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Una donna minuta, un impegno maiuscolo.

Luigina Di Liegro è una persona minuta, con un bel sorriso e un paio di occhi penetranti. Tuttavia, è capace di sprigionare un’energia e una vitalità davvero invidiabili.
La incontro nel suo ufficio di Roma, presso la Fondazione Luigi Di Liegro, in via Ostiense. Per accedervi bisogna attraversare il cortile della mitica Centrale Montemartini che fu, agli inizi del Novecento, la prima centrale termoelettrica di Roma e oggi è invece un importante museo in cui statue e mosaici di età romana sono esposte nel suggestivo scenario dell’archeologia industriale di questo strabiliante luogo della Capitale.

Conosco Luigina da molti anni. È nipote di don Luigi, fondatore e animatore della Caritas diocesana di Roma, ammirato e stimato oltre gli ambiti del suo impegno religioso. Luigina, che ha dato origine alla Fondazione intestata a don Luigi, si è più volte impegnata in politica.

“Sono l’unica donna candidata nel mio collegio tra i principali schieramenti”, mi dice subito, con quel delizioso e inconfondibile accento italo-americano, che fece dire una volta a Veltroni, durante un’assemblea pubblica al teatro Valle: “Vi presento una candidata che parla come Stanlio e Ollio”. “Le donne che mi voteranno festeggeranno la giornata della donna il 4 marzo”.

D.: Luigina, la politica di questi tempi fa fatica a mostrare i suoi lati positivi. Volano parole grosse, polemiche spesso perniciose, si esagerano dettagli risibili, si sottovalutano cose semplici, ma importanti: per esempio la vita, il lavoro, la salute dei cittadini. Perché hai deciso di accettare una candidatura alle prossime elezioni politiche?

R.: Non c’è dubbio vi sia una brutta sintassi nel discorso politico odierno. Si fatica a sostenere anche un contradittorio, perché subito il livello si ferma ad affermazioni apodittiche, per non dire smaccatamente propagandistiche. Succede tutti i giorni da qualche anno, ma il livello trascende proprio durante le campagne elettorali. È un’abitudine pericolosa, perché influisce sulla capacità di scelta dei progetti politici su cui i cittadini sono chiamati a esprimersi col voto. Ma non si possono abbandonare le persone in balìa di questi momenti confusi.

D.: È come se tu stessi parlando di disagio.

R.: Diciamo che sono abituata a non tirarmi indietro di fronte alle difficoltà delle persone. Io credo che non sia facile essere un elettore. Da un lato grava su di lui il peso di scelte importanti, che riguardano non solo la sua vita, ma quella dei suoi cari, del suo ambiente, del suo futuro. Abbiamo passato anni molto duri, sotto la peggiore crisi economica, forse ancora più tremenda di quella che precedette la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. La crisi del 2008 ha inciso sulla carne e sulla mente delle persone. Un trauma terribile: assistere al proprio impoverimento, non sapere cosa fare col mutuo, veder infrangersi le aspirazioni per un miglior benessere dei figli, veder vacillare il proprio futuro lavorativo e quindi la stessa dignità del proprio ruolo nella società.

D.: Pensi sia questa la causa scatenante del populismo?

R.: Sai, “populismo” è una definizione corretta, ma rischia di diventare un vocabolo del dizionario del politichese. Più semplicemente, direi che la portata della crisi economica globale ha scatenato reazioni tanto comprensibili quanto micidiali: rabbia, rancore, invidia, vendetta. Questi sentimenti, diffusi presso larghi strati di popolazione, che si è sentita abbandonata a sé stessa, hanno gonfiato le vele di idee orribili come le nostalgie delle dittature del passato, ma anche illusioni non fondate sulla realtà dei fatti concreti.

D.: Per esempio?

R.: Un diffuso sentimento xenofobo e addirittura razzista. Eppoi, il ritorno a un’idea di nazionalismo, oggi marcata dal neologismo “sovranismo”, quella tendenza che si esprime con l’idea di “prima gli italiani”. Il nazionalismo ha provocato la terribile sciagura europea della Prima Guerra Mondiale. Quanto all’idea di una stirpe più importante, quella “italica”, essa è stata alla base della tragedia storica della Seconda Guerra Mondiale, della quale l’Italia fu tra i fautori. La propaganda è pericolosa: inventa truci figure retoriche, dall’Irredentismo al Fascismo bastarono pochi anni. Pensare oggi che si possa andare “a battere i pugni sul tavolo” delle istituzioni internazionali per favorire “gli interessi nazionali” è comico, direi grottesco. Ci vogliono idee, forti e condivise per cambiare le cose. Altro che facili slogan propagandistici.

D.: Sembra stia tornando il leitmotiv “meno tasse”.

R.: Il dissesto dei conti pubblici italiani è noto. C’è un macigno fiscale che pesa sulle spalle di tutti. Siamo il paese dell’illegalità, della corruzione e dell’evasione fiscale. Ma quello che mi preoccupa è che immaginare di pagare di meno non tiene conto dell’impoverimento delle risorse pubbliche per il welfare. Una delle ragioni del disagio, sfociato in vero e proprio malessere privato e collettivo sta nella tenaglia che ha stretto le persone: mentre guadagnavano di meno, aumentavano le spese per i servizi sanitari, i costi per l’istruzione, i biglietti dei trasporti, mentre si sono dilatati i tempi per godere della previdenza sociale. Stiamo parlando dei pilastri dello stato sociale. Pagare meno tasse e pagare di più i costi sociali significa dare con una mano e togliere con l’altra. In realtà, favorirebbe solo i ceti sociali forti. Che sono proprio quelli che hanno pagato meno la crisi e in qualche clamoroso caso se ne sono avvantaggiati. La tassazione progressiva è il metodo democraticamente corretto, bisogna calibrarlo in modo flessibile alla ripresa economica.

D.: Un’altra parola chiave è stata “onestà”.

R.: Fammi dire una cosa chiara: questo è un artificio retorico, piuttosto stucchevole. Mio zio, don Luigi, era una persona onesta, infatti non aveva tempo di andare in giro a dire “io sono onesto”. Come tutte le persone oneste, del resto. E in Italia sono molte più di quanto certa propaganda non voglia farci credere. La corruzione è una conseguenza del modo sbagliato di governare i processi di crescita e di sviluppo. Non il contrario. C’è un modo un poco spaccone di vedere le cose: “adesso vado lì e glielo faccio vedere io”. Non funziona così. È vero che ci sono modi sbagliati di affrontare i problemi. Ma spesso sono proprio le soluzioni che non corrispondono più ai risultati che si speravano.

D.: Stai dicendo che mancano idee?

R.: Sto dicendo che le ricette non guariscono il malato. Sono le cure che combattono la malattia. Fare politica significa prendersi cura delle persone. Sono tempi in cui vecchie e non risolte contraddizioni hanno la capacità di presentarsi sotto nuove e inedite forme. Come certe infezioni non più aggredibili cogli antibiotici. E vecchie formule non sono efficaci. E allora bisogna stare lì e non demordere, stare vicino alle persone, perché la loro voglia di stare meglio sia una delle formidabili forme di autoaiuto per trovare le soluzioni adatte e durature. Senza preconcetti, ma neanche accontentandosi di piccoli segnali di ripresa. Che anzi, vanno valorizzati perché da semplici segnali diventino robusti passi in avanti.

D.: Sei candidata nello schieramento di centrosinistra. Non hai niente da rimproverargli?

R.: L’elenco degli errori e delle contraddizioni è tanto lungo quanto a tutti noto. Non riguarda solo l’Italia. Ho vissuto a lungo negli USA e vedere, per esempio, che dopo Obama è arrivato Trump la dice lunga sulla poca capacità della politica di costruire su solide e durature basi. Tuttavia io non ne è ho mai fatto una mera questione di etichette. Chi dice che destra e sinistra non esistono più sa bene di dire una sciocchezza, infatti spesso è un artificio retorico per giustificare brusche sterzate a destra, cioè nel conservatorismo, nell’ineguaglianza, nella brutalità del ragionamento e delle scelte politiche. La semplificazione può portare a situazioni aberranti, come considerare qualcuno come meno umanamente importante di qualcun altro. Come se non fossimo tutti esseri viventi, e quindi titolari di diritti e di dignità di persone.

D.: Dimmi un errore grave del centrosinistra.

R.: Aver ceduto alla tentazione della personalizzazione della politica.

D.: Però sei candidata in un collegio uninominale, ben quattro formazioni politiche si concentrano sul tuo nome.

R.: Una bella responsabilità. Di cui sento il peso. Soprattutto per le aspettative che il mio nome può aver creato tra chi mi voterà. E poi certo, anche in quelle di chi mi ha offerto la candidatura. Sai che sono l’unica donna candidata tra i tre principali schieramenti nel mio collegio elettorale? Mi sento anche la responsabilità di essere un punto di riferimento per le elettrici.

D.: Secondo te chi potrebbe vincere?

R.: L’astensione potrebbe essere il primo “partito”.

D.: Che fare?

R.: No, guarda io non faccio appelli. Posso solo dire che per me non è il tempo né dell’astensione per rabbia e rancore, né del disimpegno per disillusione e amarezza. Sono tutti sentimenti che comprendo e rispetto. Il fatto è che non possiamo pensare che ci sia qualcun altro che risolva le cose se questi non siamo noi stessi. In prima persona. Tra l’ottimismo e il pessimismo, io da tempo ho scelto il cammino: una passo dietro l’altro verso un obiettivo raggiungibile. E poi, di nuovo in marcia. Lo faccio nella vita. Lo farò alla Camera.

D.: Il tuo slogan elettorale, chiamiamolo così, recita “competenza e sensibilità”. Perché?

R.: In realtà lo dice il mio curriculum. La mia competenza specifica deriva dal mio incarico presso l’Anci, l’associazione dei comuni italiani. Grazie a questa esperienza conosco opportunità e procedure per attingere ai fondi utili al sostegno delle attività utili a Pomezia e a Ciampino. Ma anche come assistere i municipi per il miglioramento della qualità dei servizi nei territori compresi tra i il VI e il IX municipio. La mia sensibilità deriva da gran parte della mia vita, dedicata ai disagi psichiatrici, attività svolta da anni dalla Fondazione Luigi Di Liegro.
Competenza politica e sensibilità sociale sono le caratteristiche salienti della mia storia personale e pubblica. Non è uno slogan è la semplice verità.

Luigina vola via, inseguita dai martellanti impegni che la campagna elettorale impone ai candidati. Mi ha lasciato una sensazione positiva. Ha le idee chiare, ma non le urla, non te le vuole imporre. Certo ha molta energia, la qual cosa si confà con il luogo in cui si è svolta la nostra conversazione, cioè la più antica Centrale termoelettrica di Roma.
Il fatto è che mentre parla con te hai la sensazione che in realtà sia lei a essere in ascolto. Che mi sembra la buona dote di una donna che presta alla politica attitudini che si sono formate nel sociale,

Luigina Di Liegro è candidata alla Camera nel collegio Uninominale Roma 7.
Personalmente faccio ancora parte di quei dieci milioni di elettori che non hanno ancora deciso se e chi votare.
E comunque, non avrei la fortuna di avere Luigina Di Liegro tra i candidati del mio collegio elettorale.
Roma, 15.02.18

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Il Presidente, il professore e i giovani.

Tanto scipito è stato il discorso di fine anno, che si cerca ora di dargli un qualche sapore. Così, il professor Guido Crainz si è lanciato oltre le trincee del realismo politico alla disperata difesa del discorso del presidente Mattarella. Egli scrive su Repubblica:
“ (…) nella guerra che terminò un secolo fa, ha ricordato, i diciottenni di allora — i «ragazzi del ’99» — andarono a morire nelle trincee, oggi possono dare al Paese non la loro vita ma il loro voto. Possono «essere protagonisti della vita democratica».

I ragazzi del ’99 non furono protagonisti, ma vittime sacrificali di una politica di rapina territoriale, detta “irredentismo”, mandate letteralmente al macello dalla monarchia sabauda, ma anche da una classe politica vecchia e istupidita dal nazionalismo. Quel bagno di sangue immane non battezzò una nuova e più florida epoca, ma spianò la strada al Fascismo, abbondantemente foraggiato da chi – Casa Savoia in testa – temeva che il dopoguerra favorisse il nascente movimento operaio italiano. Il professore Crainz queste cose le sa bene, tuttavia si è lasciato trasportare da una specie di “storicismo all’acqua di rose”, pur di difendere la debole tesi del Presidente Mattarella.

Infatti, Crainz ne è cosciente, al punto di sostenere che “di nuovo la storia aiuta però a ricordare che l’incertezza e la preoccupazione per il futuro, così presenti oggi, non hanno segnato invece altre fasi storiche, pervase da un’idea positiva di progresso.”
È vero. I giovani che aderirono alla Resistenza furono il motore non solo della Liberazione, ma di un vento nuovo che spazzò via, in un colpo solo, occupanti, fascisti e la monarchia corrotta, dando quella spinta alla democrazia del nostro paese, scrivendo pagine di riscatto e riscossa, la cui sintesi è tutt’ora leggibile negli articoli della nostra Costituzione.
Però, stranamente Crainz si è dimenticato di ricordarcelo.

Tuttavia, ci dice finalmente con chiarezza che le difficoltà reali del paese non hanno impedito “ né hanno segnato i primi decenni della nostra storia repubblicana, quando vi era la convinzione che i figli avrebbero avuto un futuro migliore dei padri: fu questa convinzione a farci superare gli anni durissimi del dopoguerra, e poi le asprezze di una modernizzazione che impose anche costi e sacrifici (soprattutto per i più deboli)”.

Vorrei ricordare ai lettori la sostanza di ciò che qui afferma il professor Crainz. Furono i giovani i protagonisti della battaglia per l’attuazione della riforma agraria nel sud, contro i quali si scatenò la violenza mafiosa. Il presidente Mattarella sa bene cosa sia la mafia, che prima di arrivare a colpire gli uomini delle istituzioni, aveva fatto stragi e assassini tra contadini, dirigenti sindacali, militanti politici.

Furono i giovani a battersi contro le “gabbie” salariali, mettendo le basi per la contrattazione collettiva che diede vita ai contratti di lavoro nazionali.

Furono i giovani a dare vita alle grandi battaglie sindacali nel triangolo industriale del nord ovest; furono i giovani a fare delle proteste studentesche del ‘68 non solo un volano di libertà e uguaglianza a fianco della classe operaia, ma anche una formidabile forza di cambiamento nei costumi, nella cultura, nelle relazioni famigliari e nei rapporti tra i sessi, introducendo l’idea dell’estensione dei diritti civili. Senza il protagonismo politico e sociale dei giovani, oggi non avremmo leggi che tutelano il lavoro, le donne, la malattia, le differenze di genere, ecc.

L’Italia cambiò contro il volere dell’establishment a guida democristiana, ma anche oltre le aspettative e l’immaginario politico e sociale della sinistra parlamentare. E qui i giovani divennero un problema politico, che in Italia spesso ha portato a soluzioni di “ordine pubblico”, modo nel quale fu trattato il movimento del ’77, che poneva il problema del reddito, oltre l’organizzazione del lavoro.

È la questione di oggi, a cui però ieri si rispose con la violenza di Stato, accompagnata dalla “scomunica” della sinistra che sedeva in Parlamento, la quale non solo permise la degenerazione dello scontro, ma tentò di gestirla con la repressione assurta a ragion di Stato.

Tra l’altro ci sono amnesie colpevoli. La generazione dei “ragazzi del 1999” è venuta al mondo in contemporanea con il movimento “no global”, nato a Seattle proprio nel 1999. Ma fatto a pezzi a forza di botte e torture al G8 di Genova nel 2001. Il Presidente queste cose dovrebbe ricordarle, perché proprio in quell’anno fu rieletto in Parlamento nelle liste della Margherita.

Ovviamente, il professor Crainz queste cose le sa bene, avendole non solo studiate e insegnate, ma anche vissute. Ed ecco che stupisce la sua difesa d’ufficio del discorso del presidente Mattarella. Tra l’altro, sia detto con grande amarezza, evocare il ruolo dei giovani a poche ore dall’aver permesso di rimandare ancora il diritto di cittadinanza a 815 mila bambini e ragazzi nati in Italia ha avuto il sapore si una gaffe imperdonabile.

Credo sia sbagliato il parallelo storico con i “ragazzi del ’99”; sia retorica fine a sé stessa chiedere ai ragazzi del 1999 di fare qualcosa per salvare il salvabile.

Siamo noi che dobbiamo fare qualcosa per salvare la loro generazione dallo sfacelo nel quale li abbiamo cacciati, (basti prendere in esame il tasso di disoccupazione giovanile). Uno sfacelo che rischia di essere – come ho già avuto modo di dire in un’altra occasione – una Caporetto democratica che incombe nelle prossime elezioni, disfatta il cui sentore si è avvertito nelle stesse parole del Presidente.

La “chiamata alle armi” dei diciottenni rischia di trasformarsi in un bagno di sangue virtuale, in cui veder naufragare non solo la fiducia nella politica –già da tempo bell’e affogata- quanto la stessa fiducia nella cultura democratica, cui tra differenza, scontri e accesi contrasti abbiamo fin qui comunque contribuito per generazioni.

La retorica del macello.

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Elezioni comunali: il voto utile, il voto vano o il voto “meno peggio, tanto meglio”?

Le elezioni comunali che si terranno domenica 5 giugno sono un nuovo passo avanti nella degenerazione modernista della democrazia rappresentativa.

Dopo il “voto utile”, categoria utilitaristica della partecipazione democratica, che tante soddisfazioni ha regalato a liste dimostratesi poi combriccole di arruffoni, stiamo per assistere al varo di una nuova categoria politica: il “voto vano”.

Se Montanelli consigliò di votare turandosi il naso, il “voto vano” si esercita semplicemente tappandosi gli occhi.

Infatti, il “voto vano” è un atto ideologico che non organizza né teorie né idee, solo auspici, al massimo indici di gradimento sulle persone.

