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Agnes Heller accusa: «L’Europa tiene più al debito pubblico che ai diritti umani e civili».

di MARIAROSA SCIGLITANO-il Manifesto (via dirittiglobali.it)-

Nata nel 1929, la filosofa ungherese Ágnes Heller è una delle principali protagoniste del dibattito sulla complessità filosofica e storica della modernità. Sfuggita negli anni dell’adolescenza all’Olocausto, diventa allieva del filosofo György Lukács, del quale condivide il difficile rapporto con il partito comunista. Diviene docente alla New School di New York negli anni ’70 e tra le opere che contribuiscono alla diffusione del suo pensiero in Occidente vi è La teoria dei bisogni in Marx. Interprete autorevole del dibattito etico-politico contemporaneo, la Heller osserva criticamente le dinamiche politico-sociali che caratterizzano l’Ungheria di oggi e l’operato dell’attuale governo conservatore ungherese guidato da Viktor Orbán. Le abbiamo rivolto alcune domande, incontrandola nella sua casa di Budapest.

Abbiamo la sensazione che questo, per l’Ungheria, sia tra i periodi più difficili se non il più difficile dalla caduta del regime. Concorda?
Dipende da cosa significa difficile. Perché per la popolazione ungherese il cambiamento di sistema è stato un periodo difficile ma non in tutto, visto che all’epoca la gente ha cominciato a conoscere la libertà. D’altra parte, come dicevo, è stato difficile in quanto caratterizzato dalla chiusura di tantissime fabbriche con conseguente perdita di numerosi posti di lavoro. Se non consideriamo quel periodo, dobbiamo dire che senza dubbio quello attuale è il più difficile, perché si sono verificate contemporaneamente due cose: una è la limitazione del diritto alla libertà, soprattutto quella di stampa, l’altra è la soppressione di contrappesi, cioè di istituzioni opposte al governo oppure l’inserimento di persone fedeli al Fidesz in quelle istituzioni. Insomma, tutte cose che, secondo me, rientrano in un sistema di potere bonapartista che elimina il pluralismo. Il governo Orbán tende a sopprimere i diritti, per esempio quello alla pensione anticipata di poliziotti, pompieri o conducenti di autobus e tenta di abolire o diminuire le pensioni di invalidità in modo che nessuno possa andare in pensione prima del limite d’età, provvedimento che colpisce un gran numero di persone, questo sistema di cose causerà guai gravissimi.

Anche la scuola risente di questa situazione.
Certamente. La decisione di assegnare allo Stato il controllo delle scuole gestite finora dai governi locali corrisponde a un nuovo processo di statalizzazione che prevede di decidere cosa insegnare e cosa non, soprattutto per quel che riguarda la storia. Alcuni temono che le scuole passeranno sotto il controllo di istituzioni religiose, cosa che potrebbe in qualche modo eliminare la divisione tra stato e chiesa che è uno dei principi sui quali si basa la democrazia. A parte questo non so fino a che punto sia realistica la scuola dell’obbligo fino a 15 anni. Chi lascia la scuola a quell’età dove va? Potrebbe mai inserirsi nel mondo del lavoro in un paese con un alto tasso di disoccupazione? Lo stesso si può dire di coloro che hanno diritto alla pensione di invalidità: dove potranno andare queste persone? Tali misure colpiscono i più poveri. Consideri che a complicare le cose contribuisce il fatto che è stata introdotta in maniera dogmatica l’aliquota del 16% che facilita la vita ai più ricchi e aggrava la situazione degli indigenti. Questa non è politica sociale. Non dico che quella del governo precedente fosse particolarmente valida, se non altro, però, cercava di garantire ai più poveri una forma di sicurezza sociale. Le conseguenze della politica attuale ridurranno la popolarità del governo che, peraltro, è già diminuita in modo significativo e diminuirà ancora. Il problema, però, è che manca un’alternativa mentre aumentano l’astensionismo alle urne e l’apatia. Ci vorrebbe un’opposizione rappresentata non dai vecchi politici che hanno perso consenso, ma da volti nuovi.

Una situazione molto grave, insomma, e la cosa salta agli occhi a maggior ragione se si pensa alle buone valutazioni date gli anni scorsi all’Ungheria dalla Commissione europea.
Ma sa, nemmeno ora l’opinione è negativa, l’Ue è felice solo di apprendere che in Ungheria, a differenza di Grecia, Spagna e Portogallo, non aumenta il debito pubblico. Sembra che le cose stiano proprio così, ma sono state organizzate con una soppressione della certezza del diritto. Ostacolare la crescita del debito pubblico non garantisce prospettive per il futuro. Se non c’è certezza del diritto non ci sono investimenti e senza di essi il futuro non è roseo. Per l’Ue è più importante che si crei l’immagine di uno stato partner affidabile e che i conti siano a posto, la situazione della libertà e dei diritti passa in secondo piano.

Vorrei tornare alla definizione di bonapartismo che lei ha dato del governo Orbán.
Mi riferisco all’opera di Karl Marx Eighteenth Brumaire of Louis Bonaparte (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte). L’elezione di Luigi Bonaparte a presidente avvenne con i due terzi dei voti popolari – una situazione analoga alla nostra -, poi Bonaparte centralizzò i poteri e sciolse il Parlamento. Questo, Orbán, non può farlo, ma adotta la stessa tecnica: concentra tutto il potere, lo centralizza. Dicono che il nostro premier sia populista: no, la sua retorica è populista ma non lui. Il suo governo non avvia trattative con i sindacati, non tratta con i lavoratori, non fa da tramite tra datori di lavoro e sindacati. Quello che è fondamentale per un potere populista è assente nel governo Orbán. Quindi non confondiamo la retorica con la politica de facto.

In che modo la nuova Costituzione cambierà la vita della popolazione?
Alla maggior parte degli ungheresi non interessa la Costituzione. In quanti la conoscono? Secondo me nemmeno quelli che l’hanno votata. Io l’ho letta, l’ho criticata, ma è molto difficile leggerla. La definizione migliore l’ha data l’ex presidente della Repubblica, László Solyom, che l’ha descritta come il nuovo Teatro Nazionale fatto costruire dal vecchio Fidesz: brutto, kitsch e antiquato, ma ci si può recitare. Da gennaio scopriremo a quali scenari darà luogo, per il momento è ancora valida la vecchia Costituzione che continua ad essere modificata fino a divenire quasi irriconoscibile, sarà così fino alla fine dell’anno. Poi c’è la legge sui media che limita fortemente la libertà di stampa, perché in sostanza crea un centro di censura che valuterà il contenuto delle informazioni diffuse da radio, tv, carta stampata e giornali online per verificare se sia conforme o meno alle nuove leggi. In più quest’organo sarà composto esclusivamente da membri eletti dall’attuale governo. Ecco, anche qui viene escluso il pluralismo.

