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Vanno male i consumi, scende il livello di fiducia dei consumatori. La tempesta perfetta non accenna a diminuire: l’online non salva la pubblicità.

Secondo i risultati della ricerca “Nielsen Global Online Consumer Confidence” nel secondo trimestre 2011 la fiducia dei consumatori globali è scesa al minimo in sei trimestri. “Non ci sono state sufficienti notizie positive per ispirare fiducia nei consumatori online a livello mondiale nel secondo trimestre”, ha affermato Venkatesh Bala, Chief Economist The Cambridge Group, Nielsen. “Dati economici deboli, inflazione e performance produttive rallentate in Asia, l’intensificazione del debito in Europa e la continua instabilità politica in Medio Oriente, oltre all’aumento delle spese domestiche negli US, hanno influenzato la già scarsa fiducia dei consumatori. Le speranze di una piena ripresa economica nei prossimi 12 mesi si sono indebolite nel secondo trimestre e i consumatori di tutto il mondo sono rimasti legati a una mentalità di recessione.”

Il Nielsen Global Consumer Confidence Index, dal 2005 misura la fiducia di oltre 31.000 consumatori internet in 56 Paesi del mondo, le maggiori preoccupazioni e le intenzioni di spesa. Livelli di fiducia sopra e sotto 100 indicano il livello di ottimismo e pessimismo. Nell’ultima ricerca condotta tra il 20 maggio e il 7 giugno 2011, a livello mondiale la fiducia dei consumatori online è scesa di tre punti indice, da 92 a 89 – il livello più basso dal quarto trimestre 2009. Negli Stati Uniti la fiducia è scesa di cinque punti indice posizionandosi a 78, di due punti inferiore agli 80 registrati nel primo semestre del 2009, al culmine della recessione globale. Il livello di fiducia in Europa (74 punti indice) è rimasto sostanzialmente immutato rispetto al trimestre precedente anche se i consumatori europei rimangono i più pessimisti al mondo con differenze nei vari Paesi.

In Italia l’indice di fiducia ha subito una leggera flessione, 55 punti indice rispetto ai 57 del trimestre precedente, dopo la diminuzione importante verificatasi proprio nel primo trimestre 2011 (-14 punti indice). I principali fattori sono legati ad un trend negativo in termini di prospettive di lavoro e di finanze personali per i prossimi 12 mesi. Il 42% dei consumatori italiani (rispetto al 39% del trimestre precedente) ritiene infatti che le prospettive di lavoro del Paese saranno in peggioramento nei prossimi 12 mesi; per quanto riguarda invece le proprie prospettive finanziarie la percentuale passa dal 21 al 23%. Economia e posto di lavoro rimangono per gli italiani le maggiori preoccupazioni mentre il timore della guerra, che aveva subito un picco nel secondo trimestre (8% +7 punti percentuali rispetto al 4^ trimestre 2010) torna a preoccupare in misura minore (2%). La già modesta percentuale di coloro che nel trimestre precedente pensavano di poter uscire dalla recessione si è ulteriormente ridotta. Oggi solo il 15% degli italiani pensa che il nostro Paese uscirà dalla recessione nei prossimi 12 mesi. Si consolida la percentuale di chi non riesce più a risparmiare (circa ¼ della popolazione) e per cercare di rimanere all’interno del proprio budget di spesa gli italiani continuano a spostarsi sull’acquisto di prodotti grocery più economici.

Anche se ancora al di sotto della media europea (74), l’aumento di 8 punti dell’indice di fiducia in Francia (da 61 a 69), è stato il risultato della crescita economica dell’1% nel primo trimestre, la crescita più significativa per il Paese dal secondo trimestre 2006. Lo scatto della crescita economica in Francia all’inizio dell’anno ha superato le aspettative e il governo prevede una crescita del 2% entro la fine dell’anno. Questa fiducia ha contagiato i consumatori francesi: uno su tre (il 33%) si aspetta che le proprie finanze personali per il prossimo anno siano buone/ottime, rispetto al 25% del primo trimestre 2011. In Grecia, la crisi economica, la crescita del debito e le diffuse proteste interne hanno determinato un ulteriore calo della fiducia dei consumatori di quattro punti nel secondo trimestre 2011 posizionando così il Paese come il più pessimista del mondo con un livello di fiducia pari a 41 punti.

