Siamo diventati tutti prigionieri della catena del valore.
L’ultima trovata del telemarketing è farti telefonare non più da un essere umano, donna o uomo, che per pochi euro ti invade il telefono con offerte commerciali sempre più vantaggiose per chi le propone e non per chi le accetterebbe, come scopri solo dopo che incautamente le avresti accettate.
L’ultima trovata è che adesso ti chiama direttamente un nastro registrato che tenta di spararti nelle orecchie mirabolanti vantaggi.
Non bastava che ormai parlare con un essere umano per avere chiarimenti, o segnalare un disservizio è sempre più difficile, visto il proliferare di “assistenti virtuali”, che spesso hanno nomi che sembrano di pornostar, che ti dicono o scrivono quello per cui sono stati impostati, che è in realtà il modo più subdolo di dissuaderti dal rivendicare quel minimo di diritti cui ormai sono stati ricacciati i consumatori, considerati sudditi di grandi compagnie che non hanno tempo da perdere, dunque attenzioni da dedicarti.
Loro fanno tariffe, loro fatturano, loro sono irraggiungibili, intangibili. Il marketing da tecnica commerciale diventa regime autoritario, comando oligarchico.
Ed ecco che la grande maledizione del capitalismo moderno si realizza in pieno: prima hanno trattato male i dipendenti, oggi tocca a quelli che una volta erano venerati come “clienti”, per non perdere i quali i dipendenti hanno dovuto accettare ogni sorta di angherie.
Ormai prigionieri della catena del valore, oggi, finalmente, tu non sei più neppure un cliente, solo una carta di credito o un bollettino postale. Zitto e paga.
A Gevova, dal palco di RepIdee, il road show di Repubblica, Renzi ha detto che il suo competitor è Salvini, non Landini. Sì, certo, il gusto tutto renziano della battutina da primo della classe ha spesso il sopravvento nei suoi ragionamenti.
Tuttavia, senza fare processi alle intenzioni, si può ragionevolmente sostenere che Salvini fa comodo al governo in carica perché rappresenta un’opposizione totalmente allo sbando, che raccatta il peggior ciarpame ideologico di una destra fascista, violenta e senza prospettive, fatta solo di odio razzista e nostalgie di seconda mano, che appare come la cifra dello sfaldamento e la decomposizione organica di quello che fu Berlusconi e il berlusconismo.
La manipolazione del manipolatore, o “l’uso parziale alternativo” delle felpe di Salvini sembrerebbe una strategia utile al disorientamento delle forze sociali nel perimetro dei consensi del centrodestra. Tenere in pista Salvini serve al Pd per dimostrare di essere una formazione capace di governare con equilibrio riformatore; ma serve anche al centrodestra, perché dimostra la necessità di essere moderati, unitari, compassionevoli.
Insomma, Salvini sa bene di essere un pupazzo che prima o poi verrà bruciato. E quindi pesta sul pedale dell’acceleratore, e facendo a meno di freni inibitori, va dritto per una strada senza uscita, un sentiero sterrato dalle sue ruspe immaginarie.
In verità, non è questo che mi preoccupa: se mi permettete, mi fa semplicemente schifo. Nel senso che mi provoca un vero e proprio disgusto per le forme infime in cui si manifesta il cinismo della politica in Italia.
Infatti, Salvini non crede a una parola di quello che dice, recita la parte che la commedia gli ha assegnato; Renzi gli fa da puparo, mentre Berlusconi passa col cappello a chiedere gli ultimi spiccioli di consenso verso un nuovo partito di centrodestra, magari “repubblicano”, da contrapporre a quello “democratico”.
Ma in tutto questo, il veleno delle idee sbagliate, l’inquinamento delle coscienze, le narrazioni tossiche vengono scaricate in quantità industriali sull’opinione pubblica, facendo danni paragonabili alle fughe radioattive: i media, come centrali nucleari danneggiate, stanno spargendo particelle pericolose per l’ambiente della convivenza civile nel nostro Paese. Si respira un’aria mefitica perché è utile, oserei dire “organico” alla strategia sia del centrosinistra che del centrodestra, o comunque dei suoi pezzi e ruderi.
Alla ultime elezioni, la Lega ha guadagnato più o meno 250 mila voti. Per qualcuno sono inutili, perché hanno spostato niente. Per altri sono “danni collaterali” di un strategia politica precisa. Ma quegli elettori sono cittadini che sono stati ingannati con la complicità delle nostre tv.
Complimenti per la trasmissione a Floris, Giannini, Vespa, Formigli, Gruber, Giletti, Paragone, Del Debbio, eccetera, eccetera.
Questo connubio cinico tra strategie politiche e marketing televisivo è raccapricciante, quanto lo sono le felpe, gli sfondoni, le farneticazioni, i saluti romani e l’intera paccottiglia propagandistica di Salvini.
Come credete sia cominciati i pogrom contro gli ebrei, i gitani, gli omosessuali? Cominciarono per vile compiacenza, si imposero per bieca convenienza, continuarono per complice connivenza, si consumarono tra la generale indifferenza.
Fermiamoli finché siamo in tempo. Beh, buona giornata.
Cominciamo dal brutto. Una manifestazione per il Primo Maggio a Milano viene affumicata dai black bloc e oscurata dai media. “I black bloc si nascondono nella pancia dei cortei” dicono gli esperti dell’ordine pubblico. E allora: se la testa e il corpo dei militanti di un corteo non si occupano della pancia, c’è qualcosa che non va nel modo di andare in piazza. Bisognerebbe che se occupassero finalmente gli organizzatori di quelle manifestazioni. La questione della gestione dell’agibilità politica in piazza è una questione non più rimandabile.
Continuiamo col brutto. Un nutrito gruppo di giovani si organizza per scatenare gli scontri con le forse dell’ordine. Sono furiosi, odiano, spaccano tutto. Se la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato dei giovani in Italia ha raggiunto livelli mai visti, forse bisognerebbe occuparsene. Se c’è chi si sente legittimato a rappresentare la rabbia giovanile, più che degli arrabbiati, bisognerebbe occuparsi dei motivi che scatenano la violenza. Certo, dire, come a detto il capo del governo che “sono quattro figli di papà” non aiuta, semmai aizza. Senza contare che il capo di un governo democratico dovrebbe occuparsi di tutti i cittadini, anche di quelli che fanno solo casino, anche di quelli che lo contestano. Per fermare la violenza politica di piazza del ’77, l’allora governo Andreotti non usò solo la polizia, ma chiese un prestito internazionale col quale finanziò la famosa legge 285/77 per l’occupazione giovanile, che favorì un reddito e di conseguenza fermò le manifestazioni violente. L’attuale governo Renzi dovrebbe essere meno burbanzoso. E, per continuare col brutto, quello che è successo a Bologna, dove la polizia ha respinto manifestanti che volevano entrare alla Festa de l’Unità per contestare il capo del governo non s’era mai visto. Un partito di sinistra che sa parlare solo con gli industriali e non sa dare risposte ai precari della scuola non è né un partito di governo, né è di sinistra.
