non sono tuttavia riconducibili ai soli problemi economici. Il deficit democratico che si avverte in tutto il continente è all’origine del malessere sociale che alimenta quella che i ricercatori della London School of Economics and Political Science (LSE) definiscono “politica sotterranea”, distinguendola dall’anti-politica. Secondo quanto afferma la professoressa LSE Mary Kaldor, “le principali forze politiche europee descrivono l’attuale crisi in termini prettamente finanziari, ma la nostra ricerca suggerisce che la crisi in Europa sia soprattutto politica, perché le proteste non sono riferite all’austerity in quanto tale, ma si concentrano piuttosto sui fallimenti della democrazia, sul modo in cui viene attualmente gestita.”

L’Europa rischia di diventare terreno di conquista del particolarismo e del populismo, che storicamente prosperano nei momenti prolungati di crisi. L’unico modo per evitarlo è prendere atto del fatto che l’Europa da grande progetto di emancipazione si sta trasformando in un apparato burocratico e tecnocratico, i cui meccanismi decisionali appaiono a cittadini opachi e anti-democratici. L’emergere della politica sotterranea rappresenta non solo un campanello d’allarme, ma anche una grande opportunità di ricostruire il tessuto democratico continentale come presupposto di una politica più autorevole ed efficiente.

Questione politica ed economica risultano peraltro intrecciate. Un recente editoriale apparso sull’Economist pone il tema dello strisciante conflitto economico che contrappone le sempre più inquiete nuove generazioni ai baby-boomers, i nati in Occidente tra il 1945 e il 1964: “I ‘boomers’ hanno beneficiato di una serie di tendenze economiche, politiche e sociali (la crescita del trentennio 1945-1975, la costruzione del welfare state, la diffusione del lavoro femminile) che hanno consentito loro di vivere un’esistenza più agiata e gratificante sia dei loro padri che dei loro figli e nipoti”. Detenendo in larga misura il potere politico ed economico, la generazione nata e cresciuta nel secondo dopoguerra è ancora in grado di condizionare a suo vantaggio il processo decisionale al massimo livello, entrando spesso in rotta di collisione con gli interessi delle fasce più giovani della popolazione.

I rapporti di forza sono inevitabilmente destinati a cambiare, aprendo una nuova fase del conflitto intergenerazionale senza precedenti che la crisi globale ha determinato. (Beh, buona giornata)

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di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Nelle botti piccola sta il vino buono. In tempi di lettori deboli, il vino buono è costretto a stare in testi brevi. Ma ci vuole arte.
L’operazione è riuscita a Giovanni Mazzetti, economista orgoglioso della sua eterodossia, con un illuminante critica del pensiero unico (Ancora Keynes? Miseria o nuovo sviluppo?, Asterios, euro 8). In meno di 90 pagine propone una corsa nella teoria economica e tra i pilastri delle grandi crisi del secolo scorso per illuminare «l’idiozia» – letterale – delle politiche applicate in piena recessione, a cominciare da quel «pareggio di bilancio» che è stato inchiodato a forza nella Costituzione.
Quel «pareggio» è stato «una conquista borghese» al tempo della lotta contro la monarchia assoluta.

Ed è solo in quella fase che diventa – insieme al nuovo primo comandamento: «lasciar fare» al mercato – una pratica potentemente «progressiva». Nell’epoca dell’ascesa del capitalismo, infatti, la spinta individuale all’arricchimento è stata una molla formidabile per la messa in produzione delle risorse di lavoro esistenti.

Ma ogni cosa ha una fine e Keynes, a cavallo della prima guerra mondiale, se ne accorge. La crisi della «prima globalizzazione» e la guerra avevano mostrato che «i singoli (imprenditori, ndr) non erano in grado di tener adeguatamente conto delle più ampie implicazioni della loro stessa azione collettiva», e quindi «l’economia avrebbe dovuto subire una subordinazione ad un innovativo processo di coordinamento generale».

Ci vorrà una seconda e più distruttiva guerra – e l’affermarsi del «socialismo sovietico» – per convincere le classi dirigenti dell’Occidente ad accettare la visione di Keynes e varare politiche di spesa pubblica in deficit. Prima per «ricostruire» un sistema industriale distrutto dappertutto tranne che negli Usa, poi per garantire una stabile «piena occupazione».

Si parte dalla constatazione che «la spesa di un uomo è il reddito di un altro». Nella storia, «ogni accrescimento di capitale» è stato possibile perché «c’è stata una spesa superiore rispetto a quella necessaria a riprodurre la situazione economica al livello del periodo precedente». Se questo «di più» non viene anticipato dalle banche (come oggi), allora è necessario che lo faccia lo Stato. Questa spesa pubblica (non certo le clientele o le mazzette) fa da «moltiplicatore», attivando «una domanda potenziale che, affidata alle sole capacità degli imprenditori, sarebbe rimasta inespressa». Mazzetti dipinge il moltiplicatore keynesiano come «una carrozzella» per un capitalismo «con problemi motori»; che ha funzionato finché «ogni 100 dollari spesi dallo Stato si generavano 400 dollari di reddito reale» grazie alla risposta delle imprese.