A cosa attribuisce il successo ottenuto l’anno scorso dai partiti di destra?
Esso è dovuto in primo luogo alla perdita di fiducia della gente nei riguardi dei partiti tradizionali: questa è la cosa fondamentale. Nell’Ungheria orientale una parte degli elettori socialisti ha votato Fidesz. Quelli che si ribellano alla politica attuale sono finiti nell’estrema destra che convoglia l’insoddisfazione popolare. La questione fondamentale è il razzismo: questo distingue Jobbik dal Fidesz. Il Fidesz non è un partito razzista, è pieno di razzisti, ma la politica del partito non è razzista. Quella di Jobbik, invece, lo è, in primo luogo nei riguardi dei Rom. I membri di questo partito diffondono slogan anti-Rom e lo fanno soprattutto nei piccoli centri in cui vivono cospicue comunità Rom e si verificano spesso conflitti tra le persone un pochino più agiate e quelle povere. Chi vive in miseria e non ha da mangiare ruba. Gli altri cercano di difendere la loro piccola proprietà privata e odiano gli indigenti. Questo conflitto c’è e viene cavalcato dagli estremisti non solo a parole: vengono, infatti, create delle formazioni paramilitari che evocano brutti ricordi, sono state proprio organizzazioni del genere a occuparsi delle deportazioni in Ungheria. Ora il Fidesz sta cercando di scoraggiare il fenomeno con una legge contraria alle attività di questi gruppi.

Si parla di una ripresa dell’antisemitismo in Ungheria. Ritiene che sia un problema reale?
Non dico che Orbán sia razzista, ma forse tollera cose che non dovrebbero essere tollerate, le tollera fino a quando non disturbano la sua politica. In Ungheria il problema del razzismo non riguarda solo i partiti, ma anche la popolazione. Qui la gente non respinge il razzismo, non lo fa neanche se non lo condivide, non ha un minimo di coraggio civile. Qui non è d’abitudine obiettare, piuttosto si resta in silenzio. Non solo i partiti ma anche la popolazione dovrebbe essere educata a un diverso comportamento. Certo, i partiti non hanno dato il buon esempio, non perché fossero propensi a emarginare etnie e strati sociali, ma forse perché non hanno coinvolto i cittadini in un processo che li portasse ad apprendere il rispetto dei valori della convivenza e dell’indignazione civile contro l’intolleranza.

Allo stato dei fatti che futuro immagina per l’Ungheria?
Il filosofo non è un indovino, inoltre in politica il caso gioca un ruolo di estrema importanza. Guardi i successi e il declino di certe personalità della politica. Senza Berlusconi l’Italia sarebbe diversa, senza Viktor Orbán l’Ungheria sarebbe diversa. (Beh, buona giornata).

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E il neoliberismo economico portò l’attacco finale al cuore dello Stato.

di NADIA URBINATI – la Repubblica

La sudditanza della politica ai mercati: le opinioni sembrano convergere su questa diagnosi al di là degli schieramenti partitici in questi giorni di angoscia per temuti default e manovre finanziarie “lacrime e sangue”.

Il mercato finanziario, non il mercato semplicemente, sembra essere la nuova sorgente di sovranità, una sorgente che per di piú è insindacabile anche perché impossibile da localizzare, impersonale e soggetta a leggi che vengono concepite e applicate come se fossero naturali.
Di fronte a questa quasi divinità o naturalità la decisione politica sembra impotente: incapace di imporre le sue ragioni che dovrebbero essere quelle di una vita decente e liberamente progettata da parte degli uomini e delle donne che vivono in società. Eppure la politica non è un terreno neutro e, diciamo pure, non è incolore rispetto al sovrano mercato.
Evidentemente esiste una politica organica o funzionale a questa fase del dominio dei mercati finanziari che è disposta a ordinare le scelte secondo la logica della rendita.

La politica neoliberale (ciò che da noi si chiama liberismo) è l´ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi – con più o meno resistenza – ne sono il segno. La lotta negli Stati Uniti tra due modelli di intervento statale sono il segno forse più esplicito che non è la politica in sé a soccombere ma una visione dello Stato e quindi dell´economica: o come scienza che si dovrebbe occupare del benessere della società o al contrario come una tecnica di rastrellamento delle fonti di rendita finanziaria.

Il dominio del denaro, più che il dominio del mercato, è il centro del problema, e la trasformazione della scienza economica in scienza del business e applicazione del calcolo matematico ai fattori numerici dei movimenti di borsa ne è il segno distintivo.
È sufficiente affacciarsi alla porta dei dipartimenti di economia di tutte le università del pianeta per comprendere la dimensione di questa trasformazione; la trasformazione di questa scienza da scienza umana a scienza matematica è il riflesso del potere insindacabile del mercato finanziario sulla società.

E la politica, una parte di essa, si sente a suo agio con questa trasformazione. Si tratta di quella particolare coniugazione del liberalismo che, soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, ha creato il “fatto semplice” dell´interesse individuale (self-interest), facendone un attributo che appartiene a ciascuno di noi come una qualità sostanziale che determina la nostra razionalità e il calcolo dei costi e dei benefici che in ogni momento della giornata guida le nostre azioni, siano esse di tipo sentimentale o economico appunto.

La concezione dottrinaria dell´interesse sulla quale il pensiero neo-liberale (in gergo liberista) si è posizionato nel corso dei decenni ha avuto di mira un obiettivo centrale: quello di tenere la legge fuori dalla sfera dei beni e la formazione della ricchezza. La legge, ovvero lo Stato, è chiamato a intervenire quando l´irrazionalità delle passioni o dell´errore di conoscenza interrompono il fluire delle scelte: quindi Stato gendarme e regolatore delle relazioni sociali per contenere i conflitti e sostenere al massimo chi è sconfitto nella lotta per la vita.
Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi (anni) è più o meno la vittoria di questo paradigma, una vittoria che è andata insieme alla sconfitta di altri modelli di ordine sociale e che ha stravinto su tutti i potenziali rivali. È questa la fine della storia di cui ha scritto Francis Fukuyama.
È la fine, ovviamente, non della storia ma certo della storia della lotta contro un modello economico, quello per difendere il quale oggi le nostre società democratiche stanno soccombendo.

Il liberalismo conservatore del nostro tempo è nato all´interno della società democratica come una gemmazione del liberalismo economico; si è manifestato come una reazione a ogni forma di società che vuole programmare le sue scelte economiche per poter distribuire oneri e beni più equamente; non è un caso se insieme alla stretta sulla spesa dello Stato i mercati finanziari chiedano di lasciare a loro tutti i servizi che in questi ultimi sessant´anni sono stati finanziati, regolati e gestiti dai governi. Il neo-liberalismo è la politica di oggi.

Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato – se necessario anche la coercizione (in alcuni stati degli Stati Uniti anche i servizi carcerari sono gestiti da società private).
Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l´uso della violenza.

Come aveva ben visto Norberto Bobbio, la sfera del diritto penale si espanderà in proporzione diretta al restringimento delle politiche sociali. È lo stato minimo del quale parlavano liberali antichi come Herbert Spencer o il Barone von Hayek; uno Stato al servizio di una società che è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere coercitivo, ma il cui potere coercitivo è ben funzionate e arcigno e duro se necessario. (Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Scalfari: “C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street.”

di EUGENIO SCALFARI- la Repubblica

LE TEMPESTE non vengono mai sole, ma una ne porta appresso un’altra. Si pensava che nella giornata finanziaria di domani il sole si sarebbe aperto un varco tra le nuvole nere dei giorni scorsi e che i mercati avrebbero respirato. Ma probabilmente non sarà così: l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il debito americano. Non era mai avvenuto e gli operatori si aspettano il peggio in tutto il mondo a cominciare dal governo cinese che ha chiesto ad Obama con toni ultimativi di prendere drastiche decisioni per ridurre il disavanzo federale americano.