E adesso veniamo al bello. Il bello è stato la partecipazione di migliaia di cittadini milanesi che volevano rimettere a posto le cose sfasciate dagli scontri del Primo Maggio. L’orgoglio di sentirsi una comunità solidale è un sentimento puro. Purtroppo la causa è sbagliata: le città non sono vetrine, né Milano si può trasformare in un “temporary store”. Milano è molto di più della città che ospita Expo. Expo non è la soluzione della crisi, né rappresenta un prospettiva per il prossimo futuro. È un evento commerciale, fra sei mesi finirà quello che ancora non è stato neppure finito in tempo. Si dice Expo sia un’opportunità. Se lo sarà, lo sarà per le grandi corporazioni, per le multinazionali, per il mercato. Non per i cittadini di Milano, o comunque non per tutti. Bisognerà, allora raccogliere e coltivare questo sentimento di comunanza e di cura della città, e indirizzarlo verso l’innalzamento della qualità della vita e la gestione positiva della differenza sociali che convivono nella metropoli lombarda. Il sindaco Pisapia ha avuto una felice intuizione a indire l’assemblea pubblica a piazza Cadorna. La domanda è: quei cittadini che hanno partecipato a “nessuno tocchi Milano” sapranno darsi strumenti autonomi di protagonismo politico o arriveranno di nuovo i partiti a spartirsi il consenso per le prossime scadenza elettorali?
Ancora sul bello nelle cose sbagliate. È bello che si protesti con veemenza contro l’arroganza della maggioranza parlamentare che vorrebbe imporre la nuova legge elettorale. Ma è brutto il modo in cui forze politiche di opposte posizioni politiche, per non dire di contrapposte sensibilità democratiche hanno voluto praticare l’opposizione parlamentare. Neanche nei reality show televisivi la pantomima delle contestazione sarebbe riuscita a rappresentarsi tanto finta e strumentale al gioco delle parti. Se le giuste preoccupazione della coerenza democratica tra la Costituzione e le leggi che regolano la partecipazione dei cittadini della Repubblica alle elezioni vengono rappresentate con queste modalità, è chiaro che non c’è da fidarsi della buona fede dell’opposizione.
Poi c’è il brutto che si ritrova a suo agio nello sbagliato. La politica sull’immigrazione del governo è sbagliata, perché tende non a trovare una soluzione equa, quanto piuttosto a camuffare il problema di fronte all’opinione pubblica, inorridita dai naufragi e preoccupata dall’accoglienza. C’anche il più brutto nel peggior modo di sbagliare. Quando per mera propaganda, certe froze politiche vorrebbero respingimenti e affondamenti, mentre sventolano lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, succedono cose brutte nel modo peggiore: la Lega ha partecipato a tutti quei governi che durante i G8 e G20 promettevano aiuti ai paesi africani, senza mai poi versare un euro. Se i nodi non vengono al pettine, è il pettine che si incarica di sciogliere con durezza i nodi: è vero che l’Italia è molto esposta all’immigrazione di masse di disperati, ma è altrettanto vero che la nostra politica ha commesso errori drammatici nei confronti di quei paesi che oggi “esportano” fame e miseria in Europa, passando per le nostre coste.
Infine, il bello delle cose giuste. Un ragazzo disabile non è potuto salire sul pullman della gita scolastica e tutti i suoi compagni di scuola non sono voluti partire e quella gita che non si poteva fare per uno, nessuno ha voluta farla. Questa si chiama solidarietà. Non quella di un euro via sms, perché quella è elemosina. La solidarietà è quel sentimento collettiva di rinuncia a un privilegio per pochi perché possa essere condiviso da tutti. Anche se i tutti sono uno solo, quel ragazzo in carrozzella.
Dovremmo ricordarcelo più spesso. Beh, buona giornata.
“E mo’ vene Natale, non tengo denari, me leggo ‘o giurnale, e me vado a cuccà”, mitica canzoncina jazz di Renato Carosone del 1955 che, a saldi pari, calza a pennello alla comunicazione italiana, che si appresta a chiudere un altro anno terribile, smentendo, senza che nessuno abbia il coraggio di farne pubblica ammenda, la previsione di un pareggio, se non di un sia pur lieve incremento.
Siamo, invece, ancora nella melma, per non dire di peggio. E non si tratta di numeri, ma d’idee.
Succede, per esempio, che una nota e potente organizzazione nella grande distribuzione mette sui suoi scaffali un nuovo prodotto a marchio: un preservativo. Ma la campagna è moscia. E non vi sembri un volgare ossimoro.
Oppure che un grande editore italiano metta in distribuzione opzionale un prodotto multimediale su Giacomo Leopardi. La creatività radiofonica è niente meno che una serie di brani tratti al Cd, uno dei quali recita:
“Leopardi era un ragazzo allegro”. Peccato che l’agenzia non si chiami Monty Python.
Potremmo andare avanti in un lungo e noioso elenco.
D’altra parte, vanno in continuazione sul web ideuzze risibili, supportate da volonterosi copy e account che tentano di “virarli” attraverso i loro rispettivi profili sui social network.
Però si alzano peana alla comunicazione olistica. Dimenticando che è il marketing che deve essere olistico. La comunicazione o è settaria o non è.
Siamo in un’epoca di frantumazione. Si è frantumata la Repubblica, ormai ogni potere fa i casi suoi, spesso in contrasto gli uni con gli altri. Si è frantumato il sogno europeo, ormai divenuto il ricorrente incubo dell’austerity: il suo mantra è “ricordati che devi pagare le tasse”.
Si è frantumata la politica, che oltretutto sta frantumando anche la pazienza degli elettori: neanche la pubblicità degli Anni Ottanta sparava fandonie così roboanti. Manco il leggendario “vavavuma!” della Citroen diesel di Seguélá sarebbe arrivato a tanto.
Certo, la frantumazione dei media è la caratteristica attuale. Usciti (male) dall’impero della tv e dalla satrapia di Auditel, oggi vaghiamo in un limbo in cui per raggiungere i consumatori le marche si devono fare in mille pezzi, tanti quanto è la somma tra i vecchi e i nuovi media.
Ma a forza di avvitarsi in tecnicalità e a credere che i mezzi siano tutto, il messaggio langue, il contenuto è esangue. C’è anche un aspetto grottesco, per non dire gotico, una specie di noir de noantri, non tano del dibattito, che forse non c’è mai stato, quanto del chiacchiericcio lamentoso: quelli che urlano “la pubblicità è morta” non riescono a nascondere le mani sporche di sangue della strage di idee.
Guardare a certe importanti campagne fa impressione; vedere immagini, testi, claim, cioè i contenuti, fa pena. Una regressione stilistica, estetica e sintattica; una povertà d’immaginazione e di comunicativa; una fretta nell’esecuzione che fa cadere ogni voglia di interessarsi al narrare delle marche, dunque ai loro prodotti.
La grande corsa all’irrilevanza della comunicazione commerciale italiana fa sudare, boccheggiare e ansimare tutti, su una strada che vede allontanarsi via via il traguardo della ripresa economica.
Come fosse la vocazione a essere comparse, invece che protagonisti, poco vale consolarsi per la partecipazione straordinaria di creativi italiani alla messa in scena di campagne internazionali.
Mentre da più parti ci verrebbe proposto un nuovo modello di comportamento emotivo, basato sulle migliori qualità italiane, si dimentica che il paradigma gramsciano aveva nell’ “ottimismo della volontà” il contrappeso del “pessimismo della ragione”. Cioè di una visione critica, analitica, non conformista, utile alla modificazione positiva della realtà. Che dovrebbe cominciare col rifiutare di credere ancora che tecnicalità e mezzi, invece che idee e contenuti siano la comunicazione del nuovo modo di fare marketing.