Rispetto al trimestre precedente le regioni del Medio Oriente, Africa e dell’Asia Pacifico hanno registrato il massimo declino, rispettivamente di 12 e 9 punti indice, confermando il trend di un anno fa. I più grandi cali di fiducia nel secondo trimestre sono stati registrati in Egitto (-10) e Arabia Saudita (-11), che avevano goduto dei maggiori incrementi nel primo trimestre 2011, ma che mostrano trend coerenti con lo scorso anno. “In Egitto, l’ottimismo post-rivoluzione è stato sostituito da una visione più realistica della situazione del Paese e da una maggiore consapevolezza delle condizioni economiche del periodo”, ha affermato Ram Mohan Rao, Managing Director, Nielsen Egitto. “In Arabia Saudita l’ondata di ottimismo del primo trimestre, dovuta all’introduzione di denaro aggiuntivo nel mercato da re Abdullah, è stato attenuato in quanto i consumatori hanno subito l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e dell’inflazione immobiliare dovuti alla maggiore liquidità sul mercato” ha dichiarato Arslan Ashraf, Managing Director, Nielsen Arabia Saudita.

I consumatori indiani (126 punti indice), nonostante un calo di cinque punti su base trimestrale, sono i più positivi rispetto alle prospettive di lavoro e alle finanze personali e il loro livello di fiducia è sempre stato il più alto dal 2005. “Una serie di fattori stanno influenzando i consumatori indiani: nonostante siano i più ottimisti del mondo, la crescita dell’inflazione, l’aumento dei prezzi del carburante e un clima di incertezza dell’economia mondiale influenzano una visione positiva”, ha affermato Justin Sargent, Managing Director, Nielsen India.

8 su 14 mercati in Asia Pacifico hanno registrato un calo nel secondo trimestre, con valori più alti in Australia (-8 punti) e Singapore (-6 punti). L’indice di fiducia in Australia è in diminuzione dal terzo trimestre 2010. “Le famiglie australiane sono state colpite duramente da un aumento generale dei prezzi ” ha dichiarato Chris Percy, Managing Director, Nielsen Pacifico. “Le inondazioni dello scorso gennaio inoltre hanno limitato la raccolta di frutta e verdura e hanno avuto effetti sui costi di produzione causando un aumento dei prezzi degli alimentari. L’aumento dei prezzi erode i bilanci famigliari e stringere la cinghia è la norma per molte famiglie australiane.”

Malesia, Nuova Zelanda, Filippine e Corea del Sud registrano un aumento di fiducia mentre Hong Kong rimane stabile. La fiducia dei consumatori cinesi è scesa di tre punti su base trimestrale posizionandosi a 105 ed è di quattro punti al di sotto della percentuale registrata un anno fa (109). “Il lieve calo della fiducia dei consumatori in Cina è dovuto all’inflazione, che rimane un problema importante nella mente dei consumatori. Nonostante l’inflazione in aumento negli ultimi tre mesi, non ci sono segnali di rallentamento dei consumi anche quelli discrezionali. La continua forza dei consumi interni è un riflesso del continuo ottimismo generale dell’economia trainato dalla crescita dei livelli di reddito”, ha dichiarato Karthik Rao, Managing Director, Nielsen Gretear China.

“I dati del secondo trimestre evidenziano che i consumatori pensano ancora alla recessione, stanno stringendo la cinghia e contenendo le spese dopo gli ultimi 12 mesi di lento miglioramento” ha affermato Bala. “Secondo l’ultima ricerca, le intenzioni di allocazione di consumo sono diminuite rispetto a tre mesi fa a livello globale in tutti gli ambiti discrezionali: investimenti in borsa, acquisto di abbigliamento, vacanze e aggiornamento della tecnologia”.

Il 58% dei consumatori a livello globale ritiene di essere ancora in una fase di recessione e di questi, più della metà (il 51%) pensa che lo sarà ancora tra un anno. In Asia Pacifico la percentuale di coloro che ritengono di essere ancora in recessione è del 45% rispetto al 37% del primo trimestre 2011. In Medio Oriente e Africa la recessione economica è un dato di fatto per il 74% degli intervistati online – con un incremento di nove punti rispetto a tre mesi fa.