Non si era mai visto prima d’ora che uno Stato estero desse ordini alla Casa Bianca. Semmai accadeva il contrario. C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street. A quell’ora Piazza degli Affari a Milano sarà già da sei ore sull’Ottovolante. Forse ci sarebbe stata in tutti i casi perché la conferenza stampa di venerdì sera a Palazzo Chigi non era stata affatto rassicurante. Se l’America ha il raffreddore – si diceva un tempo – in Europa abbiamo la polmonite. Ma se la polmonite ce l’ha l’America, che cosa può accadere qui?
* * *

In attesa degli eventi e per capire meglio i fatti nostri bisogna rievocarla quella conferenza stampa, i suoi antecedenti e quello che dovrebbe avvenire nel nostro piccolo ma per noi essenziale cortile di casa. Non è un insulto ma una constatazione: sembravano tre zombi quei personaggi appiccicati l’uno all’altro dietro quel tavolo, con l’aria imbambolata di pugili suonati dai pugni che hanno ricevuto.

Berlusconi spiegava alla platea dei giornalisti che l’Italia, cioè lui, erano tornati al centro dell’attenzione mondiale ed enumerava le telefonate ricevute da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Cercava le parole per spiegare le decisioni prese, in totale contrasto con quelle comunicate al Parlamento appena 48 ore prima. Ma non le trovava. Si capiva soltanto che per rassicurare i mercati aveva deciso di accelerare d’un anno la manovra. Il pareggio del bilancio previsto per il 2014 sarebbe avvenuto nel 2013. Così, con un colpo di bacchetta magica. I partner europei erano stati informati e anche gli americani e tutti avevano applaudito. I mercati erano un orologio rotto ma stavano producendo un sacco di guai. “Tremonti vi spiegherà i dettagli” così aveva concluso dopo dieci minuti.

Tremonti, poveretto, era più imbarazzato e incespicante di lui. Non sembrava più quel ministro sicuro di sé, sprezzante, arrogante che conosciamo da tempo. Faceva lunghe pause, arruffava le frasi, si correggeva, tradiva continui vuoti di memoria. A un certo punto Letta l’ha interrotto. In realtà non aveva nulla da dire Gianni Letta, ma voleva comunque far sentire la sua voce affinché fosse chiaro che esisteva anche lui. Ma dopo quell’improvvida interruzione Tremonti non trovava più il filo per riprendere il discorso.

Una scena pietosa, conclusa nel modo più involontariamente comico dal presidente del Consiglio il quale, annunciando che il governo non sarebbe andato in vacanza, ha detto: “Palazzo Letta resterà aperto per tutto agosto”.

Il giorno dopo è partito per la sua villa di Porto Rotondo. Un week-end rilassante evidentemente si imponeva.

* * *

La verità è che il governo italiano, dopo il nerissimo giovedì con Piazza Affari a meno 5,16 maglia nera delle Borse mondiali e lo “spread” a quota 389, è stato commissariato. In un paese normale il premier e il suo governo si sarebbero dimessi, ma poiché la maggioranza Scilipoti esiste ancora, la soluzione dettata dall’Europa d’intesa con la Casa Bianca è stata il commissariamento.

Abbiamo ora un governo che deve eseguire gli ordini che gli vengono dati da Berlino e da Parigi tramite Barroso da una parte e Trichet dall’altra. Soprattutto quest’ultimo perché la Bce è il solo braccio operativo che l’Europa può usare nel tentativo di raffreddare i mercati.

Del resto è ormai ufficiale che l’atto di commissariamento è stato scritto e inviato al nostro presidente del Consiglio la mattina di venerdì con una lettera di Trichet controfirmata da Draghi che sarà a novembre il suo successore. In quella lettera sono fissate le condizioni: anticipare di un anno il pareggio del bilancio, iniziare da subito gli interventi per tagliare la spesa, avviare con decorrenza immediata interventi di stimolo per la crescita del reddito e dell’economia reale.

Per questa ragione quei tre personaggi dietro quel tavolo la sera di venerdì sembravano burattini mossi da fili tenuti da altre mani; appena due giorni prima avevano esposto con sussiego una politica economica che non si spostava d’un centimetro dal rovinoso immobilismo d’una manovra che aveva rinviato tutto di quattro anni. La maggioranza parlamentare aveva punteggiato di fragorosi applausi il discorso del premier. Il ministro dell’Economia, seduto alla sua sinistra, batteva anche lui le mani, felice della ritrovata armonia con il “boss”; il ministro degli Esteri, seduto alla sua destra, sottolineava gli applausi battendo la mano sul tavolo dei ministri.

Dopo un giorno e mezzo tutto ciò è stato capovolto. “È passato un mese e il mondo è completamente cambiato” ha detto Tremonti venerdì. È vero, è passato un mese, ma lui e tutta la banda mercoledì non se n’erano ancora accorti. Meno male che – non potendo dimissionarli – li hanno almeno commissariati. Ma purtroppo non basterà, polmonite americana a parte.

* * *

Dal balbettio di Berlusconi e di Tremonti si è capito che proporranno nei prossimi giorni alle commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge di riforma costituzionale da essi ritenuti fondamentali: la modifica dell’articolo 41 e quella dell’articolo 81.

Il primo stabilirà, una volta modificato, che i cittadini sono liberi di assumere ogni tipo di iniziativa salvo quelle vietate dalle leggi. Si tratta di una pura ovvietà ma il veleno sta nella coda: spetta agli interessati autocertificare che non vi sono leggi che vietano le iniziative intraprese. La pubblica amministrazione farà controlli ex post. Dire che si tratta d’un potente incoraggiamento all’illegalità è dir poco.

Quanto all’articolo 81, si tratta di introdurre in Costituzione il pareggio del bilancio come principio inderogabile “salvo specifiche condizioni di emergenza” (terremoti, guerre, eccetera). Non si spiega però se il pareggio riguarda il bilancio preventivo o quello consuntivo o tutti e due. Ma c’è un’altra condizione non ancora detta però ventilata: che la spesa non possa superare il 45 per cento del Pil salvo un voto parlamentare a maggioranza qualificata.

Se passasse una riforma costituzionale del genere il tetto alla spesa che Obama ha a stento superato per evitare il default sarebbe uno scherzo: scomparirebbe ogni politica economica, ogni programma di investimento, ogni politica fiscale di redistribuzione del reddito, ogni politica estera, ogni politica della difesa ed ogni autonomia locale. Il governo sarebbe affidato non al Parlamento ma alla Corte dei conti e alla Ragioneria dello Stato.
Non credo che iniziative del genere troveranno appoggio nell’opposizione e faciliteranno coesione sociale. Comunque ci vorrà un anno prima che l’iter parlamentare sia completato e ancor più se sarà necessario il referendum confermativo. Pensate che i mercati nei prossimi giorni si calmeranno per l’effetto di annuncio di questi due sgorbi di riforma costituzionale?