E visto che continuiamo a importare acriticamente dall’estero assiomi del marketing moderno, per concludere ci starebbe bene una famosa citazione di “Un americano a Roma”, interpretato da un Sordi giovane e pimpante.
Quando qualcuno viene a farvi il pistolotto sulle nuove opportunità, rivolgetevi a chi vi sta accanto e dite ad alta voce: “Armando, questo mo’ cacci via, subito”. Magari funziona. Beh,buona giornata.
Che differenza c’è tra Murdoch e Genny ‘a carogna ? Che con il secondo si può trattare. Gira questa battuta, da qualche giorno, negli uffici dell’Auditel, dopo il lancio dello Smart Panel di Sky.
Da quando è apparsa nel panorama dell’etere, i rapporti tra la nuova Tv e il vecchio rilevatore degli ascolti, l’Auditel, non sono mai stati idilliaci. Le diatribe sull’audience sono state all’ordine del giorno, con frequenti incursioni nei tribunali e richieste di danni.
Oggi la Tv di Murdoch segna un punto a suo favore, lanciando il suo sistema di rilevazione. Praticamente, un’ Auditel fatta in casa, ma con un dispiego di mezzi che non ha nulla a che invidiare a quella ufficiale: subito un campione di 5.000 famiglie, a pareggiare le 5.127 dell’Auditel, per arrivare a 10.000 entro pochi mesi. Ma che bisogno aveva Sky di raddoppiare un sistema degli ascolti già esistente ? La prima risposta, quella che non si può dare, è che anche loro non si fidano dei dati.
La seconda, quella ufficiale, è affidata alle parole di Eric Gerritsen, vicepresidente esecutivo di Sky Italia per la Comunicazione e gli affari istituzionali.
“Il punto – dichiara alle agenzie – è che noi abbiamo bisogno di capire quali sono i comportamenti dei nostri abbonati e purtroppo gli attuali schemi di rilevazione sono un po’ vecchiotti, abbiamo più volte sollecitato Auditel a essere più innovativi ma la risposta ci sembra un po’ lenta quindi ci muoviamo noi” .
Poi in un rigurgito di diplomazia, precisa, giusto per non essere troppo conflittuale che lo Smart Panel “è uno strumento non alternativo ma integrativo rispetto all’Auditel “.
Walter Pancini, direttore generale di Auditel, abbozza e accetta lo ‘Smart Panel come “un legittimo strumento di indagine interna a fini editoriali, non in competizione con noi”.
Ma poi Gerritsen insiste. Il manager della pay tv italiana osserva che le abitudini di consumo della tv sono cambiate: “Basti pensare che nei fine settimana la Formula Uno, come il calcio, viene seguita da circa 600 mila persone sui tablet. Noi dobbiamo misurare gli effetti del cambiamento, nel dettaglio. Non miriamo a una sorta di autonomia dall’Auditel ma abbiamo bisogno di capire puntualmente quali sono i comportamenti degli spettatori”.
A Sky sono interessati soprattutto alla nuova frontiera, ovvero ai consumi da altri dispositivi che non siano il televisore, come smartphone, tablet ma anche l’interazione con i social. Anche per il recente accordo con Telecom che permetterà di portare l’offerta della pay tv anche sulle reti a banda ultralarga dell’operatore tlc.
E qui Pancini non può far altro che inseguire ” Quello dell’analisi degli ascolti in mobilità è un obiettivo al quale stiamo lavorando da tempo, parallelamente con le altre Auditel europee: siamo in fase di sperimentazione”.
Poi vira sul patetico: “Non siamo un organismo vetusto. Auditel resterà un punto di riferimento per le aziende “.
Intanto, però le tensioni più o meno sotterranee tra Auditel e Sky emergono alla luce del sole. Il sistema di rilevazione degli ascolti nato nel 1986 non ha mai riscosso le simpatie degli uomini di Murdoch per due ragioni. Una è che il è nato per garantire gli equilibri tra RAI e Mediaset , la seconda è che la logica analogica dell’Auditel penalizzava il sistema satellitare e digitale di Sky.
Lo Smart Panel rappresenta quindi “ la soluzione finale” che – al di là delle rassicurazioni sul fatto di essere integrativo e non alternativo – costringerà quanto prima Auditel ad affrontare una rivoluzione nei metodi e nei campioni.
Una “ bomba atomica “ che – anche se per ora non si prevede che siano resi disponibili all’esterno – con la sua sola esistenza sposta gli equilibri tra le grandi emittenti. E chiama in causa l’opera dell’AGCOM per capire chi maneggerà questi dati che sono – ricordiamolo – quelli che determinano gli investimenti pubblicitari sulle emittenti.
Chi controlla l’Auditel, controlla gli spot. E chi controlla gli spot è il vero padrone delle Tv. Perciò l’Autorità delle Comunicazioni potrebbe fare 2 cose: una, un lavoro preventivo sulla trasparenza di queste procedure murdochiane ( come non fu fatto per l’Auditel ) visto che gli approcci dello Squalo ( il soprannome di Murdoch ) non tranquillizzano, in questo senso.
Due, molto più importante, porre all’ordine del giorno del governo la questione dell’applicazione finale della legge 249 che chiede di istituire un sistema pubblico di rilevazione degli ascolti. E’ come se nella sanità, ci fossero solo ospedali privati : va bene per chi ci vuole andare e se lo può permettere, ma gli altri? (Beh, buona giornata.)
*autore del libro “ L’arbitro è il venduto” – la radio dopo Audiradio – Bibliotheka edizioni
âUltimo telegramma Stop Da Calcutta Stop Oggi 14 luglio 2013 Stop Ultimo telegrafico bye da intera India STOPâ.
Il prossimo 14 luglio chiuderà ogni ufficio e cesserà definitivamente qualsiasi servizio telegrafico su tutto il vasto territorio di quel sub continente chiamato India. Un sevizio garantito dal 1850 dal Bharat Sanchar Nigam Limited (BSNL), compagnia di comunicazioni che è arrivata a inviare oltre sessanta milioni di telegrammi, attraverso quarantacinquemila uffici nel 1985, anno che segna il vertice della sua storica attività .
Oggi siamo a soli 75 uffici con un movimento di appena cinquemila telegrammi l’anno e addetti che passano da circa tredicimila a mille unità , anche se esistono altri seicento sportelli in franchising, che hanno garantito il loro servizio in tutti i 671 distretti territoriali dell’India. Il primo telegramma fu spedito 163 anni fa da Calcutta, (oggi Kolkata), a Diamond Harbour, a 50 km di distanza.
Shamim Akhtar, direttore generale dei servizi telegrafici di BSNL ha dichiarato: âSMS e smartphone hanno reso obsoleto il servizio telegramma, stiamo perdendo oltre 23 milioni di dollari lâannoâ.
Aldilà del valore legale e istituzionale del telegramma in India e altre parti del mondo, dell’importante e anzi cruciale ruolo storico e sociale che ha svolto, va considerato il fatto che mai fino ad oggi un nuovo medium ne aveva completamente divorato un altro, dai messaggi con segnali luminosi, alle lettere d’amore, ai âpizziniâ tra mafiosi e carcerati.
Sono certo, Ferri, ci fossi tu in India avresti già ideato e lanciato una campagna a favore di un altro telegramma ancora dopo quel monsone il 14 luglio 2013 spazzerà via pali e linee del servizio telegrafico tra i più vasti del mondo STOP (Beh, buona giornata).