Dodici mesi fa, il 35% dei consumatori online a livello mondiale riteneva che fosse un buon momento per comprare le cose di cui avevano bisogno, nel secondo trimestre del 2011 però questa percentuale è scesa al 27%. In America si è passati dal 27 al 20% e in Asia Pacifico dal 40 al 32%. A livello mondiale un numero sempre maggiore di consumatori si sente a corto di liquidi. L’aumento dei prezzi alimentari è stato ancora una delle principali preoccupazioni dei consumatori globali, superando l’economia come la preoccupazione principale per il secondo trimestre consecutivo. Il 31% dei consumatori ha dichiarato di non avere denaro rimanente dopo aver coperto le spese essenziali, il 25% in Medio Oriente, Africa e il 22% in Europa.(Beh, buona giornata).

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Ancora a proposito dei simili destini dello Squalo e del Caimano.

Intercettazioni illegali. “Tramonti incrociati” dello Squalo Murdoch e del Sultano Berlusconi, di Gianni Rossi-articolo21.com

Entrambi sono tra gli uomini più ricchi al mondo, anche se la classifica della rivista americana Forbes li inserisce al 118° e al 122° posto per quest’anno. E comunque Berlusconi e Murdoch hanno molte cose in comune. Sposati più volte, amanti delle belle donne possibilmente giovani, con una nidiata di figli e problemi di successione alla guida dei rispettivi imperi, il Sultano di Arcore viaggia tra i 9 e i 7,8 miliardi di dollari come ricchezza personale, mentre lo Squalo australo-americano si aggira tra i 6,3 e i 7,6 miliardi di dollari. Anche se, sempre secondo Forbes, Murdoch (13° posto) è ritenuto più potente di Berlusconi (14° posto) nel ranking speciale sulle capacità di influenzare il mondo degli affari e quello della politica. Le altre similitudini non finiscono qui: entrambi sono feroci populisti, neo-conservatori, operano spregiudicatamente con i media, influenzano i mercati e la politica. Non amano essere contraddetti, non si scusano mai (la colpa è sempre degli altri, dei loro collaboratori e, comunque, loro non sapevano né erano stati messi a conoscenza dei fatti, tutt’al più non ricordano), si ritengono immortali e non delegano in realtà il proprio potere aziendale. Qui finiscono le somiglianze e si entra nel paludoso terreno dei conflitti di interessi. Meno apparenti per lo Squalo, macroscopici per il Sultano!

Murdoch appartiene alla “scuola anglosassone”, per la quale chi sceglie la strada di fare l’imprenditore non può diventare un politico di professione, ma certo può influenzare prepotentemente l’azione dei politici con finanziamenti più o meno occulti, ne determina ascese e cadute con le campagne mediatiche e anche con “armi sporche”, tipo intercettazioni, dossier e corruzione di agenti speciali della polizia, come sta uscendo fuori dalle inchieste giudiziarie sul gruppo News Corporation in Gran Bretagna (ma anche negli Stati Uniti e ora in Australia).

Murdoch, il più potente uomo sulla terra nel campo dei media ora dovrà rispondere delle azioni dei suoi più stretti collaboratori in giro per tre continenti, sottoporsi alla “gogna mediatica”, con le riprese TV delle sue audizioni, come è successo a Londra davanti ai parlamentari della Commissione Interni della Camera dei Comuni. Lo Squalo è stato “denudato”, i suoi balbettii infiorettati di “non so, non mi ricordo” hanno rivelato l’altra faccia dello strapotere di colui che, da oltre 30 anni, ha condizionato le elezioni dei premier britannici, dalla conservatrice Thatcher al neo-laburista Blair, al neo-conservatore Cameron; ma ha anche influito sulle sorti dei governi in Australia e negli Stati Uniti.