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Questi sono i preamboli, poi viene la sostanza: un anno di anticipo per realizzare nel 2013 l’obiettivo del pareggio del bilancio, ferma restando la manovra così come fu approvata in tre giorni un mese fa (ma forse bisognava esaminarla meglio invece di guardare soltanto l’orologio).

La manovra ammonta a 48 miliardi così distribuiti: tre miliardi nel 2011, cinque nel 2012, venti e venti nel biennio successivo. Se tutto viene anticipato d’un anno il nuovo calendario dovrebbe prevedere otto miliardi immediati in quest’esercizio, venti e venti nel biennio successivo. È realizzabile questo programma? I tre zombi venerdì non sono entrati nel dettaglio. I poteri esteri che li hanno commissariati neppure, i mercati nulla sanno e i contribuenti meno ancora, ma è evidente che nelle prossime 48 ore questi dettagli dovranno essere forniti.

La logica suggerisce che i tagli per otto miliardi del 2011 e i venti del 2012 debbano essere effettuati con un’unica visione. L’esercizio in corso è agli sgoccioli ma lo sfoltimento delle prestazioni assistenziali è già previsto nella manovra. Si tratta di renderlo operativo con l’immediata approvazione della legge delega su quei trattamenti.

Nel totale ammontano a 160 miliardi. La macelleria sociale accennata da Tremonti prevede riduzioni discrezionali del 5 per cento il primo anno e il 10 nel secondo con speciale attenzione alle pensioni di invalidità, agli accompagnamenti degli invalidi e alla reversibilità pensionistica. Il 15 per cento di 160 miliardi fa 24 miliardi. Più i ticket già operativi e le accise già in corso. Su quali ceti si scarica questo peso?

In tempi di buriana una dose di macelleria sociale è inevitabile purché sia affiancata dall’equità. È evidente che se tutto il peso è concentrato sul capitolo dell’assistenza, l’equità scompare. Dunque colpire solo l’assistenza è impensabile. Altrettanto impensabili sono le baggianate alternative di Di Pietro che pensa all’abolizione delle Province come un toccasana. Quanto a Casini, ha detto che se le proposte sono efficaci le voterà. Nei prossimi tre giorni ne conoscerà anche lui i dettagli e vedremo la sua risposta.

Ma la vera domanda è questa: si arriverà al pareggio del bilancio entro il 2013? Bisognerà affrontare la seconda “tranche” della manovra, cioè gli altri 24 miliardi. Si può mettere in esecuzione la prima tranche senza nulla sapere della seconda, basata interamente sulla riforma fiscale?

Lo chiederanno le opposizioni, le parti sociali, le Regioni e i Comuni. Ma lo chiederanno soprattutto i mercati e finché non lo sapranno è difficile sperare che si fermeranno. Sempre polmonite americana a parte.

* * *

Torniamo ancora un poco alla polmonite americana. Riguarda la diminuzione del debito federale? Riguarda il tasso di cambio del dollaro? Riguarda gli spintoni della Cina?

Soltanto in parte. Vorrei dire in piccola parte. La polmonite americana proviene dai segnali di recessione, dalla caduta della domanda. Ma quella caduta sta avvenendo nel mondo intero e in Italia più che mai.

Per questo i mercati si sentono insicuri e picchiano sui debiti sovrani. Ma se al necessario rigore non si affianca la crescita, la polmonite non guarisce, diventa acuta, purulenta e alla fine attacca il cuore.

Infatti i nostri “lord protettori” hanno chiesto rigore e crescita. Ma la crescita ha bisogno di risorse. Si cresce alimentando il potere d’acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti. Si cresce abbassando l’Irpef dei redditi medio-bassi e l’Irap sulle imprese. Si cresce spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l’evasione, generalizzando lo scarico dell’Iva in tutti i passaggi. L’articolo 41 della Costituzione non è la madre delle liberalizzazioni ma soltanto un aborto propagandistico.

Si cresce tassando il patrimonio non con un “una tantum” ma con un sistema fiscale adeguato.
Non illudetevi che sia sufficiente l’intervento della Bce a sostegno dei titoli italiani (e spagnoli). Soltanto un altro zombi come Bossi può pensarlo.

La Bce è intervenuta nei mesi scorsi e ancora l’altro ieri acquistando titoli greci, irlandesi e portoghesi, per 74 miliardi. Equivale all’incirca al 20 per cento di quei debiti. Se dovesse applicare quella stessa percentuale per l’Italia dovrebbe acquistare titoli per 400 miliardi e arriverebbe a 700 con la Spagna. È impossibile. Equivarrebbe a europeizzare un quinto dei debiti sovrani d’Italia e di Spagna. E gli altri paesi resterebbero a guardare?
Bisogna battere la recessione e rilanciare la crescita. Il resto sono chiacchiere e non bloccano i mercati.(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Romano Prodi: “Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate.”

di ROMANO PRODI-Il Messaggero
Avevamo a lungo sperato che sagge decisioni politiche potessero presto porre fine alla crisi finanziaria mondiale. Lo avevamo sperato perché il giovane presidente aveva dato l’impressione di essere in grado di ridare energia agli Stati Uniti e farne la locomotiva del mondo. Ci siamo sbagliati perché anche la locomotiva americana non ha più un conducente capace di indirizzarla nel giusto binario. I repubblicani e i democratici hanno infatti obiettivi divergenti e il compromesso raggiunto non aiuta né l’equilibrio del bilancio né la crescita economica.

Ancora peggio sono andate le cose a Bruxelles, dove la modesta crisi greca ha travolto gli equilibri europei perché nessuno si è dimostrato in grado di prendere le necessarie decisioni. Non la Commissione Europea, ormai emarginata, non la Germania paralizzata da un’inutile e suicida rincorsa al populismo da parte del suo governo. Avevamo finalmente tirato un sospiro di sollievo quando lo scorso 21 luglio i capi di governo europei si erano messi d’accordo per intervenire in soccorso dei Paesi più minacciati dalla crisi speculativa, ma ci siamo poi accorti che queste decisioni dovevano essere sottoposte a un complesso esame tecnico e quindi ratificate da tutti i governi nazionali.

I mercati finanziari hanno perciò reagito come se queste decisioni non fossero mai state prese. La speculazione ha allargato quindi i suoi orizzonti e ha travolto in pieno anche l’Italia. I valori della borsa sono crollati e i tassi di interesse dei Buoni del Tesoro sono schizzati verso il cielo, annullando in questo modo i possibili effetti delle pur insufficienti misure appena votate dal nostro parlamento in un eccezionale sforzo di solidarietà.

Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate senza la necessità di alcuna nuova decisione. La vendita dei Buoni del Tesoro italiani è invece aumentata di intensità fino a che il tasso di interesse dei Btp non ha raggiunto il livello dei titoli spagnoli. Sotto la pressione dei mercati e la sollecitazione dei governi europei si è dovuta perciò allestire un’improvvisa conferenza stampa.

Una conferenza stampa nella quale sono state presentate misure aggiuntive per scongiurare che la riapertura dei mercati mettesse di nuovo l’Italia in situazione drammatica. Un solo provvedimento appare utile per contenere lo scetticismo nei confronti della politica italiana e cioè l’anticipazione di un anno del raggiungimento dell’equilibrio di bilancio.