Il “voto vano” sarà, per esempio quello che verrà espresso da chi pensa all’ideologia della riunificazione della destra, colla leadership di Berlusconi; o di Salvini (la destra ex fascista sta alla “frutta”, infatti candida Meloni a Roma); il “voto vano” sarà anche alla base dell’ideologia dell’onestà in politica (l’onesta è come la salute, quando c’è, c’è tutto!); il “voto vano” sarà pure conferito a chi professa l’ideologia di una sinistra a sinistra della sinistra del Pd.

E all’amministrazione dei servizi che la città dovrebbe somministrare ai cittadini? Chi ci pensa? Quale nuovo modello, progetto o prospettiva connota e differenzia candidati e schieramenti? Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.

Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.
Sembra che i candidati e i loro apparati abbiano ben altro a cui pensare.

Ecco il punto. L’unica possibilità di garantire un minimo dignitoso nella gestione dei servizi ai cittadini e quindi di proteggere e magari accrescere il tenore e la qualità della vita nelle città italiane è “rinegoziare” col governo il debito che gli enti locali hanno accumulato negli anni, dopo i continui tagli lineari che gli inquilini di Palazzo Chigi hanno inferto ai trasferimenti di risorse economiche dallo Stato ai Comuni.

Da anni, nei comuni italiani, la Capitale in testa, si è sedimentato il più bizzarro schema di marketing del mondo: al cittadino è stato imposto di pagare di più per avere sempre meno e male.

Ora, la domanda è: chi è in grado di poter ottenere più facilmente dal governo un allentamento dell’austerity imposta al proprio comune?

Badate: ho detto allentamento, mica ripristino dei finanziamenti statali ai Comuni. Va precisato, perché i candidati non lo fanno, le loro sono spesso ricette elettoralistiche, che servono forse come lo zucchero che addolcisce l’amara pillola, sono mica vere medicine per curare seriamente i bilanci malati.

Non è difficile capire quali e candidati e schieramenti abbiano, in teoria, questo “vantaggio competitivo”.

Al “voto vano” si contrappone, allora, l’opportunismo politico, il pragmatico senso del “meno peggio, tanto meglio” che è la forma di adesione ideologica offerta dai candidati espressi o sostenuto dal Pd, per il semplice motivo che è il partito di governo.

Tuttavia, le elezioni comunali di domenica 5 giugno non cambieranno né il quadro politico né fermeranno lo smantellamento, pezzo a pezzo della spesa pubblica a favore dei servizi ai cittadini, a favore della qualità delle città. Uomini e donne che in queste ore stanno promettendo, se eletti, di cambiare tutto, in realtà stanno trattano gli elettori come bambini.

Chiunque vinca, soprattutto a Roma, l’idea di privatizzare e portare a valore economico i servizi di cui i cittadini avrebbero pieno diritto continuerà ad avvilire, umiliare e depotenziare il concetto di uguaglianza, per continuare ad arricchire i ricchi e impoverire i poveri, come ci ha insegnato la lunga crisi economica.

Forse, non bisognerebbe cambiare candidato, ma cambiare politica. Ma per ottenere un vero cambiamento più che il voto può la lotta. La lotta “contro” ha fatto sempre venire buone idee “per”.

Le donne e gli uomini appartenenti alla classe lavoratrice e ai ceti medi impoveriti dalla crisi e dallo sbriciolamento sistematico dello stato sociale sono quelli su cui è gravato il peso economico e sociale delle bancarotte comunali, sono quelli che hanno visto tagliare servizi e aumentare tariffe, che hanno visto peggiorare le condizioni di vita nelle città in cui lavorano; che si spostano faticosamente nel traffico urbano, che mandano a scuola i figli, mettendogli nella cartella la carta igienica o che portano dal medico gli anziani facendo i conti coi ticket; che vanno a fare la spesa stando attenti ad arrivare alla fine del prossimo mese, loro che sono la maggioranza degli elettori dovrebbero smetterla di dare ancora credito al “voto vano” o al “meno peggio, tanto meglio”. Si sta dimostrando dannoso, peggio di quello che fu “il voto utile”. Beh, buona giornata.

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No, non fate i furbi, non siamo in guerra.

La guerra noi la bombardiamo dall’alto, cercando di non lasciare uomini sul terreno. Noi facciamo i guerrafondai con i morti degli altri. Noi le chiamiamo missioni umanitarie. Noi non spariamo, no, noi facciamo attività di peacekeeping. In Afghanistan, in Iraq, in Siria lo facciamo da quindici anni, che significano centinaia di migliaia di morti civili, per i quali non versiamo lacrime, eh no!, sono danni collaterali, mica lo abbiamo fatto apposta. Gli mandiamo anche cerotti con le organizzazioni non governative, che volete di più?

I nostri nemici non hanno diritto agli onori militari, manco rientrano nelle Convenzioni internazionali: sono terroristi, no!? Bisogna farli parlare, come ad Abu Ghraib o deportare senza processo a Guantánamo.

Ad ogni detonazione, fa eco lo sconcio mantra secondo cui solo i buonisti pensano che non bisogna armarsi e partire, che non bisogna torturarli. “Ci vogliono le palle”, altercano nei salotti televisivi.

I civili inermi che fuggono da lì e vengono da noi? Aiutiamoli a casa loro, quelle stesse case che bombardiamo, radendole al suolo. Rendiamoci conto della sproporzione tra i fatti e la propaganda.

No, loro non sono in guerra contro di noi; semmai, siamo noi che lo siamo contro di loro, da quasi due secoli. Ci servono le loro ricchezze naturali, le fonti di energia vitali per il nostro modo di produrre ricchezza, quella che godono in pochi, ma che distrugge il pianeta di tutti.

Gli attentati che hanno insanguinato Parigi e Bruxelles non sono atti di guerra. Sono gesti disperati di un’organizzazione estremista basata in Belgio. Che è stata evidentemente sottovalutata, magari infiltrata e che poi comunque è sfuggita di mano. Che però fa comodo, perché un po’ di morti europei possono venir utili: aiutano i parlamenti a varare spese militari e leggi speciali, fanno ingoiare alle opinioni pubbliche la militarizzazione del territorio, fanno prendere voti alla destra xenofoba, il cui polverone è utile a mascherare le politiche liberiste contro il welfare.

Bruxelles è insanguinata perché è la capitale del fallimento delle politiche sociali della Eu. È la capitale della disoccupazione, quella giovanile, soprattutto. È la capitale di un’Europa capace solo di aiuti alle banche, nella mistica cieca del mercato. È la capitale del fallimento degli accordi sull’accoglienza delle grandi migrazioni. È la capitale del declino dei grandi ideali.

È la capitale del disastro in cui una cellula ultra-estremista fa da anni cose che si potevano prevedere e prevenire, se il Belgio non fosse una democrazia impazzita, se non avesse più polizie che politiche di sicurezza.

No. Non è contro di noi che Daesh combatte: combatte contro altro che per mettere in discussione le nostre libertà. Al califfo di Isis di noi interessa nulla: combatte contro i governi arabi fantoccio, è in gioco una guerra di supremazia tra sunniti e sciiti. Supremazia come quella in gioco tra valloni e fiamminghi in Belgio.

Non siamo in guerra, non facciamo vittimismo. Che di vittime la nostra sciagurata politica le sta facendo. Non siamo in guerra, ma abbiamo nemici pericolosi: sono nei governi, nei parlamenti, nei talk show televisivi. Sono la destra xenofoba, sono i governi conservatori totalmente supini al capitalismo finanziario e la sinistra che crede nei poteri magici del neoliberismo, sull’altare del quale sacrificare il welfare.

Ma secondo voi, se un ragazzo di 26 anni, magrebino di seconda generazione, cittadino belga con passaporto europeo avesse avuto le opportunità sancite e garantite dalle costituzioni democratiche si sarebbe mai arruolato nelle fila di Daesh, per difendere un’idea astratta di califfato? O si farebbe saltare in aria nella metropolitana della città in cui è nato e cresciuto, urlando disperatamente Allah akbar?

Questo nichilismo è l’urlo di dolore contro l’esclusione sociale, che nessuno ha raccolto, se non qualche predicatore senza scrupoli. Come succede nei sobborghi delle città di provincia degli Usa, dove gli ultimi sono le prime vittime del fanatismo religioso a mano armata: lì cristiano, qui musulmano.

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Crollato il mito del socialismo dei mezzi di produzione, ci siamo incamminati sul sentiero della barbarie. È un vicolo cieco. Di rabbia, di violenza, di morte.

Non ci sono soluzioni facili, semplicemente perché siamo una parte consistente del problema. La sola certezza è che più tardi invertiremo la rotta, più a lungo piangeremo i nostri morti. Beh, buona giornata.

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I naufraghi di “Fuocoammare” siamo noi.

Una scena di "Fuocoammare", di Gianfranco Rosi.
Una scena di “Fuocoammare”, di Gianfranco Rosi.
Ci sono momenti di poetica alta: quando parla il medico, quando vengono controllate le mani di chi sbarca, quando, in primo piano, le donne piangono, sul ponte della nave che le ha tratte in salvo. Quando si tuffa il pescatore in apnea, di giorno e di notte. Quando Samuele, il bimbo che ha un occhio pigro e un senso d’angoscia, simbolo del sentimento di tutti i suoi compaesani, cinguetta di notte con un uccellino, come un dialogo possibile tra due specie viventi, pur differenti.

Ma anche quando si vedono i corpi morti, tra i poveri resti della traversata, nella stiva dell’imbarcazione alla deriva. “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è un film il cui significato “politico” supera il talento artistico. Un Orso d’oro a Berlino assolutamente meritato.

Che pone, tuttavia una questione stringente quanto drammatica: è giusto che lo scontro politico sull’immigrazione in Europa si giochi tutto tra chi vuole respingere quei corpi e chi vuole accoglierli? Tutto qui? Ma quelle non sono forse persone, popolazioni, moltitudini di uomini e donne in fuga non tanto da guerre e carestie, quanto piuttosto proprio dal nostro sistema economico, politico, militare, che quelle carestie, epidemie e guerre ha creato nelle loro terre, nazioni, patrie? Non è forse il “nostro stile di vita” che li ha ridotti in miseria prima e poi schiavi in fuga della povertà più dura?

Quello stesso nostro sistema che li ha costretti all’esodo in massa, oggi pretende di decidere di nuovo sui loro destini: o inglobandoli nella catena del comando del valore (leggi: integrazione) o escludendoli definitivamente dal diritto di vivere su questo pianeta (leggi: respingimenti, filo spinato, muri). Non sono cittadini: sono corpi. O buoni per produrre o scarti da ributtare da dove son venuti.

“Fuocoammare” dice molto proprio perché non ha la pretesa di dire qual è il vero problema, ne rimane distante, come distanti dalla terra di Lampedusa vengono tenuti i migranti dalla “missione Frontex”: quelle barche di dannati non toccano più terra, non incontrano più gli abitanti dell’isola. Quelle barcacce vengono fermate in mezzo al mare: quelli che sono vivi, vengono fatti trasbordare su imbarcazioni militari, rianimati, portati in strutture di raccolta, come corpi estranei alla terra verso cui di sono imbarcati. I corpi di quelli morti vanno alle autopsie dentro sacchi neri.

“Fuocoammare” ci sbatte in faccia che non basta salvare i salvabili. Ci ricorda che in quei corpi ci sono persone, culture, idee, desideri, dolori, paure, speranze, sogni, tenerezze.

Ci dice che i naufraghi siamo noi: le nostre leggi, i nostri valori, la nostra società, il nostro modo di vedere il mondo sono alla deriva. È il naufragio dell’Europa come entità politica, ma anche come identità culturale. Andate a vedere “Fuocoammare”. È bello da vedere, è importante da capire. Dobbiamo capire cosa dobbiamo fare di noi. Beh, buona giornata.

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Il bello che c’è nelle cose sbagliate, il brutto che si trova nelle cose giuste.

Cominciamo dal brutto. Una manifestazione per il Primo Maggio a Milano viene affumicata dai black bloc e oscurata dai media. “I black bloc si nascondono nella pancia dei cortei” dicono gli esperti dell’ordine pubblico. E allora: se la testa e il corpo dei militanti di un corteo non si occupano della pancia, c’è qualcosa che non va nel modo di andare in piazza. Bisognerebbe che se occupassero finalmente gli organizzatori di quelle manifestazioni. La questione della gestione dell’agibilità politica in piazza è una questione non più rimandabile.

Continuiamo col brutto. Un nutrito gruppo di giovani si organizza per scatenare gli scontri con le forse dell’ordine. Sono furiosi, odiano, spaccano tutto. Se la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato dei giovani in Italia ha raggiunto livelli mai visti, forse bisognerebbe occuparsene. Se c’è chi si sente legittimato a rappresentare la rabbia giovanile, più che degli arrabbiati, bisognerebbe occuparsi dei motivi che scatenano la violenza. Certo, dire, come a detto il capo del governo che “sono quattro figli di papà” non aiuta, semmai aizza. Senza contare che il capo di un governo democratico dovrebbe occuparsi di tutti i cittadini, anche di quelli che fanno solo casino, anche di quelli che lo contestano. Per fermare la violenza politica di piazza del ’77, l’allora governo Andreotti non usò solo la polizia, ma chiese un prestito internazionale col quale finanziò la famosa legge 285/77 per l’occupazione giovanile, che favorì un reddito e di conseguenza fermò le manifestazioni violente. L’attuale governo Renzi dovrebbe essere meno burbanzoso. E, per continuare col brutto, quello che è successo a Bologna, dove la polizia ha respinto manifestanti che volevano entrare alla Festa de l’Unità per contestare il capo del governo non s’era mai visto. Un partito di sinistra che sa parlare solo con gli industriali e non sa dare risposte ai precari della scuola non è né un partito di governo, né è di sinistra.

E adesso veniamo al bello. Il bello è stato la partecipazione di migliaia di cittadini milanesi che volevano rimettere a posto le cose sfasciate dagli scontri del Primo Maggio. L’orgoglio di sentirsi una comunità solidale è un sentimento puro. Purtroppo la causa è sbagliata: le città non sono vetrine, né Milano si può trasformare in un “temporary store”. Milano è molto di più della città che ospita Expo. Expo non è la soluzione della crisi, né rappresenta un prospettiva per il prossimo futuro. È un evento commerciale, fra sei mesi finirà quello che ancora non è stato neppure finito in tempo. Si dice Expo sia un’opportunità. Se lo sarà, lo sarà per le grandi corporazioni, per le multinazionali, per il mercato. Non per i cittadini di Milano, o comunque non per tutti. Bisognerà, allora raccogliere e coltivare questo sentimento di comunanza e di cura della città, e indirizzarlo verso l’innalzamento della qualità della vita e la gestione positiva della differenza sociali che convivono nella metropoli lombarda. Il sindaco Pisapia ha avuto una felice intuizione a indire l’assemblea pubblica a piazza Cadorna. La domanda è: quei cittadini che hanno partecipato a “nessuno tocchi Milano” sapranno darsi strumenti autonomi di protagonismo politico o arriveranno di nuovo i partiti a spartirsi il consenso per le prossime scadenza elettorali?

Ancora sul bello nelle cose sbagliate. È bello che si protesti con veemenza contro l’arroganza della maggioranza parlamentare che vorrebbe imporre la nuova legge elettorale. Ma è brutto il modo in cui forze politiche di opposte posizioni politiche, per non dire di contrapposte sensibilità democratiche hanno voluto praticare l’opposizione parlamentare. Neanche nei reality show televisivi la pantomima delle contestazione sarebbe riuscita a rappresentarsi tanto finta e strumentale al gioco delle parti. Se le giuste preoccupazione della coerenza democratica tra la Costituzione e le leggi che regolano la partecipazione dei cittadini della Repubblica alle elezioni vengono rappresentate con queste modalità, è chiaro che non c’è da fidarsi della buona fede dell’opposizione.

Poi c’è il brutto che si ritrova a suo agio nello sbagliato. La politica sull’immigrazione del governo è sbagliata, perché tende non a trovare una soluzione equa, quanto piuttosto a camuffare il problema di fronte all’opinione pubblica, inorridita dai naufragi e preoccupata dall’accoglienza. C’anche il più brutto nel peggior modo di sbagliare. Quando per mera propaganda, certe froze politiche vorrebbero respingimenti e affondamenti, mentre sventolano lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, succedono cose brutte nel modo peggiore: la Lega ha partecipato a tutti quei governi che durante i G8 e G20 promettevano aiuti ai paesi africani, senza mai poi versare un euro. Se i nodi non vengono al pettine, è il pettine che si incarica di sciogliere con durezza i nodi: è vero che l’Italia è molto esposta all’immigrazione di masse di disperati, ma è altrettanto vero che la nostra politica ha commesso errori drammatici nei confronti di quei paesi che oggi “esportano” fame e miseria in Europa, passando per le nostre coste.

Infine, il bello delle cose giuste. Un ragazzo disabile non è potuto salire sul pullman della gita scolastica e tutti i suoi compagni di scuola non sono voluti partire e quella gita che non si poteva fare per uno, nessuno ha voluta farla. Questa si chiama solidarietà. Non quella di un euro via sms, perché quella è elemosina. La solidarietà è quel sentimento collettiva di rinuncia a un privilegio per pochi perché possa essere condiviso da tutti. Anche se i tutti sono uno solo, quel ragazzo in carrozzella.

Manifestazione "Nessuno tocchi Milano", piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Manifestazione “Nessuno tocchi Milano”, piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Dovremmo ricordarcelo più spesso. Beh, buona giornata.

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La pubblicità italiana, ovvero regressioni d’autunno.

“E mo’ vene Natale, non tengo denari, me leggo ‘o giurnale, e me vado a cuccà”, mitica canzoncina jazz di Renato Carosone del 1955 che, a saldi pari, calza a pennello alla comunicazione italiana, che si appresta a chiudere un altro anno terribile, smentendo, senza che nessuno abbia il coraggio di farne pubblica ammenda, la previsione di un pareggio, se non di un sia pur lieve incremento.

Siamo, invece, ancora nella melma, per non dire di peggio. E non si tratta di numeri, ma d’idee.

