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“…e quel carico di neri che non sono più profughi, non sono più clandestini, non sono più rifugiati, non sono più immigrati, ma sono solo deportati”.

Il Cavalier Laqualunque, di FRANCESCO MERLO-la Repubblica.

NELL’ISOLA dei disperati il più disperato è lui. Con la camicia scura aperta sul collo e il doppiopetto nero che è diventato enorme, Berlusconi a Lampedusa è più Cetto Laqualunque dello stesso Albanese.

È venuto a svuotare l’isola così come andò a svuotare Napoli. Lì i rifiuti e le lordure furono caricati sui Tir, dispersi via terra con destinazione ignota, e qui sulle navi, onda su onda il mare li porterà al largo dell’Italia degli egoismi regionali e del ricatto secessionista.

“Sono lampedusano” dice, e sembra la caricatura di Kennedy a Berlino, “stamattina ho comprato una villa su Internet, si chiama “Le due palme””. Più tardi, a un cronista che lo aspetta sulla sabbia nascosto dietro una delle due palme confesserà compiaciuto: “Ma è tutta da rifare”. Le tv mandano ossessivamente l’immagine della facciata, il muro di cinta, e poi sabbia, stoppie, l’intervista ai vicini di casa. Ha già speso due milioni di euro. Il solito vento che, in qualsiasi stagione, qui fa perdere la voce, agita le piante basse e dunque anche Berlusconi, che è gonfio come una mongolfiera, per un momento perde l’equilibro e sembra migrare, lui che vorrebbe migrare lontano da tutte le regole, anche quella di gravità.

Noi italiani sappiamo che Berlusconi si butta sulle disgrazie quando sente di essere in disgrazia. Ma Lampedusa gli serve anche a dissimulare, a tenere occupata l’Italia nel giorno in cui la maggioranza parlamentare, ridotta in servitù, lo sta spudoratamente liberando dei suoi processi. Le promesse ai terremotati furono le sue campagne del grano. Ma questa volta la scenografia lo tradisce. Lampedusa infatti è due volte palcoscenico, due volte finzione: è il solenne e forse fatale teatro espiatorio per attirare e distrarre la più vasta delle platee ma è anche il remake dell’autarchia del “ci penso io” come estrema risorsa per illudersi ancora. Berlusconi fa il palo a Lampedusa, mentre a Roma i suoi scassinano il Parlamento e rubano i pesi della Bilancia.

E però tra il governatore Lombardo e il sindaco De Rubeis, circondato da assessori, imprenditori locali e guardie del corpo che qui non si distinguono dai corpi che hanno in guardia, nel mezzo di una nomenklatura scaltra, truce e goffa, Berlusconi esibisce una fisicità terminale che va ben oltre Cetto Laqualunque. È quella dei dittatori africani e degli oligarchi russi. Ha portato a Lampedusa più Africa lui che gli immigrati.

È atterrato all’ora dei Tg quando i soldati avevano finito di pulire il Porto vecchio, la stazione marittima e la famosa “collina della vergogna”. Il Tg3 documenta la pulizia anche degli slogan di protesta, si vede il sindaco che grida alla folla: “Basta cu ‘sti minchia di cartelli”. Ruspe e camion dei netturbini hanno spazzato via la tendopoli proprio come a Napoli spazzarono le strade, e ora le tv mostrano il “com’era” e il “com’è”.

Resistono, a testimoniare l’inciviltà della miseria, stracci, bottiglie, escrementi accanto ai ciuffi d’erba di una primavera che a fine marzo a Lempedusa è già estate: domina il giallo che solo al tramonto si tinge di arancione. Berlusconi garantisce che porterà “il colore, come a Portofino”. Promette pure il premio Nobel per la Pace, il campo da golf e il casinò che è un vecchio sogno non solo dei lampedusani più eccentrici, vale a dire la risorsa di chi non ha risorse, ma è soprattutto l’aspirazione della malavita intossicata di danaro che ha impiantato in tutti gli angoli della Sicilia le sue bische clandestine, i luoghi sordidi dove si sfogano il bisogno sociale e la pulsione individuale.

Quando Berlusconi scende dall’aereo, i disperati già avanzano sul molo in fila indiana, ciascuno con la mano sulla spalla dell’altro, “una mano sola per evitare l’effetto trenino” mi ha spiegato un funzionario degli Interni. Sono immagini che testimoniano l’umiliazione di uomini ardimentosi. Quasi tutti i primi piani li mostrano con le palpebre semichiuse forse perché non riescono più a vedere lontano. Ai lati, per tenerli in riga, ci sono i poliziotti con i guanti di gomma e le mascherina sulla bocca per proteggersi dal male fisico, per non entrare in contatto con la sofferenza dei corpi che, proprio come aveva ordinato Bossi, si stanno togliendo dalle balle.

E mentre Berlusconi si mette in gioco nella più triste di tutte le sue demagogie, giura di cacciare per sempre gli immigrati che ci sono e quelli che verranno, promette aiuti europei e corrimano, vasi di fiori, niente tasse per tutti, una scuola, investimenti turistici, trasmissioni promozionali della Rai e di Mediaset …, mentre, insomma, Berlusconi delira, la nave da crociera sembra una carboniera del diciassettesimo secolo, con la broda sciaguattante di acqua di mare, le zaffate, un equipaggio militare efficiente a bordo e riservato a terra, e quel carico di neri che non sono più profughi, non sono più clandestini, non sono più rifugiati, non sono più immigrati, ma sono solo deportati.

Se si mettono a confronto queste immagini che, comunque la si pensi, sono angoscianti e dolorose, con quelle della piccola folla festante attorno allo Sciamano, si capisce che non c’è solo lo stridore tra la violenza della realtà e la pappa fradicia della demagogia. Qui c’è anche il sottosviluppo di piazza, il sud di Baaria, – “santo Silvio pensaci tu” – la bocca aperta e lo schiamazzo delle feste patronali, il bisogno del voto, del miracolo, del divo: “Silvio!, Silvio!, Silvio!”. C’è la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale degli imbonitori, dello zio d’America come quel Thomas DiBenedetto che ha appena comprato la Roma, del messia e del conquistador, il mito antico dell’uomo che viene da fuori, dell’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore e non importa chi, purché venga appunto da fuori, perché è all’interno che questo Sud non trova pace. Ed è probabile che questa visita diventi un mito rituale, la chimera di una Lampedusa protagonista, porto franco, una specie di Las Vegas del Mediterraneo, il sogno come variante del sonno. Dev’essere per questo che i miei sciagurati paesani lo hanno applaudito invece di mandarlo. .. alla deriva nel suo cargo. (Beh, buona giornata).

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Direttori o caporali?

C’è una fattispecie giuridica che prevedere che una persona faccia più danni che produrre
benefici: si chiama “incompatibilità ambientale”. Succede che un capo venga assegnato a
un compito, per svolgere il quale egli assume la direzione di un certo numero di
dipendenti. Quando però sia per questioni caratteriali, sia per i metodi autoritari la
difficile relazione tra il capo e i dipendenti diventa un vero e proprio ostacolo, per
“incompatibilità ambientale”, il capo viene rimosso, se non addirittura licenziato.

Se guardiamo a quanto succede al TgUno, sembrerebbe si sia in presenza di un caso esemplare di “incompatibilità ambientale” tra il direttore della testata e i giornalisti. C’è ormai una lunga teoria di avvenimenti che potrebbero essere la prova provata: dalla rimozione alla conduzione del Tg che poi viene annullata dal tribunale del lavoro,
dall’inconsistenza degli editoriali in video del direttore, che ha portato non solo un
drastico calo di ascolti, ma anche all’inserimento di un commentatore “di peso”, Ferrara,
che certo quest’opera di supplenza non la fa davvero gratis.

L’ultima, in ordine di tempo, la vicenda del “libro bianco” sulle scorrettezze porofessionali del direttore del TgUno, redatto a cura dei menmbri uscenti di un organismo sindacale. Anche in questo caso, stupisce la reazione di Minzolini, che accusa i redattori del libro bianco di essere faziosi. Tanto per riconfermare la sua ormai irreversibile “incompatibilità ambientale.”

Certo, quello del direttore del TgUno non è affatto un caso isolato di
“incompatibilità ambientale”. Abbiamo visto il ministro Brunetta scagliarsi contro i
dipendenti pubblici, che dal suo ministero dipendono. Vista la Gelmini avercela coi
professori, gli studenti e recentemente anche con i bidelli. Visto il ministro della
Giustizia avercela coi magistrati. Ma l’esempio di incompatibilità ambientale per
antonomasia riguarda, ironia della sorte, la ministra dell’Ambiente. Nuclearista
convinta, dopo aver cercato di impapocchiare una diffesa di ufficio del nucleare in
Italia, si è lasciata sfuggire un fuori onda degno di dimissioni immediate: ha detto più
o meno che se continuamo a dire ste cazzate perdiamo le prossime elezioni amministrative.

Il consenso potè più della salute e così si è inventata la storia della moratoria. Tanto
per mandare in bianco il prossimo referendum. Insomma, anche per “incompatibilità
ambientale” ci vuole un minimo di professionalità. Non basta essere nominato capo per
saper fare il dirigente. Né essere definito “direttorissimo” per saper fare il direttore. Beh, buona giornata.

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Berlusconi, la riforma della Giustizia e l’amaro medicinale Giuliano.

Il lato oscuro della forza di Berlusconi è tutto, ma proprio tutto nel lato debole e lampante dell’opposizione parlamentare al Governo. Non è una novità, ma sui temi della riforma della Giustizia l’ossatura politica del centro-sinistra diventa cartilagine. Su cui pestano i giannizzeri del centro-destra. Primo fra tutti il capo del servizio d’ordine del Berlusca, Giulianone Ferrara che dai microfoni di RaiUno indora agli italiani la pillola della crisi del belusconismo, tutte le sere, dopo il TgUno di Minzolini. Lui viene dopo il tiggì. Ma lui, anche e soprattutto viene dopo il PCI. Di cui era appunto capo del servizio d’ordine. Non ha cambiato mestiere, solo padrone. Ma, soprattutto, Ferrara non ha cambiato mentalità.