Il fatto che il nostro governo avesse rinviato al 2014 le misure più severe aveva infatti suscitato reazioni decisamente negative. Bene quindi per questa decisione anche se non ne vengono precisati gli strumenti per metterla in atto e il peso sembrerebbe gravare in prevalenza su misure di carattere sociale, e quindi sulle categorie più modeste.

Nessun contributo positivo al superamento della nostra tragica crisi può essere invece attribuito alle proposte di modifica della Costituzione, non solo perché questa modifica richiede in ogni caso tempi lunghissimi ma perché tali proposte sono inutili o sbagliate. È inutile inserire nella nostra Carta il principio che tutto quello che non è proibito è lecito perché questa regola già esiste. Ed è sbagliato inserire l’equilibrio di bilancio come obbligo costituzionale perché le Costituzioni sono fatte per durare a lungo e vi possono essere tempi (e spero che essi arrivino anche per l’Italia) nei quali non è pericoloso ma utile per lo sviluppo del paese avere un deficit di bilancio. Così come esistono momenti nei quali è opportuno avere un attivo nelle finanze pubbliche.

Mi auguro che le decisioni prese siano utili almeno per darci un temporaneo respiro alla ripresa dei mercati. Tuttavia per ricondurre i nostri tassi di interesse a un livello compatibile col nostro debito pubblico e risanare definitivamente le finanze italiane non possiamo sfuggire a misure più organiche e severe.

Non possiamo rinviare la lotta all’evasione fiscale, rendendo obbligatoria la registrazione elettronica dei pagamenti, non possiamo non ripensare agli equilibri fra imposte sul lavoro e sui consumi, non possiamo non ripensare alla reintroduzione modulata dell’imposta sugli immobili (ovunque nel mondo imposta federale per eccellenza) e a tutte le altre misure strutturali su cui si è lungamente discusso in passato ma che il populismo, l’interesse elettorale e la demagogia hanno impedito che fossero adottate, pur sapendo benissimo che esse erano necessarie per la salvezza del nostro Paese.(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Bauman: “La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?»

“Il problema centrale di questa crisi è che c’è un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo. Non esiste un sistema politico internazionale in grado di limitarlo”. Intervista a Zygmunt Bauman di ANDREA MALAGUTI- la Stampa.

Dunque siamo destinati al collasso e alla povertà globale?
«Non lo so. So che la mia generazione di fronte alle crisi di sistema si domandava una cosa semplice: che cosa dobbiamo fare? Adesso la domanda da porsi è un’altra, e al momento non ha risposta: a chi ci dobbiamo rivolgere per fermare la macchina?».
Perché professor Bauman?
«C’erano troppe aspettative su quell’uomo. La maggior parte erano irrealizzabili».

Secondo la stampa internazionale l’abbassamento del rating è un’umiliazione senza precedenti per gli Stati Uniti.
«Obama è un uomo. E si trova a fare i conti con una vicenda che è più grande di lui. E dà le risposte di un politico classico. Da quando è stato eletto si preoccupa più dei mercati che delle persone. Come se tra le due cose ci fosse un nesso. Ma la disoccupazione aumenta. E aumentano anche i tempi d’attesa nel passaggio da un lavoro all’altro, così come crescono i senza tetto. La povertà si moltiplica. Di sicuro neppure i neri stanno meglio».

Una presidenza disastrosa?
«No. Normale. Ma se le persone non credono in se stesse e nei leader che le guidano il tracollo è inevitabile. Ho scritto un libro, due anni fa, che prevedeva quello che sarebbe successo».

Cioè?
«Obama mi ricorda gli ebrei tedeschi dopo la prima guerra mondiale. Si sentivano dei metatedeschi, più tedeschi dei tedeschi. Bramavano l’integrazione ma inconsapevolmente segnavano una diversità. Appena sono cominciati problemi li hanno isolati».

Che c’entra il Presidente americano?
«Lui ha fatto lo stesso. Si è presentato come la grande speranza, ma si è preoccupato troppo di piacere ai livelli alti. Quelli che sono decisivi per la rielezione. Poi ha perso il controllo. Perché la politica non è in grado di condizionare la Borsa e i mercati. Se li è fatti sfuggire. Ma forse era inevitabile».

Ora anche la Cina pretende spiegazioni, non solo gli americani.
«I cinesi non sono preoccupati per i soldi che hanno prestato. E’ l’idea di perdere il loro più grande mercato di riferimento che li terrorizza. Dove mettono la quantità infinita di beni che producono ogni giorno? Non avere sbocchi, questo sì che sarebbe una tragedia. Sono i danni della globalizzazione».

Che cosa non le piace della globalizzazione?
«Io mi limito a fare una fotografia. Gli Stati si sono sempre fondati su due cardini: il potere (cioè fare le cose) e la politica (cioè immaginarle e organizzarle). La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?».

Professore, l’Europa rischia di squagliarsi?
«No. L’Europa è fatta. Non si può sciogliere. Gli Stati sono troppo legati tra di loro. Non fallirà l’Italia e non finirà l’Unione. Peraltro il problema di Roma non è soltanto Berlusconi. Chiunque fosse al suo posto sarebbe nelle stesse condizioni. E’ il mondo a essere nei guai».

Come se ne esce?
«Ha letto quello che ha detto ieri Prodi?».

Il problema dell’Europa è che non si sa chi comanda.
«Condivido. Ma il punto è che la pensano così anche i leader europei. Che sono ben felici di non prendersi responsabilità in questo momento. E’ l’ora di mettersi a ripensare la società all’interno della quale ci interessa vivere. Provi a chiedere in giro se qualcuno conosce il nome del presidente dell’Unione».

Peggio oggi o nel 2007?
«E’ lo stesso scenario. La follia del credito. C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del Pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca».

L’ossessione dei consumi.
«Già. Perdoni l’esempio, ma se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito».

Per dire che cosa?
«Per capire come fare intervenire la politica. Cinque anni fa ciascuno di noi è stato inondato da lettere delle banche che invitavano le persone comuni a prendere una carta di credito. Un lavaggio del cervello generale. Le banche hanno bisogno che la gente sia indebitata. Prima ti misurano, cercano di capire quanto vali. Poi ti prestano i soldi. Fanno il contrario di quello che faceva – fa? – la mafia siciliana. Se un picciotto ti concedeva un prestito pretendeva che glielo restituissi, pena la morte. Le banche no. Le banche non vogliano che paghi. Ti offrono altre formule di indebitamente, perché più ti prestano denaro più guadagnano con gli interessi. E’ così che, ad esempio, è nata la bolla immobiliare negli Stati Uniti e in Irlanda. Solo che le bolle a un certo punto esplodono».

E’ il mondo alla fine del mondo?
«No, quello non finisce mai. Nella storia l’uomo affronta crisi cicliche. E le risolve sempre. Bisogna solo capire quanto sarà alto il prezzo da pagare stavolta. Temo molto alto. Soprattutto per le nuove generazioni». (Beh, buona giornata).

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Crisi: “si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare.”

di GUIDO ROSSI- sole24ore.com

È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.

Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.

La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.

I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.

Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.

L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.

La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.

Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.

Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.

Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.

C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.

I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.

Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.

L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.

Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.

La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).

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Crisi: downgrading politico per il governo Berlusconi.

di MARIO MONTI- corriere.it

I mercati, l’Europa. Quanti strali sono stati scagliati contro i mercati e contro l’Europa da membri del governo e della classe politica italiana! «Europeista» è un aggettivo usato sempre meno. «Mercatista», brillante neologismo, ha una connotazione spregiativa. Eppure dobbiamo ai mercati, con tutti i loro eccessi distorsivi, e soprattutto all’Europa, con tutte le sue debolezze, se il governo ha finalmente aperto gli occhi e deciso almeno alcune delle misure necessarie.
La sequenza iniziata ai primi di luglio con l’allarme delle agenzie di rating e proseguita con la manovra, il dibattito parlamentare, la riunione con le parti sociali, la reazione negativa dei mercati e infine la conferenza stampa di venerdì, deve essere stata pesante per il presidente Berlusconi e per il ministro Tremonti. Essi sono stati costretti a modificare posizioni che avevano sostenuto a lungo, in modo disinvolto l’uno e molto puntiglioso l’altro, e a prendere decisioni non scaturite dai loro convincimenti ma dettate dai mercati e dall’Europa.

Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un «governo tecnico». Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un «governo tecnico sopranazionale» e, si potrebbe aggiungere, «mercatista», con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York.

Come europeista, e dato che riconosco l’utile funzione svolta dai mercati (purché sottoposti a una rigorosa disciplina da poteri pubblici imparziali), vedo tutti i vantaggi di certi «vincoli esterni», soprattutto per un Paese che, quando si governa da sé, è poco incline a guardare all’interesse dei giovani e delle future generazioni. Ma vedo anche, in una precipitosa soluzione eterodiretta come quella dei giorni scorsi, quattro inconvenienti.

Scarsa dignità . Anche se quella del «podestà forestiero» è una tradizione che risale ai Comuni italiani del XIII secolo, dispiace che l’Italia possa essere vista come un Paese che preferisce lasciarsi imporre decisioni impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno, anziché prenderle per convinzione acquisita dopo civili dibattiti tra le parti. In questo, ci vorrebbe un po’ di «patriottismo economico», non nel fare barriera in nome dell’«interesse nazionale» contro acquisizioni dall’estero di imprese italiane anche in settori non strategici (barriere che del resto sono spesso goffe e inefficaci, una specie di colbertismo de noantri ).

Downgrading politico . Quanto è avvenuto nell’ultima settimana non contribuisce purtroppo ad accrescere la statura dell’Italia tra i protagonisti della scena europea e internazionale. Questo non è grave solo sul piano del prestigio, ma soprattutto su quello dell’efficacia. L’Unione europea e l’Eurozona si trovano in una fase critica, dovranno riconsiderare in profondità le proprie strategie. Dovranno darsi strumenti capaci di rafforzare la disciplina, giustamente voluta dalla Germania nell’interesse di tutti, e al tempo stesso di favorire la crescita, che neppure la Germania potrà avere durevolmente se non cresceranno anche gli altri. Il ruolo di un’Italia rispettata e autorevole, anziché fonte di problemi, sarebbe di grande aiuto all’Europa.

Tempo perduto . Nella diagnosi sull’economia italiana e nelle terapie, ciò che l’Europa e i mercati hanno imposto non comprende nulla che non fosse già stato proposto da tempo dal dibattito politico, dalle parti sociali, dalla Banca d’Italia, da molti economisti. La perseveranza con la quale si è preferito ascoltare solo poche voci, rassicuranti sulla solidità della nostra economia e anzi su una certa superiorità del modello italiano, è stata una delle cause del molto tempo perduto e dei conseguenti maggiori costi per la nostra economia e società, dei quali lo spread sui tassi è visibile manifestazione.

Crescita penalizzata . Nelle decisioni imposte dai mercati e dall’Europa, tendono a prevalere le ragioni della stabilità rispetto a quelle della crescita. Gli investitori, i governi degli altri Paesi, le autorità monetarie sono più preoccupati per i rischi di insolvenza sui titoli italiani, per il possibile contagio dell’instabilità finanziaria, per l’eventuale indebolimento dell’euro, di quanto lo siano per l’insufficiente crescita dell’economia italiana (anche se, per la prima volta, perfino le agenzie di rating hanno individuato proprio nella mancanza di crescita un fattore di non sostenibilità della finanza pubblica italiana, malgrado i miglioramenti di questi anni). L’incapacità di prendere serie decisioni per rimuovere i vincoli strutturali alla crescita e l’essersi ridotti a dover accettare misure dettate dall’imperativo della stabilità richiederanno ora un impegno forte e concentrato, dall’interno dell’Italia, sulla crescita. (Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Franco Piperno: “Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici”.

Primissime note sulla Cosa Multimediale e sulla sua natura premoderna di “Regulae at directionem Ingenii”(seconda e ultima parte), di FRANCO PIPERNO (PIPERNO@FIS.UNICAL.IT)

IX)
Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici. Ci proponiamo d’aiutarla a scavare fino in fondo. E questo vuol dire, portare la crisi a livello delle categorie concettuali del senso comune: l’amore, le relazioni di solidarietà e di reciprocità, l’amicizia, la morte, l’economia, il progresso e così via. Quello che puntiamo a conseguire è di porre una serie di domande di senso comune alle quali riuscire a dare risposte comunemente intellegibili e tecnicamente perfette.
Altrimenti detto, la nostra è una politica che privilegia lo sguardo, piuttosto che l’universo linguistico. Contrapponiamo, così, all’individuo medio che sa ma non vede, l’individuo sociale che, come il bambino, vede ma non sa. Spogliata delle forme accademiche o paludate, la domanda del filosofo è sempre infantile, giacché colui che interroga senza alcuna necessità è il bambino. Per dirla con Valery “vision an avant, aveglue quant aux mots”.