Succede, per esempio, che una nota e potente organizzazione nella grande distribuzione mette sui suoi scaffali un nuovo prodotto a marchio: un preservativo. Ma la campagna è moscia. E non vi sembri un volgare ossimoro.

Oppure che un grande editore italiano metta in distribuzione opzionale un prodotto multimediale su Giacomo Leopardi. La creatività radiofonica è niente meno che una serie di brani tratti al Cd, uno dei quali recita:
“Leopardi era un ragazzo allegro”. Peccato che l’agenzia non si chiami Monty Python.

Potremmo andare avanti in un lungo e noioso elenco.

D’altra parte, vanno in continuazione sul web ideuzze risibili, supportate da volonterosi copy e account che tentano di “virarli” attraverso i loro rispettivi profili sui social network.

Però si alzano peana alla comunicazione olistica. Dimenticando che è il marketing che

La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
deve essere olistico. La comunicazione o è settaria o non è.

Siamo in un’epoca di frantumazione. Si è frantumata la Repubblica, ormai ogni potere fa i casi suoi, spesso in contrasto gli uni con gli altri. Si è frantumato il sogno europeo, ormai divenuto il ricorrente incubo dell’austerity: il suo mantra è “ricordati che devi pagare le tasse”.

Si è frantumata la politica, che oltretutto sta frantumando anche la pazienza degli elettori: neanche la pubblicità degli Anni Ottanta sparava fandonie così roboanti. Manco il leggendario “vavavuma!” della Citroen diesel di Seguélá sarebbe arrivato a tanto.

Certo, la frantumazione dei media è la caratteristica attuale. Usciti (male) dall’impero della tv e dalla satrapia di Auditel, oggi vaghiamo in un limbo in cui per raggiungere i consumatori le marche si devono fare in mille pezzi, tanti quanto è la somma tra i vecchi e i nuovi media.

Ma a forza di avvitarsi in tecnicalità e a credere che i mezzi siano tutto, il messaggio langue, il contenuto è esangue. C’è anche un aspetto grottesco, per non dire gotico, una specie di noir de noantri, non tano del dibattito, che forse non c’è mai stato, quanto del chiacchiericcio lamentoso: quelli che urlano “la pubblicità è morta” non riescono a nascondere le mani sporche di sangue della strage di idee.

Guardare a certe importanti campagne fa impressione; vedere immagini, testi, claim, cioè i contenuti, fa pena. Una regressione stilistica, estetica e sintattica; una povertà d’immaginazione e di comunicativa; una fretta nell’esecuzione che fa cadere ogni voglia di interessarsi al narrare delle marche, dunque ai loro prodotti.

La grande corsa all’irrilevanza della comunicazione commerciale italiana fa sudare, boccheggiare e ansimare tutti, su una strada che vede allontanarsi via via il traguardo della ripresa economica.

Come fosse la vocazione a essere comparse, invece che protagonisti, poco vale consolarsi per la partecipazione straordinaria di creativi italiani alla messa in scena di campagne internazionali.

Mentre da più parti ci verrebbe proposto un nuovo modello di comportamento emotivo, basato sulle migliori qualità italiane, si dimentica che il paradigma gramsciano aveva nell’ “ottimismo della volontà” il contrappeso del “pessimismo della ragione”. Cioè di una visione critica, analitica, non conformista, utile alla modificazione positiva della realtà. Che dovrebbe cominciare col rifiutare di credere ancora che tecnicalità e mezzi, invece che idee e contenuti siano la comunicazione del nuovo modo di fare marketing.

E visto che continuiamo a importare acriticamente dall’estero assiomi del marketing moderno, per concludere ci starebbe bene una famosa citazione di “Un americano a Roma”, interpretato da un Sordi giovane e pimpante.

Quando qualcuno viene a farvi il pistolotto sulle nuove opportunità, rivolgetevi a chi vi sta accanto e dite ad alta voce: “Armando, questo mo’ cacci via, subito”. Magari funziona. Beh,buona giornata.

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Micaela Latini: “Hannah Arendt, della von Trotta

Micaela Latini commenta il film “Hannah Arendt”
di Margarethe von Trotta

Il coraggio del pensiero contro la produzione indifferente del male

Il dislivello prometeico di Anders e il Totum come Totem di Adorno
di Riccardo Tavani

L’incontro con la professoressa Micaela Latini è davanti a due tazze bollenti di squaglio fondente al 75%, con guarnizione di panna fresca, in una vecchia (ora magnificamente restaurata) cioccolateria del quartiere San Lorenzo a Roma. Lei ha visto il film lo scorso anno, appena uscito in Germania, a Monaco. Io lo vedo questo 27 gennaio 2014, in una proiezione speciale, in occasione della giornata della memoria al Cinema Farnese, dove adesso è in programmazione tutti i giorni alle 15,30.

Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

La professoressa Latini è anche una delle maggiori studiose italiane dell’opera filosofica di Günther Anders, che è stato anche il primo marito di Hannah Arendt. Ustionandosi il palato con una sorsata di cioccolato bollente, mi dice senza mezzi termini, che è una vera vergogna che questo film venga proiettato con grande successo in tutta Europa e in Italia sia programmato solo in poche sale e per pochi giorni.

Una pellicola interamente al femminile, per la regia di Margarethe von Trotta, la sceneggiatura di Pam Katz e la sensibile interpretazione dell’attrice polacca Barbara Sukowa.
Aspettando che il cioccolato incandescente si raffreddi un po’, cedendo calore alla conversazione, la professoressa mi ricorda come la Arendt, anche in quanto ebrea, si sia trovata al centro di eventi storici cruciali. Fuggita dalla Germania nazista a Parigi, visse la vita dei suoi connazionali nei campi profughi, trasformati poi in campi di prigionia dopo l’invasione tedesca della Francia.

Riparò, come molti altri importanti pensatori e lo stesso Anders, negli Stati Uniti, dove sposò in seconde nozze il poeta e filosofo Heinrich Blücher. Il film di Margarethe von Trotta ritrae la Arendt in questo suo periodo americano degli anni ‘50, diviso tra la vita familiare, lo studio, l’insegnamento, l’incontro con i suoi amici tedeschi espatriati (la cosiddetta altra Germania) e diverse figure di intellettuali americani, tra le quali la scrittrice Mary McCarthy.

Il film passa continuamente dall’uso del tedesco a quello dell’inglese, e non solo per una ragione di realismo storico. In quegli anni, infatti, ricorda Latini, si è sviluppato un dibatto sulla lingua tedesca come lingua del male. “Non è la lingua tedesca a essere impazzita!” dirà poi Arendt in un’intervista rilasciata proprio alla televisione del suo Paese,

Micaela Latini nota che il film, innanzitutto, evidenzia bene la differenza tra la Arendt e gli altri pensatori di quel momento storico, e non parliamo della Germania e dell’Europa, dove dominava la rimozione e il silenzio sulla Shoa. Prova di questa rimozione è proprio silenzio del maestro e primo amante di Hannah Arendt, Martin Heidegger. A questo grande filosofo tedesco, che aveva aderito al nazismo, molti avevano chiesto, alla fine della guerra, di pronunciare una parola critica sulla sua scelta, ma lui non la pronunciò mai.

Differenza, quella di Hannah, coniugata in termini di coraggio etico del suo pensiero, e questo lo scandisce bene una secca battuta di dialogo della McCarthy, scagliata in faccia agli intolleranti quanto pavidi critici della Arendt, nel momento di massima aggressione che subì a seguito delle sconvolgenti pagine che scrisse sul processo Eichmann.

Hannah Arendt, infatti, è inviata dall’importante rivista New Yorker a Gerusalemme per assistere al processo intentato dallo Stato di Israele contro Adolf Eichmann, rapito nel 1960 dagli agenti del Mossad a Buenos Aires, dove si nascondeva sotto falsa identità, dopo essere sfuggito al Processo di Norimberga. Il resoconto che più tardi la Arendt farà del processo e della figura di Eichmann, in particolare, sulle pagine del New Yorker e del suo libro La banalità del male determinarono uno shock e una controversia irriducibile dentro la stessa comunità ebraica, alla quale anche lei apparteneva per nascita.

La pellicola inserisce all’interno della sua ricostruzione scenica le immagini vere, in bianco e nero, di Eichmann che si difende nel processo di Gerusalemme, al quale la Arendt assiste di persona. Ciò conferisce all’opera una particolare forza storica e, paradossalmente, un riverbero quasi sperimentale, simile a

L’Istruttoria, di Peter Weiss, che vedeva inserite, dentro il testo teatrale, le vere parole pronunciate dai testimoni nel processo di Francoforte del 1963 contro le SS e i funzionari del Lager di Auschwitz.

Micaela Latini sta approfondendo, con i suoi studenti, proprio nell’anno accademico in corso, i temi delle spaventose ecatombe consumate nella modernità, dall’Olocausto alla bomba atomica su Hiroshima. Quello che la Arendt coglie del processo di Gerusalemme e dall’enorme mole di atti giudiziari che studia approfonditamente è l’aspetto strutturale, di efficienza burocratica, amministrativa, da catena di montaggio della morte come produzione industriale strategicamente pianificata. È un aspetto, questo, che non può essere ridotto in nessun modo alla mostruosità di un singolo per quanto malefico individuo.

È il sistema in sé, quello che Theodor Wiesengrund Adorno (anche lui esule in America) chiamerà poi il Totum a costituire il Totem della cieca obbedienza, ai fini di un’efficiente esecuzione dei compiti da assolvere all’interno della divisione gerarchica. Eichmann era semplicemente un tenente colonnello, dunque neanche uno dei ben più elevati gradi militari ai quali obbediva. A una precisa domanda, risponde che avrebbe ucciso anche il padre se avesse tradito il e glielo avessero ordinato.

Di fronte alle contestazioni dei giudici sul metodo criminale di trasporto degli ebrei rastrellati, l’ufficiale risponde che il suo reparto si occupava solo delle quantità e dei tempi del trasporto, non delle modalità che erano affidate al Reparto U-4, sulle cui decisioni lui non poteva influire. Egli, afferma, con la massima serietà: “non ho mai personalmente torto un capello a un solo ebreo”.

Quello che la Arendt cerca di spiegare ai suoi studenti a New York è il vero aspetto del male assoluto rappresentato dalla Shoa: quello di privare l’essere della propria singolare umanità. Un aspetto ripreso poi anche da Primo Levi che nella sua opera parla della riduzione, praticata nei campi di sterminio, dell’umano al sub-umano, dell’oscena nudità dell’essere spogliato di ogni proprio sé.

La stessa spoliazione, la stessa negazione, però, il Totum sistemico la pretende dai propri addetti in stivali e divisa da militari, o in giacca e cravatta da funzionari. Vi è un parallelo, nota Latini, con il processo di alienazione descritto da Marx a proposito del sistema produttivo capitalistico.

Nelle sue lettere a Gershom Scholem, ricorda Latini, la Arendt scrive che il male non è radicale ma estremo, non possiede né profondità né connotazione demoniaca, ma è come un fungo. Alla stessa stregua Ingeborg Bachmann parlerà di un virus e si domanderà dove si sia annidato nel presente quello del nazismo. Un fungo che può attecchire nell’humus del mondo, ma il pensiero che lo cerca alla radice non riesce a coglierlo.

Solo il bene è profondo e radicale, il male è sempre orizzontale, si fa concrezione di superficie. Per questo lei rimane stupita e sconvolta dalla mediocrità dell’omuncolo Eichmann, dal suo essere anodina vite dell’ingranaggio che gli toglie ogni senso, restituendogli mera funzione esecutiva.

Questa indifferenza funzionale, indipendente dall’attività che si svolge, secondo Anders, è la connotazione moderna del peccato, così come originariamente intuito dal cristianesimo. È quello che lui chiama dislivello prometeico tra produzione e immaginazione, nel senso che quest’ultima non riesce mai raffigurasi il male che conseguirà a tale indifferenza produttiva.

È proprio questa, spiega la professoressa Latini, non la mostruosità, la dimensione abissale, ma la banalità del male, espressione che Hannah Arendt conierà come una delle più sinteticamente affilate di tutto Novecento. Lo choc causato dalla lettura delle pagine da lei firmate sul New Yorker scuote anche l’intera comunità ebraica americana, europea e israeliana.

L’indicazione del male come sistema riguarda anche i capi delle comunità ebraiche che collaborarono – come storicamente è provato – con i nazisti. La Arendt arriva ad affermare che se la strutturazione gerarchica delle comunità le aveva storicamente preservate, non esiste, allo stesso tempo, alcun dubbio che sarebbe morto un numero enormemente inferiori di ebrei se non ci fossero stati questi capi nell’occasione della Shoa.

Il Novecento fa emergere alla superficie tale aspetto prima inesplorato e non agito di Prometeo, come produzione orizzontale e non più controllabile, immaginabile del male.

Si rivoltano contro di lei le stesse radici ebraiche e filosofiche nelle quali affonda la sua formazione di studiosa, rappresentate nel film dai personaggi di Kurt Blumenfeld e Hans Jonas, quest’ultimo suo compagno di studi a Marburgo, dove aveva presentato Hannah ad Heidegger. Proprio Jonas, sottolinea Latini, per la sua internità alla comunità ebraica e allo stato di Israele, sarà poi il maggiore accusatore della vecchia e adorata compagna di formazione.

La loro è una vera e propria diaspora conflittuale che caratterizza tutta la comunità ebraico tedesca, cresciuta all’idea di tolleranza di Lessing e schiacciata poi dall’intolleranza nazista.

La Arendt fa prevalere, però, sempre la sua dimensione di filosofa tedesca, europea di fronte a quella pure profondamente intima di ebrea.

La dimensione pubblica in relazione a quella privata, anzi, il loro corto circuito, precisa Latini, è uno dei poli decisivi dell’intera filosofia della Arendt. Il rapporto controverso con il maestro ripudiato è drammaticamente rappresentato dalla von Trotta con dei salti temporali, in questa parte del film, nella quale la grande filosofa si ritira dalla sua casa di New York, per sottrarsi alla tempesta di critiche, insulti, ruvide pressioni e intimazioni di censura, abiura che si abbattono da ogni parte su di lei.

Questo ritrarsi, però, è anche un immergersi più profondamente nel dialogo interiore del pensiero, per tornare, poi, da autentica filosofa tra gli uomini. In una delle sue opere fondamentali, Vita Activa, Hannah Arendt ha paragonato il primo atto politico allo stesso atto teatrale: quello di presentarsi davanti all’agorà, sulla scena dell’agone collettivo, prendere la parola ed esporsi al giudizio critico del pubblico e al dialogo con esso.

È esattamente quello che vediamo, dice Micaela Latina, rappresentato sullo schermo dalla von Trotta. Hannah Arendt si presenta nell’anfiteatro a gradinate dell’aula magna della scuola, gremito dai suoi studenti e dai professori ostili. Chiede teatralmente all’uditorio il permesso di accendersi una sigaretta e mette in scena questo atto che è estetico e insieme etico, politico, come spiega bene Elena Tavani nel suo importante libro Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo.

"Hannah Arendt", di Margarete von Trotta.
“Hannah Arendt”, di Margarethe von Trotta.
Hannah Arendt (Linden,14 ottobre 1906-New York 4 dicembre 1975)
Hannah Arendt (Linden,14 ottobre 1906-New York 4 dicembre 1975)

Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte. In basso: Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

Una lieve pellicola di cioccolato secco rimane sulle pareti delle nostre tazze ormai fredde, e noi dovremmo ordinare un bis, per approfondire molti altri aspetti che il film fa balenare.

Neanche l’atto dell’interpretazione può essere, però, per Micaela Latini, totemico e prometeico, in quanto anch’esso si espone all’agorà pubblica nella forma di un dialogo critico ed etico sempre aperto al senso di verità e meraviglia. (Beh, buona giornata “della Memoria”.)

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The Counselor Il Procuratore, di Ridley Scott secondo Giuseppe Di Giacomo, filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film “The Counselor” di Ridley Scott
Nel deserto senza legge e frontiera del senso
La bionda bestia di Nietzsche, la lastra di ghiaccio di Wittgestein, l’inferno spietato di McCarthy

di Riccardo Tavani

Se un felino esotico, un biondo ghepardo flessuoso fuggisse da una villa alle porte della città e si aggirasse la notte sull’asfalto viscido di pioggia delle vie del centro… Se, uscendo poi da una sala cinematografica all’ultimo spettacolo, lo vedessimo abbeverarsi alla fontana della piazza antistante, in tutta la sua adamantina purezza di belva feroce, noi avremmo un fremito che scuoterebbe il nostro intero mondo interiore. Se il film appena visto fosse stato, però, “The Counselor – Il Procuratore”, di Ridley Scott, noi ci diremmo che quel felino famelico si nutre e abbevera proprio del nostro strano mondo, non solo interiore, da molto tempo e senza alcun trasalimento della civiltà.

È la riflessione che facciamo con il professor Giuseppe Di Giacomo, uscendo sul selciato umido e striato di luci notturne, alla fine del film.

The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
C’è stata però un’ottima interazione tra scrittore e regista; il testo letterario non travalica mai quello visivo. Non a caso, McCarthy è stato anche uno dei produttori esecutivi del film.

Le vie del centro sono attraversate a quell’ora da ombre di volti e corpi, come i nostri, possibile rancio della “trionfante bionda bestia che vaga alla ricerca della preda e della vittoria” della quale parla Nietzsche nel primo capitolo della sua “Genealogia della morale”. Una fiera che si aggira rinchiusa nel fondo occulto della civiltà, ma che, ogni tanto, ha bisogno di fuggire, riemergere, riapparire tra noi.

“Sono famelica” ripete nel film, sedendosi a tavola, la bionda Malkina, dal corpo flessuoso, percorso da una lunga striscia tatuata che richiama le macule della sua coppia di giaguari, Silvia e Raoul, che corrono eleganti, ghermendo selvaggina, al confine tra Messico e Usa, ribollente di traffici illeciti e umanità da preda.