Nelle file del Pci amava l’uso della giustizia contro i movimenti sociali, nati a sinistra del Partito comunista. La generazione che attraverso la storia del nostro paese tra il ’68 e il ’77 conobbe molto bene l’uso politico della giustizia in Italia. Manganellate in piazza, ma anche poliziotti travestiti da “autonomi”, secondo la dottrina Cossiga, eppoi sentenze addomesticate dalla logica della conservazione del potere democristiano e dalla politica di “Unità nazionale” con cui il Pci entrò nell’area di governo alla fine dei Settanta. E poi teoremi giudiziari, e poi carceri speciali, e poi confino di polizia, come ai tempi del Fascismo. A metà degli anni Ottanta, nelle carceri italiane si potevano contare la bellezza di quattromila “prigionieri politici”, come si diceva allora.

Tutta l’attenzione giudiziaria fu concentrata nello sconfiggere con la repressione un vasto movimento giovanile, di cui la sinistra comunista e socialista avevano letteralmente perduto il controllo, politico e sociale. Fu facile il trucco di considerare tutti terroristi: il trucco fu favorito dal Pci, e messo in pratica dalla Magistratura italiana. Che oggi vanta di aver sconfitto il terrorismo, come se i fenomeni sociali si potessero sconfiggere con le sentenze, invece, come di fatto è avvenuto, con la gestione politica dei cambiamenti economici e sociali che trasformarono il Paese. Il crollo del delta dell’inflazione, l’introduzione di norme che favorirono l’occupazione giovanile, furono le vere cause della fine della violenza politica in Italia. Ma col benessere, insorsero i reati dei colletti bianchi, la criminalità politica, il connubio tra il malaffare e la corruzione politica. Di alcune procure si parlò come de “Il porto delle nebbie”. E venne alla luce la P2, di cui autorevoli esponenti di codesta compagine governativa fecero parte, mai essendo perseguiti. Poi venne Tangentopoli.

Fu la Magistratura italiana a spazzare via una intera classe dirigente o essa implose, annegando tra valigette di banconote, che viaggiavano su e giù per la Penisola, per essere poi recapitate ai tesorieri di quei partiti di governo, pronti a restituire, pronto cassa, favori, emendamenti, leggi ad personam? Eccolo, allora il lato oscuro della forza di Berlusconi, che è entrato in politica perché orfano di quei partiti che mediavano tra i suoi appetiti e le leggi dello Stato.

Quello che si capisce dalle concioni televisive del capo del servizio d’ordine degli interessi di Berlusconi è la grande nostalgia di un grande “Porto delle Nebbie” nel quale non attracchino mai i processi che inchioderebbero chi ha imparato a far politica per fare affari, quelli suoi. La nostalgia di un grande accordo politico, sul modello del governo di unità nazionale, o se volete del Caf (il famoso accordo Craxi, Andreotti, Forlani) perché la politica fosse comunque sempre il sifone che miscela e separa le acque bianche da quelle nere.

E’ affascinante questa visione della politica italiana. Vorrebbe essere moderna, ma sa di modernariato della Prima Repubblica. Giuliano Ferrara vorrebbe si dicesse di se stesso che è l’Eugenio Scalfari della centro-destra. Faccia pure.

Quello che è comico è come si contrabbandi una riforma della Giustizia che è invece una ingenua contro-riforma. Ma tant’è. Le vie del Signore sono infinite: uscendo da via delle Botteghe Oscure, in cammino verso via della Conciliazione, il Nostro è stato folgorato da un’intuizione storica. L’Italia non è forse il Paese in cui la Chiesa Cattolica Romana varò la Controriforma senza neanche aspettare che in Italia nascesse la Riforma? Esattamente come fece il Pci dopo il XX Congresso del Pcus: accettò il rapporto di Kruscev senza porsi mai la questione stalinista.

Beh,non si può negare la coerenza di Ferrara. E’ sempre stato l’uomo giusto nel posto giusto. Ieri era fedele alla linea del CC (Comitato Centrale), oggi è molto più sensibile al cc (conto corrente). Beh, buona giornata.

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Un brutto momento per la lobby del nucleare in Italia.

E’ passata sotto silenzio la decisione del Giuri, l’organo di autocontrollo della pubblicità italiana circa l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario firmato dal Forum nucleare. Vi ricorderete che persone giocavano a scacchi, i bianchi a favore i neri contro la reintroduzione del nucleare in Italia. Il Giuri ha appunto censurato questa campagna.

Non è che mi faccia piacere: sono stato più volte “utente” delle decisioni del Giuri. Cose che succedono. Il fatto è che le tesi sostenute dalla campagna non stanno in piedi. Infatti, quelle teorie sono crollate dopo il terribile terremoto e il successivo tsunami che ha funestato il Giappone. E la cosa terrificante è che alla fine delle cause “naturali” della sciagura, cominciano le cause “umane” della sciagura.

Vale a dire la presunzione di poter controllare la scissione dell’atomo per produrre energia. Il fatto eclatante è che il Giappone, a distanza di 65 anni sta pagando le due versioni storiche dell’uso dell’atomo: vittima fu dell’uso “militare” dell’energia atomica (Hiroshima e Nagasaki), è attualmente vittima dell’uso “civile” dell’energia atomica: stanno esplodendo centrali nucleari a Fukushima.

Un caso più unico che raro di preveggenza dell’Istituto di autodisciplina? Una forzatura della verità da parte del committente, il Forum? Propendo per la seconda ipotesi, anche perché così potrebbero essere in essere attenuanti verso l’agenzia di pubblicità che ha concepito la campagna degli scacchi. Nella quale si vedeva uno scacco matto. Che nella realtà è uno scacco pazzo, pazzo come il Dottor Stranamore, film indimenticabile del sempiterno Kubric. Non credo che il mio amico Chicco Testa sia un novello Stranamore. Penso invece che attualmente la realtà rischia molto seriamente di superare la più sfrenata fantasia. Quando uscì nelle sale cinematografiche ‘Sindrome cinese’ (regia di James Bridges, con Michael Douglas, Jane Fonda e Jack Lemmon), film che pregonizzò l’incidente nucleare a di Three Mile Island, avvenuto lo stesso anno, nel 1979 negli Usa.

La sindrome cinese è la capacità teorica che la fusione del nocciolo possa perforare da parte a parte il globo terrestre. A Fukushima si sta rischiando la fusione, per il quale motivo si rilasciano fuoriuscite controllate, cercando di dosare il sovrariscaldamento del nocciolo delle centrali. Cominciano a contarsi “danni collaterali” di questa strategia: sono vittime umane. Tra “sindrome cinese” e “strategie giapponesi” il problema è: la smettiamo una volta per tutte di fare pubblicità radioattiva? Beh,buona giornata.

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La pubblicità, il pane fresco che si fa tutti i giorni.

“Per il mio Paese faccio sacrifici. Che non mi troverei a fare se fossi un privato cittadino”. Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa a palazzo Chigi dopo il consiglio dei ministri. “Mi hanno chiesto a che punto erano i miei denti (dopo l’aggressione di Milano, ndr). Non sono ancora riuscito a mettere l’altro dente perché – ha spiegato – ho il nervo scoperto che non guarisce. E questo per me è un sacrificio grande, un rischio a cui sono andato incontro e che, se fossi stato un privato cittadino, non avrei corso. A questo punto il presidente del consiglio ha mostrato, a bocca aperta, il dente mancante ai giornalisti.

Questo è un lampante esempio di pubblicità-intrattenimento: il prodotto si mostra al pubblico, cercando di stupire, di spiazzare. Siamo proprio sicuri che questo sia il futuro dell’advertising? Lo chiedo non solo perché la stragande maggioranza dei consumatori italiani sanno bene quanti ‘sacrifici’ bisogna fare per pagare il conto del dentista. Ma lo chiedo a chi sostiene che il futuro dell’advertising sia intrattenere e non invece informare sulle virtù della marca, attraverso gli espedienti dell’esagerazione, del rovesciamento, dell’iperbole tipici del linguaggio della pubblicità. Quegli espedienti che sono convincenti proprio perché dichiaratamente sono pubblicitari, dunque innocui, non invasivi, in definitiva accettabili. La pubblicità cerca affetto, stima, atteggiamenti positivi, come ci insegnava Pirella.

Se la pubblicità diventa coercizione del consenso sprofonda nella propaganda. La propaganda è un assordante rumore di fondo. La pubblicità è la costruzione della reputazione, esercitata attraverso il rendere pubblico le qualità dei prodotti, il talento dei marchi. Con irriverenza, ma buon gusto. Ecco perché l’intrattenimento è attività effimera, mentre la pubblicità è una cosa concreta. Insomma, tanto per rimanere in tema, sarebbe come avere il pane, ma non i denti. Beh, buona giornata.

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Mentre Berlusconi dice “mi sto divertendo”, il New York Times scrive: “Spiegare questa storia ai lettori americani è una vera sfida”.

(fonte: repubblica.it)

“In Italia, dove una facciata di moralità cattolica nasconde una alta tolleranza di rapporti illeciti, Berlusconi è stato segnato dagli scandali per anni. Ma questa volta, con il premier che rischia l’incriminazione e con le intercettazioni che presentano un quadro di un sordido mondo di orge e ricatti di prostitute, le cose cominciano ad apparire diversamente”. E’ lucido e impietoso il reportage di Rachel Donadio da Roma sugli ultimi sviluppi delle vicende italiane. “Berlusconi è sopravvissuto a stento a due voti di fiducia a dicembre e ora potrebbe vedersi costretto a nuove elezioni se uno degli alleati della sua incerta coalizione si dovesse ritirare”.

La sintesi della vicenda, compito non certo semplice, porta il Nyt a concludere che “Lo scandalo ha un cast di personaggi che riempirebbe un’intea soap opera”. La sostanza dell’inchiesta – basata su “intercettazioni stupefacenti” – appare incontrovertibile: “Le intercettazioni pubblicate danneggiano l’immagine da superman che Berlusconi ha aiutato a coltivare”. “In un messaggio televisivo, un Berlusconi teso, il volto ricoperto di fondotinta, ha attaccatoi magistrati che stanno indagando su di lui (….) Seduto davanti a uno sfondo di foto di famiglia Berlusconi ha aggiunto che le sue feste si svolgevano “nella più assoluta eleganza, decoro e tranquillità”.