Uno dei temi di scontro tra gli Usa e gli Stati europei resta la cosiddetta âeccezione culturaleâ(*) sul cinema e sui prodotti audiovisivi. Le major americane del settore vogliono una completa liberalizzazione del mercato, mentre l’Europa â capofila la Francia â sostiene che la cultura non è una merce come le altre: è patrimonio stesso della Res publica, dello Stato e va dunque protetta e opportunamente incentivata. Gli Stati europei hanno ottenuto che il tema fosse stralciato da quelli all’ordine del giorno nel recente G8 irlandese. Obama, in considerevole difficoltà a causa del âdata-gateâ, lo scandalo dello spionaggio capillare sull’intero traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani, non ha per il momento voluto aprire le ostilità sul tema, ma la partita e’ solo rimandata. Gli Usa â come ha paventato anche Romano Prodi â potrebbero, per ritorsione, sollevare anche essi una loro specifica e magari economicamente più pesante âeccezioneâ, ad esempio sull’agricoltura. Anche il ministro italiano Bray si e’ schierato per l’eccezione francese, mentre all’interno del Governo non tutti sono sulla sua posizione.
La manifestazione alla Croisette non è semplicemente una âmostra’ dell’arte cinematografica, come Venezia e Berlino. E’ anche questo ma soprattutto l’espressione dell’intervento produttivo e culturale francese sulle cinematografie di quasi tutto il mondo, quelle economicamente più deboli in particolare. Cannes solca come una vera e propria portaerei produttiva i mari di tutto il mondo, pasturando di capitali per il cinema quelle acque, per trainarne poi in patria i risultati migliori. La grande maggioranza delle pellicole presentate a Cannes sono frutto della coproduzione francese nel mondo. Tra queste anche le nostre âLa grande Bellezzaâ e âSalvoâ. La prima non e’ stata degnata di alcun riconoscimento, mentre la seconda e’ meritatamente onorata di un âGran Premioâ e di una âMenzione Specialeâ, in proporzione â sembrerebbe â proprio alla quantità e qualità dell’intervento francese.
Una vittoria forse già in qualche modo âinstradataâ dalla direzione strategica di Cannes. Moltissime sono state le pellicole âseminateâ e poi scelte per questa edizione che vedono come protagonisti non solo i giovani ma addirittura gli adolescenti. Una scelta che ha tutto il sapore di un investimento strategico-globale, di egemonia culturale e produttivo di lungo respiro, che forse ha qualcosa a che fare proprio con la âeccezione culturaleâ e lo scontro con le major americane. (Beh, buona giornata).
(*) Cosa è l’eccezione culturale? (di R.T.)
Lâeccezione culturale è una politica che consiste nel tenere la produzione culturale al di fuori delle leggi di mercato. Essa permette agli Stati di mettere in atto dei meccanismi di aiuto e sostegno alla loro cultura, sotto forma di sovvenzioni come gli aiuti allâindustria cinematografica e più generalmente ad ogni forma di opera creativa. Ma questo può anche concretarsi nellâapplicazione di quote di diffusione cioè imporre per legge che un certo numero di opere diffuse per radio o televisione siano prodotte in Europa. Allâepoca gli americani volevano inserire la questione della proprietà intellettuale nel commercio internazionale, ma lâUnione europea si oppose. Per gli USA la cultura è un prodotto come gli altri che non può essere sovvenzionato.
Qualche tempo dopo il lancio dello slogan “La Coop sei tu. Chi può darti di più!”, un cliente della Coop di Ravenna scrisse una lettera ad Andrea Necchi, l’account che all’epoca gestiva il budget Coop in Tbwa, per fare personalmente i complimenti all’autore, dato che lo riteneva “un’autentica cannonata”.
Questa richiesta fu subito girata a Maria Carla Elvetico, la copywriter che, nel 1982, creò quello che sarebbe diventato uno degli slogan più longevi della pubblicità italiana, lavorando alla campagna di rilancio del supermercato in coppia con l’art director Patrizia Bona. La Coop era la più grande organizzazione di consumatori in Italia, con oltre 1 milione di soci. Associarsi costava 10.000 lire e dava diritto alla remunerazione delle quote sociali, alle offerte speciali e agli sconti, segni della partecipazione attiva alla gestione della cooperativa. Da qui l’idea del payoff.
La sua forza risiede nella verità: la Coop è un’associazione dove chi vende e compra sono la stessa persona, e nella brevità della proposizione. Nelle quattro parole che lo formano, è inserito il nome del prodotto, che rimane così legato allo slogan in modo indissolubile. Nel 1985, il fortunato motto divenne ulteriormente popolare con gli spot di Peter Falk, un attore molto noto in Italia, che si proponeva come il tenente Colombo, detective e cliente “ingenuamente” curioso.
Nel 1992, Woody Allen accettò di girare quattro spot televisivi, ricevendo un compenso piuttosto elevato che scatenò qualche polemica proprio tra i consumatori che sentivano di appartenere alla Coop. Quest’autunno lo slogan compie trent’anni ed è da lungo tempo entrato a far parte dei modi di dire della lingua italiana, e delle frasi più citate nella storia della pubblicità.
Per fare qualche esempio: in occasione dello scandalo sui presunti finanziamenti illeciti a Botteghe Oscure da parte della Lega delle Cooperative, in seguito alle accuse lanciate da Craxi ad Occhetto, Giannelli esce sul Corriere con diverse vignette. In una, Di Pietro dice ad Occhetto: la Coop sei tu. Chi può dirmi di più? In un’altra, Fassino chiede a D’Alema: La coop sei tu? Nel 2000, Staino usa lo slogan per parlare della proposta di creare le cooperative di prostitute. La moglie di Bobo: “Le prostitute in cooperativa?”. E Bobo: “Addio allo slogan la Coop sei tu, spero.” Una nefasta previsione.
Nel 2008, il claim fu sostituito da un obamiano “Insieme si può”, tentativo presto abortito con il ritorno al vecchio inossidabile slogan, in una campagna ora affidata a Luciana Littizzetto. Sono molti i copywriter che se ne sono attribuiti la maternità o la paternità (almeno una decina, secondo Aldo Cernuto, direttore creativo di Cernuto, Pizzigoni & Partners che, nella sua carriera, di portfolio ne ha visti davvero tanti). Roberto Caselli, Mauro Costa, Pepe Sangalli sono alcuni dei creativi della Tbwa, allora colleghi di Maria Carla Elvetico, testimoni della nascita di uno degli slogan più riusciti, che ha accompagnato e promosso la crescita della più grande catena di distribuzione in Italia.
Peccato che nessun altro sapesse chi ne è l’autrice. Forse è giunto il momento di chiedere i diritti d’autore, per evitare anche l’appropriazione indebita delle idee. Firmato: Copywriter senza copyright (Beh, buona giornata).
La fotografia della pubblicità italiana è stata scattata allâultimo Festival di Cannes, che si è appena concluso. AllâItalia sono stati assegnati un certo numero di Leoni, che è il nome del premio che viene assegnato sul palco del Palais.
In realtà è andata bene alle agenzie di pubblicità globali che gestiscono in Italia la quasi totalità del mercato della pubblicità , sia dal punto di vista dei messaggi che degli spazi pubblicitari. I fatturati delle multinazionali vengono ovviamente consolidati nei paesi in cui hanno sede i rispettivi quartier generali, e vanno a beneficio dei loro azionisti.