X).
Occorre, quindi, ai i redattori stessi di questa cosa, praticare una saggezza rischiosa che nel mettere in questione l’ordine delle cose non evita nel contempo d’interrogare l’ordine del pensare — suscitando così stupore e sconcerto insieme. Giacché tutto parte da un interruzione, affinché il percorso abbia inizio: oggi il ritardo è il segno della perfezione. Potremmo riassumere così le considerazioni oscure che siamo andati via via snocciolando, dicendo che la nostra cosa parte con un intento di diseducazione o meglio malaeducazione linguistica: per ritrovare quel reale che le parole occultano.
Facciamo qualche esempio: il tema delle libertà comunali affiora nei movimenti che si svolgono attorno la questione antica dell’abitare. Movimenti che esistono, anche quando i giornali non ne parlano, magari nella dimensione del fiume carsico che si inabissa alla vista continuando a scorrere. Qui la politica dello sguardo vuol dire vedere il grado zero dell’abitare, il suo estremo; ovvero, rivelare, a coloro che sono senza casa, la condizione di possibilità di un altro modo dell’abitare che sottragga la città al suo destino, iper-moderno, di nodo di flussi di merci e di capitali; e la riconduca alla sua natura di luogo della buona vita. In atri termini la complessità, anche tecnicamente filosofica, del tema dell’abitare trova nell’estremo il punto di possibilità di un riappropriarsi della città, vivere il legame urbano come bene comune — riportare la città alla sua origine. E’ qui evidente la qualità di questa prassi dove il fine e il mezzo coincidono, condizione che è la prova evidente del carattere autentico. Qui si vede come un dato volgare, un bisogno nudo, arcaico, pressoché sub-umano, si riscatti come punto di vista, sguardo dal quale si vede la degradazione della vita politica che attanaglia le nostre città — dove l’architettura, soprattutto quella d’avanguardia, non fa che tradurre visivamente la rottura di relazioni di reciprocità e solidarietà che sono alla base del vivere urbano. E’ un’architettura che non solo non entra in contatto con quello che sopravvive del genius loci, ma semplicemente, non si pone più il problema, lo ignora; e.g. l’Ara Pacis, rivisitata da Veltroni, risulta priva di ogni aura; il che mostra, senza ombra di dubbio, che poteva essere costruita a Tokyo come a Parigi, a Pechino come a Berlino–perchè così stravolta è divenuta un non-luogo.
Analoga considerazione vale per i movimenti che, specie nel Sud, si strutturano attorno alla richiesta del reddito di cittadinanza. Anche qui l’aspetto volgare, la richiesta di soldi che appare come un precipitare estremo nel mondo delle merci si risolve, nella forma del reddito erogato dai comuni, in una formidabile acquisizione cognitiva sulla potenza della cooperazione sociale; e in una conseguente liberazione d’energia e di passioni in grado di far emergere dalla vita quotidiana un altro universo di consuetudini e consumi..

XI)
La nostra cosa tenta, paradossalmente, di usare il mezzo elettronico contro il mondo virtuale e la comunicazione in assenza; noi ci ripromettiamo di adoperare il colore ed il suono nonché la subitanea sensazione della contemporaneità — essere in presenza– che essi, ingannandoci, suscitano; tutto questo, contro le parole esauste e le macchinose teorie; per ritrovare il reale occorre portare a termine una diseducazione linguistica che mira a riscattare il mondo umano dalle parole che lo incorniciano e lo diminuiscono.

Avendo letto più di dieci libri, sappiamo che un’opera, che si presenti come gravida di una teoria completa e coerente, è una falsificazione del mondo.

Proviamo a riassumere: la crisi comporta un’interruzione tanto nella vita quotidiana, quanto nel pensare quotidiano; lo sguardo sceglie di posarsi sul fondo volgare- il reddito monetario, la malattia, la casa-tana, la caduta, la morte- perché solo su questo sfondo fragile e comune possono risaltare le idee autentiche, i pensieri singolari, in grado di creare comunità. Il comune pensare non è il pensiero che abbiamo tutti, ma il pensiero che istituisce relazioni di solidarietà e di reciprocità, cioè propriamente comunitarie.
Non si tratta quindi di uno sguardo contemplativo, né di uno sguardo trasformativo di quello che c’è, piuttosto è un modo di porsi eccedente che rinnova le relazioni tra l’essere umano ed il mondo; senza peraltro aggiungere nulla di nuovo, poiché l’azione autentica non lascia traccia.
E’ quindi uno sguardo che comporta una sorta di cattiveria sognante, in grado di vedere ciò che l’opinione pubblica nasconde. Non bisogna fare null’altro se non rifare le stesse osservazioni possibili a tutti. Riprendere in proprio, come se mai fosse stata pensata, l’osservazione che tutti hanno già fatto. Il futuro rientra nel presente come se resuscitasse; mentre il passato, lungi dal ritornare appare per quello che è : il presente che rientra nel suo medesimo e lo rende così eterno.
Si tratta, in buona sostanza, di coniugare al perfetto, nel senso del compiuto, attraverso quel modo del tempo oggi più pertinente al perfetto, quello del ritardo. E non tanto per contrastare con la lentezza il tempo del “prestissimo” in cui siamo tutti immersi, ma perché guardare è un’attività che comporta il rifarsi, rifare se stessi– affinché la buona vita, che è un processo e non uno stato, si compia e la morte stessa funzioni come un suggello di questa perfezione.
Come canta il poeta, bisogna essere perfetti, non c’è più da esitare.

XII).
La nostra cosa è quindi una sosta nella smaniosa abitudine a comprendersi nel mondo lungo la via razionale-riduttiva del linguistico; e si offre per noi stessi come occasione per conoscersi e conoscere il mondo fuori dai concetti-sentimenti della riproduzione seriale. Solo introducendo nella temporalità stereotipata l’interruzione, ed il ritardo che ne consegue, ogni vita, nel tempo mortale che le è dato, può realizzare il suo autoperfezionamento– non quindi una vita esatta e certa, ma incerta e precaria.
La cosa che proponiamo cerca di utilizzare il virtuale per afferrare il reale, come si fa quando uno osserva la volta celeste dopo aver visitato il planetario del luogo. L’idea-forza è la costruzione della cassetta di attrezzi che servano a far precipitare la coscienza dei luoghi- coscienza che non è mai svanita anche quando è tenuta a vile e rattrappita. Il riferimento premoderno di quello che vogliamo fare è il breviario o il “libro a ore” dove, appunto, è dispiegata la temporalità del luogo, le ore come scansione qualitativa del tempo e non il loro supposto scorrere uniforme, come tutte uguali.
Naturalmente la sequenza sopra delineata nella pratica si rovescia: la nostra avventura riuscirà nel suo scopo se i luoghi ritroveranno le loro temporalità autentiche, le cento città italiane avranno cento tempi diversi. Qui è evidente come il ritardo sia un segno di perfezione si pensi alle città rurali del meridione. Per chiudere senza concludere, la cosa che cerchiamo di costruire è una sorta di ”General Intellect” dei luoghi che ha lo scopo, perfettamente provvisorio, di facilitare l’emersione del “genius loci”, gettando alla critica roditrice dei topi tutti quei concetti della modernità che hanno ridotto i luoghi a non luoghi; e fornendo, per quanto ci è possibile, quelle arti, quei saperi, quelle tecniche accademiche e non, volte a permettere di curare tutta la ricchezza di relazioni che c’è già nel mondo che ci è dato. Va da se che nel nostro caso i luoghi sono rappresentati da comunità locali individuate per una prassi concreta, già esistente, sulle tematiche sopraccennate. In barba a tutti i facitori di costituzioni noi pensiamo all’Italia come una nazione in grado di superare se stessa, divenendo ciò che già è : una confederazione di cento, e non più di cento,libere città.

Le cose ed i cosi della Cosa Multimediale di Cosenza.
-Fine della seconda e ultima parte-
(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Franco Piperno: “da alcune generazioni, l’abbiamo aspettata; e ora siamo contenti di darle il benvenuto”.