Oltreoceano, si fa fatica evidentemente a concepire l’evidenza di quel che sta accadendo in Italia. “Spiegare questa storia ai lettori americani
è una vera sfida”, ci dice Rachel Donadio . Ad esempio, la ormai nota frase di Ruby riportata dalle trascrizioni delle intercettazioni in cui la ragazza così si riferiva a Noemi Letizia “Per lui lei è la pupilla e io il culo”, ha creato dibattito tra Roma e New York: “Il New York Times ha un codice di stile molto rigoroso che non permette di riportare parolacce o volgarità compreso ass (culo), né consente formule tipo ‘c….’ o eufemismi allusivi (“ha usato un altro termine per fondoschiena”). Ho sostenuto un dibattito piuttosto divertente con i miei editor su quella frase. Alla fine, hanno vinto loro. Hanno detto che “culo” non era così essenziale ai fini della storia perché ci fosse bisogno di stamparlo. Ma – conclude – con tanta abbondanza di altro ottimo materiale, non penso proprio che la storia ne abbia sofferto!”. (Beh, buona giornata).

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Le tentazioni autoritarie di un’Europa in crisi.

(pubblicato su 3Dnews, inserto del quotidiano Terra).

I colpi di stato al giorno d’oggi non si fanno più con i carri-armati nelle strade, come nel 1956 è successo in Ungheria, ma con l’occupazione politica dell’informazione libera. Succede così che il governo ungherese, guidato da Victor Orban, capo di una coalizione di centrodestra ha varato una nuova legge sull’informazione. Si tratta di un attacco frontale alla libertà di stampa che in Europa ha precedenti solo negli anni tragici del nazismo, del fascismo, del franchismo. Per capire la portata di questo avvenimento, è bene vedere nel dettaglio cosa comporta la legge- bavaglio ungherese:

– Soppressione di tutte le agenzie che producono o diffondono informazione nelle radio e nelle televisioni: resterà solo l’Agenzia di stampa governativa (Mti), che centralizzerà tutte le informazioni e le distribuirà direttamente ai media.
– Multe salate per chi scrive articoli “non equilibrati politicamente”. L’equilibrio sarà valutato dal Garante per l’informazione, nominato dal governo.
– Ancora multe per chi pubblica “informazioni contrarie agli interessi nazionali” o “lesive della dignità umana”. E’ il Garante a decidere a sua discrezione.
– I giornalisti avranno l’obbligo di rivelare le loro fonti, pena sanzioni penali, quando ci sono “questioni legate alla sicurezza nazionale”, devono consegnare tutti i loro documenti e supporti elettronici su semplice richiesta del potere esecutivo.
– I telegiornali dovranno rispettare la soglia del 20% per la cronaca nera, mentre la musica dovrà essere, per il 40%, di provenienze ungherese.

Come si può facilmente capire questa legge approvata dal Parlamento ungherese ha creato scandalo, e forte preoccupazione presso le cancellerie europee, anche in considerazione che proprio a Victor Orban toccherà la presidenza di turno della Ue.

Le analogie con la spasmodica ricerca di mettere il bavaglio alla stampa italiana da parte del governo Berlusconi sono talmente evidenti che sottolinearle ulteriormente sarebbe addirittura banale.

Quello che invece è utile mettere in chiaro è che i governi di centrodestra in tutta Europa sono e saranno sempre di più alle prese con la necessità politica di oscurare la verità sulle cause della crisi economica, la verità sulle tensioni sociali, prodotte da politiche neoliberiste: lo smantellamento del welfare, la mancanza di politiche di rilancio dell’economie, l’aumento della disoccupazione sono il comune denominatore che accomuna tutti i governi europei.

L’attacco sistematico e frontale ai diritti sociali, sindacali e civili sembra essere la panacea per rimandare la resa dei conti tra i poteri forti e le spinte sociali che premono dal basso in tutto il Vecchio Continente.

L’Europa è nel pantano: non ha una costituzione condivisa, non riesce a difendersi dalla speculazione sull’euro, non riesce a rilanciare la sua crescita economica. Se adesso produce attacchi violenti alle libertà, in primo luogo alla libertà di stampa e di informazione, va in pezzi anche l’ultimo tassello della sua credibilità agli occhi del mondo globalizzato

Facciamo un esempio: con quale faccia tosta si possono avanzare critiche al modello cinese, che applica la censura su vasta scala, quando il prossimo presidente della Ue ha varato nel suo paese, l’Ungheria, una legge sull’informazione degna del più ottuso, gretto, arrogante regime autoritario?
Beh, buona giornata.

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Non lasciare soli i giornalisti ungheresi.

Nel giornale assediato “Noi cronisti resistiamo ma non lasciateci soli”,di Andrea Tarquini- La Repubblica

La e-mail circolare del direttore è ancora calda su ogni schermo, emozioni e timori li leggi sui volti. «Cari colleghi, questa legge crea una situazione nuova, da voi mi aspetto ancora più coraggio e rigore giornalistico, narrate ancora ai lettori la realtà nei suoi molteplici momenti», ha scritto Kàroly Voeroes, direttore del Népszabadsàg. Nello stanzone del desk centrale, i capistruttura più anziani ricordano i tempi bui della dittatura comunista, i giovani appena sposati e con figli piccoli dissimulano dignitosi l´ansia per il futuro.

Evoca quasi il clima di un brutto romanzo sovietico un giorno passato con i colleghi ungheresi sotto il torchio del potere. Bécsi Ut, viale Vienna, numero 122. In un modesto palazzo-uffici anni Settanta è la redazione del Népszabadsàg. Ex organo ufficiale del più gorbacioviano tra i Pc al potere nella guerra fredda, poi dall´89 quotidiano liberal di qualità. Sono stati Voeroes e il suo staff a iniziare la protesta della pagina bianca sull´esempio di Repubblica contro le leggi-bavaglio italiane.

«Stiamo pubblicando un grazie a voi di Repubblica e a tutti i media e politici d´Europa che sono stati solidali con noi», dice commosso il direttore.
«Il governo Merkel, quello lussemburghese, la Francia, hanno protestato. I media filogovernativi ne tacciono. Vi rendete conto? Li censurano! A raccontare al pubblico come il mondo reagisce alla legge, qui restiamo solo noi, l´ex quotidiano sindacale Népszava, la rivista letteraria élet es irodalom, e pochi altri. Continuiamo, rilanciamo con forza», sussurra il direttore ai suoi. «Vogliono instillare l´istinto vile dell´autocensura, un clima di rischio permanente, contrastiamoli. Vogliono creare una situazione in cui i media non possano più controllare il potere, come è normale nel mondo libero, ma finiscano invece controllati dal potere».
Dal tavolo rotondo dell´ufficio centrale, due occhi verdi con un bel sorriso triste fanno capolino da dietro un computer, una voce gentile mi saluta in un tedesco perfetto. Riconosco la giovane Edit, corrispondente dalla Germania fino a pochi anni fa. «Resti a Berlino libera, sono felice per i tuoi figli», mi dice sorridendo con gli occhi lucidi. La sua bimba cresce qui in un´altra realtà.

«Ho scritto alla Consulta», rivela il direttore. «La legge ha troppe irregolarità. Primo, è entrata in vigore il giorno dopo la firma del capo dello Stato, senza i normali 60 giorni perché i cittadini s´informino. Secondo, ha creato l´Autorità centrale per il controllo dei contenuti dei media. Si rende conto? Sembra quasi la realtà che Goebbels raccontò con precisione nei suoi diari. Quando nel 1928 Hitler aveva fretta di prendere il potere, a costo di usare subito la violenza. Goebbels gli disse che non era il caso, che era meglio pazientare e puntare a vincere le libere elezioni usando le leggi della democrazia di Weimar, per poi cambiare tutto. Non paragono il 1933 tedesco al nostro presente, ma con la maggioranza di due terzi Orban e il suo partito, la Fidesz, possono fare quel che vogliono. In pochi mesi, da quando Orban è al potere, sono passate 800 nuove leggi senza obiezioni. Non solo i media, anche la Consulta hanno perduto ruoli costitutivi». Il tempo stringe, il giornale va fatto in corsa, tanto peggio per come l´Autorità per il controllo dei contenuti reagirà domani.

«Guardate la prima pagina di Gazeta Wyborcza scritta da Michnik in ungherese anziché in polacco, le corrispondenze di Repubblica, della Welt e del New York Times, coraggio», mormora il direttore. Finora, mi dice, l´autorità di controllo dei media che nel mondo libero controllano loro il potere, non si è ancora fatta viva. Dal suo ufficio ai piedi della collina del castello di Buda, tace e comincia a scrutare. Sa che può applicare la nuova legge e incute timore in ogni momento, come i potenti nel Castello di Kafka.

Le speranze fanno andare avanti, a denti stretti, i timori pesano. Non solo perché l´autorità di controllo, nel nome, ricorda alla lontana la famigerata Avo, la polizia segreta della repressione-carneficina contro la rivoluzione del 1956. «La crisi pesa nel settore, mille licenziamenti in radio e tv sono alle porte, andiamo per ragioni economiche verso un futuro con tanti giornalisti a spasso. Il governo influenza il mercato della pubblicità, e le prime sanzioni hanno già colpito», mi racconta il vicedirettore Gabor Horvath. «Attila Mong, conduttore del news-talkshow radio del mattino, 180 minuti, e il suo capostruttura Zsolt Bogar, prendono ancora lo stipendio di dipendenti della radio pubblica ma non vanno più in onda da quando Attila ha commentato la legge-bavaglio con la sfida di un minuto di silenzio al microfono. Antonia Mészaros, fino a poco fa conduttrice delle tv news serali più seguite, adesso deve rassegnarsi a guidare soltanto programmi per bambini.