Un “imperatore” senza confini che ha fomentato le velleità bellicose di potenti dell’Occidente contro “la civiltà islamica”, portandoci a distruggere città, società, culture ed esseri umani ovunque ci fossero “tesori energetici” da riportare sotto il controllo di alcune multinazionali. Uno Squalo che è riuscito a condizionare i mercati finanziari americani ed europei, contrastando con tutte le sua potenza di fuoco informativa la nascita e l’affermarsi dell’Euro, determinando l’opinione pubblica inglese a schierarsi contro l’ingresso di Londra nell’Eurozona, agitando le peggiori menzogne nei confronti del presidente degli Stati Uniti Obama, fino a spingere i Repubblicani più oltranzisti dei “Tea Party” a contrastarlo sul piano del risanamento del debito pubblico, rischiando così il fallimento di Washington.

Da una parte il suo dogma dell’ Euroscetticismo, che si va estendendo come un virus nei paesi del Nord e dell’Est Europa, dove ha messo radici con i suoi media; dall’altro la sua doppia morale capitalistica, con la difesa ad oltranza delle regole neo-liberismo monetarista, ma furbescamente facendone carta straccia utilizzando sotterfugi illegalità. Ora ci si attende che la giustizia inglese arrivi presto alla scoperta delle responsabilità dirette dei vertici di News Corporation, dopo gli arresti dei big e le dimissioni dei responsabili di Scotland Yard. Soprattutto, però, dovrebbero battere un colpo le Autorità di garanzia europee e le istituzioni dell’Unione Europea contro l’uso distorto dei media.

Una lezione viene comunque da Londra. Una lezione di civiltà, di senso delle responsabilità e di garantismo. I sospettati dello scandalo si sono dimessi dai loro incarichi e sono stati arrestati, poi rilasciati su cauzione, non hanno aspettato di essere rinviati a giudizio. Un capo del governo ha dovuto sostenere un duro confronto alla Camera dei Comuni con l’opposizione, senza sottrarsi alle accuse più dirette. La sua poltrona ora traballa, ma l’opinione pubblica britannica è giudice degli eventi grazie ad una “copertura mediatica”, ad una stampa libera che non strilla e starnazza come accade in Italia contro la “giustizia politica…sommaria…a tempo”, contro “il tintinnare di manette” o “le toghe rosse” che vorrebbero rovesciare la volontà popolare espressa con il voto. Non si attendono, insomma, che le sentenze arrivino in giudicato, per poter esprimere giudizi etici sui comportamenti degli uomini e delle donne “del potere”. Ma è proprio così che si difendono le regole della democrazia!

E’ una lezione che la sinistra dovrebbe prendere ad esempio, quando si affrontano casi inquietanti come le varie cricche, da quella del G8 alla P3 e alla P4, che da decenni all’ombra del regime berlusconiano stanno spolpando lo Stato e imponendo la propria “politica amorale”. Altro che leggi bavaglio contro le intercettazioni, che invece hanno aiutato a scoprire il marciume di questo regime (da ultimo quelle relative al caso di “Annozero”, che è costata a Berlusconi l’iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Roma per abuso d’ufficio). Quelle dei giornali di Murdoch erano, va ricordato, intercettazioni illegali, pagate dalla casa editrice e operate da detective privati, con la probabile collaborazione di forze di polizia. Nessun magistrato le aveva autorizzate.

Cosa succederebbe in Italia se si seguissero le procedure inglesi ed americane? Tutti gli esponenti indagati per gli ultimi scandali si sarebbero dovuti dimettere dai rispettivi incarichi parlamentari, di governo o aziendali. Subito si sarebbero dovute tenere dei confronti parlamentari tra il capo del governo, così come una Commissione parlamentare avrebbe dovuto aprire un’inchiesta parallela a quella della magistratura. Ecco, mentre nella patria di “Alice nel Paese delle meraviglie” le reincarnazioni de lo Stregatto e del Cappellaio Matto vengono inseguite e portate davanti alla giustizia, nel paese dove regnano “pizza, pasta e quacquaraquà”, guai a mettere in dubbio, anche in Parlamento, che Ruby Rubacuori non sia stata la nipote dell’ex-presidente egiziano Mubarak, come stragiurato dal Sultano di Arcore!