Il convegno che Upa (lâassociazione degli industriali che investono in pubblicità ) ha tenuto a Milano nei giorni scorsi è stato una delusione. Nonostante gli sforzi lessicali del presidente Sassoli de Bianchi non è uscito niente di concreto. Una lamentela qui sul ritardo degli investimenti sulla banda larga; una contumelia lì su i diritti di negoziazione; un ammiccamento colà sulla funzione del servizio pubblico radiotelevisivo. Niente di più. E di più significava tracciare una corsia preferenziale per le aziende italiane, per fare in modo che la pubblicità nel suo complesso potesse essere un nuovo starter per la ripresa. Peccato, ma la situazione richiede molto di più che non essere Malgara (il predecessore di Sassoli de Bianchi alla guida di Upa), cioè portatore di una visione totalmente asservita alle logiche della tv commerciale.
In effetti, la situazione richiederebbe un salto di qualità degli utenti italiani di pubblicità , delle agenzie, delle concessionarie, degli editori: per governare codesta crisi bisogna guidare il cambiamento, non soltanto subirlo o, peggio, ricamarci intorno. Manca concretezza, e questo non è un bene. E quando manca concretezza si fatica a leggere con chiarezza i segnali, i messaggi, le tendenze che si stanno muovendo.
Per esempio, i due Grand Prix, nella tv e sulla stampa che generalmente a Cannes tracciano una nuova tendenza per la comunicazione commerciale, dicono che è finita lâera della pubblicità come intrattenimento, che si può aprire una nuova pagina fatta di concretezza, condivisione, coesione, aderenza alla realtà .
Infatti, la campagna âUnhateâ di Benetton, vincitrice del Grand Prix nella stampa, (quella che mostra i capi di stato e di governo che si baciano sulla bocca, che da noi è stata vissuta con scetticismo) è una concreta presa di posizione verso il superamento dei contrasti derivati dalla politica globale.
Dâaltro canto, la campagna âBack to the startâ di Chipotle è la storia dellâazienda inglese che smette di produrre alimenti in modo industriale per tornare a una produzione di qualità , nel rispetto dellâambiente: la pubblicità si colloca nel trend della green economy.
Ma a guardarla bene, questa dolce e soave campagna inglese vincitrice del Grand Prix sembra una fantastica allegoria del ritorno al modo concreto, genuino, passionale, artigianale di fare pubblicità : fuori dai reticolati delle holding, dalle strettoie dei network internazionali câè vita, passione creatività , visione, capacità .
“A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante.”
Renato Mannheimer, sulle colonne del Corsera, ha scritto: “Come si sa, il profilo dell’elettore del M5S è in larga parte diverso da quello degli altri partiti. Si tratta di cittadini in maggior misura residenti nelle regioni del Nord, tendenzialmente giovani, con titoli di studio medio-alti, più interessati alla politica, con una più intensa lettura dei giornali e, specialmente, frequentazione di internet.” E’ da qui, infatti, che deve partire ogni analisi che voglia confrontarsi col “nuovo” fenomeno Grillo.
Per comprendere come abbia potuto prendere vita un’aggregazione, che si è andata via via assemblando sui territori, ma via web, fino all’exploit delle elezioni amministrative. Ciò che appare clamoroso non è tanto l’essere riusciti a far eleggere un proprio sindaco al Comune di Parma, ma il modo in cui questo risultato è potuto maturare. Dal web, col web, attraverso il web il M5S è riuscito non solo a intercettare, ma a dare corpo e infine una concreta prospettiva politica al movimento stesso. Un esempio di simile portata, che poi si è scatenato su scala nazionale, fino alla conquista del governo, lo si era visto con le tv e l’uso che ne ha saputo fare Berlusconi. L’uno ficcato dentro il web fino al collo, l’altro sempre davanti alle telecamere, entrambi sono riusciti a capovolgere il paradigma della rappresentanza politica attraverso il consenso elettorale.
Se fino ad allora, i partiti, espressione di ceti economici e sociali esprimevano i loro leader, con Berlusconi prima e Grillo poi si è verificato plasticamente il contrario: è il carisma del leader che intercetta gli umori di un parco consensi disponibili e su questo dà vita all’organizzazione, usando a piene mani non l’analisi politica, neppure la leva programmatica, ma direttamente gli strumenti di comunicazione con le masse, la tv e poi, appunto il web.
La strategia mediatica è tutta tattica. Berlusconi, infatti ha usato una gamba sola, la tv e il clamore mediatico delle sue manifestazioni carismatiche, e a un certo puntosi è azzoppato. Grillo, accorgendosi che un’anatra zoppa partecipa, ma non vince, a un certo punto si è scaraventato fuori dal web e ha incominciato a essere pressantemente presente sui giornali e citato con ossessione dalle tv.
E in questo, ha molto imparato da Berlusconi: spararla grossa, perché così tutti ne parlino a lungo. E’ successo, consapevolmente con la storia della mafia che “non strangola”, è successo con la storia del terrorismo che vorrebbe fermare il M5S. Berlusconi aveva scelto una precisa collocazione di destra. Grillo si colloca in una presunta terra di nessuno.
Saranno le scelte di governo delle città a tracciare il perimetro delle scelte concrete di M5S. Ma questo è un terreno squisitamente politico. Non ci si arriva con le sole astuzie della comunicazione di massa. Un conto è il potere, altro conto è un blog. Su questo terreno il marketing da solo non basta. (Beh, buona giornata).
Per Emanuele Pirella, la pubblicità doveva essere tangibile, criticabile, condivisibile. E un prodotto andava scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.
Questa impostazione culturale e professionale è stata una cifra precisa, riconoscibile, direi una costante del segno che Emanuele Pirella ci ha lasciato, quando ci ha lasciato due anni fa.
E fa per niente impressione che le sue parole trovino piena cittadinanza nell’attualità: l’impoverimento culturale delle agenzie di pubblicità italiana ha toccato i minimi storici, ormai completamente fuori combattimento dal dibattito, non dico culturale, ma neppure sulla società o il costume.
E allora, alla maniera del meccanismo del rovesciamento, tanto caro alla buona pubblicità, non è stato Pirella a mancare due ani fa alla pubblicità italiana, ma l’esatto contrario: in effetti, la pubblicità italiana non c’è più, mentre VolumePills Emanuele Pirella è molto presente nella formazione culturale, nella mentalità aperta, nello stile di lavoro di chi considera il linguaggio creativo un modo stimolante per veicolare pensieri, produrre concetti, creare occasioni ghiotte di comunicazione, capaci di svicolare, surfare, sgambettare, arrampicarsi, volteggiare, scantonare in ogni media: cose che rimangano nella mente dei lettori, perché argute, intelligenti, intriganti, che esse siano lette su un autorevole quotidiano o su un sms; dette dallo speaker di uno spot o colte al volo su un twitter.
L’unica chance che la pubblicità italiana ha per tornare a essere un luogo sano sta nel sottrarsi alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla nostra epoca. Consapevoli di correre il rischio dell’innovazione, questo è l’impellente compito dei creativi pubblicitari italiani. Con Emanuele nel cuore. Beh, buona giornata.
Chi ha vinto la serata Auditel di ieri sera, sabato 3 marzo ? La risposta è : chissenefrega. Così, in pratica, si traduce lo sciopero Auditel proclamato per oggi, 4 marzo, da diverse realtà che in genere si occupano di analisi degli ascolti.