Alla tavola del filosofo, attorno alla quale c’invita a sedere Di Giacomo, trovi invece riflessione artistica e critica, senza che manchi, però, un sapido piatto di pasta al tonno e vino bianco, per conversare meglio, aprirsi ai significati dell’opera anche attraverso la convivialità dei pensieri e lo scambio dell’amicizia. Filosofia e cinema non possono prescindere oggi l’una dall’altro, tanto più in un film come questo, improntato alla œuvre e alla visione di McCarthy. Un’alleanza fondata, appunto, sull’amicizia. (Amicizia e amore corrono lungo una medesima linea semantica, eppure un sottile confine li distingue criticamente).

L’avvocato, ovvero il procuratore del titolo, nutre un amore puro, profondo e nello stesso tempo vertiginosamente sensuale per Laura, dall’odore della pelle bruno sotto le lenzuola accecanti di biancore nella luce del mattino. Vuole donarle tutto, anche più di quello che ha. Vola ad Amsterdam a comprarle un prezioso diamante, quale pegno per la sua richiesta di matrimonio.

Il diamante, per Di Giacomo, è qui il simbolo stesso della bellezza inscalfibile, che può redimere dalla drammaticità dell’esistenza, come quella “promessa di felicità” del famoso aforisma di Stendhal. Dice, infatti, il mercante di pietre all’avvocato: “Partecipare del destino eterno della pietra… Esaltare la bellezza dell’amata è riconoscere tanto la fragilità di lei quanto la nobiltà di questa fragilità”. La logica anche ha, per Wittgestein, la durezza non scalfibile del diamante. Eppure, aggiunge il mercante, noi siamo cinici, cerchiamo una piuma di imperfezione, altrimenti la pietra sarebbe solo luce. O, come scrive Wittgestein nelle Ricerche Filosofiche (107): “Siamo giunti su una lastra di ghiaccio… Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!”.

E la pellicola di McCarthy-Scott, sia nella tessitura scritta che in quella visiva, non abbandona mai il terreno scabro, anzi, lo privilegia. L’avvocato si immette nell’ingranaggio d’affari del narco-traffico di confine, dominato dallo spietato Cartello centro-americano. “Una botta e via?” gli domanda Reiner, re dei locali e degli smerci notturni, presso la cui sfarzosa villa vivono e si nutrono Malkina e i suoi due felini. Sì, l’avvocato vorrebbe partecipare ad un singolo, lucroso quanto lurido affare, rimpinguare il conto in banca e poi ritirarsi nel rifugio d’amore dorato con la sua Laura.

Reiner ride per l’ingenuo, ipocrita moralismo, ma intanto anche lui ha il suo lato morale debole, ammalato: è davvero innamorato di quella sua bionda con macchie di ghepardo tatuate sulla pelle e ad elevato grado di calore erotico, anche se per lei la “verità non ha temperatura” e “le cose non tornano mai”. Secondo Di Giacomo, proprio il personaggio Malkina, con le sue lapidarie, ciniche battute di dialogo, rappresenta il vero senso del film. Non è tanto la violenza, il sesso, l’illegalità, la morte che pure spruzza nel film come sangue da una testa mozzata o da una carotide recisa. La mancanza di legge lungo quel confine va intesa come l’assenza di una Legge, ovvero di un senso, di una teleologia, di una direzione che guidino l’azione del singolo e la storia umana. L’aridità desertica è senza direzione; la casualità vi domina spietata nella sua imprevedibilità senza legge e frontiera.

Il protagonista ne rimane vittima, vedendo completamente terremotata, rasa al suolo la sua vita e la preziosa rarità del suo amore, senza neanche rendersene conto. La stessa cosa succede, però, a Reiner e ad un altro scaltro mediatore d’affari, Westray, che dovrebbe passare un carico di coca all’avvocato. Questo Westray, però, ha anche lui il suo lato morale fragile, dunque facilmente ghermibile per la fiera predatrice.

Come in “Alien”, Ridley Scott rappresenta l’imperscrutabilità in sé dell’ignoto quale male senza difesa e riparo sicuro. È tale condizione, nota Di Giacomo, ad essere originariamente aliena eppure insita all’esistenza umana, come un parassita che aggredisce e sbrana dall’interno, in una lotta che sempre si rinnova e non ha mai fine, perché non c’è un fine, una meta, l’approdo di un qualche destino salvifico nell’Universo.

Solo chi si iberna allo stesso grado di “verità senza temperatura” morale, può cinicamente tastare prima e sfruttare poi ogni minimo neo di debolezza altrui, per sopravvivere e proseguire un viaggio, anch’esso, però, privo di ogni senso. “Viandante, non c’è nessun cammino, il cammino si fa andando”, recitano alcuni versi di Antonio Machado, proferiti al telefono all’avvocato, come un de profundis.
Così anche “La morte qui non ha valore: tutta la mia famiglia è morta, ma è la mia vita che non ha significato”, dice all’avvocato il padrone di una bettola di Ciudad Juarez, capitale messicana del narco-traffico, dove ogni anno sono tremila le persone che si contano tra ammazzate e fatte sparire, su circa un milione e mezzo di abitanti. La gente si raduna nelle piazze, per piangere, pregare, reclamare insieme giustizia e salvezza, ma qui non c’è legge, frontiera etica pubblica, solo un’immane discarica del senso, nella quale sono rovesciati i cadaveri delle ragazze sequestrate, stuprate e anche squartate in quel genere di lucrose quanto infernali pellicole pornografiche dette snuff movies. Lo spiega Westray all’avvocato: “Per la produzione di un simile prodotto il consumatore è essenziale. Non puoi guardare un omicidio senza esserne complice”. Vedi: L’inferno di Ciudad Juarez.
Sopra questo strato di sangue e fango umano, oltre la polvere riarsa del deserto, si stagliano le ville scenografiche, con piscine e colonnati riparati dal calore del sole, ma non sufficientemente ombreggiati dalla micidiale ambizione all’eternità simbolica, alla promessa di riscatto esistenziale racchiusa nei diamanti. Nulla, però, avverte Di Giacomo, è garantito, perché, anzi, ogni cosa e persona sono costantemente minacciate dall’avanzare del disordine e dell’insensatezza che tutto sgretola e divora.

Mentre l’avvocato marcisce disperato in una sozza stanza d’albergo di Juarez, lo scontro si sposta altrove, tra le mura protette delle banche e le stanze felpate dei grandi alberghi internazionali nelle capitali della nostra civiltà. Più pulita, silenziosa ma anche più spietata, vorace e decisiva si fa la lotta, in questa savana di vetro-cemento super tecnologica e interconnessa.

Malkina non ha soltanto la pelle tatuata delle macchie dei suoi felini ma possiede anche le loro movenze rapide ed eleganti nel corpo, un’intelligenza istintuale certa e senza sbavature. Si abbevera di champagne e sbrana le più raffinate pietanze in un esclusivo ristorante parigino.

Potremmo, però, proprio ora, mentre usciamo dal cinema, vederla lentamente transitare, al guinzaglio il suo biondo ghepardo Raoul, dai finestrini posteriori di una limousine. Da dietro quel suo piccolo schermo blindato e trasparente, Malkina vedrebbe scorrere la pellicola insensata del nostro strano mondo, nel quale si ama, si crede, si nutre passione o paura per qualunque cosa. Lei, invece, aspira solo alla “purezza di cuore del cacciatore… Non puoi distinguere quello che è da quello che fa… uccidere… e non c’è niente di più crudele di un codardo”.

Conclusione in linea con l’iniziale bionda belva nietzscheana, soltanto che Malkina, dice Di Giacomo, è cosciente di non andare nella direzione di alcun oltreuomo, perché, anche se non torna mai nello stesso luogo, si trasferisce soltanto da un’altra parte, indifferentemente, sia essa la Cina o, domani, anche Marte. Non trasmuta alcun valore morale, ma solo i soldi in diamanti, per riavviare il processo di eterno ritorno dell’uguale, al confine di un deserto esistenziale brulicante di illusioni, stupefacenti e corpi riarsi, sepolti nei turbini caotici di pallottole e sabbia.(Beh, buona giornata.)

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Un libro ci racconta come il digitale ci sfugg

di Aldo Garzia – il manifesto –

Negli anni del boom, l’Italia era una potenza informatica, poi il salto indietro. Oggi, Grillo usa la rete come una clava

Giornalista Rai di lungo corso (sua è l’idea iniziale del progetto di Rainews24), Michele Mezza ha il gusto della radicalità delle tesi che espone. Da anni studioso del web e della rete, autore di vari saggi sul tema, fustigatore dei ritardi che la sinistra e il sistema informativo hanno accumulato in Italia sul versante del sapere digitale, Mezza si ripresenta in libreria con “Avevamo la luna” (Donzelli, pp. 346, euro 19) che è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.

Avevamo la luna (Donzelli, pp. 346, euro 19)  è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.
Avevamo la luna (Donzelli, pp. 346, euro 19) è un prodotto multimediale, per la precisione «cross mediale». È infatti un libro che si deve leggere consultando il sito dall’omonimo titolo per continuare a discutere e avendo in mano il telefonino smartphone da usare come lettore dei QR code per accedere a documenti di rete, testimonianze dei protagonisti, filmati e altre curiosità.

La tesi dell’autore, esplicitata già nel titolo del libro, è che c’è stato un triennio – dal 1962 al 1964, in pieno boom economico – in cui l’Italia grazie alle sue eccellenze in vari campi poteva diventare un paese d’avanguardia nel cuore dell’Europa. Da qui il viaggio compiuto dal libro e dai contenuti multimediali nei sogni dell’innovazione italiana degli anni sessanta e successivi. Grazie ai QR code, cioè ai codici a barre di seconda generazione, il lettore non solo segue il percorso sulla grande occasione mancata a iniziare dal 1962 ma può vedere e ascoltare sul sito del volume, se non vorrà leggerle su carta, le interviste a Giuseppe De Rita, monsignor Luigi Bettazzi, Elserino Piol, Antonio Pizzinato, Alfredo Reichlin, Paolo Sorbi, Claudio Martelli, testimoni o commentatori del tempo che fu.

Nel libro non mancano riferimenti all’attualità, come le dimissioni di papa Ratzinger e l’elezione di papa Francesco. Fin dallo «strillo» di copertina, il libro annuncia di occuparsi «da papa Giovanni XXIII a Papa Francesco, da Olivetti a Marchionne, da Moro a Grillo».

Ognuno può pensare a quei nomi, facendo i paragoni, come a un passo indietro o a un passo avanti nei diversi campi della religione, dell’innovazione tecnologica e della politica incapace di autocomunicazione di massa come per ora solo Beppe Grillo sa fare usando internet come una clava (Mezza analizza nel libro il fenomeno grillino).

L’autore, nelle sue ricostruzioni, operando il confronto tra ieri e oggi, punta l’indice sul sistema politico italiano che finora non ha saputo comprendere la novità del sistema digitale, così come la sinistra si è dimostrata incapace di cambiare il tradizionale paradigma che guarda al lavoro e non alle nuove forme della comunicazione. Narrando gli avvenimenti che vanno dal 1962 al 1964, Mezza ci parla della diversità di allora – quando le innovazioni tecnologiche furono comprese – rispetto alla contemporaneità.

Scrive: in quel triennio di cinquant’anni fa l’Italia fu vicina a una sorta di nuovo rinascimento. Eravamo – argomenta – la prima potenza informatica europea; il primo paese europeo, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, a lanciare satelliti nello spazio, tra i primi ad avviare la sperimentazione elettronucleare. Conclusione amara: eppure alla fine di quel triennio il bilancio sarà tutto negativo.

Enrico Mattei, presidente dell’Eni, muore nel 1962 in un incidente aereo che è probabilmente un attentato per stroncare il progetto dell’autonomia energetica dell’Italia. Il comparto elettronico dell’Olivetti viene svenduto alla General Electric, di conseguenza l’Italia non sarà tra i primi paesi a produrre computer (l’esperienza originale di Adriano Olivetti e la sua idea di capitalismo restano da studiare). Felice Ippolito (a capo nel Cnen in quella fase celebrity pokies, tra i maggiori fautori dell’energia nucleare) vede stroncata la sua carriera da uno scandalo all’italiana: nell’agosto 1963 alcune indiscrezioni giornalistiche sollevano dubbi sulla correttezza del suo operato aziendale. Il 3 marzo 1964 viene arrestato. Ne segue un processo che culmina con la condanna di Ippolito a 11 anni di carcere (sarà graziato due anni dopo da Giuseppe Saragat, in quel momento presidente della Repubblica).

Troppe misteriose coincidenze finiscono per incidere sulla storia del dopoguerra italiano. Dice Giuseppe De Rita, tuttora presidente del Cnel, nell’intervista concessa a Mezza, che dopo quei fatti l’Italia inizia a essere un «paese eterodiretto». E non si deve dimenticare nell’elenco dei fatti e misfatti di quel periodo che nel 1964 fu sventato il cosiddetto «Piano Solo», il tentativo di colpo di Stato che ebbe come protagonista Giovanni De Lorenzo, generale dell’Arma dei carabinieri. L’Italia che cambiava tumultuosamente, diventando realtà industriale, faceva paura all’interno e all’esterno dei nostri confini.

Secondo Mezza, dopo gli episodi riguardanti Mattei, Olivetti e Ippolito, la politica non seppe recuperare il terreno irrimediabilmente perduto nell’appuntamento con l’innovazione pur iniziando nel novembre 1963, con il primo governo guidato da Aldo Moro, l’esperienza delle coalizioni di centrosinistra che portano per la prima volta i socialisti di Pietro Nenni al governo. Se però l’Italia può essere definito paese eterodiretto, i ritardi non sono solo «endogeni» ma «indotti». Con questa chiave interpretativa è facile spiegare i «misteri» degli anni successivi: le bombe a piazza Fontana nel 1969, le bombe ai treni e le altre stragi (è stata solo esperienza italiana istituire una commissione parlamentare d’indagine sulle stragi), fino al rapimento e alla tragica uccisione di Moro, che segnano la fine di un’epoca politica. Quando in Italia il cambiamento è vicino e possibile, accade sempre qualcosa d’imprevisto che fa cambiare il tragitto che conduce all’innovazione sociale e politica.

Nel libro c’è, infine, una rilettura originale degli atti del convegno che l’Istituto Gramsci dedicò nel 1962 alle «tendenze del capitalismo italiano». Mezza è convinto che in quell’occasione per la prima volta la sinistra comunista analizzò i fenomeni del capitalismo americano come anticipatori delle trasformazioni che sarebbero arrivate ben presto a casa nostra mentre il Pci giudicava ancora «straccione» il capitalismo italiano e quindi bisognoso di aiuto per compiere un pieno sviluppo delle forze produttive. La relazione di Bruno Trentin, in quel convegno gramsciano, analizzò le trasformazioni indotte dal taylorismo nel ciclo produttivo e la nascita di nuove figure sociali quali i manager e i tecnici.

Nel dibattito, Giorgio Amendola usò un intervento di Lucio Magri, in quell’anno appena trentenne, per polemizzare con chi parlava di neocapitalismo e di società dei consumi nascenti anche in Italia. Proprio in quel dibattito del 1962 molti studiosi hanno datato la nascita della sinistra comunista che poi verrà definita «ingraiana» e che nel 1969, per decisione di un gruppo di suoi esponenti, darà vita al mensile il manifesto diretto da Rossana Rossanda e Lucio Magri.

Ma questa è un’altra storia, anche se la scelta del titolo Avevamo la luna da parte di Mezza sembra una risposta – inconsapevole? – a quel Volevo la luna che è il titolo dell’autobiografia di Pietro Ingrao uscita qualche anno fa da Einaudi (per l’ex presidente della Camera, la luna era l’utopia di un comunismo realizzabile senza le storture della modellistica sovietica).

Mezza conclude: la luna ce l’avevamo a portata di mano e ce la siamo lasciata sfuggire. Da qui la scelta efficace della copertina del suo libro che ripropone un fotogramma del film Il sorpasso di Dino Risi (anno di produzione 1962, pieno boom per l’Italia uscita dalla guerra). Raffigura un cinico Vittorio Gassman sorridente a bordo della sua Lancia Sport decapottabile, inconsapevole che da lì a pochi istanti sta per perdere la vita in un incidente insieme al suo compagno di viaggio Jean-Louis Trintignant. Metafora efficace per descrivere ciò che accadrà al boom economico italiano nel suo appuntamento con l’innovazione.(Beh, buona giornata).

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Generazioni contro

Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Il successo elettorale di M5S ha una forte componente generazionale,
Un Grillo nella testa dei giovani

Marco Albertini, Roberto Impicciatore e Dario Tuorto-lavoce.info

Una prima analisi dei risultati elettorali sembra mettere in luce un voto generazionale. Alla Camera, quasi la metà dei giovani hanno votato il Movimento 5 stelle. Sarebbe il più rilevante spostamento di voto della storia elettorale italiana.

UN VOTO GENERAZIONALE

Nei primi commenti al risultato delle elezioni molti opinionisti hanno suggerito che l’affermazione del Movimento 5 Stelle (M5S) ha fatto finalmente emergere il tema della frattura tra le generazioni – sia nel modo di fare politica, sia nella visione di cosa debba fare e di chi debba proteggere lo stato sociale. Lo stesso Grillo, il 27 febbraio, attraverso twitter e il suo blog, ha suggerito tale interpretazione: “Le giovani generazioni stanno sopportando il peso del presente senza avere alcun futuro e non si può pensare che lo faranno ancora per molto”; “Si profila a grandi linee uno scontro generazionale, nel quale al posto delle classi c’è l’età” (post del “6 Febbraio). E anche la composizione per età degli eletti del M5S sembra confermare questa interpretazione: 33 e 46 anni l’età media per Camera e Senato.
Se così fosse queste elezioni avrebbero dato una risposta a uno dei puzzle di più difficile soluzione per gli studiosi di relazioni intergenerazionali: l’assenza di conflitto generazionale pur in presenza di forti squilibri di welfare tra giovani e anziani.
La natura del rompicapo può essere sintetizzata come segue. Negli ultimi decenni v’è stato in Italia (e, in misura minore, anche in altri paesi Europei) un forte inasprimento delle disparità tra le condizioni socio-economiche della popolazione giovane e quelle dei non-giovani:

1) una flessibilizzazione del mercato del lavoro avvenuta “al margine”, ovvero scaricandola completamente sui nuovi entrati nel mercato senza nemmeno sfiorare chi nel mercato del lavoro c’era già (gli insider, i protetti)
2) un sistema di welfare in cui la spesa sociale per la popolazione anziana è pari a 12 volte a quanto speso per i giovani (la media nella EU15 è di 3 volte)(1);
3) la rottura del patto generazionale alla base del sistema pensionistico con il passaggio da sistema retributivo a quello contributivo.