Sta qui, purtroppo, tutta la differenza tra società di “Serie A”, come Gran Bretagna e Stati Uniti, e un paese come il nostro, che è al 167° posto su 170 nella speciale e degradante classifica sull’evasione fiscale e, per l’autorevole Freedom House, al 75° posto per la libertà di stampa (Gran Bretagna al 29° e Stati Uniti al 22°). (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Tempi duri per lo Squalo e il Caimano.

Sarà il gioco beffardo delle coincidenze, ma sembrerebbe proprio che, quasi all’unisono, lo Squalo globale e il Caimano nazionale si trovino in pessime acque.

Sia a Murdoch che a Berlusconi è andata liscia per troppo tempo: uno coltivava il sogno di diventare il capo di una compagnia potente e influente come lo sono nel mondo globalizzato colossi del calibro di Microsoft, di Apple, di Google. Berlusconi contava di riuscire a diventare il prossimo presidente della Repubblica Italiana e, salendo al Quirinale, garantirsi l’indulgenza plenaria totale. E invece no.

Lo scandalo del News of the World, vale a dire la corruzione di politici e poliziotti per ottenere informazioni coperte da segreti d’ufficio e poterle utilizzare per produrre scoop e tenere alte vendite e introiti pubblicitari, non ha solo mandato in fumo un affare da 8,1 miliardi di dollari, che era l’obiettivo della scalata della News Corp per il controllo totale di BskyB: quello che è davvero grave per Murdoch è che lo scandalo ha messo a nudo davanti agli azionisti e all’opinione pubblica mondiale il modo di fare affari.

Quanto a Berlusconi, si registra un grave guasto alla sua macchina da soldi, perché il traino della “discesa in campo”, cioè del protagonismo politico in prima persona per tutelare e sviluppare gli affari si è rotto: va male la pubblicità, va male l’editoria, va male la tv, va malissimo anche Endemol.

E come se non bastasse, arriva la batosta dei 560 milioni da pagare all’odiato De Benedetti, l’editore de la Repubblica, il nemico pubblico numero uno, secondo la religione berlusconista. E’ vero che a entrambi, sia allo Squalo che al Caimano è successo più di una volta di passare brutti momenti, ma tutti e due si sono poi risollevati e hanno saputo manovrare per riprendere il vento in poppa. Ma stavolta è diverso. Non di solo di affari, ma di reputazione personale, si tratta.

In Uk e negli Usa ormai si dice ormai ad alta voce che “il metodo News of the World” è il metodo News Corp. Dunque,il problema non è tanto lo scandalo in sè, quanto il durissimo giudizio politico e finanziario che si è levato contro l’impero di Murdoch. In Italia, la motivazione della sentenza della Corte d’Appello con cui la Mondadori dei Berlusconi è stata condannata a risarcire la Cir dei De Benedetti è suonata come una severissima e inappellabile sentenza di condanna al modo con cui Berlusconi ha condotto gli affari che gli hanno permesso di costruire il suo impero mediatico.

D’altra parte, attualmente la sua credibilità in politica si è estinta, come dimostrano gli avvenimenti di questi giorni. Tanto sono sembrati uguali il “metodo News of the World” di Murdoch e il “metodo Boffo” di Berlusconi, tanto sembrano uguali i rispettivi destini personali. Nessuno dei due riuscirà a perseguire fino in fondo i rispettivi sogni.

C’è da augurarsi che alle disgrazie dei due satrapi corrisponda il crollo dei rispettivi imperi monopolistici a favore di una circolazione globale dell’ informazione, meno manipolabile a fini speculativi, sia finanziari che politici. Lo Squalo e il Caimano imponevano che il medium da messaggio diventasse il loro strapotere mediatico.

Per una volta, pare che il messaggio sia pronto a riprendersi il medium: e già pare di sentire un’aria che sa di libertà di stampa e di diritto all’informazione, come fossero beni comuni.Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Citazioni colte o citazioni giudiziarie? I giornali italiani di fronte allo sfacelo del ceto politico.

I grandi filosofi farebbero fatica a essere pubblicati sui nostri giornali-di Piero Ostellino-Il Corriere della Sera.