Di noi, della Merkel, di ogni critica parlano descrivendo congiure internazionali». Termine cupo, evoca il linguaggio antisemita del regime che in guerra fu, all´Est, l´alleato più zelante di Hitler. «Legga», dice Horvath. Mi mostra l´editoriale del filogovernativo Magyar Hirlap a firma di Zsolt Bayer, commentatore considerato vicino al presidente che scrive: «È sempre la stessa puzza, peccato non esser riusciti a sistemarli tutti a Orgovany». Allusione a un massacro di comunisti compiuto nel 1919 dalle guardie bianche di Horthy. I giornalisti democratici, per mettere alla prova la nuova legge, hanno denunciato Bayer ieri sera.
(Beh, buona giornata).

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Il bavaglio al gulash.

(fonte: articolo21.com)

La legge bavaglio ungherese è incompatibile con la libera circolazione delle notizie
di Franco Siddi*

La nuova legge sui mass media in Ungheria che limita in modo pesante la libertà di stampa e introduce forme di censura è motivo di preoccupazione e protesta di tutti i giornalisti italiani e del loro Sindacato internazionale. Se non cambieranno le cose le nostre organizzazioni non solo intensificheranno la cooperazione con i colleghi europei, e ungheresi in particolare, perché l’Unione Europea dichiari la legge bavaglio entrata in vigore il 1 gennaio contraria al trattato e alla Carta fondamentale dell’Unione stessa, ma parteciperanno a ogni iniziativa pubblica e giurisdizionale che dovesse ritenersi indispensabile per far arretrare un disegno antidemocratico e liberale.

E’ chiaro a tutti che la nuova legge ungherese è incompatibile con la libera circolazione delle notizie, delle idee e delle diverse opinioni che hanno diritto di cittadinanza e che sono la condizione attraverso la quale si identificano i Paesi democratici.

La richiesta di chiarimenti avanzata dalla vice presidente dell’Esecutivo europeo deve trovare risposta immediata e correzioni di rotta prima che si diffonda nei Paesi di nuova democrazia – e produca spinte regressive nei paesi di antica adesione ai principi della libertà e del pluralismo – una malattia grave e irreparabile.

Avevamo detto in Italia, contrastando vari tentativi di disegni di legge liberticidi (come quello sulle intercettazioni che cancellava il diritto di cronaca giudiziaria) – che la nostra battaglia era una battaglia di civiltà e di libertà senza confini. Oggi, sostenendo le proteste e le battaglie i colleghi ungheresi contro le invasioni di campo dello Stato, fino a nuove forme di censura preventiva, sui media riconfermiamo il senso universale dell’impegno civile della stampa e dei giornalisti, per promuovere una pubblica opinione consapevole affinché possa far arretrare definitivamente disegni di questo tipo. E’ veramente inconcepibile che, nel XXI secolo, ci sia un potere pubblico che, con norme di legge, ritenga normale arrogarsi il potere di sanzionare i media in virtù di una attività di informazione considerata “politicamente non equilibrata”.

La nostra solidarietà ai colleghi ungheresi è totale e si unisce, in questa fase, allo sconcerto per una legge cosi brutalmente contraria alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, promulgata, peraltro, proprio nei giorni in cui l’Ungheria assume la presidenza dell’Unione.
Tutto ciò stride con i valori dell’europeismo storico e indispensabile più che mai per un’Europa che avanzi insieme come entità istituzionale che metta in rapporto popoli e civiltà sulla base dei valori fondamentali di libertà e, quindi, di pace e di convivenza civile.

La Fnsi è pronta a supportare i colleghi ungheresi, se sarà necessario, anche alla Corte di Giustizia europea, mettendo a disposizione il dossier predisposto con altre associazioni italiane di difesa della libertà dell’informazione (come Articolo 21) con illustri giuristi per contrastare leggi liberticide. Nello stesso tempo sostiene tutte le iniziative sovranazionali messe in campo dalla Federazione Europea dei Giornalisti (Efj) e Mondiale (Ifj). Il prossimo congresso della stampa italiana sarà anche in questo un momento significativo di azione civile per la libertà. (Beh, buona giornata).

*segretario generale della Federazione Nazionale Stampa Italiana

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media Salute e benessere Scienza

Alstom, Ansaldo Nucleare, Areva, Confindustria, Eon, Edf, Edison, Enel, Federprogetti, Gdf Suez, Sogin, Stratinvest Ru, Techint, Technip, Tecnimont, Terna, Westinghouse: Chicco che ti sei messo in Testa?

Pubblicità sul nucleare: diteci chi paga quei 7 milioni di euro, di Oliviero Beha

Qualche tempo fa il Ministro Brunetta aveva avuto un’idea tutt’altro che trascurabile: per i programmi tv della Rai nei titoli di coda far scorrere anche i compensi dei singoli, conduttori, autori, ospiti, i costi di produzione, ecc. La cosa finì lì, perché da un lato sembrava una mossa del centrodestra, che governa la Rai dopo la vittoria elettorale come vuole il nostro splendido costume, contro Santoro e le trasmissioni anti-governative.

Governo che ricordo presieduto dal proprietario di altre tre reti in chiaro, più un vasto pacchetto analogico più altri ammennicoli che qui o mi sfuggono o mi faccio sfuggire per farla corta. E dall’altro non se ne fece nulla per oggettive ragioni di psicologia collettiva, di radicate abitudini, di foschia antropologica: non è forse vero che la trasparenza sembra non convenire a nessuno in un Paese anticalvinista che ha un pessimo rapporto con il denaro, in una sorta di post cattolicesimo alla Dio Mammone?

Che cosa mi fa venire in mente quell’uscita di Brunetta presto evaporata tra le polemiche? La storia degli spot tv sul “nucleare sì/ nucleare no” che ormai da un bel po’ campeggiano sui nostri teleschermi (anche alla radio, anche su internet? Controllerò). Sono spot della Saatchi&Saatchi, dubbiosi, problematici, ben fatti da un certo punto di vista. Del resto non si ripete spessissimo che la parte migliore ovvero meglio fatta, più curata della tv, è la pubblicità? E nel processo di produzione delle merci abbinate ai mezzi di comunicazione, in primis la televisione, la pubblicità non gioca un ruolo decisivo?

Voglio dire che si potrebbe sostenere che oggi non sia la pubblicità a essere una condizione essenziale per il capitalismo degli anni Tremila ma il capitalismo un pretesto colossale per il mulino della pubblicità, che sia bianco o no cambia poco. Viviamo ormai una vita pubblica e pubblicitaria, nella quale gli spazi privati si sono ridotti all’osso, per scelta consenziente oppure no, per distrazione, per abitudine delle masse di consumatori. Dei prodotti pubblicizzati. Della pubblicità che li rende visibili aumentandone a dismisura il costo.

Seguendo Brunetta, forse bisognerebbe pretendere che per ogni spot pubblicitario ci fosse la scritta o la dicitura di chi paga quella pubblicità specifica. Che la Barilla produca i suoi spot è ovvio, dunque non è questo il caso in questione e tutti i produttori di qualcosa immediatamente collegabile al marchio dei loro prodotti naturalmente restano fuori da questo discorso. Ma la pubblicità ambigua o dialogica o dialettica (anche qui, dipende dal punto di vista) sulla scelta del nucleare in un Paese che lo ha comunque rigettato con un referendum popolare, bella o brutta che sia, chi la paga? Da Il Fatto di ieri l’altro ecco l’elenco di chi paga: Alstom, Ansaldo Nucleare, Areva, Confindustria, Eon, Edf, Edison, Enel, Federprogetti, Gdf Suez, Sogin, Stratinvest Ru, Techint, Technip, Tecnimont, Terna, Westinghouse.

Un budget di 7 milioni fino ad oggi, non si sa di quanto per l’anno appena cominciato. I dirigenti del Forum sono, oltre a Chicco Testa, Bruno D’Onghia (capo in Italia dell’Edf, gigante elettrico nucleare francese), Karen Daifuku (nota lobbista internazionale del settore), e tre dirigenti Enel: Giancarlo Aquilanti, Paolo Iammatteo e Federico Colosi. Tra i soci del Forum ci sono anche Cisl e Uil di categoria, più alcune Università italiane. L’associazione è fondata sul “supporto organizzativo e strategico” della Hill & Knowlton, multinazionale della comunicazione.

Il Presidente del Forum nucleare italiano che è dietro a tutta l’operazione, compresa la pubblicità di cui sto parlando, non è un profano. Citando Il Fatto ma anche la mia memoria: “Testa conosce l’argomento. L’Enel l’ha scelto per sanare i danni gravissimi da lui stesso prodotti alla cultura nucleare nazionale negli anni ‘80, quando guidava le manifestazioni per fermare le centrali. E’ lui che il 9 novembre 1987, deputato comunista, così commentava l’esito del referendum nucleare: ‘Il risultato è di grandissimo interesse politico.

La battaglia è stata dura per i grossi interessi in campo'”. Insomma, Chicco si è sistemato e da un pezzo.
Capita l’antifona? Allora forza, se la pubblicità si sta mangiando l’informazione non vale la pena che almeno si sappia se gli spot sull’Avis sono prodotti dal Conte Dracula? Non è il minimo della pena, per capirci qualcosa? E se ci fossero spot prodotti dagli antinuclearisti, non credete che pretenderei la stessa trasparenza? Viva Brunetta, dunque, e abbasso Testa se non mi mette in tv (con chiarezza assai superiore e meno subliminale del contenuto sceneggiato) che gli spot sul nucleare sono prodotti dal medesimo business del nucleare. Me li metta in sovrimpressione, prego. Il resto sono chiacchiere.
(Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche

Il sogno di Berlusconi si avvera in Ungheria.

(fonte: repubblica.it)
La pagina bianca del Népszabadsàg ricorda la protesta di Repubblica contro i piani di legge-bavaglio del centrodestra italiano. «La libertà di stampa muore in Ungheria», è scritto sotto la testata, in tutte le lingue dell’ Unione europea. A Budapest un bavaglio che a Berlino ambienti governativi definiscono «in stile tra Putine la Bielorussia», è passato senza problemi. Insieme a tasse punitive e retroattive contro le grandi aziende straniere e a sgravi fiscali varati per conquistare consenso, nonostante Moody’ s abbia degradato il rating del paese a poco più del livello spazzatura. Gennaio 2011: per la prima volta da quando l’ Unione europea esiste, un paese il cui governo non solo predica, ma pone in atto politiche autoritarie e incompatibili con la Carta europea assume la presidenza semestrale della Ue stessa. Protestano i media in tutto il mondo, e tra i governi alza la voce quasi solo quello di Angela Merkel. Il premier nazionalconservatore magiaro, Viktor Orban, replica durissimo: «Non mi sogno nemmeno di cambiare la legge, né di inginocchiarmi, né di reagire ai commenti occidentali».