A fine giornata, si tireranno le somme di un’iniziativa che sottolinea il rapporto dialettico tra web e tv. Si chiama WIGD, la tv che vorrei, ed è promossa da una serie di blog e di siti che in genere si occupano di ascolti tv. Blog e siti che abitualmente informano i propri lettori su tutto quel che accade in tv, e quindi anche sui dati d’ascolto, dopo una settimana dedicata alla qualità in tv, oggi hanno sospeso la pubblicazione dei numeri per un giorno, oscurando i dati. Tra i promotori : TvBlog , Televisionando e CineTV.
Perché? L’iniziativa è simbolica e provocatoria e arriverà al termine di una settimana in cui la piattaforma di WIDG si è occupata di qualità in televisione. L’Auditel scatena il tifo e fa perdere di vista il senso più profondo della qualità in televisione. Tutto semenax hoax è sottomesso alla logica degli ascolti.
Qual è lo scopo? Uscire dalla schiavitù degli ascolti, dalle diatribe, dalle lotte che rendono l’Auditel l’unico parametro per valutare la tv italiana. Pensiamo che si possa vivere anche senza percentuali di share e valori assoluti: l’Auditel è una convenzione, una misurazione che ha assunto un valore che non dovrebbe avere. E’ diventato l’unico parametro di riferimento per chi fa tv. E decreta, senza motivo, anche i successi qualitativi“, recita il manifesto di presentazione.
Se anche voi pensate “che si possa vivere anche senza percentuali di share e valori assoluti“, aderite all’iniziativa, dicendo la vostra, nei commenti o sulla pagina Facebook, o su Twitter, usando l’hashtag #WIDG.
Vedremo quali saranno i risultati di questa azione che ha certamente un grande valore dimostrativo, e che ha il merito di mantenere alta l’attenzione sui meccanismi nefasti dell’auditelismo. Certamente, ormai la coscienza che in tv c’è bisogno di nuovi parametri si sta ampliando. Il prossimo passo dovrà essere necessariamente quello di proporre un nuovo meccanismo che si contrapponga all’Auditel. Per mezzi e per filosofia.
di Marigia Mangano – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/Oxqfr
UniCredit chiude il maxi aumento di capitale con il pieno di adesioni. L’interesse diffuso di retail e investitori istituzionali, il sostegno dei soci stabili e l’interesse del mondo imprenditoriale ha garantito alla banca di piazza Cordusio di portare a termine la ricapitalizzazione da 7,5 miliardi, complessa per dimensioni e tempistica, con risultati superiori alle attese.
L’operazione, che ha visto a capo del consorzio Bofa Merrill Lynch UniCredit e Mediobanca, ha registrato oltre il 99,8% delle adesioni pari a 7,48 miliardi di euro, battendo le previsioni più ottimistiche. «La partenza è stata dura, ma è fatta», ha dichiarato l’amministratore delegato Federico Ghizzoni.
di Giulio Gargia -www.3dnews.it
Sky vince un round importante, la sentenza del TAR del Lazio dà ragione a Cielo. Perciò, nelle prossime settimane, preparatevi a smanettare più del solito sul vostro telecomando del digitale. I numeri di alcuni dei principali canali nazionali e locali potrebbero cambiare. L’altro giorno, infatti, il Tar del Lazio ha annullato il Piano di numerazione automatica dei canali della tv digitale terrestre in chiaro e a pagamento, il così detto Lcn (Logistic channel numbering) stabilito dall’Autorità per le comunicazioni nel 2010. Lo ha deciso la Terza sezione ter del Tribunale amministrativo, presieduta da Giuseppe Daniele, accogliendo un ricorso proposto da Sky Italia, assistita dall’avvocato Ottavio Grandinetti.
Avvocato, vuole spiegarci perchè il TAR le ha dato ragione ?
Le motivazioni principali che hanno indotto i giudici ad annullare la delibera precedente sono state due. La prima : la normativa è stata considerata “discriminatoria” dal momento che nell’assegnazione distingue tra canali ex analogici, considerati generalisti e quindi privilegiati, e canali digitali, considerati semigeneralisti e per questo penalizzati. Questo a prescindere dai contenuti reali della programmazione di ogni canale.
E la seconda ?
I giudici hanno considerato ingiusto anche il fatto che nella numerazione assegnata dall’Agcom i canali digitali, come Cielo , vengano solo dopo quelli locali, creando in tal modo palesi disparità nella concorrenza rispetto agli ex canali analogici. Ricordo che uno dei motivi dell’introduzione del digitale in TV era l’incremento della concorrenza, a cui non vanno quindi posti questi ostacoli .
Quindi, per il telespettatore, se la sentenza venisse confermata, cosa cambierà ?
Dal nono canale in poi, i numeri potranno essere riassegnati. I nuovi canali nazionali passeranno prima delle locali, che ora sono posizionati dal 9 al 19. Invece, fino al canale 9 , tutto rimarrà come prima. E’ giusto ricordare che noi avevamo chiesto una riassegnazione di tutti i numeri ma su questo il TAR non ci ha seguito. Il TAR ha ritenuto anche che l’Agcom abbia concesso un termine troppo breve per partecipare alla consultazione pubblica, 15 giorni anziché i 30 giorni richiesti dalla legge. Questa consultazione è stata ritenuta comunque illegittima perché i soggetti interessati hanno potuto esprimere le loro osservazioni solo sullo schema di regolamento e non anche sul piano di numerazione.
L’Agcom ha annunciato ricorso .Quando si avrà l’esito finale di questa vicenda ?
Guardi, se l’appello verrà effettivamente proposto, entro 15 giorni ci dovrebbe essere un primo pronunciamento del Consiglio di Stato sugli aspetti urgenti della questione. Ed ove il Consiglio non dovesse sospendere la sentenza del TAR, già allora potrebbero cominciare a esserci delle conseguenze, perchè i canali potrebbero cominciare a spostarsi sui decoder. Successivamente ci sarà una camera di consiglio in cui i giudici esamineranno il problema nella sua interezza e adotteranno la sentenza definitiva. Inoltre, può darsi che la vicenda sarà trattata dal Consiglio di Stato assieme a quella posta dalle emittenti Canale 34 e Più Blu Lombardia, che riguarda emittenti locali che pure avevano avuto problemi sulla numerazione dei decoder. (Beh, buona giornata).
Quella nave abbandonata come la testa della Statua della Libertà in “Il pianeta delle scimmie”, simbolo della disfatta del genere umano: la Costa Concordia passerà alla storia perché, invece che di passeggeri” è sembrata piena di simboli.
A cominciare dal nome (Concordia), per proseguire dal motivo (l’inchino, cioè il saluto ravvicinato alla costa), dalla causa (lo scoglio di cemento), eccola la dozzinale rappresentazione dell’eterna lotta del bene contro il male: De Falco versus Schettino, cioè il senso del dovere contro la condotta irresponsabile.
Eppoi la riscoperta del radiodramma: la telefonata tra i due, un pezzo di altissima recitazione, come non se ne sente più da un pezzo via radio. Infine, non poteva mancare il paese natale di Schettino che si stringe attorno al suo concittadino, sbattuto in prima pagina come il mostro, già condannato dal tribunale speciale dei media, come sempre affamati di tragedie, di colpevoli, di vittime e di eroi.
Ci mancherebbe solo Vespa, che magari, invece di un plastico, sguazza dentro un acquario. E non è detto che non succeda pure questo.