«L’ ideale che canta nell’ anima di tutti gli imbecilli… è quello di una sorta di Areopago, composto di onest’ uomini, ai quali dovrebbe affidarsi gli affari del proprio paese (…) È strano che, laddove nessuno, quando si tratta di curare i propri malanni o sottoporsi a un’ operazione chirurgica, chiede un onest’ uomo e neppure un onest’ uomo filosofo o scienziato, ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurghi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina e chirurgia… nelle cose della politica si chiedono non uomini politici ma onest’ uomini (…) Le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politici, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere, non già nella politica». Chi l’ avrebbe detto: Benedetto Croce complice della Casta e delle allegre serate di Arcore!

«Da un legno storto come quello di cui è fatto l’ uomo non si può fare nulla di completamente dritto (…) Non pare possibile una storia sistematica come ad esempio quella delle api e dei castori (…) Il mezzo di cui la natura si serve per portare a compimento lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro (degli uomini) antagonismo nella società».

Incredibile: Immanuel Kant non solo teorizza l’ immoralità ma, elogiando «l’ insocievole socievolezza» degli uomini, è contro la stabilità collettiva! «In ogni sistema di morale con cui ho avuto finora a che fare, ho sempre notato che l’ autore procede per un po’ nel modo ordinario di ragionare e stabilisce l’ esistenza di un bene, oppure fa delle osservazioni circa le faccende umane; quando all’ improvviso mi sorprendo a scoprire che, invece di trovare delle proposizioni rette come di consueto dai verbi è e non è, non incontro che proposizioni connesse con dovrebbe e non dovrebbe… Poiché questi dovrebbe e non dovrebbe esprimono una relazione o affermazione nuova, è necessario che… si adduca una ragione di ciò che sembra del tutto inconcepibile, cioè del modo in cui questa nuova relazione può essere dedotta dalle altre, che sono totalmente diverse da essa».

Inconcepibile: David Hume nega la possibilità razionale di produrre «svolte epocali»! Temo che Croce, Kant, Hume incontrerebbero qualche difficoltà a pubblicare i loro scritti sui nostri media. Ogni giorno, la storia del Pensiero finisce in quella «Tomba del pensiero» che è il giornalismo. Trionfa il nulla, che oscilla fra l’ anatema da curva Sud contro l’ avversario e la banalità del «politicamente corretto». E ha una sola attenuante: di ignorare la storia intellettuale di duemila anni. Etica, Politica, Diritto finiscono in una sorta di insalata russa; si diffonde il lessico dell’ «anima di tutti gli imbecilli»; che nega che l’ uomo sia una miscela di bene e di male e prefigura una storia tutta Bene, scritta dalle Procure, o tutta Male, scritta dai politici; che attribuisce alla Giustizia il compito di trasformare gli uomini in angeli; che salta senza costrutto dalla realtà effettuale a quella che si vorrebbe che fosse. A quando un editoriale, finalmente equilibrato, ma anche forte: «Non ci sono più le mezze stagioni»?
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia

Berlusconi travolto dai referendum.

di Enrico Franceschini-la Repubblica.

La sconfitta di Silvio Berlusconi nei referendum finisce in prima pagina sui più importanti giornali del mondo, che concordano nel ritenerla un altro “duro colpo” alla capacità di sopravvivenza politica del premier italiano. “Una bruciante sconfitta politica”, la definisce il New York Times. “E’ probabile che non provocherà l’immediata caduta del governo”, scrive Rachel Donadio, corrispondente da Roma del più autorevole quotidiano americano, “ma facendo seguito alle sconfitte sofferte dai candidati di Berlusconi nelle elezioni amministrative, dove ha perso la corsa per il sindaco a Milano e Napoli, la seconda e la terza maggiore città italiana, i risultati del referendum indicano una nuova realtà: l’uomo che un tempo sentiva il polso dell’Italia ha perso contatto, non ha più il suo tocco magico”.

“Un colpo a Berlusconi”, è il titolo che apre la prima pagina del Wall Street Journal. Il quotidiano finanziario Usa, soprannominato “la bibbia del capitalismo”, giudica il risultato dei referendum “un segno di scontento popolare” nei confronti del primo ministro italiano, il quale “conserva la maggioranza in parlamento ma vede ormai scendere da mesi il consenso nel paese”. Il Journal sottolinea che la Lega Nord, più importante alleato di Berlusconi in parlamento, “sembra averne abbastanza” di ricevere sberle in faccia, citando le parole del ministro Calderoli.