La libertà di stampa muore in Ungheria. Il monito scritto su quella prima pagina bianca, in tutte le lingue della “casa comune” chiamata Europa, suona come un grido disperato nel deserto. Con una maggioranza di due terzi del Parlamento, la Fidesz, il partito nazionalconservatore di Orban, può fare e disfare leggi a piacimento. Prepara anche una riscrittura della Costituzione. Zoltan Kovacs, sottosegretario per la government communication al ministero della Pubblica amministrazionee della Giustizia, vicinissimo al premier, si indigna quando qualcuno gli chiede se il governo pensa a una riforma costituzionale in senso più democratico o liberal. «Che cosa vuol dire democratico, o liberal? Noi vogliamo rendere la Costituzione meno socialista», risponde.

L’ ispirazione ideologica è chiara: nazionalismo, conservatorismo cattolico-tradizionalista, più potere all’ esecutivo, più controllo sulla Giustizia. La Corte costituzionale si è già vista sottrarre poteri significativi. «Adesso comunichiamo su Facebook col pubblico», ha spiegato l’ altro giorno Attila Mong. Era una star del gr del mattino, ha perso l’ incarico per aver protestato con un minuto di silenzio al microfono contro la legge sulla stampa. Legge che in qualsiasi altro paese della Ue è giudicata inaccettabile. Un Consiglio dei media, in mano agli uomini della Fidesz, controlla di fatto tv, radio, la principale agenzia di stampa e il primo portale Internet. E soprattutto, il Consiglio dei media ha il potere di punire ogni media, pubblico o privato, che giudichi colpevole di diffusione di notizie politicamente sbilanciate, con multe che nella fragile situazione economica del paese possono mandare più di un’ azienda editoriale in fallimento: dai 90mila euro a ogni “sgarro” per i media cartacei e online, fino a 750mila euro per radio e tv. Non è finita: i giornalisti sono obbligati a rivelare le fonti, «se è in gioco la sicurezza nazionale». Se e quando sia in gioco, lo decide il Consiglio stesso. Una radio privata è stata multata per un motivo del rapper Ice-T che «minaccia la morale dei giovani».

Berlino ha protestato con durezza. E in prima pagina su Die Welt, giornale vicinissimo ad Angela Merkel, un ex consigliere di Helmut Kohl, lo storico professor Michael Stuermer, ha ammonito contro il “Fuehrerstaat” guidato da Orban: un potere senza scrupoli, che a differenza dell’ Austria ai tempi del partito di Haider al governo non lancia slogan autoritari, li traduce in fatti. «Ecco quanto rapidamente una democrazia può distruggersi da sola, quasi come in un remake del film tragico degli autoritarismi antisemiti degli anni Trenta». Ieri hanno protestato i vertici di molte grandi aziende europee, Deutsche Telekom in testa: chiedono sanzioni Ue contro la politica fiscale di Budapest, definita demagogicamente ostile agli investitori stranieri.

Leggi-bavaglio, frusta contro i global player stranieri in nome di un facile anticapitalismo, flat tax per promettere un rilancio economico ignorandoi moniti degli economisti sulla fragilità dei conti pubblici, limiti alla magistratura. E in più ricordo costante con forti toni nazionalisti della “Tragedia del Trianon”, i territori perduti dall’ Ungheria sconfitta nella prima guerra mondiale perché parte dell’ Impero austriaco, e promessa di cittadinanza a slovacchi, romeni o serbi di origine magiara. Atti che inquietano i vicini: che clima graverebbe sull’ Europa se Angela Merkel ricordasse i territori perduti dalla Germania o promettesse passaporti e diritto di voto tedeschi in Alto Adige, in Boemia o in Slesia? Orban va avanti «senza scrupoli, mosso dall’ istinto del potere», accusa l’ ex consigliere di Kohl.
Bruxelles guarda e tace, anche davanti a quella pagina bianca. (Beh. buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Berlusconi fa finta di tenere botta, perché s’aspetta botte e a paura dei botti.

“Mi hanno accusato di tutto, dalle stragi alla mafia, alla corruzione: di tutto. Non c’è nulla da cui io sia stato lasciato esente. Ma io tengo botta” ha replicato il presidente del Consiglio. “Tu mi capisci perché anche tu sei vittima – ha continuato Berlusconi con evidente riferimento alle vicende giudiziarie di don Gelmini – ma io cerco modestamente di imitarti, come tieni botta tu tengo botta io”. Anche perché, ha aggiunto Berlusconi, “deluderemmo tanti se lasciassimo”. Beh, buona giornata.

p.s: Don Pierino Gelmini è stato rinviato a giudizio per avere molestato sessualmente 12 giovani quando erano ospiti della Comunità Incontro di Amelia. Questa la decisione del Gup di Terni Pierluigi Panariello. Il processo comincerà il 29 marzo 2011. Berlusconi sarà ancora in carica?

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Buon Natale agli italiani vittime dell’Italia delle bugie, bugie grosse come il ponte sulla Stretto di Messina.

FS, incubo di Natale sull’intercity- repubblica.it

Sette ore e mezza senza WC. Partiti da Milano alle 7:05 di questa mattina e diretti a Reggio Calabria, i viaggiatori dell’Intercity 1589 si sono ritrovati su un convoglio privo di bagni agibili. Solo a Roma e a Formia il treno ha sostato per quasi un’ora per permettere loro di utilizzare i servisi delle stazioni, accumulando un forte ritardo. Surreale giustificazione di un capotreno: “Forse è colpa dei passeggeri: utilizzano male le toilette”

Tra ritardi e malfunzionamenti, alle Ferrovie dello Stato non è mai servito molto per trasformare in un incubo la vigilia di Natale dei propri utenti. Ma questa volta è davvero difficile immedesimarsi nelle sofferenze provate dai passeggeri del treno Intercity 1589, partito stamani alle 7:05 da Milano e diretto a Reggio Calabria. In viaggio attraverso tutta la Penisola…senza bagni agibili.

Per quei malcapitati viaggiatori la “liberazione” giunge solo a metà percorso, dopo sette ore e mezza di viaggio, alle stazioni di Roma e Formia, dove l’altoparlante si rivolge direttamente a loro con questo annuncio: “Chi vuole usufruire delle ritirate si rechi al binario uno…”. E il personale delle ferrovie ha dovuto anche insistere per persuadere i clienti ad abbandonare le carrozze per raggiungere i servizi delle stazioni.

“Da dieci ore non bevo e non mangio, sapendo di non poter contare su una toilette – racconta Daniela -. E’ vergognoso, sono partita da Milano e devo andare a Palermo: una vigilia di Natale in queste condizioni proprio non me l’aspettavo. E ho avuto paura di scendere, temevo che il treno ripartisse senza di me”. Maria Lucia, altra testimone diretta dell’incredibile situazione. “A Formia abbiamo sentito questo annuncio anni Venti – ricorda -, ci invitavano a ‘usufruire delle ritirate’ lasciando il treno. E’ pazzesco. E nei bagni non c’è nemmeno acqua”.

A Napoli il treno giunge con un’ora e venti di ritardo e con i passeggeri ormai rassegnati.
“Ci sono state due lunghe soste – spiega Salvatore – una di cinquanta minuti a Roma, l’altra di quaranta a Formia, e ora siamo fermi qui, dove finalmente hanno ripristinato l’agibilità di un bagno, uno solo!”.

Sul treno, ovviamente, viaggiano anche bambini e anziani. “Mio marito è cardiopatico, ha subito tre operazioni di ernia – dice Maria – e sono un po’ spaventata all’idea di continuare il viaggio in queste condizioni. Noi siamo diretti a Lamezia”. Indignata anche una madre con le sue due figlie giovanissime: “Viaggiare così con due bambine piccole non è da paese civile”.

Ed è surreale scoprire, tra tante testimonianze, le parole di un capotreno che prova a giustificare così l’accaduto: tutti i bagni del convoglio sono inagibili per colpa “degli utenti: se i servizi sono inaccessibili è forse anche perché vengono utilizzati male”.
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia

La rabbia sociale: un monito alle politiche del Governo e alle alchimie dell’opposizione.

Non si capiscono le cose se le si guardano con gli occhi del vorrei dire, ma non posso. Il 14 dicembre a Roma c’ entra niente con gli scontri di piazza del ’77. A quella stagione di furore, per esempio, il governo Andreotti, chiedendo un prestito di ventimila miliardi di vecchie lire seppe dare una risposta: nacquero le cooperative, grazie alla Legge 285. I giovani incazzati trovarono una via d’uscita, trovarono la via di un reddito.

Il 14 dicembre a Roma, ma non solo a Roma, in tutta Italia, ci sono state grandi manifestazioni: studenti, metalmeccanici, mamme di Napoli, terremotati de L’Aquila. Tutti in piazza, tutti credevano fosse giusto fare qualcosa di concreto in un Paese il cui Parlamento avrebbe sfiduciato il governo Berlusconi. Almeno questo.

Ma così non è stato. Il Parlamento, il tempio della democrazia di un Paese a democrazia parlamentare ha tradito il Paese: alcuni piatti di lenticchie hanno comprato il consenso in Aula, hanno determinato la sopravivenza , almeno per ancora qualche settimana, del governo Berlusconi. Così è, con buona pace delle opposizioni parlamentari. Il governo è riuscito a salvare se stesso. E chi ha pensato di fare che per le contraddizioni sociali del Paese? Nessuno.