Nonostante tutto questo, però, numerosi dati sembravano indicare l’assenza – o irrilevanza – di conflitto generazionale.

a) le indagini mostravano che i giovani, al pari dei loro genitori, erano a favore del mantenimento degli attuali assetti di welfare (pensioni incluse);
b) erano assenti movimenti di protesta giovanile chiaramente connotati a livello anagrafico e che coinvolgessero quote rilevanti di popolazione;
c) la distribuzione del voto giovanile era relativamente omogenea rispetto a quella del voto dei genitori (2).

Non sorprende, quindi, che molti studiosi suggerivano che quello del conflitto generazionale fosse solo un mito delle società contemporanee (3). L’unica risposta plausibile al rompicapo sembrava essere che le differenze tra classi sociali (attorno a cui si è fin qui organizzata buona parte della rappresentanza politica) e l’influenza delle subculture politiche superavano di molto le diseguaglianze tra generazioni.

QUALCOSA È CAMBIATO

Le recenti elezioni sono un segnale che il panorama è mutato? è vero che è emerso un chiaro comportamento di generational voting?
In attesa dei dati di future indagini campionarie sul tema, tentiamo di dare una prima risposta al quesito utilizzando l’informazione relativa alla differenza nella quota di voti ai vari partiti alla Camera e al Senato. Attribuire tale differenza al voto giovanile, in particolare ai giovani nella fascia 18-24 anni (presenti alla Camera, assenti al Senato) necessita di due assunti forti. Primo, assumiamo che l’astensione sia sostanzialmente simile per giovani e non. Secondo, dobbiamo assumere che tra gli ultra 24enni il voto disgiunto risulti trascurabile, cioè che tutti, o quasi, abbiano votato al Senato lo stesso partito scelto alla Camera. Il primo assunto è sostenuto dal fatto che il tasso di partecipazione non presenta differenze tra Camera (75,19 per cento) e Senato (75,11 per cento ) (dati Ministero dell’Interno). Per quanto riguarda il secondo va detto, innanzitutto, che in assenza di dati completi sui flussi e da indagini campionarie post-elettorali è molto difficile depurare l’effetto del voto giovanile dalla pratica del voto disgiunto nello spiegare la differenza di voti al M5S tra Camera e Senato. Non possiamo escludere a priori che un gruppo consistente di individui abbia votato M5S alla Camera e un altro partito al Senato. Elettori mossi da calcolo razionale (votare diversamente al Senato nelle regioni più contendibili) o anche elettori “critici” – in particolare del Pd – che lanciano un segnale di protesta rivolto al partito o all’area politica in cui si identificano. Nel primo caso dovremmo attenderci uno scarto maggiore tra Camera e Senato nelle regioni in cui alla vigilia si pensava che ci sarebbe stato un risultato incerto (particolarmente in Lombardia), nel secondo che lo scarto sia maggiore nelle regioni “rosse”. Tuttavia, come mostrano le analisi seguenti, la stima del voto per il M5S tra gli under 24 rimane di molto sopra la media in tutte le regioni e non solo in quelle cosiddette contendibili (dove poteva agire una scelta razionale di voto difforme) o in quelle “sicure” della protesta da sinistra (le regioni della “zona rossa”): un possibile indizio del fatto che il voto disgiunto abbia giocato un ruolo marginale nel determinare il differenziale Camera-Senato nei voti per il M5S.

LA DIFFERENZA TRA CAMERA E SENATO

Al netto di questi caveat passiamo alle nostre stime. In tabella 1 abbiamo riportato i voti ottenuti dai principali partiti alla Camera e al Senato, e la relativa differenza. In termini assoluti, il M5S ha incassato un numero di consensi alla Camera superiore di oltre 1.400.000 voti rispetto a quanto ottenuto al Senato. Tra i principali partiti è quello che registra il differenziale più elevato. Sotto l’ipotesi che la differenza sia in toto voto giovanile possiamo stimare la percentuale di voti al M5S tra giovani di età 18-24. La percentuale, calcolata a livello regionale e nazionale, si ottiene dal rapporto tra la differenza nel numero di voti ottenuti alle due Camere e la stima dei voti validi attribuibili alla fascia di età 18-24. Quest’ultima viene calcolata riproporzionando i voti validi totali alla quota dell’elettorato di questa fascia di età (essendo la popolazione di riferimento quella fornita dall’Istat al 1.1.2011, abbiamo considerato come gruppo di interesse quello di età 17-23 anni).

Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Voti validi alla Camera e al Senato e stima della percentuale di voti per il M5S tra la popolazione di 18-24 anni. Elezioni politiche 2013
Adottando questa procedura arriviamo a stimare che la quota di consensi per il partito di Grillo tra i giovani tra i 18 e i 24 anni ha superato il 47 per cento, contro una percentuale media del 25,6 per cento. Tale dato sembrerebbe indicare con tutta chiarezza l’emergere di un fenomeno di generational voting, ovvero un profilo di voto per i giovani drasticamente diverso rispetto a quello generale, con una forte sotto-rappresentazione del voto per gli altri partiti e per il Partito democratico in particolare. Un dato particolarmente significativo se si considera che applicando la stessa procedura all’elezione del 2008 la stima della percentuale di 18-24enni che votavano Pd non si discostava dal valore dell’intero elettorato. Il fenomeno peraltro rappresenterebbe la conferma di un trend rilevato già nel periodo pre-elettorale: nel corso del 2012, infatti, le intenzioni di voto per il M5S erano cresciute esponenzialmente prima e dopo la tornata di elezioni comunali, e con una velocità maggiore proprio nella fascia 18-24 anni (4). Nello stesso senso vanno anche i risultati di una recentissima indagine pubblicati sul Corriere della Sera: Tecné, infatti, stima che il 37,9 per cento degli elettori con meno di 30 anni hanno votato M5S alle ultime elezioni politiche (5).

CONCLUSIONI

I dati di survey pre-elettorali lasciavano intravvedere che l’attesa crescita dei consensi verso il M5S fosse trainata dai new voters o, comunque, dagli elettori più giovani. I risultati delle elezioni del 24-25 febbraio sembrano aver confermato (e rafforzato) questo fenomeno, tanto che è plausibile argomentare che il voto “grillino” abbia agito in modo deflagrante sulle dinamiche elettorali anche sul piano generazionale. La nostra tesi è che probabilmente siamo di fronte a una nuova dinamica del comportamento elettorale, con un forte e rapido allineamento del voto (anche) su basi generazionali. L’emergere di tale dinamica è di particolare rilevanza non solo dal punto di vista della soluzione del puzzle dell’assenza del conflitto generazionale, ma anche perché i giovani, al primo o al secondo voto importante, potrebbero avere trovato il loro partito e iniziato a esprimere un chiaro pattern politico, diverso da quello delle altre generazioni, con conseguenze importanti per le future tornate elettorali. Se ciò non fosse avvenuto, e il differenziale positivo di voti per il M5S alla Camera risultasse effettivamente da una generalizzazione su larga scala del voto disgiunto, saremmo di fronte a uno dei più rilevanti spostamenti di voto della storia elettorale italiana, assolutamente inatteso almeno quanto il riallineamento compatto dei giovani attorno a un nuovo partito. Attendiamo dati più solidi per scoprire il seguito. (Beh, buona giornata).

(1) Börsch-Supan, A. (2007) European Welfare State Regimes and their Generosity Towards the Elderly, in «Mea Discussion Papers», n. 128.
(2) Si veda ad esempio Arber, S. e Attis-Donfut, C., 2007, “The myth of generational conflict”, Routledge.
(3) Si veda l’indagine Demos 2008, http://www.demos.it/a00200.php
(4) Corbetta, P.G. e Gualmini, E. 2013 “Il partito di Grillo”, Il Mulino. Pagina 96.
(5) http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1T9KQJ

Bio dell’autore
Marco Albertini: è ricercatore presso l’Università di Bologna e membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Carlo Cattaneo. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la sociologia della famiglia e i sistemi di welfare. Sito personale https://sites.google.com/site/mrcalbe. Twitter @madmakko.

Roberto Impicciatore: è ricercatore presso l’Università di Milano e membro del Consiglio Scientifico dell’Associazione Italiana per gli Studi di Popolazione. Si occupa di comportamenti demografici e transizione allo stato adulto.

Dario Tuorto: È ricercatore presso l’Università di Bologna, membro di Itanes (Italian National Election Studies). Ha fatto ricerca e pubblicato prevalentemente nell’ambito della sociologia politica.

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Luciano Gallino: “altre politiche per il lavoro, la spesa pubblica, il welfare.”

luciano-gallinodi Sbilanciamoci.info –

Quattro milioni di senza lavoro, decine di miliardi di reddito perduto, la crisi che non finisce mai, disoccupazione che crea disoccupazione. Ma altre politiche sono possibili, per il lavoro, la spesa pubblica, il welfare. La rotta d’Italia secondo Luciano Gallino

Appese alle pareti della casa di Luciano Gallino, le foto della moglie Tilde mescolano molteplici piani attraverso giochi di specchi, spingendosi oltre la percezione di un istante e cogliendo la sfuggente complessità d’insieme. È uno sforzo, questo, che si ritrova poco più in là, negli scaffali ricolmi di libri del professore, perché afferrare la complessità, arrivare al cuore delle cose, necessita di uno studio meticoloso e incessante. E spiegarla, poi, richiede un impegno altrettanto esigente, senza sosta, né risparmio: un impegno generoso, che passa per conferenze in Italia e all’estero, interviste e un nuovo libro per raccontare cos’è accaduto e come mai la gente continua a farlo accadere. Nel contesto odierno, dominato da semplificazioni populistiche e una visione neoliberista talmente radicata e potente da riuscire nel paradosso di gestire l’incendio dopo aver appiccato il fuoco, la voce di Luciano Gallino è un punto di riferimento prezioso per tracciare la rotta da seguire.

Una rotta che nasce dalla necessità del lavoro. “In Italia, ci sono circa quattro milioni di persone fra disoccupati e non occupati. Di conseguenza, una ricchezza pari a decine di miliardi l’anno non viene prodotta e non diventa domanda, commesse per le imprese, consumi. Il risultato è che la disoccupazione crea disoccupazione”.

Per creare occupazione bisogna seguire l’esempio di Roosevelt. “Con il New Deal, lo Stato si è impegnato a creare direttamente occupazione e in alcuni mesi furono assunti milioni di persone”. Un New Deal italiano permetterebbe non solo di creare ricchezza, ma anche di risolvere annosi problemi. A cominciare dal suolo. “Il dissesto idrogeologico riguarda più di un terzo del Paese. È un campo in cui i soldi si trovano sempre a posteriori, quando sono stati distrutti o allagati interi quartieri o quando ci sono frane, morti. Allora sì che si trovano i miliardi per riparare i danni. Sarebbe meglio spenderli prima, oculatamente, in opere da individuare”.

Prioritaria è anche la terribile situazione delle scuole. “Il 48% delle scuole italiane non ha un certificato che assicuri che l’edificio è a norma dal punto di vista della sicurezza statica. È possibile che i ragazzi italiani vadano in scuole metà delle quali non è a norma dal punto di vista della sicurezza? Non si tratta di pavimenti sconnessi o rubinetti che perdono, o servizi inadeguati, ma di muri, tetti, fondamenta, che bisognerebbe rivedere e rimettere a norma”.

La miopia riguarda anche il potenziale punto di forza dell’Italia. “Il degrado del nostro immenso patrimonio culturale è per molti aspetti sotto gli occhi di tutti. Negli anni si è puntato a migliorare i punti di ristoro nei musei, insistendo sulla fruibilità da parte di pubblici sempre più vasti, invece di intervenire sulla catalogazione digitale, sulla tutela effettiva, sulla custodia. Un’azione mirata può creare centinaia di migliaia di posti di lavoro”.

C’è poi il problema della riconversione del modello produttivo. “Il modello produttivo attuale è finito nell’estate del 2007. È impensabile che i posti di lavoro che si sono persi in questi anni siano ricostituiti, ripercorrendo lo stesso modello produttivo. Processi come l’automazione e la razionalizzazione hanno soppresso quote impressionanti di posti di lavoro e molte imprese si dirigono sempre di più verso Paesi in cui i salari, le condizioni ambientali o fiscali sono più favorevoli. Occorrerebbe pensare a forme di ecoindustria, cercando di evitare errori e compromessi che hanno, in alcuni casi, caratterizzato lo sviluppo di nuovi settori, come ad esempio si è visto con la creazione di parchi eolici”.

Una riconversione che riguarda anche l’agricoltura. “Anche qui, l’epoca in cui la lattuga del Cile o i pomodori di un altro Paese facevano 10 o 20 mila km prima di arrivare sulla tavola di qualcuno probabilmente è finita. Il costo dei carburanti, degli aerei e della logistica stanno in qualche modo imponendo forme di consumi agricoli, consumi alimentari che non saranno a km zero, ma certamente non a km 10 mila o 20 mila, come è stato invece per molti anni. Il ministero dell’agricoltura dovrebbe occuparsi della riduzione dei km che pomodori, lattuga e formaggi e altro percorrono prima di arrivare sulle nostre tavole”.

Per creare occupazione, l’ideale sarebbe un’agenzia centrale. “So che a molti sale la temperatura quando sentono parlare di Stato che occupa le persone. Bisognerebbe creare un’agenzia centrale che determina i limiti e che incassa i soldi da varie fonti, magari appunto dallo Stato stesso o da una rivisitazione degli ammortizzatori sociali. L’assunzione diretta può essere affidata ai cosiddetti territori, al non profit, al volontariato, ai servizi per l’impiego, alla miriade di entità locali, comprese piccole e medie imprese”.

L’occupazione diretta servirebbe molto di più dei soliti incentivi. “Una miriade di rapporti e documenti testimoniano che, se voglio creare un posto di lavoro, è molto più conveniente dare mille euro al mese a uno che lavora piuttosto che trasformarli in sconti fiscali, contributi alle imprese, nel caso assumano qualcuno. L’assunzione diretta ha un effetto immediato sulla persona e sull’economia, perché il giorno dopo che ho versato a qualcuno mille euro di stipendio, quello li spende contribuendo così al lavoro di qualcun altro. L’incentivo all’impresa, lo sgravio fiscale, la riduzione del cuneo fiscale e altre cose del genere hanno, invece, effetti molto più ritardati”.

E sotto attacco finirebbero ancora i meccanismi di protezione sociale. “Quando si parla di riduzione del cuneo fiscale, si ha in mente la riduzione dei contributi per le pensioni, la sanità e altro. La riduzione dei contributi implica che qualcuno pagherà ticket sanitari più elevati, magari a fronte di mezzi familiari scarsi, o che subirà un’ulteriore riduzione della pensione. Si annuncia di ridurre il cuneo fiscale, ma non si precisa come si recuperano quei contributi che vengono a mancare”. Un modo sottile per continuare a prosciugare il welfare.

Ma come finanziare gli interventi proposti? Per capirlo, bisogna ragionare su vari aspetti. Innanzi tutto il ruolo della Banca Centrale Europea. “Noi non disponiamo di una moneta sovrana, dipendiamo da una moneta che per certi aspetti è una moneta straniera. Non vuole essere una polemica contro l’euro, perché le polemiche contro l’euro sono semplicemente idiote e non vorrei minimamente essere accostato a quelle. Resta, però, il fatto che, mentre la Federal Reserve può creare quanto denaro vuole, noi non possiamo prendere in prestito soldi direttamente dalla Banca centrale per creare occupazione”.

Il problema è che i soldi ci sono, ma non arrivano a destinazione. “Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012, la BCE ha prestato alle banche 1.100 miliardi di euro, con un interesse dell’1%. E li ha prestati senza chiedere nulla. Alla fine, si è scoperto che soltanto un rivoletto di quei 1.100 miliardi è finito alle imprese, al lavoro, all’economia reale”. E allora? “Allora, è davvero politicamente impossibile pretendere in sede europea che la BCE presti soldi soltanto se questi vengono destinati, attraverso le banche, all’economia reale e se le imprese e le società non profit che li prendono a prestito firmano l’impegno scritto di creare occupazione?”

Un altro aspetto importante riguarda la cassa integrazione. “La cassa integrazione ha superato il miliardo di ore. È denaro che è sacrosanto spendere per sostenere le famiglie, per porre un argine alla disperazione. Tuttavia, invece di pagare 750 euro al mese con il vincolo di non fare nessun altro lavoro, si potrebbe pensare di aggiungere 300/ 400 euro a quei 750 e convertirli, così, in un salario pagato dallo Stato: lo scopo sarebbe quello di far assumere da imprese non profit, imprese private, servizi per l’impiego, comuni e regioni le persone in cassa integrazione che sono disposte a fare altri lavori. In questo modo, si produrrebbe ricchezza e molti soggetti da passivi diverrebbero attivi. Pensiamo ai benefici economici che si genererebbero attraverso i cosiddetti moltiplicatori”.

Le risorse potrebbero essere ricavate, poi, dal rivedere spese apparentemente insensate. “L’idea di comprare un cacciabombardiere, che pare pure pessimo dal punto di vista strategico e militare, impegnando circa 15 miliardi, a fronte dello scandalo disoccupazione, a me pare uno scandalo per certi aspetti altrettanto grave”.