Quando queste hanno preso a reagire meno – per troppa ricchezza, non per scarsità di risorse – è esplosa la «crisi fiscale dello Stato» degli anni ’70. Il «ritorno» in tasse non era sufficiente a ripianare le anticipazioni in investimenti pubblici. Lì sono tornati in pista i liberisti «ortodossi», del tutto dimentichi del disastro in cui «il libero mercato» aveva cacciato il mondo 50 anni prima. E la parola d’ordine è diventata «tagliare la spesa».

Qui il contributo di Mazzetti diventa prezioso. L’accumulazione, dopo gli anni ’70, è in qualche modo andata avanti lo stesso; com’è stato possibile?
Negli anni ’80 Keynes viene archiviato, ma resta il problema del finanziamento in deficit per «stimolare» nuove produzioni. «Il credito privato (anni ’90, ndr) ha svolto la stessa funzione del keynesiano deficit di bilancio. È stato l’unico modo per sostenere quella domanda che se fosse mancata avrebbe determinato sin dall’inizio quel drammatico crollo intervenuto negli ultimi anni». Il crollo del «socialismo reale» – di lì a poco – ha messo a disposizione del mercato oltre due miliardi di lavoratori-consumatori, un polmone straordinario che ha rallentato l’esplosione delle antinomie economiche per altri venti anni. Ma i nodi sono arrivati comunque al pettine.

«A differenza del debito pubblico, (quello privato, ndr) pretende di appropriarsi di una ricchezza reale attraverso uno scambio, pur non avendo messo in moto alcun lavoro aggiuntivo». Pensiamo al mondo oscuro dei prodotti finanziari derivati, cds, ecc: righe di codice dentro un computer da cui scaturiscono obblighi reali. «Il credito speculativo alimenta il debito senza la misura imposta dal collegamento con la produzione, e lo scarto tra la richezza reale e la pseudo-ricchezza finanziaria diventa incolmabile». Creare denaro col denaro, senza produrre nulla, ha prodotto una cecità pervasa da senso di onnipotenza. Il film Margin call è quasi un paradigma. Senza «la misura del collegamento con la produzione», del prestito commisurato a un determinato progetto ben dimensionato, l’investimento finanziario diventa «speculazione» senza limiti. Per elaborare i «prodotti finanziari» si chiamano i matematici, invece degli economisti; così come l’economia accademica scade a econometria. L’unica «misura» che conta è un algoritmo esponenziale, senza più l’impiccio della «cosa reale».

Ovvero «il capitale pretende di diventare una variabile indipendente rispetto alla stessa produzione». Negli anni ’70 era il salario, con qualche ragion pratica e morale in più, a nutrire questa speranza.
La crisi, dunque, è il punto d’approdo «fisiologico» di una dinamica surreale. Ma «la crisi non è altro che il processo attraverso il quale una nuova forma di vita sociale preme per venire alla luce». Non torneremo a come stavamo prima. Lo dicono anche Draghi e Monti, ma in direzione totalmente opposta a quella auspicabile per la stragrande maggioranza degli esseri umani («un innovativo processo di coordinamento generale»).

Il liberismo trionfante ha ammanettato lo stato come soggetto economico, concedendogli solo tre possibilità: «lo stato viene costretto a limitare le sue spese; lo stato continua a spendere, ma aumenta le tasse; lo stato attua le spese necessarie, ma indebitandosi con i privati e come un privato». È la storia degli ultimi 30 anni. Ma per questa via «non c’è soluzione alla crisi». Perché è l’imprenditoria privata a non saper come utilizzare l’eccesso di risorse disponibili.
«Quando la spesa dello stato ha cominciato a crescere senza generare un aumento multiplo del reddito, ciò testimoniava che il processo di riproduzione del rapporto di valore era bloccato».

Ma invece di prendere atto di questa realtà e «far recedere il potere oppressivo dei capitalisti» (Keynes!) si è proceduto nella direzione opposta. Per mantenere la libertà di impresa vengono ricostruite le condizioni della scarsità. Quindi «più povertà per tutti (quelli che lavorano)», così riprende l’accumulazione. Pardon, la crescita…
Qui l’invito di Mazzetti non può che essere quello di fare come Keynes (e Marx): «ristrutturare del senso del problema con cui ci si confronta», guardarlo da un altro lato. Insomma: pensare di nuovo.

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