Adesso, parliamoci chiaro: di fronte ai quei piatti di lenticchie, che cosa saranno mai stati petardi, tre o quattro automobili incendiate, scazzottamenti, tafferugli, vetrine imbrattate? Per favore, vogliamo fare la proporzione degli avvenimenti coi fatti politici? Che cosa sono mai due pietre scagliate contro i poliziotti, di fronte allo scempio della convivenza civile, che è andato in scena alla Camera dei Deputati, dove aleggiava la compravendita del consenso ad personam degli eletti.

Il capo della Polizia è stato più chiaro di ogni commentatore da strapazzo: Manganelli ha detto chiaro e tondo che non si può scaricare sull’ordine pubblico il peso delle ingiustizie sociali prodotte dalle politiche del governo in carica. Anche perché i poliziotti sono molto più incazzati col governo di quanto non siano apparsi i manifestanti dello scorso 14 dicembre.

Facciamola finita con la storia del black bloc. Sono palle inventate per intrattenere il pubblico televisivo. Ma le tensioni sociali non sono materia di un reality show. E il pubblico non ci sta più a fare il pubblico: mentre i ragazzi e le ragazze facevano casino, il pubblico stava dalla parte loro. Perché era la parte giusta: di quelli che non ce la fanno più.

La Politica non è riuscita a fornire nessuna via d’uscita dalla crisi. Ma una via d’uscita è necessaria. Con le buone o con le cattive. Berlusconi ricomincia da tre (voti in Parlamento). I giovani, gli studenti, i precari, i cassaintegrati, i cittadini asfissiati dalla monnezza, i ricercatori sui tetti, i migranti, gli imprenditori piccoli, da che cosa possono ricominciare? Forse la rabbia sociale è un buon inizio. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Media e tecnologia

Gli scontri del 14 dicembre a Roma: “In troppi hanno visto black bloc che non c’erano”.

di CORRADO ZUNINO-repubblica.it

È il governo ad alzare le barricate, questa volta. E loro, quelli del movimento studentesco, questa volta eviteranno lo scontro: “Li sorprenderemo”. L’esecutivo si appresta a battezzare il Daspo per gli studenti che restano impigliati nei fermi della celere: universitari come gli ultras. E il ministro Roberto Maroni per martedì prossimo prospetta la fortificazione dell’area della “zona rossa” attorno ai palazzi della politica. Martedì, infatti, torna al Senato per la sua approvazione definitiva la riforma dell’Università: mercoledì dovrebbe essere licenziata grazie alla blindatura del governo sugli emendamenti e con i voti favorevoli dei finiani. Per due giorni e per la terza volta in poche settimane il centro storico di Roma sarà interdetto agli studenti in corteo con i blindati messi di traverso alle strade d’accesso.

“Ogni atto del governo, ogni successivo inasprimento dell’ordine pubblico, dimostrano che hanno paura della nostra protesta”, dice Francesco Brancaccio, dottorando in Scienze politiche alla Sapienza di Roma. “Una zona rossa sempre più blindata offende l’idea di una Roma città aperta, idea che dovrebbe essere di tutte le forze politiche. Il Daspo è una limitazione della libertà di manifestare e per noi è incostituzionale. Ridurre un fenomeno politico e sociale a un problema di ordine pubblico è la peggiore delle risposte possibili”. Quindi, manifesterete o no? “Siamo un movimento intelligente, che sa spiazzare. Da domani
torniamo a discutere nelle facoltà, ma è già chiaro a tutti: ci mobiliteremo e la polizia non ci troverà dove ci sta aspettando. Non cadremo nelle trappole che vogliono tenderci”. Gli ultimi due “mob” dell’anno saranno quindi a sorpresa e terranno conto del fatto che molti universitari stanno già lasciando le facoltà per i rientri natalizi.
All’Università orientale di Napoli domani ci sarà un incontro con gli studenti di Londra e Atene per sottolineare come l’allargamento in tutta Europa di moti violenti sia il segnale di “una crisi sociale a cui i governi voltano le spalle”.

Giovanni Pagano, Scienze politiche a Napoli: “Il diritto a manifestare non è paragonabile a una partita e gli studenti, dopo la giornata del 14 con tutti i suoi problemi, sono più motivati di prima. Piazza del Popolo ci ha cambiati, ma non ci ha frenato”. A Napoli sono ripartite le occupazioni delle scuole superiori e mercoledì è previsto un corteo cittadino. “C’è voglia di tornare in piazza, non c’è l’ansia. Lo faremo in modo ironico”. Alla Sapienza romana domani ci saranno riunioni nelle singole facoltà, e poi dell’intero ateneo, per preparare il martedì della protesta. Luca Cafagna, Scienze politiche: “Viviamo questi nuovi provvedimenti come una provocazione, una richiesta di scontro frontale, e non ci scontreremo. Continuare ad evocare lo spettro della violenza degli Anni Settanta è un ottimo modo per non capire che gli studenti hanno grossi problemi oggi. Noi non facciamo ideologia, il governo sì”.

L’opposizione alla “Gelmini” avrà tempi lunghi e il movimento si prepara a una fase di interdizione sostanziale nei confronti del decreto nel momento in cui diventerà legge. “È un provvedimento tecnicamente difficile, con una pletora di decreti attuativi che impegneranno nel tempo il governo e i tecnici del ministero. Noi daremo battaglia su ogni punto”. Dalla scuola secondaria arriva l’esempio delle difficoltà concrete che le riforme Gelmini stanno incontrando. I sindacati segnalano che a Torino ottanta scuole fin qui non hanno accettato la sperimentazione che dovrebbe portare alla scelta dei professori da premiare: il “no”, in questo caso, è stato dei docenti. “Il campo di battaglia è ampio”, assicurano gli universitari. Quelli del Mamiani, liceo di Roma, ieri hanno consegnato occhiali di cartone ai giornalisti, miopi nelle interpretazioni degli scontri di Piazza del Popolo: di CORRADO ZUNINO

ROMA – È il governo ad alzare le barricate, questa volta. E loro, quelli del movimento studentesco, questa volta eviteranno lo scontro: “Li sorprenderemo”. L’esecutivo si appresta a battezzare il Daspo per gli studenti che restano impigliati nei fermi della celere: universitari come gli ultras. E il ministro Roberto Maroni per martedì prossimo prospetta la fortificazione dell’area della “zona rossa” attorno ai palazzi della politica. Martedì, infatti, torna al Senato per la sua approvazione definitiva la riforma dell’Università: mercoledì dovrebbe essere licenziata grazie alla blindatura del governo sugli emendamenti e con i voti favorevoli dei finiani. Per due giorni e per la terza volta in poche settimane il centro storico di Roma sarà interdetto agli studenti in corteo con i blindati messi di traverso alle strade d’accesso.

“Ogni atto del governo, ogni successivo inasprimento dell’ordine pubblico, dimostrano che hanno paura della nostra protesta”, dice Francesco Brancaccio, dottorando in Scienze politiche alla Sapienza di Roma. “Una zona rossa sempre più blindata offende l’idea di una Roma città aperta, idea che dovrebbe essere di tutte le forze politiche. Il Daspo è una limitazione della libertà di manifestare e per noi è incostituzionale. Ridurre un fenomeno politico e sociale a un problema di ordine pubblico è la peggiore delle risposte possibili”. Quindi, manifesterete o no? “Siamo un movimento intelligente, che sa spiazzare. Da domani
torniamo a discutere nelle facoltà, ma è già chiaro a tutti: ci mobiliteremo e la polizia non ci troverà dove ci sta aspettando. Non cadremo nelle trappole che vogliono tenderci”. Gli ultimi due “mob” dell’anno saranno quindi a sorpresa e terranno conto del fatto che molti universitari stanno già lasciando le facoltà per i rientri natalizi.
All’Università orientale di Napoli domani ci sarà un incontro con gli studenti di Londra e Atene per sottolineare come l’allargamento in tutta Europa di moti violenti sia il segnale di “una crisi sociale a cui i governi voltano le spalle”.

Giovanni Pagano, Scienze politiche a Napoli: “Il diritto a manifestare non è paragonabile a una partita e gli studenti, dopo la giornata del 14 con tutti i suoi problemi, sono più motivati di prima. Piazza del Popolo ci ha cambiati, ma non ci ha frenato”. A Napoli sono ripartite le occupazioni delle scuole superiori e mercoledì è previsto un corteo cittadino. “C’è voglia di tornare in piazza, non c’è l’ansia. Lo faremo in modo ironico”. Alla Sapienza romana domani ci saranno riunioni nelle singole facoltà, e poi dell’intero ateneo, per preparare il martedì della protesta. Luca Cafagna, Scienze politiche: “Viviamo questi nuovi provvedimenti come una provocazione, una richiesta di scontro frontale, e non ci scontreremo. Continuare ad evocare lo spettro della violenza degli Anni Settanta è un ottimo modo per non capire che gli studenti hanno grossi problemi oggi. Noi non facciamo ideologia, il governo sì”.

L’opposizione alla “Gelmini” avrà tempi lunghi e il movimento si prepara a una fase di interdizione sostanziale nei confronti del decreto nel momento in cui diventerà legge. “È un provvedimento tecnicamente difficile, con una pletora di decreti attuativi che impegneranno nel tempo il governo e i tecnici del ministero. Noi daremo battaglia su ogni punto”. Dalla scuola secondaria arriva l’esempio delle difficoltà concrete che le riforme Gelmini stanno incontrando. I sindacati segnalano che a Torino ottanta scuole fin qui non hanno accettato la sperimentazione che dovrebbe portare alla scelta dei professori da premiare: il “no”, in questo caso, è stato dei docenti. “Il campo di battaglia è ampio”, assicurano gli universitari. Quelli del Mamiani, liceo di Roma, ieri hanno consegnato occhiali di cartone ai giornalisti, miopi nelle interpretazioni degli scontri di Piazza del Popolo: “In troppi hanno visto black bloc che non c’erano”.
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia

Dalla Russia con odio.

“Non sono malato, non ho mai fatto affari privati con la Russia e non ho nessuna intenzione di farmi da parte”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

WikiLeaks: il ministro Frattini non ci ha capito niente.