Infine, sul piano del fisco, non si può prescindere dall’economia sommersa. “L’economia sommersa c’è da ogni parte, ma in Francia, Germania, Gran Bretagna, è tra il 5 e il 10% del Pil, mentre in Italia è al 22% del Pil. Tra l’altro, con la crisi, i tagli alle pensioni e le riforme cosiddette del mercato del lavoro, l’economia sommersa ha fatto ulteriori passi avanti e fornisce incentivi molto convincenti a chi deve fare i conti con ogni singolo euro per arrivare alla fine del mese. Ridurre l’economia sommersa al livello di Francia o Germania significherebbe, per lo Stato, incassare almeno 60 o 70 miliardi l’anno di maggiori imposte di vario genere, dall’Iva alle imposte dirette”. (Beh, buona giornata).

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Elezioni, pareggio di bilancio e recessione: attenti alle frottole.

di MARCO PALOMBI-Il Fatto Quotidiano
Quale sarà la vera agenda del prossimo governo? È questa la domanda da cui siamo partiti per spiegare che la libertà d’azione macroeconomica di qualunque esecutivo si insedi a marzo sarà, per usare un eufemismo, piuttosto limitata. Se si volesse usare uno slogan, ad esempio, si potrebbe dire che le vere elezioni italiane saranno quelle tedesche del prossimo ottobre: è tutto nel rapporto con l’Unione europea infatti – e, ancor più, con gli altri paesi dell’eurozona – che si gioca il destino del nostro paese e, per quelli a cui interessa, del prossimo governo. Ecco un breve riassunto per capitoli dello stato dell’arte e di quel che c’è da aspettarsi tra poche settimane.

Il punto di partenza. Gli schieramenti in campagna elettorale possono promettere molto, ma occorre sempre ricordare che gli esecutivi si muovono ormai in un meccanismo di sovranità limitata. Il governo italiano, infatti, non solo ha rinunciato tempo fa alla leva monetaria, ma in sostanza anche a quella fiscale: il pareggio di bilancio inserito in Costituzione, e promesso ai partner continentali entro quest’anno, lo obbliga infatti ad agire in una sola direzione. La faccenda si farà ulteriormente complicata con la legge di stabilità del prossimo anno: dal 2015 scatta, infatti, l’obbligo sancito dal Fiscal compact (approvato in tutta fretta dalla strana maggioranza nell’ultimo scorcio di legislatura) di diminuire la parte del debito pubblico che supera il 60% del Pil di un ventesimo l’anno. In soldi fanno una cinquantina di miliardi l’anno: siccome i conti si faranno sul prodotto nominale – e non quello depurato dall’inflazione – il problema non sarebbe insormontabile se ci fosse un po’ di crescita. Solo che non c’è, e qui veniamo al vero problema.

La recessione. Dall’inizio della crisi abbiamo perso 7 punti di Pil, dice Bankitalia, e l’emorragia non accenna a finire e colpisce ormai la struttura stessa del tessuto produttivo che ha fatto grande l’economia del nostro paese. Sempre dal 2008, per dire, la produzione industriale è scesa del 25%, il suo volume rilevato all’indice grezzo segna 82,9, al minimo dal 1990. Riassunto: le aziende chiudono, aumentano i disoccupati, calano i consumi e le entrate dell’erario. Questa è la spirale, questa è la priorità di qualsiasi governo nell’immediato. Poteri di intervento? Nei limiti di bilancio di cui abbiamo parlato, molto pochi, anche perché lo stato dei conti pubblici non è quello raccontato da Mario Monti in questi mesi (“siamo fuori dall’emergenza”).

Una nuova manovra? Forse sarà la prima cosa che il prossimo esecutivo dovrà fare per ottenere il famoso pareggio di bilancio obbligatorio, nonostante sia pensiero comune che la cosa non farà che peggiorare la recessione in atto (se mi tassi spendo meno, se lo stato spende meno qualcuno – pensionati, lavoratori, aziende – vedrà diminuire i suoi introiti e spenderà meno). I problemi sono due. Intanto nel bilancio pubblico 2013 ci sono alcune spese non finanziate interamente: le missioni militari all’estero sono scoperte da settembre, il rinnovo dei contratti di oltre 200mila precari della P.A. da giugno e anche le risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione in deroga su tutti) scarseggiano. Totale: 5-7 miliardi di euro. In secondo luogo, le previsioni del governo sulla (non) crescita sono assai ottimiste: -0,2% nel 2013, mentre quelle di Bankitalia, Confindustria, Fmi etc veleggiano verso una contrazione dell’1%. Essendo il rapporto deficit/Pil appunto un rapporto, se il denominatore è più basso il risultato è peggiore. In sostanza la manovra necessaria potrebbe aggirarsi attorno ad un punto di Pil – circa 15 miliardi – ma fonti della Ragioneria generale dello Stato hanno parlato negli ultimi giorni di un importo più contenuto (7-10 miliardi). È tanto vero che il governatore della Banca d’Italia ha appena ribadito che “l’Italia non deve abbassare la guardia” sui conti pubblici e che per farlo servono “ulteriori, prolungati sforzi”.

Soluzioni. Mantenendo inalterata la struttura dei rapporti con l’Europa (moneta unica e relativi trattati di funzionamento), l’unica via d’uscita è rappresentata dalle scelte della Germania. Negli ultimi anni Berlino ha basato la sua strategia economica sulle esportazioni, in particolare nei paesi dell’eurozona, tenendo bassi i suoi salari e la sua inflazione. Il risultato è che ha mandato in deficit i suoi partner europei che ora, però, hanno smesso di comprare i suoi prodotti (e infatti recentemente le stime di crescita tedesca sono state tagliate). Ha spiegato al nostro giornale, ad esempio, il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo: “La nostra parte noi l’abbiamo fatta, ora la Germania deve fare la sua. Ha due strade: o rilancia la sua domanda interna aumentando i salari e/o la spesa pubblica oppure consente un certo grado di europeizzazione dei debiti pubblici”. Sulla stessa linea il responsabile economia del Pd Stefano Fassina: “La Germania deve fare la sua parte aumentando i salari e spingendo la sua domanda interna e poi basterebbe una diversa politica di bilancio Ue che escludesse alcuni investimenti dai saldi validi per il Patto”. A guardare la campagna elettorale tedesca – Cdu o Spd non fa differenza – non c’è molto da sperare: non solo nessuno propone politiche espansive interne per essere davvero “la locomotiva d’Europa”, ma tutto si gioca sulla critica ai cosiddetti Piigs fannulloni (e, in qualche caso, ai “terroni germanici”, che sono i poveri del nord e dell’est).

Sogni elettorali. In questo contesto le promesse di mirabolanti tagli di tasse fatte soprattutto da Silvio Berlusconi e Mario Monti non solo sono poco credibili, ma non sembrano tener conto delle priorità nella situazione attuale: come ha recentemente ribadito un working paper del Fmi – firmato dal capo economista Olivier Blanchard e da Daniel Leigh – non solo l’austerità fa male, ma il moltiplicatore (l’effetto positivo/negativo delle varie politiche economiche) della spesa pubblica, in particolar modo quella per investimenti, è assai superiore a quello fiscale. Tradotto: in una recessione bisogna fare politiche anticicliche e, tra queste, meglio che lo Stato spenda di più piuttosto che tagliare le tasse. Una proposta in questo senso in campagna elettorale l’ha lanciata ad esempio Pier Luigi Bersani sui debiti della P.A. verso le imprese. Si tratta, ma non c’è una stima ufficiale, di 90 miliardi in tutto che, al momento, non sono registrati dal nostro bilancio: tutti sanno che c’è un debito e che andrà saldato ma, secondo le stesse regole Ue, può essere tenuto fuori dai conti finché lo Stato non paga. Il Pd adesso propone di stanziare 50 miliardi per rifondere le Pmi emettendo titoli di stato vincolati a quel fine. Il problema? È un’uscita che inciderebbe significativamente tanto sul deficit quanto sul debito pubblico e per fare una cosa del genere – o altre che prevedano questi livelli di spesa – serve il permesso di Bruxelles. Ce lo daranno? (Beh, buona giornata).

Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall'altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.
Chiunque vinca le prossime elezioni avrà margini di manovra limitati nelle politiche economiche: da una parte i vincoli europei, dall’altra i segnali di crescita che non arrivano. Per questo, più che al risultato che uscirà dalle nostre urne, dovremo guardare a chi guiderà il prossimo governo tedesco.

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“Cambiare si pu

/ COMUNICAZIONE

Dal 1° dicembre, quando le assemblee per il lancio sul territorio di “Cambiare si può” del 14-16 dicembre sono state varate, sono intervenuti diversi fatti nuovi. Uno ci riguarda direttamente: ad oggi sono in preparazione ben 84 assemblee ( elenco in completamento al link http://www.cambiaresipuo.net/primo-elenco-di-assemblee/ ) e l’integrazione tra i promotori (singoli e forze organizzate) procede in maniera soddisfacente, pur scontando fisiologiche difficoltà determinate da esperienze e incomprensioni del passato; è un fatto molto positivo perché significa che l’idea e il progetto funzionano e possono crescere ancora. Parallelamente c’è un continuo mutamento del contesto con un precipitare della crisi e l’ormai certa anticipazione del voto (anche se ancora indeterminato nella data): è un fatto che non possiamo ignorare e che ci impone di stringere i tempi e, quando avremo un quadro di riferimento temporale più chiaro (e comunque a partire dalla prossime assemblee), di valutare l’incidenza dei tempi sulla qualità dell’iniziativa.

In questa prospettiva e per rispondere alle molte richieste può essere utile fornire alcune indicazioni per dare alle assemblee una prospettiva unitaria, fermo che un cantiere politico come il nostro si alimenta dal basso e che le assemblee non devono limitarsi a formalizzare scelte già fatte ma avere un vero e proprio carattere costituente:

1) la discussione delle assemblee – in particolare nel contesto di cui si è detto – non potrà che essere a tutto campo e dovrà estendersi anche alle tappe dell’impresa. A questo fine è opportuno che si tengano presenti alcuni dati di fatto:

a) se le elezioni saranno il 10 marzo il decreto presidenziale di convocazione dei comizi elettorali, che deve essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale almeno 45 giorni prima delle elezioni, interverrà, se non prima, il 24 gennaio. Ciò significa che tra il 25 e il 28 gennaio dovranno essere depositati al Ministero dell’interno i contrassegni delle liste e entro il 4 e il 5 febbraio (35° e 34° giorno precedente le elezioni) dovranno essere raccolte, autenticate e depositate circa 80.000 firme di presentazione, pari a un numero variabile tra le 1.500 e le 4.000 a seconda delle circoscrizioni elettorali (che sono, per la Camera, 27). Se poi la data del voto dovesse essere anticipata – come oggi si dice da più parti – al 24 febbraio tutto sarebbe anticipato di 15 giorni e, dunque, le liste dovrebbero essere presentate intorno al 20 gennaio;

b) i tempi che abbiamo di fronte sono, dunque, strettissimi: entro la fine dell’anno (e, dunque, con l’assemblea del 22 dicembre o immediatamente dopo) dovremo avere un nome, un simbolo, dei criteri per la designazione dei candidati, un comitato di garanti (composto da persone che non si presenteranno alle elezioni) per seguire la formazione delle liste, una segreteria organizzativa nazionale (che coordini le operazioni materiali necessarie, la comunicazione, il sito etc.). Quanto ai criteri per la designazione dei candidati e la formazione delle liste va ribadito il rifiuto di ogni logica di contrattazione e lottizzazione: le candidature devono avere un segno di forte discontinuità rispetto al passato e devono essere individuate con la massima pubblicità e con il coinvolgimento e l’approvazione finale dei territori;

c) una campagna elettorale costa e noi – orgogliosamente – siamo senza soldi e finanziamenti. Ciò richiede che si attivino dei meccanismi di autofinanziamento a partire dalle assemblee (tenendo presente che 20 euro a testa da parte di 10.000 persone bastano a fare 200.000 euro: insufficienti per la campagna, ma sufficienti per una buona partenza).

2) le assemblee sono la prima presentazione di “Cambiare si può” ai cittadini che vogliamo coinvolgere nel progetto. Ciò significa che è opportuna l’introduzione informativa di uno dei promotori o di qualcun altro già coinvolto nella campagna e, possibilmente, la diffusione del documento costitutivo o la proiezione di alcuni passaggi dell’assemblea di Roma (tutti reperibili sul sito) anche per ribadire il carattere radicalmente alternativo del nostro progetto. Inoltre è importante che le assemblee abbiano carattere aperto, cioè che si discuta non tanto di noi quanto delle prospettive che vogliamo aprire nella scena politica e delle modalità per rendere praticabile l’impresa (tenendo conto – altro dato conoscitivo necessario – che il numero minimo di voti per avere una rappresentanza alla Camera – dove c’è, secondo la legge vigente, la soglia minima del 4% – è di circa 1.500.000 voti).

3) come contributo alla discussione e prima base di uno schema di programma, proponiamo di seguito una bozza di 10 punti irrinunciabili da sottoporre all’assemblea per valutazioni e integrazioni;

4) le assemblee dovranno anche discutere la struttura della campagna “Cambiare si può” e le regole per definire le liste dei candidati in caso di partecipazione alle elezioni, a partire da alcuni punti fermi fissati nel documento costitutivo: il carattere di originalità del progetto (che non può essere la semplice sommatoria di articolazioni preesistenti), il segno di novità nelle candidature (in termini di netta discontinuità rispetto al passato), la designazione dei candidati in modo pubblico e trasparente;

5) è importante che all’esito dell’assemblea (o della sua fase preparatoria) si individuino per ogni realtà territoriale un coordinamento organizzativo in modo da costruire una rete operativa immediatamente e facilmente attivabile (posto che una impresa che nasce dal basso deve valorizzarne le indicazioni ed essere in grado di coordinarle).

Buone assemblee!

10 punti programmatici minimi irrinunciabili

1. Sì a un’Europa dei cittadini, alla rinegoziazione del debito pubblico e delle normative europee al riguardo attraverso una alleanza dei Paesi mediterranei oggi devastati dalla crisi e a un progetto di riconversione di ampi settori dell’economia in grado di rilanciare l’occupazione con migliaia di piccole opere di evidente e immediata utilità collettiva. No all’Europa delle banche e dei banchieri e delle politiche recessive in atto.

2. Sì a un grande progetto di riconversione ecologica dell’economia e di riassetto del territorio nazionale e dei suoi usi per garantire la sicurezza dei cittadini e la riduzione del consumo di suoli agricoli. No alle grandi opere (dal Tav Torino-Lione al Ponte sullo stretto e al proliferare di autostrade e raccordi) inutili, dannose all’ambiente e alla salute ed economicamente insostenibili.

3. No a contrazione del lavoro e al precariato e alla riduzione di fatto dei salari e delle pensioni. Sì al ripristino delle tutele del lavoro e dei lavoratori cancellate dai Governi Berlusconi e Monti (anche con sostegno ai referendum) e alla sperimentazione di modalità di creazione diretta di occupazione, anche in ambito locale, all’introduzione di un reddito di cittadinanza, al potenziamento degli interventi a sostegno delle fasce più deboli e dei presidi dello stato sociale (nella prospettiva di un welfare dei diritti e non di forme di assistenzialismo caritatevole).

4. No agli attuali costi fuori controllo della politica e alla rappresentanza come mestiere. Sì alla autonomizzazione della politica dal denaro, all’abbattimento dei relativi costi, alla previsione di un tetto massimo per i compensi pubblici e privati, all’azzeramento delle indennità aggiuntive della retribuzione per ogni titolare di funzioni pubbliche.

5. Si a un’imposizione fiscale più incisiva sui redditi elevati, sui patrimoni e sulle rendite finanziarie (con estensione alle proprietà ecclesiastiche). No ad aumenti delle imposte indirette e a inasprimenti della fiscalità nei confronti dei redditi medio-bassi.

6. Sì a un’azione di ripristino della legalità, di contrasto della criminalità organizzata, dell’evasione fiscale e della corruzione con recupero di risorse da destinare a un welfare potenziato e risanato dal clientelismo. No alle politiche dei condoni e alle leggi ad personam.

7. No a tutte le operazioni di guerra e drastica riduzione delle spese militari. Sì alla destinazione dei corrispondenti risparmi e di risorse adeguate a sanità, scuola pubblica, ricerca e innovazione (nella convinzione che sapere e istruzione sono prerequisito della democrazia e intervento strategico).

8. Sì a politiche di valorizzazione dei beni comuni e a forme di sostegno e promozione delle esperienze di economie di cooperazione e solidarietà. No allo svuotamento di fatto dei referendum del 2011 e alla vendita ai privati dei servizi pubblici locali.

9. No ad ogni forma di discriminazione e di razzismo (e alle leggi che ne sono espressione, a cominciare dalla Bossi-Fini). Sì al pieno riconoscimento dei diritti civili degli individui e delle coppie a prescindere dal genere, a una cultura delle differenze, a politiche migratorie accoglienti e all’accesso alla cittadinanza per tutti i nati in Italia.

10. Sì a una riforma democratica dell’informazione e del sistema radiotelevisivo che ne spezzi l’attuale subordinazione al potere economico-finanziario. No al conflitto di interessi e alla concentrazione dell’informazione.

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“L’Europa rischia di diventare terreno di conquista del particolarismo e del populismo.”

Londra 20 ottobre 2012, 100 mila manifestanti contro l’austerity.
CRISI E’ POLITICA, NON SOLO ECONOMICA- Critica Sociale

Il Regno Unito e il resto dell’UE si dirigono in direzioni diametralmente opposte, constata il Guardian. Dal punto di vista britannico il Continente farebbe meglio a sottrarsi ai disegni egemonici tedeschi
“Man mano che va avanti la più grande crisi della storia d’Europa, il Regno Unito e il resto dell’Unione si dirigono in direzioni diametralmente opposte. Concentrata ormai da tre anni sulla crisi dell’euro, Berlino chiede di riaprire i trattati europei per facilitare una maggiore convergenza – o abdicazione, a seconda del punto di vista – della sovranità nazionale per rendere possibile la creazione di un’Europa federale. Ciò porterebbe alla nascita di un governo centrale europeo che avrebbe prerogative esclusive in tema di potere fiscale e di spesa. Ma il Regno Unito ne è escluso”. Questo l’incipit del contributo di Ian Traynor per il Guardian, che mette in guardia, dal punto di vista britannico, dai disegni egemonici tedeschi sul rinnovato processo di integrazione europea. Berlino sta manovrando per rafforzare la sua egemonia economica (e ormai politica) sull’Europa continentale, privilegiando l’interesse nazionale a una profonda, inclusiva e democratica riforma dell’architettura europea.