Una nave da crociera piena di simboli, evocati da ogni parte: il mito del coraggio contro la codardia, come panacea per uscire dalla crisi politico-economica che attanaglia sempre più profondamente l’Italia. E quei disgraziati morti affogati, come fossero semplicemente i cadaveri di un episodio trasmesso da Fox Crime. No, non erano persone, ma consumatori di un centro commerciale galleggiante: le loro storie non interessano ai media. Potrebbero rovinare il marketing delle vacanze in crociera? Molto meglio, allora, continuare a ricamare sul codardo sbugiardato dagli eroi. Nuovi ammutinati del Bounty, novelli Capitani coraggiosi, in odor di Master&Commander.
Eppure, il fascino perverso dell’immagine della nave piegata su un fianco, alla deriva sugli scogli dell’isola del Giglio è contagioso proprio per via dei simboli che con lei sono naufragati e che sono poi stati soccorsi dai commentatori: dalle acque basse vengono, così, ripescati stereotipi dell’italico spirito nazionale. Reduci dalle celebrazioni del 150 esimo dell’Unità d’Italia, i soccorritori vengono descritti come personaggi di un nuova stesura del Libro Cuore.
Non ci sarebbe niente di male. Magari se la meritano un poco di attenzione, quegli uomini e donne che di mestiere salvano la vita agli altri. Soprattutto se lo meritano gli uomini di mare, a cui si voleva, non più tari di qualche mese fa, addirittura vietare di soccorrere le barche fradice di migranti alla deriva.
Se non fosse, invece, che la realtà di quanto è successo è molto più banale, dunque più tragica: un uomo commette un terribile errore, che costa vite umane, e per questo perde la testa, e continua a fare errori, primo fra tutti l’abbandono delle sue responsabilità. Banale e tragico, ma umanissimo.
Sarebbe meglio pensare a questo, prima di emettere giudizi capitali che spetterebbero all’inchiesta e a chi delle indagini prima e della sentenza poi è incaricato. E invece che facili riletture di Cuore, potrebbe essere utile interrogarsi sull’essere umano e disumano degli uomini. E spegnendo la tv, chiudendo il giornale e arrestando il sistema del pc, aprire e rileggere, per esempio, “Uomini e no” di Vittorini. Beh, buona giornata.
La delibera dell’Antitrust riaccende il dibattito sulle rilevazioni degli ascolti
“Per loro ci dividiamo in aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, provinciali frivoli “
di Roberta Gisotti
Meglio tardi che mai arriva la sentenza dell’Autorità antitrust, su ricorso di Sky.
Con orgoglio ricordiamo che la verità sull’Auditel era già scritta nero su bianco nel libro “La favola dell’Auditel” (edizioni 2002 e 2005) e nel libro di Giulio Gargia “L’arbitro è il venduto” (2003), oltre che nella vasta letteratura sul tema oggi facilmente reperibile in Rete.
Una sentenza che non deve però farci abbassare la guardia se già nel 2005 la Magistratura di Milano – su ricorso di Sitcom, consorzio di quattro emittenti satellitari (Alice, Leonardo, Marco Polo, Nuvolari)- aveva condannato l’Auditel per “abuso di posizione dominante” e “turbativa di mercato”. Ma poi l’Auditel ricorse in Cassazione che annullò la sentenza, come ora annuncia di voler ricorrere al Tar contro l’Antitrust Non è quindi detta l’ultima parola. Del resto a fine 2005 l’Autorità garante per le comunicazioni aveva dato ad intendere di voler e poter riformare l’intero sistema di rilevamento degli ascolti televisivi. Ma non è stato così. Il nodo economico – trasversale agli orientamenti politici – che sottostà al patto dell’Auditel si rivelò più saldo di quanto immaginato. Del resto i controllati sono anche i controllori – come denuncia l’Autorità antitrust – in questa società privata, che pure svolge un ruolo pubblico, se il dato Auditel assume la valenza di consenso perfino politico.
Da 25 anni i rilevamenti Auditel sono funzionali ad un sistema televisivo che si continua a volere immutabile nei tempi, imprigionato nel duopolio (Rai-Mediaset), dove il polo pubblico è stato del tutto assoggettato al polo privato gestito da un unico soggetto, che arrivato al Governo del Paese ha comandato su ambedue i poli. Duopolio insidiato dal 2003 dalla Tv satellitare Sky di Rupert Murdoch, altro potentissimo e discutibilissimo monopolista, che da sempre ‘scalpita’ per qualche punto in più di share, che negli anni a fatica gli è stato concesso ma non abbastanza. Duopolio disperso oggi in uno scenario digitale del tutto trasformato che i dati d’ascolto continuano a registrare come se nulla o quasi fosse accaduto.
Da 7 canali nazionali analogici siamo passati a 37 digitali terrestri e se comprendiamo anche tutti i satellitari ci sono ben 250 canali. Eppure l’Auditel in questi tre anni di sisma televisivo non ha fatto una piega!
L’Auditel è sempre stato un sistema del tutto inaffidabile sul piano tecnico riguardo il campione, le modalità del rilevamento, l’affidamento a comportamenti a umani. Un sistema del tutto distorsivo nel modo di elaborare il dato grezzo – sconosciuto a tutti -minuto per minuto o anche 15 secondi se non si resta sintonizzati almeno 60 secondi, per cui basta restare pochi attimi davanti allo schermo per essere compresi nel pubblico di un programma che non ricordiamo di aver visto, o contribuire ad un picco d’ascolto – quanto spesso un picco di disgusto – che va a premiare proprio il peggio del peggio che non vorremmo aver visto in Tv.
Un sistema del tutto fuorviante per l’uso che se ne fa nelle redazioni televisive, sempre più anche dei Telegiornali, dove le scalette si fanno con i grafici dell’Auditel per compiacere una maggioranza di pubblico che in realtà non esiste, è virtuale, composta nei laboratori della Nielsen-Tv a Milano, ad uso e consumo di chi ci vuole tutti spettatori imboniti piuttosto che cittadini responsabili. Basti citare le categorie nei quali viene compresa nei rapporti dell’Auditel l’intera popolazione italiana: aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, eclettici esigenti, provinciali frivoli, protettivi interessati, poi c’è il gruppo dei minori di 14 anni e quello dei non classificati, dove spero esserci anch’io. Sono semplificazioni di marketing che non vorremmo – come invece accade ogni giorno – finissero sui tavoli di chi decide i contenuti della Tv pubblica ma anche privata in base a queste idiozie per condizionare i nostri stili di vita e tendenze al consumo.
Basta con la dittatura dell’Auditel che ha mercificato gli uomini e soprattutto le donne di questo Paese.
Chiediamo pluralismo e trasparenza nella gestione del rilevamento e nella gestione dei dati di ascolto, che siano non solo quantitativi ma anche qualitativi per esprimere il gradimento ed anche le attese del pubblico. (Beh, buona giornata),
Non bastava un governo sfiduciato dai mercati, e uno nominato dalla Bce. In Italia adesso anche i direttori dei telegiornali vengono nominati dalla Borsa.
I fatti sono che Mentana si dimette, il titolo Telecom crolla. Mentana ci ripensa, il titolo risale. Enrico Mentana deve essersi sentito più importante di un barile di petrolio, di un’oncia d’oro, per non dire più determinante del famigerato spread. Ormai che i mercati finanziari hanno rotto ogni inibizione, superato ogni riservatezza, in Italia da oggi in poi tutto è possibile. Non si muoverà foglia che Piazza Affari non voglia. Chi vincerà in prossimo Giro d’Italia, lo deciderà la Borsa.