Chi ha paura della glasnost, di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

SOLO chi ha un’idea cupa dell’informazione indipendente, e paventa persecuzioni non appena se la trova davanti, e per di più nulla sa della rivoluzione in corso nell’universo dei blog, può parlare, come il ministro Frattini, di un 11 settembre della diplomazia scatenato da WikiLeaks contro il mondo bello, composto e civile nel quale siamo supposti vivere. Solo chi fantastica planetarie offensive contro le notizie che da tempo circolano senza confini può credere che al caos comunicativo si debba rispondere, come negli attentati del 2001, con una bellicosa e “compatta alleanza: senza commentare, senza retrocedere sul metodo della diplomazia, senza lasciarsi andare a crisi di sfiducia”.

WikiLeaks non è una cellula terrorista e il suo fondatore, Julian Assange, è magari indagato per violenza privata ma comunque non è un uomo che – la fine osservazione è del ministro – “vuol distruggere il mondo”. Alla mutazione mediatica nata prima di lui non si replica con un globale schieramento, per “continuare a far vivere un metodo della diplomazia” che ha fatto disastri.

Mettere insieme in una battaglia contro Internet Roma e Mosca, Berlino e Kabul prefigura il Brave New World di Huxley, fatto di gente china e sedata dalla droga, il “soma” che rilassandoti uccide ogni critica. Più che un’utopia: una distopia.

Il mostro tanto temuto è la glasnost che d’un tratto irrompe in una zona politica non solo opaca ma sommamente inefficace: la diplomazia, il più chiuso dei recinti, dove il segreto, non sempre immotivatamente, è re. La glasnost è una corrente sotterranea potente, non un breve tumulto come fu Al Qaeda, e l’unica cosa da dire è: la politica ancora non sa fronteggiarla, organizzandosi in modo da disgiungere il segreto indispensabile dal superfluo. Se quello necessario viene alla luce è sua colpa, non di WikiLeaks. In realtà i 250.000 cabli non sono affatto top secret. Sono consultabili da ben 3 milioni di funzionari americani, e disponibili in siti interni al ministero della difesa Usa (Siprnet). Nella globale ragnatela Internet le fughe di notizie (i leaks) sono inevitabili. Scrive Simon Jenkins, sul Guardian: “Un segreto elettronico è una contraddizione in termini”.

Nei paesi democratici, dove l’informazione indipendente esiste, il diplomatico è alle prese con una trasparenza non di rado ostacolata come in Italia, ma tangibile. Non è cancellata dalle ghignanti foto di gruppo dei vertici internazionali, che s’accampano monotoni su giornali e tv. Gli ambasciatori a Roma o Parigi raccontano quel che leggono nei giornali più liberi, che apprendono dai blog, che ascoltano da chi non nasconde il vero.

Si dice: “Ce n’è per tutti”, nei dispacci. Per il Cancelliere tedesco, il regno britannico, l’Eliseo, oltre che per Roma. Nulla di più falso. Se la Merkel appare “refrattaria al rischio e poco creativa”, Berlusconi “suscita a Washington sfiducia profonda”: è “vanitoso, stanco da troppi festini, incapace come moderno leader europeo”. Inoltre “sembra il portavoce di Putin in Europa”. Un abisso separa i due leader. Resta che nelle democrazie le rivelazioni non sono fulmini che squarciano cieli tersi, neanche da noi. I diplomatici Usa comunicano quello che da 16 anni gli italiani hanno sotto gli occhi, sempre che non se li bendino per vivere in bolle illusorie e ingurgitare “soma televisivo”. Sanno dei festini in dimore private spacciate per pubbliche. Sanno che Berlusconi coltiva con Putin rapporti personali torbidi, lucrosi, di cui non rende conto né all’Europa né al popolo che pure tanto s’affanna a definire sovrano. Non c’è bisogno di WikiLeaks per conoscere la pasta di cui son fatti i governanti, per capire lo scredito internazionale che non da oggi li colpisce, per allontanarli dal potere che democraticamente hanno occupato, e poco democraticamente esercitato.

Non così lì dove non c’è democrazia e nelle aree di crisi, nonostante le verità siano in larga parte note anche qui, a chi voglia davvero sapere. Non c’è praticamente notizia che i blog non dicano da anni (Tom Dispatch, Antiwar. com, Commondreams, Counterpunch, e in Italia, nel 2005-2010, Contropagina di Franco Continolo).

L’altra cosa che va detta è che gli ambasciatori che divulgano informative non sono sempre di qualità eccellente, e forse anche questo, in America, crea imbarazzo. Nelle aree critiche – Italia compresa, dove gli equilibri democratici vacillano – non hanno idee meticolosamente maturate, né si azzardano in analitici suggerimenti e prognosi. Fotografano l’esistente, sono figli essi stessi di Internet, tagliano e incollano schegge di verità senza osare approfondimenti. Nulla hanno in comune, ad esempio, con l’immensa ricerca in cui si sobbarcò George Kennan nel ’44-46, lavorando per la missione Usa a Mosca. Il “lungo telegramma”, che inviò nel febbraio ’46 al Segretario di Stato James Bynes, descrive la natura oscura del sistema sovietico: le sue forze, le fragilità, il suo nevrotico bisogno di un mondo ostile. Ne scaturì l’articolo scritto nel luglio ’47 su Foreign Affairs, firmato X: fondamento di una politica (il containment) che per decenni pervase la guerra fredda senza infiammarla.

Nulla di analogo nei dispacci odierni, ma messaggi raccogliticci, frammentari, pericolosi infine per le fonti, nei paesi a rischio. Non la forza americana è esposta alla luce, ma la sua inconsistenza. Non un impero nudo, ma una finzione d’impero che addirittura usa i propri diplomatici – colmo di insipienza e mala educazione da parte di Hillary Clinton – come spie all’Onu. L’occhio Usa non scruta il lontano ma l’oggi, sposando non pochi luoghi comuni locali. La glasnost online sbugiarda questo modo di scrutare, e non è male che avvenga. Fa vedere l’impotenza, l’approssimazione, l’inefficacia americana. Inefficacia pur sempre limitata, perché i dispacci non paiono contaminati dai conformismi di tanti commentatori italiani: difficile trovare accenni, nei cabli, alla “rivoluzione liberale” o all’epifanico ruolo di Berlusconi nelle crisi mondiali.

Il vero scandalo è lo spavento che tutto questo suscita, lo sbigottimento davanti a notizie spesso banali, solo a tratti rivelatrici (è il caso, forse, del nesso stretto Nord Corea-Iran), l’imperizia Usa nel tutelare confidenze e confidenti. Ora si vorrebbe fare come se nulla fosse, “tener viva la diplomazia” così com’è: ottusamente arcana, lontana dallo sguardo dei cittadini. Ma quale diplomazia? Nel caso italiano una diplomazia chiamata commerciale dal governo perché essenzialmente fa affari, e all’estero riscuote in realtà “sfiducia profonda”.

Dicono che Berlusconi si sia fatto una gran risata, non appena letti i dispacci. Forse ha capito più cose di Frattini, perché lui la diplomazia classica l’ha già distrutta. E non solo la diplomazia ma l’informazione indipendente, e in Europa la solidarietà energetica. Forse ride delle banalità diffuse da WikiLeaks. Forse intuisce che se si parlerà molto di festini, poco si parlerà di conflitto d’interessi, controllo dei media, mafia. È il limite di Assange, enorme: avrà minato la fiducia nella diplomazia Usa, senza dare informazioni autenticamente nuove (la più calzante parodia del cosiddetto 11 settembre di Assange l’ho trovata su un sito di cinefili 1).

Resta la sfida alla stampa: sfida al tempo stesso ominosa e straordinariamente promettente. È vero: nel medio-lungo periodo crescerà il numero di chi si informerà su Internet, più che sui giornali cartacei. Ma da quest’avventura la stampa esce come attore principe, insostituibile: messa di fronte ai 250 milioni di parole sparse come polvere sugli schermi WikiLeaks, è lei a fare la selezione, a stabilire gerarchie, a rendere intelligibile quello che altrimenti resta inintelligibile caos, ad assumersi responsabilità civili contattando le autorità politiche e nascondendo il nome di fonti esposte dai leaks a massimi rischi. Alla rivoluzione mediatica ci si prepara combinando quel che è flusso (Internet) e quel che argina il flusso dandogli ordine (i giornali scritti). L’unica cosa che non si può fare è ignorare la sfida, negare la rivoluzione, opporle sante alleanze conservatrici del vecchio.

Immagino che non fu diversa l’alleanza anti-Gutenberg quando nel XV secolo apparve la stampa, e anche allora vi fu chi, con le parole di quei tempi, parlò di un 11 settembre contro gli establishment: politici e culturali, delle chiese e degli imperi. (Beh, buona giornata).

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About Wikileaks.

Alexander Stille- la Repubblica

Le prime rivelazioni sui comunicati diplomatici fatti uscire da Wikileaks provocano varie riflessioni. Come giornalista sono una miniera di particolari affascinanti del mondo chiuso della diplomazia, particolari che rendono fresche e colorate quelle che sono normalmente le noiose strette di mano che vediamo fotografate sulle prime pagine del giornale, la materia prima di cui è fatta la storia, per cui di solito bisogna aspettare decenni prima che si possano aprire gli archivi.

Dal punto di vista del cittadino questo flusso continuo di materiale riservato desta qualche preoccupazione: diventa sempre più difficile condurre la diplomazia, basata sulla riservatezza e la possibilità di offrire giudizi candidi ai propri colleghi e superiori.

Finora viene fuori un’immagine abbastanza positiva del livello dei diplomatici americani come ha scritto la storico Timothy Garton Ash: “La mia opinione personale del Dipartimento di Stato si è alzata di diversi gradi…molto di quello che troviamo qui è lavoro di prim’ordine”. Da quello che si legge si capisce l’enorme complessità e difficoltà dell’attuale situazione internazionale, le mille insidie e minacce presentate dal terrorismo, l’intreccio complesso di interessi strategici, le fragili personalità umane. Si vede spesso con occhio disincantato i grandi della terra, dove il potere (soprattutto il potere quasi senza limiti) porta a comportamenti stravaganti e spesso paranoici. Pensiamo alle descrizioni del dittatore libico Gheddafi, che viaggia sempre con la sua infermiera ucraina o il leader ceceno che balla ad un matrimonio in un bagno di vodka, pistola in tasca, insieme a connazionali musulmani.