Le recenti scelte di politica europea prese dell’esecutivo di Angela Merkel sono avversate da Juergen Habermas che, insieme ad altri intellettuali tedeschi di area riformista, mette sotto accusa “le reazioni particolaristiche degli interessi nazionali (che spiegano) il fallimento di quell’approccio globale coordinato (contro la crisi) proposto per la prima volta al G-20 di Londra nel 2009″. Secondo il noto filosofo e storico tedesco: ” Una grande potenza economica come la UE … dovrebbe svolgere una funzione di avanguardia … Il trasferimento di sovranità alle istituzioni europee è ormai inevitabile, se si vuole applicare efficacemente la disciplina di bilancio e garantire un sistema finanziario stabile. Allo stesso tempo, si avverte l’esigenza di un maggiore coordinamento delle politiche finanziarie, economiche e sociali dei paesi membri con l’obiettivo di compensare gli squilibri strutturali nell’area della moneta unica”.

I mali europei non sono tuttavia riconducibili ai soli problemi economici. Il deficit democratico che si avverte in tutto il continente è all’origine del malessere sociale che alimenta quella che i ricercatori della London School of Economics and Political Science (LSE) definiscono “politica sotterranea”, distinguendola dall’anti-politica. Secondo quanto afferma la professoressa LSE Mary Kaldor, “le principali forze politiche europee descrivono l’attuale crisi in termini prettamente finanziari, ma la nostra ricerca suggerisce che la crisi in Europa sia soprattutto politica, perché le proteste non sono riferite all’austerity in quanto tale, ma si concentrano piuttosto sui fallimenti della democrazia, sul modo in cui viene attualmente gestita.”

L’Europa rischia di diventare terreno di conquista del particolarismo e del populismo, che storicamente prosperano nei momenti prolungati di crisi. L’unico modo per evitarlo è prendere atto del fatto che l’Europa da grande progetto di emancipazione si sta trasformando in un apparato burocratico e tecnocratico, i cui meccanismi decisionali appaiono a cittadini opachi e anti-democratici. L’emergere della politica sotterranea rappresenta non solo un campanello d’allarme, ma anche una grande opportunità di ricostruire il tessuto democratico continentale come presupposto di una politica più autorevole ed efficiente.

Questione politica ed economica risultano peraltro intrecciate. Un recente editoriale apparso sull’Economist pone il tema dello strisciante conflitto economico che contrappone le sempre più inquiete nuove generazioni ai baby-boomers, i nati in Occidente tra il 1945 e il 1964: “I ‘boomers’ hanno beneficiato di una serie di tendenze economiche, politiche e sociali (la crescita del trentennio 1945-1975, la costruzione del welfare state, la diffusione del lavoro femminile) che hanno consentito loro di vivere un’esistenza più agiata e gratificante sia dei loro padri che dei loro figli e nipoti”. Detenendo in larga misura il potere politico ed economico, la generazione nata e cresciuta nel secondo dopoguerra è ancora in grado di condizionare a suo vantaggio il processo decisionale al massimo livello, entrando spesso in rotta di collisione con gli interessi delle fasce più giovani della popolazione.

I rapporti di forza sono inevitabilmente destinati a cambiare, aprendo una nuova fase del conflitto intergenerazionale senza precedenti che la crisi globale ha determinato. (Beh, buona giornata)

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di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Nelle botti piccola sta il vino buono. In tempi di lettori deboli, il vino buono è costretto a stare in testi brevi. Ma ci vuole arte.
L’operazione è riuscita a Giovanni Mazzetti, economista orgoglioso della sua eterodossia, con un illuminante critica del pensiero unico (Ancora Keynes? Miseria o nuovo sviluppo?, Asterios, euro 8). In meno di 90 pagine propone una corsa nella teoria economica e tra i pilastri delle grandi crisi del secolo scorso per illuminare «l’idiozia» – letterale – delle politiche applicate in piena recessione, a cominciare da quel «pareggio di bilancio» che è stato inchiodato a forza nella Costituzione.
Quel «pareggio» è stato «una conquista borghese» al tempo della lotta contro la monarchia assoluta.

Ed è solo in quella fase che diventa – insieme al nuovo primo comandamento: «lasciar fare» al mercato – una pratica potentemente «progressiva». Nell’epoca dell’ascesa del capitalismo, infatti, la spinta individuale all’arricchimento è stata una molla formidabile per la messa in produzione delle risorse di lavoro esistenti.

Ma ogni cosa ha una fine e Keynes, a cavallo della prima guerra mondiale, se ne accorge. La crisi della «prima globalizzazione» e la guerra avevano mostrato che «i singoli (imprenditori, ndr) non erano in grado di tener adeguatamente conto delle più ampie implicazioni della loro stessa azione collettiva», e quindi «l’economia avrebbe dovuto subire una subordinazione ad un innovativo processo di coordinamento generale».

Ci vorrà una seconda e più distruttiva guerra – e l’affermarsi del «socialismo sovietico» – per convincere le classi dirigenti dell’Occidente ad accettare la visione di Keynes e varare politiche di spesa pubblica in deficit. Prima per «ricostruire» un sistema industriale distrutto dappertutto tranne che negli Usa, poi per garantire una stabile «piena occupazione».

Si parte dalla constatazione che «la spesa di un uomo è il reddito di un altro». Nella storia, «ogni accrescimento di capitale» è stato possibile perché «c’è stata una spesa superiore rispetto a quella necessaria a riprodurre la situazione economica al livello del periodo precedente». Se questo «di più» non viene anticipato dalle banche (come oggi), allora è necessario che lo faccia lo Stato. Questa spesa pubblica (non certo le clientele o le mazzette) fa da «moltiplicatore», attivando «una domanda potenziale che, affidata alle sole capacità degli imprenditori, sarebbe rimasta inespressa». Mazzetti dipinge il moltiplicatore keynesiano come «una carrozzella» per un capitalismo «con problemi motori»; che ha funzionato finché «ogni 100 dollari spesi dallo Stato si generavano 400 dollari di reddito reale» grazie alla risposta delle imprese.

Quando queste hanno preso a reagire meno – per troppa ricchezza, non per scarsità di risorse – è esplosa la «crisi fiscale dello Stato» degli anni ’70. Il «ritorno» in tasse non era sufficiente a ripianare le anticipazioni in investimenti pubblici. Lì sono tornati in pista i liberisti «ortodossi», del tutto dimentichi del disastro in cui «il libero mercato» aveva cacciato il mondo 50 anni prima. E la parola d’ordine è diventata «tagliare la spesa».

Qui il contributo di Mazzetti diventa prezioso. L’accumulazione, dopo gli anni ’70, è in qualche modo andata avanti lo stesso; com’è stato possibile?
Negli anni ’80 Keynes viene archiviato, ma resta il problema del finanziamento in deficit per «stimolare» nuove produzioni. «Il credito privato (anni ’90, ndr) ha svolto la stessa funzione del keynesiano deficit di bilancio. È stato l’unico modo per sostenere quella domanda che se fosse mancata avrebbe determinato sin dall’inizio quel drammatico crollo intervenuto negli ultimi anni». Il crollo del «socialismo reale» – di lì a poco – ha messo a disposizione del mercato oltre due miliardi di lavoratori-consumatori, un polmone straordinario che ha rallentato l’esplosione delle antinomie economiche per altri venti anni. Ma i nodi sono arrivati comunque al pettine.

«A differenza del debito pubblico, (quello privato, ndr) pretende di appropriarsi di una ricchezza reale attraverso uno scambio, pur non avendo messo in moto alcun lavoro aggiuntivo». Pensiamo al mondo oscuro dei prodotti finanziari derivati, cds, ecc: righe di codice dentro un computer da cui scaturiscono obblighi reali. «Il credito speculativo alimenta il debito senza la misura imposta dal collegamento con la produzione, e lo scarto tra la richezza reale e la pseudo-ricchezza finanziaria diventa incolmabile». Creare denaro col denaro, senza produrre nulla, ha prodotto una cecità pervasa da senso di onnipotenza. Il film Margin call è quasi un paradigma. Senza «la misura del collegamento con la produzione», del prestito commisurato a un determinato progetto ben dimensionato, l’investimento finanziario diventa «speculazione» senza limiti. Per elaborare i «prodotti finanziari» si chiamano i matematici, invece degli economisti; così come l’economia accademica scade a econometria. L’unica «misura» che conta è un algoritmo esponenziale, senza più l’impiccio della «cosa reale».

Ovvero «il capitale pretende di diventare una variabile indipendente rispetto alla stessa produzione». Negli anni ’70 era il salario, con qualche ragion pratica e morale in più, a nutrire questa speranza.
La crisi, dunque, è il punto d’approdo «fisiologico» di una dinamica surreale. Ma «la crisi non è altro che il processo attraverso il quale una nuova forma di vita sociale preme per venire alla luce». Non torneremo a come stavamo prima. Lo dicono anche Draghi e Monti, ma in direzione totalmente opposta a quella auspicabile per la stragrande maggioranza degli esseri umani («un innovativo processo di coordinamento generale»).

Il liberismo trionfante ha ammanettato lo stato come soggetto economico, concedendogli solo tre possibilità: «lo stato viene costretto a limitare le sue spese; lo stato continua a spendere, ma aumenta le tasse; lo stato attua le spese necessarie, ma indebitandosi con i privati e come un privato». È la storia degli ultimi 30 anni. Ma per questa via «non c’è soluzione alla crisi». Perché è l’imprenditoria privata a non saper come utilizzare l’eccesso di risorse disponibili.
«Quando la spesa dello stato ha cominciato a crescere senza generare un aumento multiplo del reddito, ciò testimoniava che il processo di riproduzione del rapporto di valore era bloccato».

Ma invece di prendere atto di questa realtà e «far recedere il potere oppressivo dei capitalisti» (Keynes!) si è proceduto nella direzione opposta. Per mantenere la libertà di impresa vengono ricostruite le condizioni della scarsità. Quindi «più povertà per tutti (quelli che lavorano)», così riprende l’accumulazione. Pardon, la crescita…
Qui l’invito di Mazzetti non può che essere quello di fare come Keynes (e Marx): «ristrutturare del senso del problema con cui ci si confronta», guardarlo da un altro lato. Insomma: pensare di nuovo.

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Il divorzio tra politica e potere.

Intervista a Zygmunt Bauman
di Massimo Di Forti-Il Messaggero

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Zygmunt Bauman
. Zygmunt Bauman riesce subito ad andare al dunque senza perdersi in giri di frase. Non a caso possiede il dono di quella che Charles Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica, la capacità di fissare in una frase, in un’idea, la realtà di un’intera epoca, e il grande studioso polacco lo ha fatto con la sua metafora della “Vita liquida” e della “Modernità liquida” (cosa è più imprendibile e sfuggente dell’acqua e dei suoi flussi?) per descrivere con geniale chiarezza la precarietà e l’instabilità della società contemporanea.

Lui, liquido, non lo è affatto anzi è un uomo di ferro, un ottantasettenne che gira il mondo senza sosta (viaggia almeno cento giorni all’anno tra conferenze e dibattiti!) e a Mantova è intervenuto a Festivaletteratura per un dibattito sull’educazione. Non c’è traccia di stanchezza nel suo fisico asciutto o nel volto scarno e autorevole ravvivato da occhiate scintillanti, mentre parla in una sala della Loggia del Grano pochi giorni dopo aver pubblicato un nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (220 pagine, 15 euro) sempre per Laterza, editore dei celebri saggi come Vita liquida, La società sotto assedio, Modernità liquida, Dentro la globalizzazione e altri ancora.

Professor Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di fronte alla crisi?

«Sì. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia…».

È l’età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della finanza: era meglio prima?

«Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine»

Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…

«Il guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».

A proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell’Unione siano ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi che impediscono una reale integrazione politica e culturale?

«È vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l’attuale condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e l’impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici di popolazioni che si sentivano meglio tutelate dal vecchio sistema. Viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto».

La globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent’anni fa, in Europa non c’era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi… Ora potremmo finalmente confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?

«È un compito difficile, molto difficile. L’obiettivo dev’essere quello di vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono governi che cercano di frenare o bloccare l’immigrazione, dall’altra ce ne sono più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli immigrati. In tutti e due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le diaspore di questi anni debbono essere accettate senza cancellare le tradizioni e le identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme, in pace e con un comune beneficio, senza cancellare la diversità che rappresenta invece una grande ricchezza». (Beh, buona giornata).

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Sembra che i comunisti sappiano come si fa a uscire dalla crisi: ci vuole un nuovo New Deal.

di Massimiliano Piacentini-televideo.rai.it

Quanto è importante il racconto della crisi?
Molto, se si tiene nel conto il suo impatto sulla rappresentazione della realtà; se si vede in esso un potente strumento politico. “Oggi abbiamo a che fare con delle vere e proprie menzogne, come ad esempio la questione della speculazione finanziaria sul debito pubblico. Essa investe solo i paesi dell’euro e non è causata dai debiti pubblici come ci viene raccontato, ma dal fatto che la Bce è l’unica banca centrale del mondo che presta i soldi alle banche private, cioè agli speculatori, e non agli stati”. Tanto per essere chiari. Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, inizia a parlarci così del suo ultimo libro.

“Ma oltre alle balle, chi detiene il potere usa modi di pensare radicati nei costumi della gente per giustificare tagli allo stato sociale, aumento della precarietà e riduzione dei salari. Faccio un esempio: mia madre ha vissuto la guerra e la fame. Se pensa alla crisi pensa alla scarsità e dice che bisogna tirare la cinghia. Ma se la gente normale continua a tirare la cinghia la crisi si aggrava, perché ci saranno meno soldi, si spenderà di meno e continueranno i licenziamenti. Noi siamo dentro una grande ricchezza polarizzata: i ricchi hanno troppi soldi, mentre larga parte della popolazione arriva con difficoltà a fine mese. Perciò, la cinghia bisogna farla tirare ai ricchi e non ai lavoratori”.

-Economia reale e finanza. Alla bolla speculativa si è giunti per il calo della domanda aggregata?
“Sì. Prima hanno ridotto la domanda tagliando i salari, poi si sono accorti che questo produceva la crisi e hanno messo in campo due meccanismi: la speculazione e il sostegno alla domanda attraverso ciò che si potrebbe chiamare credito al consumo. Questo meccanismo un po’ drogato è saltato quando i disoccupati hanno cominciato a non pagare i mutui. Saltate per aria le finanziarie che li avevano concessi è scoppiata la crisi bancaria, poiché i titoli di quelle aziende non valevano più niente. Lehman Brothers è fallita così. Poi i governi hanno salvato le banche portando il conto agli stati, che quindi si sono indebitati: dal 2008 a oggi Usa e Europa hanno speso 15.000 miliardi di dollari per le banche private, che ora speculano sul debito pubblico”.

-Al di là del nodo Europa, cosa si potrebbe fare da subito in Italia?
“Ci sono cose che il governo, se volesse, potrebbe fare domani mattina senza il permesso della Merkel. Penso alla patrimoniale sulle grandi ricchezze, alla questione degli stipendi dei parlamentari e ai grandi stipendi di Stato, alla possibilità di fare della Cassa depositi e prestiti una banca pubblica, in modo da poter chiedere soldi alla Bce a un tasso dello 0,75%, invece che reperirli al 6-7%. Ma Monti non farà mai nulla contro i suoi amici speculatori”.

-Perché questa crisi è costituente?
“Perché chi governa, per mantenere l’attuale linea politica, deve imbarbarire la situazione. Riducono la democrazia e i parlamenti non contano più nulla; attaccano i diritti del lavoro, ciò che si era costruito in 30 anni di lotte operaie; demoliscono lo stato sociale con tagli alla sanità e alle pensioni; cancellano le conquiste di civiltà raggiunte dopo la seconda guerra mondiale. La crisi è costituente perché da essa non si esce come prima. O si risolve facendo un balzo in avanti, oppure chi ha le leve del potere continuerà a creare una realtà sempre peggiore in direzione della barbarie. Non c’è nulla di sovrannaturale in ciò che sta accadendo: questa crisi non l’ha decisa il Padreterno, ma semplicemente dei signori che la usano per continuare ad arricchirsi. Bisogna spiegare questa cosa semplice alla gente”.

-Lei dice socialismo o barbarie. Ci spiega questo aut-aut?
“Faccio un esempio storico. Dopo la crisi del ’29 il governo tedesco guidato da Heinrich Brüning fece una politica identica a quella di Monti: tagliò la spesa pubblica e produsse 5 milioni di disoccupati. Sappiamo come finì: nel ’33 Hitler vinse le elezioni facendo leva sul sentimento contro le banche e dicendo che avrebbe avviato lavori pubblici per occupare tutti. La barbarie è frutto di politiche che distruggono legami sociali e benessere. Ciò fa regredire a una situazione di guerra fra poveri, alla ricerca del capro espiatorio, al far west, al razzismo. Il socialismo, invece, è la possibilità di uscire dalla crisi facendo leva sugli elementi positivi: se abbiamo creato tanta ricchezza bisogna distribuirla bene; se il lavoro è più produttivo bisogna redistribuirlo; se il mercato non riesce ad individuare le produzioni per un salto in avanti, penso alla riconversione ambientale, lo deve fare lo Stato con un intervento pubblico. Tutto ciò con più democrazia. Sull’economia deve poter decidere la gente: vogliamo investire sulle bombe atomiche o sui pannelli solari? E questi vogliamo metterli al posto degli uliveti o sui tetti delle case? Non bisogna lasciare le scelte importanti ai mercati, cioè gli speculatori”.