Primissime note sulla Cosa Multimediale e sulla sua natura premoderna di “Regulae at directionem Ingenii”(prima parte), di FRANCO PIPERNO (PIPERNO@FIS.UNICAL.IT)

Premessa

Queste note, non delineano la Cosa che ci proponiamo di realizzare giacché quella cosa lì è solo marginalmente linguistica: puntiamo a qualcosa che sia, prima di tutto, suono ed immagine — per criticare l’universo asfittico delle parole. Così ad esempio, la parte linguistica-discorsiva, che pure deve apparire nella nostra Cosa, ha sempre un fondo musicale appropriato; ancora, l’uso ossessivo della satira è un modo di tradurre la capacità espressiva di un’allegra cattiveria nei riguardi della rappresentazione del reale che si fonda sulla sua mutilazione- come accade per la tematica della rappresentanza nella vita civile del paese. Va da sé che la vera difficoltà è redigere un numero zero e non discettare su come redigerlo. Nel seguito quindi noi, come tutti gli altri coautori, cercheremo di approntare a titolo d’esempio un numero zero.

I).
La crisi, come attesta la filologia della parola, la vera crisi s’intende, è quella attuale ha tutta l’aria di esserlo, è prima di tutto “giudizio”, “decisione”; in altri termini la crisi è tale perché costringe a decidere. Non ci si può sottrarre al giudizio. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante e per il quale noi, da alcune generazioni, l’abbiamo aspettata; e ora siamo contenti di darle il benvenuto.
La crisi a cui guardiamo è quella che, distruggendo ad un ritmo esponenziale la stessa ricchezza che con quello stesso ritmo aveva creato, opera per modificare concetti e sentimenti comuni in maniera ben più micidiale di quanto possano mai fare milioni di libri sovversivi, migliaia di scioperi, centinaia di rivolte. La crisi compie il suo lavoro con un automatismo pressoché perfetto. Per questo ci sembra di poter dire: “ scitate Catarì ca l’aria è doce”.

II).
La crisi sconvolge l’ordine delle cose presenti, strutturato come proiezione valorizzante dell’homo laborans– il nostro compito è rovesciare anche l’ordine delle idee presenti, che incorniciano la realtà e la riconducono all’economia.
Nella crisi emergono altre anime collettive che spesso sono proprio le stesse o fortemente analoghe a quelle che abitavano il mondo prescientifico, quello che si svolgeva prima della modernità.
Il giornale è il luogo dove questa emersione viene registrata e le si conferisce consapevolezza.
Un giornale dei luoghi, dove nella parola luogo è presente il tempo del luogo.
Esso si configura come un esodo linguistico dalla semantica dominante, come abbandono e distruzione delle parole chiave dell’opinione pubblica, dei moderni luoghi comuni; e la coniazione collettiva di altre parole, di nuovi-antichi luoghi comuni.
Così il lavoro viene ricondotto alla sua vera natura di lavoro salariato: attraverso la trappola dei posti di lavoro sacralizza l’iniziativa del capitale, facendola apparire come bisogno universalmente umano di progresso e benessere- bisogno definitivamente indotto, dal momento che nell’uomo è l’attività che ha una base istintuale e non il lavoro salariato.

III).
Non informazione, quindi, per uniformizzare il mondo, bensì comunicazione volta ad esaltare le differenze; non un universo attorno al valore crescente delle merci, ma un pluriverso strutturato sulle passioni collettive e la determinazione a soddisfarle- oltre la semplice ripetizione sinonimica.
La politica riportata alla sua origine: l’autogoverno della città- non gestione dell’economia, né per la sopravvivenza e nemmeno per il benessere; bensì la libera vita comunale: a ciascuno il suo, ad ognuno la sua buona vita.

IV).
Il nostro interlocutore non è quindi l’individuo generico, quello descritto dalle statistiche attraverso grandezze quantitative come il reddito, la speranza di vita, insomma l’italiano medio, elettore-consumatore, etc.- giacché l’individuo medio è una cattiva astrazione, una vuota convenzione linguistica che riduce l’essere umano ad un inutile ripetizione, un semplice uno in più, mediante la cui esistenza non viene acquisito niente, non viene aumentato nient’altro che un numero, e il cui senso è solo un inutile aggravio di entropia.

V ).
L’esodo, l’uscire dalla ripetizione sinonimica vuol dire porsi domande diverse da quelle che appassionano l’opinione pubblica, che è solo l’opinione dominante.
Così il dibattito sulla degradazione ambientale assume la forma di mobilitazione generale proprio perché occulta il processo di riconversione energetica- uno degli enormi affari attorno a cui l’occidente capitalistico tenta di riorganizzare il processo produttivo per competere con i così detti paesi emergenti. Laddove il problema non è quello di riconvertire, ma di ridurre drasticamente l’inutile dissipazione d’energia, il gigantesco aumento d’entropia che deriva dalla logica stessa del progresso industriale.

VI ).
Ancora un esempio: nell’opinione pubblica prevale un’attitudine sacrale verso la scienza interpretata come innovazione di prodotto. Laddove è proprio la tecno-scienza, a svalorizzare ciò che già abbiamo, a lasciar fuggire il presente, ad inventare continuamente nuovi bisogni creando nuove merci che ormai invadono anche la sfera propriamente biologica dell’uomo e moltiplicano a dismisura le relazioni mercantili tra gli esseri umani. Sicché il malaugurato progetto di riorganizzare gli studi universitari attorno alle necessità d’innovazione dell’impresa si presenta come la minaccia più seria all’autonomia del sapere, alla comune libertà di creazione simbolica, una delle facoltà tra le più singolari della specie “homo sapiens”; e va combattuta come se si fosse in presenza dell’origine stessa del male. Infatti, l’innovazione più radicale, quella che rompe fin nelle radici con la tradizione è quella che cessa di innovare e brevettare, perché il nuovo è solo la tradizione del moderno.

VII ).
Infine, a proposito di fabbricazione dell’opinione pubblica, si pensi nel dibattito sui grandi media, a come è stata affrontata la questione della morte: la morte, grazie alla tecno-scienza, è sentita come scandalo della vita e non come suo compimento. La morte conferisce perfezione alla vita, non è il contrario della vita, è solo il contrario della nascita. E’ singolare l’alleanza fra la tradizione cattolica e la tecnoscienza nel tentare di allungare senza limite la vita biologica -testimonia quale profonda degradazione del mondo naturale si sia realizzata nelle società a tardo capitalismo; dov’è andata la virtù d’accettare la morte? Dove è finito quel gesto tragico dell’intelletto, quello scarto eccedente di coscienza rispetto al nostro fratello lupo, alla nostra sorella tigre, all’impersonalità dello sguardo della pecora? Come scrive il poeta “un bel morire tutta la vita onora”.

VIII ).
Il nostro interlocutore è certo l’individuo ma quello sociale: l’individuo consapevole di possedere una coscienza enorme, potenzialmente all’altezza del genere. L’individuo medio ignora ciò che non ha nome; per la maggior parte crede solo all’esistenza di tutto ciò che ha un nome; e quanto alle parole, alcune fanno sì che ciò che non esiste esista, altre che non esista ciò che esiste.
Sicché, risulta più facile cambiare le nostre idee sul mondo piuttosto che il mondo. Su una moltitudine di milioni d’individui generici, solo un esiguo numero sente e guarda la vita come potenza, avventura. Il resto la subisce senza pensarci, come un ciclo da cui sono posseduti inconsapevolmente. (Beh, buona giornata)
-Fine della prima parte-.

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