Prima pagina per Berlusconi, sotto il titolo “Roman defeat” (Sconfitta romana) e una foto del premier per una volta non sorridente scattata ieri a Villa Madama, anche sul Financial Times. Il quotidiano della City parla di una “grave sconfitta” per il premier, “un altro duro colpo alla sua credibilità”, predicendo che i referendum aumenteranno le divisioni in seno all’alleanza di governo e scateneranno la lotta per una successione a Berlusconi all’interno del centro-destra, rendendo nel frattempo il premier “sempre più un ostaggio” della Lega Nord in parlamento.

Anche il resto della stampa britannica dedica ampio spazio all’esito dei referendum. “Berlusconi va verso un divorzio dall’Italia” è l’ironico titolo del Daily Telegraph, principale quotidiano conservatore, che definisce il risultato come “un’umiliante sconfitta” per il premier. L’altro grande quotidiano conservatore del Regno Unito, il Times, usa quasi le stesse parole: “Un passo falso umiliante, dal punto di vista personale e politico, per Berlusconi”, afferma l’articolo, descrivendo il primo ministro come un uomo “schiacciato dagli elettori”, nonostante il suo appello a boicottare le urne. Quanto ai giornali progressisti, il Guardian parla di una “schiacciante sconfitta” per Berlusconi e di una importante vittoria per il movimento anti-nucleare e per l’opposizione, segnalando che, dopo avere perso le amministrative poche settimane prima, ormai molti sostenitori chiedono a questo punto ai loro leader di “liberarsi di Berlusconi”. E il quotidiano Independent intervista un politologo dell’American University di Roma, il professor James Walston, secondo cui il voto nei referendum dimostra che Berlusconi è ora politicamente “impotente”.

Titoli analoghi sulla Bbc, sulla rete televisiva araba al Jazeera – che si chiede “quanto a lungo Berlusconi riuscirà a mantenere la sua fama di sopravvissuto” – e sulla stampa francese. Il moderato Figaro parla di una “umiliazione” per Berlusconi, Le Monde di “schiaffo bruciante”, Sud-Ouest di “disfatta”, Ouest-France di “sconfessione”. (Beh, buona giornata).

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«L’Italia ha tutte le cose che le servono per ripartire, quello che serve è un cambio di governo».

di Paola Pica-Il Corriere della Sera

«The man who screwed an entire country» l’ uomo che ha fottuto un intero Paese». L’Economist torna ad attaccare Silvio Berlusconi bocciandone senza appello la politica di governo. Il presidente del Consiglio italiano è tornato in copertina del settimanale britannico in uscita venerdì, a otto anni dal celeberrimo «unfit to lead Italy», inadatto a governare l’Italia, e a cinque dall’altrettanto polemico «E’ tempo di licenziarlo». L’occasione di quest’ultima «cover story» è la pubblicazione di uno speciale di 16 pagine sull’Italia realizzato per l’anniversario dei 150 anni. L’analisi di John Prideaux, autore del rapporto, lascia emergere un Paese fermo che paga con la «crescita zero» le mancate riforme. «L’Italia ha tutte le cose che le servono per ripartire, quello che serve è un cambio di governo».