Il campionato di calcio, quello già lo decide da un pezzo. La Borsa si sta preparando a decidere chi sarà il conduttore del prossimo Festival di Sanremo, e ovviamente chi nominerà il vincitore non sarà più il televoto, ma il Mibtel, l’indice telematico. Si quoteranno i titoli delle canzoni? E poi, chi vincerà le primarie del Pd? Una seduta contrastata di Piazza Affari? La ricandidatura di Alemanno alla carica di sindaco di Roma? Sospesa per eccesso di ribasso.
Ovviamente, bisognerà stare attenti alle manovre degli speculatori: per sostenere il titolo Mediaset, ad esempio, si sono scatenati contro la Rai Minzolini e Ferrara, e contro SKY direttamente Auditel. Solo che non tutte le ciambelle riescono più col buco: da quando il Cavaliere è stato disarcionato, l’unico buco certo è quello di Endemol, che Mediaset non riesce va dare via. Senza il santo protettore a Palazzo Chigi, Minzolinil è stato giubilato, Auditel multata. E’ rimasto Ferrara. Verrà considerato anche lui troppo grosso per fallire? Eppoi, riuscirà Maccari a salvare il TgUno dalla bancarotta degli ascolti? Staremo a vedere.
Intanto, tornando alla vicenda de La 7 e del suo direttore c’è dire che i tempi sono cambiati per davvero. Una volta un direttore di successo si vedeva dai titoli di prima pagina. Oggi sono i titoli borsistici a consacrare il ritorno alla guida del Tg La 7 di Mentana, il quale, se può essere soddisfatto di aver vinto la sua personale battaglia contro l’Associazione della Stampa romana, e di aver riottenuto la fiducia del cdr del suo telegiornale, certo qualche domanda se la sarà pur fatta, dopo portato a termine con successo il suo personale aumento di capitale: sono un bravo giornalista o una bolla speculativa? Beh, buona giornata.
di Giulio Gargia
4 volte su 4. Se è una coincidenza, allora si tratta davvero di sfortuna nera. Per 4 settimane, tutte quelle di novembre, l’Auditel ha fornito in ritardo i dati del giovedì . Giorno in cui, dal l 4 novembre, va in onda il nuovo programma di Michele Santoro, con una formula che evidentemente mette a dura prova le capacità del servizio di rilevazione degli ascolti. Che a furia di ritardi del ciclo – di rilevazione – rischia di andare in menopausa.
“Anche oggi i dati dell`Auditel arriveranno in ritardo, formalmente a causa di `un problema tecnico`. Si tratta di un fatto allarmante, guarda caso ancora una volta in coincidenza con una puntata di Servizio Pubblico, il programma di Michele Santoro”. Così dichiarava giovedì scorso Flavia Perina, deputata Fli e membro della Vigilanza.
“A questo punto è innegabile ritenere l`Auditel un sistema obsoleto di rilevazione dei dati d`ascolto, che non tiene conto delle nuove modalità di fruizione dei prodotti televisivi. E diventa anche lecito pensare che forse una parte dei soci di maggioranza del consorzio, Rai e Mediaset in particolare, temono l`effetto Santoro”, concludeva la Perina. Che risolleva così uno dei problemi basilari della Tv : ma l’Auditel è attendibile ? Ora, senza entrare nel merito dei problemi che – secondo chi scrive e tanti altri – NON rendono tali i suoi dati, vogliamo ricordare che ogni volta che si presenta un nuovo network sulla scena TV, i suoi rapporti con l’istituto di via Larga non sono mai tranquilli. E’ successo con La7 ai tempi del mancato lancio del “terzo polo”, quando furono disdetti contratti già firmati con star come Fazio e Litizzetto, e alla rete fu imposta la consegna – accettata dai suoi vertici – di non superare il 3% nel giorno medio. E’ successo con Sky, quando ha chiesto di entrare nel comitato tecnico, tanto che ci sono stati comunicati di fuoco tra Mokridge, ad di Sky Italia e Pancini, direttore Auditel. E sta succedendo adesso con Servizio Pubblico e il network di Tv che lo manda in onda che si propone, almeno il giovedì sera, come un attore capace di rompere i sempre delicati equilibri su cui si spartisce la pubblicità. Perchè il problema è sempre quello : chi controlla gli spot, controlla la Tv . E dall’86 a oggi gli investimenti pubblicitari si sono ridistribuiti a favore della tv, grazie anche ai numeri che ha prodotto l’Auditel, che hanno orientato ingenti risorse a spostarsi da stampa e radio a favore della tv, e in particolare verso il costituendo duopolio RAI – Mediaset. Ma le modalità di produzione e divulgazione di questi dati hanno generato dubbi sempre più consistenti, corroborati da inchieste e libri che ne hanno minato l’attendibilità.
Il caso Santoro è solo l’ultimo , e nemmeno il più eclatante. Ma potrebbe essere quello che finalmente mette in crisi l’Auditel non tanto come apparato tecnologico obsoleto, come dice la Perina, ma in quanto macchina di costruzione e conferma del consenso attraverso la “ visione obbligata”. Come il PIL , che tutti gli economisti stanno rimettendo in discussione come parametro di misura del benessere di una società, così l’Auditel è destinato a implodere dentro una TV sempre più parcellizzata e specifica come quella digitale. E il fatto che le Tv locali siano sottostimate storicamente è un ulteriore conferma di come questa approssimazione chiamata Auditel sia ormai un residuo del passato da superare al più presto. Il problema non è la tecnologia: basterebbe collegare un cavetto telefonico a ogni decoder digitale per avere i dati degli ascolti in tempo reale, come sui siti Internet, in cui sai sempre quanti visitatori ci sono in quel momento. Il problema è l’apparato commerciale e industriale (grandi emittenti, centri media, agenzie dominanti ) di cui Auditel è il servomeccanismo, che non riuscirebbe a “ digerire” dei “ numeri” veri . E che dovrebbe dire ai suoi clienti investitori cose molto diverse da quelle finora avallate dalle curve e dai grafici d’ascolto.
“Sono azionista con grandissimo sacrificio economico. Non vedo l’ora che qualcuno la compri. Sono andato a chiederlo con molta insistenza in tante occasioni”. Renato Soru, intervenuto al seminario di formazione per giornalisti di Redattore Sociale a Capodarco di Fermo e intervistato l’altro giorno dal direttore di Radio 3 Marino Sinibaldi, parla così de l’Unità, giornale di cui è editore dal 2008. Nella sala una giornalista free lance chiede all’ex presidente della Sardegna perché il quotidiano non paga i collaboratori. Prima Soru dice che non è così. Poi interviene il presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino e afferma: “C’è qualcuno che non le dice tutto…”. A quel punto, imbarazzato, il numero uno di Tiscali risponde: “Se ci sono collaboratori che non percepiscono lo stipendio e che hanno scioperato da ottobre me ne scuso come azionista. Questo le dà il segno di un giornale che soffre la difficoltà di andare avanti. Si potrebbe prendere in considerazione anche l’ipotesi di chiudere”
Proprio il direttore di Radio 3 Marino Sinibaldi parlerà della crisi de l’Unità lunedì 28 novembre con l’ex direttore Concita De Gregorio.