Nel caso italiano i diplomatici americani hanno colto due elementi importanti. Il delirio di onnipotenza di Berlusconi, la sua vita privata stravagante e disordinata e la sua incapacità di distinguere tra interessi privati e quelli pubblici l’hanno reso una persona inaffidabile. La situazione va molto oltre i problemi posti dai festini del Presidente del Consiglio. La preoccupazione, espressa ai più alti livelli anche dal Segretario di Stato Hillary Clinton, è che ci potrebbero essere affari economici sottobanco tra il presidente russo Vladimir Putin e Berlusconi. Certamente c’è qualcosa di molto strano e di molto malsano in questo rapporto: i lunghi viaggi in Russia di Berlusconi, spesso con appuntamenti ufficiali limitati, le vacanze di Putin e famiglia nelle ville in Sardegna di Berlusconi, la rivelazione sconcertante che la prostituta Patrizia d’Addario ha passato la notte in quello che Berlusconi ha chiamato “il letto di Putin”. Non sono rapporti normali da capi di Stato.

È arcinota la tendenza del Presidente del Consiglio, da vecchio imprenditore, di captare al volo opportunità imprenditoriali in qualsiasi momento e situazione: in un paese normale ci sarebbe già una commissione parlamentare per chiarire se ci sono rapporti d’affari tra il leader russo e quello italiano. A sentire le voci, Putin con il controllo quasi assoluto della ricchezza energetica del suo paese sarebbe in grado di canalizzare una parte de flusso energetico dove gli pare, arricchendo se stesso e i suoi partner scelti con contratti che valgono miliardi. Se cosi fosse con il leader italiano, Putin avrebbe la possibilità di condizionare pesantemente la politica estera di uno dei membri chiave dell’Unione Europea e della Nato. Effettivamente, come ha osservato la diplomazia americana, Berlusconi è sembrato il portavoce di Putin in Europa. E quindi il sospetto c’è. Sarebbe giusto sapere se fondato o meno.

Non so se introdurre questi elementi di franchezza nel mondo cortese e un po’ ipocrita della diplomazia faccia del bene o del male. Molto spesso la diplomazia esige che si faccia buon viso a cattivo gioco, che si vada d’accordo con persone che non piacciono particolarmente e che ci sia una certa ipocrisia (una qualità spesso troppo denigrata), necessaria per armonizzare gli interessi conflittuali e separare i sentimenti privati dal bene pubblico.

In questo caso sono particolarmente affascinanti le discussioni private su molti leader Arabi che in privato incitano gli stati Uniti a fermare il programma nucleare iraniano, mentre in pubblico protesterebbero se gli Stati uniti o Israele facessero qualcosa di concreto. La situazione mi ricorda un’osservazione molto acuta di Thomas Friedman, un giornalista con molta esperienza nel Medio Oriente: mentre in molti casi conta di più cosa dicono in leader in privato rispetto a quello che dicono in pubblico, Friedman sostiene che nel mondo arabo conta di più quello che dicono in pubblico rispetto a quello che dicono in privato. Quindi il fatto che molti leader arabi si dimostrino ragionevoli sulla coesistenza con Israele in privato, ma gridano ‘morte ad Israele’ davanti alle folle nei loro paesi, è indicativo, perche si sentono vincolati dall’opinione pubblica dei loro paesi, e quindi in questi casi vale di meno la parola privata. Perciò sarà interessante vedere se chiudere il divario tra dichiarazioni private e pubbliche sia un bene o un male. (Beh, buona giornata).

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Wikileaks è «l’11 settembre della diplomazia» o «l’11 settembre di internet»?

di Pino Cabras – Megachip.

Ora che ci dicono che con le prime nuove soffiate di Wikileaks sta esplodendo «l’11 settembre della diplomazia» ovvero «l’11 settembre di internet», deve valere una premessa: non ci sono individui, e neanche organizzazioni, che siano in grado di leggere 250mila documenti in breve tempo. Quindi ci arriva solo un flusso filtrato di documenti. E chi lo filtra, per ora, è la vecchia fabbrica dei media tradizionali. Se di un 11 settembre si trattasse, saremmo nella fase del trauma mediatico iniziale, quella che ci dà l’imprinting, l’apprendimento base del nuovo mondo su cui ci affacciamo e delle nuove credenze sulle quali far fede. Una volta educate le menti con questo shock, le sue riletture successive andranno controcorrente e perciò partiranno sfavorite.

Il primo imprinting è proprio nell’idea del trauma, l’idea dell’ora zero dell’evento. Il mezzo è il messaggio. Mezzo e messaggio sono: vivere un trauma. Come se prima del percolare dei segreti attraverso Wikileaks non vi fosse modo di interpretare la politica, la diplomazia, i segreti, le normali trame degli Stati. Come se l’interpretazione storica – anch’essa basata su archivi e documenti, ma in tempi più lunghi e meditati – adesso dovesse cedere il passo e appiattirsi sull’evento emotivo.

Il secondo imprinting è sull’importanza attribuita ai temi cari alla diplomazia statunitense. Leggiamo i dispacci degli ambasciatori, scritti in modo franco e brutale, ma non per questo esenti da falsità, errori prospettici, pregiudizi, goffe banalità, chiusure. Vediamo cioè soltanto i pezzi di una visione del mondo che tuttavia non è l’unica in campo. Si continua a enfatizzare e cristallizzare per esempio la paura dell’inesistente atomica iraniana, mentre si continuano a ignorare le esistenti atomiche israeliane. Wikileaks e i media tradizionali, se combinati assieme, confermano insomma i temi dell’agenda dominante ma sconvolgono i codici della diplomazia. Proprio quel che fa la guerra, specie nella sua variante della guerra psicologica.

Il terzo imprinting è lo scompiglio sul web, talmente forte da risvegliare coloro che dal caos vorrebbero trarre un nuovo ordine sulla Rete. Due anni fa pubblicammo l’allarme del giurista che meglio conosce la Rete, Lawrence Lessig, il quale prediceva che «sta per accadere una specie di ’11 settembre di internet’», un evento che catalizzerà una radicale modifica delle norme che regolano la Rete. Lessig rivelava che il governo USA, così come aveva già pronto il Patriot Act ben prima dell’11 settembre, aveva già «un ‘Patriot Act per la Rete’ dentro qualche cassetto, in attesa di un qualunque considerevole evento da usare come pretesto per cambiare radicalmente il modo in cui funziona internet». Così come George W. Bush, anche Obama sta facendo di tutto per avere, oltre alla valigetta nucleare, anche i bottoni per spegnere il web. L’evento in corso potrebbe spingere molti governi a voler affidare a qualcuno la nuova valigetta del potere. La Cina traccia il solco da tempo, del resto.

Il quarto imprinting è l’idea che i segreti siano tutti registrati, ben custoditi dai fogli con la carta intestata degli apparati, e perciò prima o poi inevitabilmente rivelati, con tanto di numero di protocollo e firma. Gran parte del vero potere è invece fuori scena: non scrive i suoi ordini, non ha catene di comando interamente tracciabili, è silente, sta in circuiti extraistituzionali, si giova di strati di copertura, di strutture parallele, di leve lunghe. Si avvale nondimeno di apparati e procedure legali, ma senza dichiararne le vere finalità. È un’illusione tanto ingenua ritenere che Wikileaks possa scoperchiare tutti gli strati del potere, tanto quanto ritenere che i veri potenti si possano combattere solo amplificando la trasparenza liberale.

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A margine, qualche considerazione dal lato italiano sul caso Wikileaks. Il Caimandrillo (caimano e mandrillo) ha intuito che il colpo per lui c’è, ed è forte. Dice di essersi fatto una risata. Ma forse non è stata troppo fragorosa. Lui, padrone di un medium tradizionale, la Tv, che ha portato alle sue estreme conseguenze, diffida di un medium, il web, che gli è forestiero né potrà mai controllare. Nel mondo ci sono altri caimani e ora vorrebbe anche farlo sapere in giro, fra un “wild party” e un altro, quando scatena i suoi comunicatori per denunciare un complotto internazionale contro di lui. Gli inventori del “trattamento Boffo” nulla potranno però contro un trattamento Boffo al cubo.

Il Caimandrillo ha voluto partecipare al grande gioco mondiale non da leader che trascina una nazione, ma da padrone che la divide, la estenua e non la porta tutta. Nel grande gioco ora appare ritratto in mutande, lo vedono per quel che è: non è il padrone dell’Italia, è solo il padrone di un suo segmento affaristico. Altri padroni si preparano a spolpare il paese diviso, senza che sia in pista una classe dirigente in grado di instaurare un minimo di sovranità nazionale capace di difendere gli interessi vitali dell’Italia. (Beh, buona giornata).

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Wikileaks: Berlusconi? “incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno”. Parola di Elizabeth Dibble, dell’ambasciata USA a Roma. A quando le dimissione del leader “fisicamente e politicamente debole” le cui “frequenti lunghe nottate e l’inclinazione ai party significano che non si riposa a sufficienza”?

Berlusconi incapace, portavoce di Putin. “Incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno”: questo il giudizio dell’incaricata d’affari americana a Roma Elizabeth Dibble sul presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Non solo: il presidente del Consiglio italiano è un leader “fisicamente e politicamente debole” le cui “frequenti lunghe nottate e l’inclinazione ai party significano che non si riposa a sufficienza”. Secondo i documenti svelati da Wikileaks, il premier italiano è visto con scarsa fiducia, se non con aperto sospetto, per i suoi rapporti con Vladimir Putin, di cui viene definito il “portavoce in Europa”. I rapporti americani parlano di rapporti sempre più stretti tra i due leader, conditi da “regali sontuosi” e da “contratti energetici lucrativi”. I diplomatici segnalano anche la presenza di “misteriosi intermediari”. Nei documenti appare anche il ministro degli Esteri Franco Frattini, che avrebbe espresso “frustrazione per il doppio gioco di espansione verso l’Europa e l’Iran da parte della Turchia”. Beh, buona giornata.

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