-Nella parte propositiva del libro parla di New Deal di classe.
“Penso che occorra alludere a quell’esperienza fatta nel ’33 negli Usa sapendo però che era insufficiente, tanto che la disoccupazione in tutti gli anni ’30 non scese. Ma il New Deal fu la risposta contrapposta al nazismo. Monti e Merkel stanno scegliendo la strada che ci ha portati al nazismo. Noi dobbiamo fare la scelta di Roosevelt, ma con più nettezza: redistribuire la ricchezza, riconvertire l’economia in senso ambientale e ridurre l’orario di lavoro per distribuirlo fra tutti. Dopo la crisi del ’29 abbiamo visto che c’erano due strade: una portò al nazismo, l’altra allargò la democrazia. Anche oggi ci sono due strade e non una sola come si vuol far credere. Il rischio è che una linea politica sbagliata produca barbarie sociale e maggiori conflitti. L’incomprensione del fatto che l’umanità potrebbe fare un passo in avanti rischia di portarla a fare sette o otto passi indietro”. (Beh, buona giornata).

Paolo Ferrero.

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E il neoliberismo partor

di Carlo Bordoni-Il Fatto Quotidiano

L’antipolitica come rinuncia dello Stato alla politica tradizionale? È la tesi di Étienne Balibar, docente emerito all’Università di Parigi, noto per i suo saggi Leggere il Capitale (con Louis Althusser) e La paura delle masse, che si ripropone ora con Cittadinanza, pubblicato da Bollati Boringhieri.

Antipolitica come annullamento degli antagonismi politici, delle differenze tra i partiti, dell’omologazione delle forze in campo, all’interno di una generale stagnazione dove emergono individualità carismatiche che catalizzano l’interesse pubblico.

La crisi delle ideologie, quelle convinzioni fideistiche su cui si basavano i partiti della sinistra, in grado di raccogliere il consenso di larghe masse popolari, ha lasciato un vuoto, prontamente colmato da una logica individualista e privatistica.

Balibar riprende da Aristotele il termine politeía, per indicare un concetto più ampio di cittadinanza: lo speciale rapporto che s’instaura tra la pólis (città) e il cittadino, facendone un attore politico. E quindi politeía come partecipazione alla cosa pubblica.

Ora, il vacillare di questo rapporto mette in discussione la democrazia.

Due sono le cause principali: la prima è la perdita di un’identificazione collettiva tra cittadino e Stato, che si manifesta con un eccesso di burocrazia (insieme di complessità formali che mascherano l’inosservanza di aspetti sostanziali) e col prevalere di strutture sovranazionali. L’altra causa è appunto l’emergere dell’antipolitica, che non è unicamente una reazione di tipo populista e nazionalista.

Secondo una teoria già proposta da Wendy Brown, il neoliberalismo sottopone le funzioni sociali dello Stato al calcolo economico. Una pratica insolita, che introduce criteri di redditività neservizi pubblici, come se si trattasse di aziende private, regolando sotto un profilo economicistico i campi dell’istruzione, della sanità, della ricerca scientifica, dei servizi sociali, della sicurezza.

L’antipolitica è pertanto un atteggiamento di de-responsabilizzazione dello Stato, di rinuncia alla sue prerogative tradizionali e la loro progressiva privatizzazione. Le responsabilità si dividono così in una miriade di deleghe sempre più frazionate, fino a convergere sul singolo individuo. Unico responsabile di se stesso.

Del resto il neoliberalismo all’americana, adottato anche da noi e ravvisabile nei provvedimenti presi dal governo Monti, si sposa bene con l’uscita dalla società di massa: la cosiddetta “demassificazione”. Il processo di individualizzazione che ha riportato in primo piano il concetto di “moltitudine”.

Chissà che in futuro non ci aspetti una società “caina”, dove ognuno potrà interpretare a suo modo la frase biblica: “Sono forse io il custode di mio fratello?”

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business Cultura Dibattiti Media e tecnologia Pubblicità e mass media

LItalia che verra. Industria culturale, made in Italy e territori. Rapporto 2012: le radici del futuro della pubblicita italiana.

(fonte: http://www.symbola.net).

3.1.3 Le radici del futuro della pubblicità italiana (6)

Secondo le più recenti stime, la pubblicità italiana è in netta recessione. Nielsen Media Research ha fotografato una contrazione che nei primi mesi del 2012 si attesterebbe su -8, 4%, rispetto allo scorso anno. Le previsioni di Assocomunicazione, l’associazione delle agenzie di pubblicità parlano di un andamento che a fine anno farebbe registrare un -7%. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’Upa, l’asso- ciazione delle imprese che investono in pubblicità, stima una contrazione pari a-7, 5%. Tutti i media presi in considerazione come veicoli di pubblicità, vale a dire la tv, la stampa quotidiana e periodica, le affissioni esterne, la radio, la pubblicità nelle sale cinematografiche, tutti sono in netto calo. Ha un segno positivo solo la pubblicità su internet, che si aggira su un +12%, anche se anche qui siamo in presenza di una contrazione, calcolabile almeno intorno a 5 punti percentuali.
La domanda è: la crisi della pubblicità italiana è frutto della crisi economica che più generalmente soffre il Paese? La risposta è semplice, pur nella sua complessità: la crisi dei consumi, il taglio dei budget pubblicitari non sono la causa diretta della crisi della pubblicità.
E se la causa della crisi della pubblicità fossero i pubblicitari? La causa della crisi è tutta dentro il come è strutturato il mercato della comunicazione commerciale italiana, cioè all’interno del come sono organizzati i soggetti: agenzie creative, agenzie media; concessionarie di pubblicità degli editori (tv, stampa, radio, ecc.), dall’altro. E poi, le aziende multinazionali che hanno filiali in Italia e che sono
(6) Realizzato in collaborazione con Marco Ferri, Copy Writer Consorzio Creativi

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big spender in pubblicità; le aziende italiane: poche di grandi dimensioni, in grado cioè di competere con i budget delle multinazionali; molte di piccole e medie dimensioni, che spesso investono nei loro territori, a vantaggio della cosiddetta pubblicità locale.
Ma la causa vera della crisi della pubblicità italiana è dentro a come sono organizzati i media in Italia: c’è da anni una forte presenza della tv come player “monocratico” della raccolta pubblicitaria che ha profondamente condizionato tutti gli altri media. Nonostante la crisi di cui abbiamo visto i numeri, infatti attualmente la tv assorbe almeno il 51% degli investimenti pubblicitari italiani.
Fatto sta che il combinato disposto tra gli effetti della crisi economica e quelli della crisi di sistema della pubblicità italiana hanno prodotto una spinta al rinnovamento della relazione tra committente e agenzia di pubblicità.
Da Milano a Roma, da Torino a Bari sono nate agenzie di pubblicità di nuova generazione. Figlie delle crisi strutturale delle agenzie classiche, spesso fondate da creativi che avevano avuto incari- chi manageriali importanti, queste nuove esperienze stanno rinnovando il mercato. Sapendo agire senza difficoltà tra i media tradizionali e i social media, riescono a dare un servizio migliore, con un rapporto qualità-prezzo appetibile, proprio perché queste nuove agenzie sono a bassissimo tasso di burocrazia interna. Della serie, se son rose pungeranno.
Ciò che è notevole è la spinta spontanea a fare rete, a immaginarsi network di competenze in grado di essere subito disponibili alle esigenze del committente. Ma deve essere sottolineato che all’inter- no di nuove formule organizzative c’è forte il sentore di un rinnovato entusiasmo professionale, di una voglia di innovare la qualità dei messaggi, di rinnovare il rapporto tra creatività e i valori culturali espressi da questa epoca.
Una nuova consapevolezza del valore culturale della comunicazione che si esprime nello stesso modo di porsi e proporsi a mercato. Troviamo così a Milano COOkies che dice di sé: “il nostro intento era quello di creare un’agenzia di pubblicità che non fosse la solita agenzia. Non volevamo più tristi uffici con le luci al neon. Non volevamo perderci in mille burocrazie. Ci siamo dati poche regole: one- stà, puntualità, innovazione”. Oppure Art Attack a Roma che dichiara: “Usiamo la nostra creatività e la nostra visione strategica per “unire i punti”. “Unire i punti” significa scoprire opportunità di co- municazione che sono già alla portata dei nostri clienti e che aspettano solo di essere “attivate”. Per attivarle individuiamo di volta in volta la migliore soluzione creativa, che combina in modo unico le nostre competenze nelle aree più diverse: digital, social, advertising, corporate, video”. A Bari, Pro- forma sostiene: “L’agenzia nasce con l’intento già ambizioso di rivedere e aggiornare il linguaggio della comunicazione(….) Non rinneghiamo i mezzi tradizionali e li utilizziamo in maniera sempre sor-

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prendente, ma da appassionati studiosi della comunicazione contemporanea, sappiamo che un uso intelligente dei nuovi media, in molti casi, può rivelarsi un’arma più efficace ed economica”. Ciò che colpisce positivamente è che queste esperienze, sia pur diverse per collocazione geografica, o per dimensione aziendale, abbiamo, invece, un linguaggio comune, e una consapevolezza della ricchez- za degli strumenti che si possono utilizzare per produrre comunicazione di buona qualità. Colpisce, inoltre, che producano riflessioni e segmenti di cultura della comunicazione attuale, come ormai nelle agenzie di pubblicità “classiche” non si usa più da tempo.
La vicinanza alle problematiche del committente e l’essere concretamente immersi nella realtà so- ciale e produttiva dei rispettivi territori, appare una componente essenziale di questo nuovo modo di intendere la creazione dei messaggi pubblicitari: una relazione calda, artigianale, fatta di sapere e passione che è tutto il contrario della pretesa fredda professionalità che proviene dai network inter- nazionali. A Milano, Le Balene scrivono sul loro sito: “Cosa dovrebbe chiedere un’azienda all’agenzia con cui sceglie di collaborare? Che sia diversa dalle altre, ma questo lo dicono tutti. Che porti argo- menti, provocazioni, idee, fatti davvero utili a rendere diversa l’azienda dalle sue concorrenti, questo è più difficile ma è quello che a noi piace veramente fare.” A Roma, Marimo, afferma: “Anche le cattive idee, i messaggi sciatti, le immagini distorte, la banalità, le volgarità inquinano l’ambiente in cui viviamo. Per esperienza, per filosofia e per un istinto che ci accomuna cerchiamo di produrre solo progetti sostenibili, cioè rispettosi dell’intelligenza altrui. O, almeno, della nostra”.
Costrette da logiche per cui la quantità di profitto è più importante della qualità del prodotto creati- vo, le agenzie tradizionali hanno espulso negli anni i migliori talenti. Ma ciò che è più evidente è che non ne hanno cercato di nuovi. E allora, i talenti si sono autorganizzati, dando vita a aggregazioni professionali che a loro volta hanno dato alla luce piccoli o grandi network di talenti, rinvigorendo quella antica e sempre proficua contaminazione di competenze che è il vero patrimonio culturale del “made in Italy”.
Siamo nel mezzo di un gran bel disordine creativo. Basta mettere il naso fuori dal perimetro rap- presentato dalla pubblicità ufficiale, per trovare esperienze ricche e molto promettenti. È il caso di EDI (Effetti Digitali Italiani) con sede a Milano, leader nel settore della post produzione per cinema e televisione. O di Dadomani, studio di creativi nato a Milano che sanno unire la tradizione visiva italiana fatta di pittura e scultura con le moderne tecnologie per l’animazione. O, ancora, Mammafo- togramma che a Milano sa mescolare scenografia, pittura e multimedialità con il cinema. A Parma, e più precisamente in provincia, c’è Magicind Corporation, uno studio creativo che realizza prodotti audiovisivi in stop-motion per la pubblicità, la messa in onda e l’industria dell’intrattenimento. E

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ancora, Abstract:Groove, società milanese formata da designers, creativi, registi, animatori, autori, musicisti ed esperti in effetti speciali. Il loro settore comprende spot televisivi, comunicazione virale, video musicali e progetti below the line. Mentre a Torino, N9ve è uno studio multidisciplinare di design, incentrato su design, grafica e animazione.
Come abbiamo visto, si tratta di esperienze multidisciplinari, protese verso il mezzo audiovisivo, ca- paci di mescolare tecniche e discipline, talenti e sperimentazioni che quando arrivano alla pubblicità e vengono utilizzati da marchi famosi, in grado di garantire una più vasta visibilità, si fanno notare per innovatività. E che avrebbero bisogno di strategie di comunicazioni altrettanto coraggiose. Che è quello che sostiene ConsorzioCreativi, che si definisce un aggregatore di professionalità e che scrive sul suo sito: “in tempi di crisi, la pubblicità torna a dialogare con i consumatori. Per sorprenderli, cercando di dire qualcosa d’intelligente, di autentico, di credibile, di scritto e visualizzato bene, che possa arricchire i valori della marca con i valori espressi dall’epoca attuale.”.
La ricchezza delle esperienze che si fondano sulla costruzione di sistemi a rete di talenti ben si confà con il sistema mediatico attuale che è complesso, perché i nuovi media non tolgono terreno ai media tradizionali, anzi sembrerebbe che il passato si aggiunge al futuro dei mezzi. Il nuovo avanza, ma il vecchio non demorde.
Tradotto in termini di pianificazione pubblicitaria e di marketing le aziende dovrebbero pianificare sia sul classico che sul nuovo, destreggiandosi nella scelta della forma di pubblicità migliore in questo scenario, che potremmo definire “liquido”. Per esempio, c’è una forte tendenza all’ibridazione tra tv e web e la fruizione da più schermi porrà alle aziende la necessità della misurazione della quantità vera dell’ascolto, non quella presunta dai dati di ascolto a campione. Secondo Carlo Freccero, diret- tore di Rai4, con l’arrivo della smart tv visibile su pc sarà più facile tracciare la mappa dei consumi in rete, per cui l’evoluzione della tv darà la sveglia alla pubblicità, che dovrà tenere conto dell’evolu- zione dei consumi, e alle emittenti, che dovranno rendere i programmi fruibili su più schermi ancora più interessanti.
Le agenzie di pubblicità di nuova generazione, al contrario di quelle tradizionali, sembrerebbero già pronte: il loro modus operandi è talmente flessibile e multidisciplinare che immaginare una co- municazione che sappia essere insieme un “unicum” nella narrazione, ma segmentabile a episodi, diversi a seconda dello schermo su cui debbano essere fruiti, è attualmente alla loro portata. Infatti, ragionare in termini di rete significa avere un’abitudine che più facilmente diventa un’attitudine ad avere una visione d’insieme, e riuscire a concepire tanti argomenti diversi, capaci di arricchire il filo del discorso che si vuole intraprendere con il consumatore.

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Sarebbe di vitale importanza che i soggetti della creatività imprenditoriale italiana, nei vari distret- ti industriali, nelle diverse realtà territoriali prestassero interesse per queste nuove esperienze, espresse dalla creatività diffusa. È da queste che può rinascere uno stile adeguato alle esigenze del mercato italiano e della penetrazione dei prodotti e servizi italiani in Europa e nel mondo. Uno stile di comunicazione commerciale genuino e rispettoso delle regole, alla stessa stregua della qualità dei prodotti e dei servizi che vengono creati e offerti al mercato dalla migliore imprenditoria italiana. È necessario che la creatività esca dalla clandestinità.
Perché è proprio questo il vero nocciolo della questione: la creatività produttiva deve incontrare, stimolare, provocare, spingere la creatività nella comunicazione pubblicitaria. Qui sta è il vero valore aggiunto che la pubblicità può offrire al successo di ciò che si pensa, si costruisce, si produce, si com- mercializza. Così facendo si sono costruiti i successi dei brand globali, che le agenzie multinazionali promuovono anche nei nostri mercati.
Un sano rapporto, ancorché dialettico tra esigenze del committente e sensibilità creative è un buon viatico per fare dell’attuale crisi la palestra del talento, in modo da attivare un costante dialogo con i consumatori, interpretando le loro nuove esigenze.
Per questo sono nate negli ultimi anni strutture molto più leggere, capaci di muoversi con grande agilità, per fornire idee di alto profilo, senza spargimento di costi, burocrazie né perdite di tempo. Strutture capaci di essere molto più competitive dei mastodonti della pubblicità, lenti, costosi, che hanno la missione di servire prima i loro clienti internazionali e poi quelli locali, cioè italiani.
Oggi le filiali in Italia delle agenzie multinazionali si sono nettamente impoverite di talenti. Sono programmate, nella migliore delle ipotesi, per funzionare da hub per la gestione delle problematiche che le marche multinazionali possono incontrare in questo o quel mercato nazionale. Un’azienda italiana non ha alternative se non accodarsi ai tempi e alle modalità prescritte dalle procedure, che come rigidi precetti, presiedono al funzionamento delle grandi agenzie. Al contrario, per non creare intralci, strozzature, frustrazioni e inutili fardelli alla creatività è necessario che la struttura sia legge- ra, orizzontale, focalizzata alla risoluzione dei problemi. E che sappia produrre intuizioni concrete e condivisibili con il pubblico di riferimento del prodotto e del servizio offerto dal committente.
La pubblicità non è solo un costo da misurare con i parametri del Roi, è invece una medicina buona per l’impresa in tempi di difficoltà, è ossigeno per l’economia e per il “made in Italy”.
La crisi è una grande occasione per sperimentare nuovi percorsi verso l’eccellenza. L’invito alle azien- de italiane è non sottovalutare le capacità, il talento, il saper come si fa delle agenzie di pubblicità italiane di nuova generazione. L’invito alle agenzie di nuova concezione è non accontentarsi dell’esi-

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stente, ma di pensarsi in avanti, di essere più propositivi oltre che reattivi, di essere veloci nel com- prendere e risolvere le esigenze e le problematiche del committente. Di sentirsi fino in fondo parte consapevole di un grande progetto di ripresa, di rilancio e di sviluppo compatibile.
Avendo cura di non dimenticare mai l’insegnamento di Emanuele Pirella, che esortava i creativi a lavorare con passione, perché un prodotto, un servizio o una marca venissero scelti dagli acquirenti non solo per convenienza o necessità, ma anche per stima, per affetto, per simpatia, per apparte- nenza un mondo di valori. In ultima analisi, è proprio a questo che serve la creatività in pubblicità. (Beh, buona giornata)

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