L’EDITORIALE – «Nonostante i suoi successi personali Berlusconi si è rivelato tre volte un disastro come leader nazionale», si legge nell’editoriale. Il primo disastro è la «saga» del bunga bunga e il secondo sono le vicende che hanno premier in Tribunale rispondere di frode, truffa contabile e corruzione. «I suoi difensori – spiega l’Economist – dicono che non è mai stato condannato ma questo non è vero. In molti casi si è arrivati a delle condanne ma queste sono state spazzate via» o per via della decorrenza dei termini o «in almeno due casi perchè Berlusconi stesso ha cambiato la legge a suo favore». «Ma il terzo difetto è di gran lunga il peggiore – continua l’Economist – e questo è il totale disinteresse per la condizione economica del paese. Forse perchè distratto dai suoi problemi legali, in nove anni come primo ministro non è stato in grado di trovare un rimedio o quanto meno di ammettere lo stato di grave debolezza economica dell’Italia. Il risultato è che si lascerà alle spalle un paese in grave difficoltà. La malattia dell’Italia non è quelle di tipo acuto; si tratta piuttosto di una malattia cronica, che pian piano mangia via la vitalità». Se fino ad ora, «grazie alla linea del rigore fiscale imposta dal ministro delle finanze Giulio Tremonti» l’Italia è riuscita e evitare di diventare la nuova vittima della speculazione dei mercati, questo non significa che la linea di credito sia infinita. Un’Italia stagnante e non riformata, con un debito pubblico ancorato attorno al 120% del pil, si ritroverebbe così esposta come il vero problema dell’eurozona. Il colpevole? «Berlusconi, che non ci sono dubbi, continuerebbe a sorridere» conclude l’Economist.

IL RAPPORTO – «Non farò l’errore di predire la fine di Berlusconi – ha detto l’analista incontrando la stampa a Milano – ma arrivando qui, parlando con le persone si inizia a sentire un’aria nuova, la fine di un’era».«L’Italia ha un problema di produttività, ha bisogno di alcune riforme. Se guardiamo agli ultimi dieci anni e più, dimenticando tutti gli scandali, lo scontro con i magistrati, il problema è c’è stato un disastro da un punto di vista economico. Berlusconi è arrivato al potere con l’idea di essere un imprenditore di successo in grado di fare le riforme economiche, ma poi non le ha fatte» e il Paese «ha sprecato» tempo prezioso.

BASSA CRESCITA – Il nostro Paese ha avuto il «più basso tasso di crescita di tutti gli altri Paesi del mondo occidentale. Tra il 2000 e il 2010, il Pil italiano è cresciuto in media dello 0,25% all’anno, una dato allarmante – scrive l’Economist – migliore solo rispetto a quello di Haiti o dello Zimbawe». E nonostate l’Italia «abbia saputo evitare il peggio durante la recente crisi finanziaria globale, non ci sono segnali di una possibile inversione di tendenza».

GERONTOCRAZIA – Nonostante i problemi che appaiono per lo più legati alla fase politica, l’Italia resta un «Paese civilizzato, ricco, senza conflitti». Il «successore di Berlusconi potrebbe introdure alcuni immediati miglioramenti con poco sforzo» e dovrà sicuramente metter mano alla legislazione sul lavoro «che favorisce gli anziani». L’Italia è afflitta tra le altre cose da una «gerontocrazia istituzionalizzata» che rende difficile ai giovani costruirsi una carriera. Tanto che dobbiamo porci il problema di come «richiamare migliaia di giovani di talento che sono emigrati e potrebbero avere un impatto positivo per il Paese». (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La guerra civile che dilania Audiradio.

Neppure nel primo trimestre 2011 la crisi economica è stata clemente con la
pubblicità italiana. Secondo i dati Nielsen Media Research, la televisione,
considerando anche i marchi Sky e Fox e le tv digitali rilevate da Nielsen,
chiude il primo trimestre con un calo del -2,9%, con una raccolta
complessiva di poco superiore a 1,2 miliardi di euro. Continua a soffrire la
stampa, ma a differenza dello scorso anno, nel primo trimestre il calo
penalizza più i quotidiani (-4,6%) che i periodici (-2,1%). Mentre aumentano
gli investimenti pubblicitari su internet (+14,9%) e direct mail (+1,0%), si
registrano al contrario variazioni particolarmente negative per tutta la
pubblicità esterna, vale a dire manifesti, grandi impianti e affissioni sui
mezzi pubblici: in questo primo scorcio dell’anno crollano a -25,1%. E la
radio? Nielsen Media Reasearch registra un calo della raccolta
pubblicitaria del comparto delle radio di un pesante -5%.

Questi dati negativi calano come mazzate all’interno del mercato delle radio, luogo in
cui da mesi ormai c’è una situazione di vera e propria “guerra per bande”,
tanto che a metà di questo mese potrebbe succedere lo scioglimento di
Audiradio, l’organismo che emette i dati ufficiali di ascolto delle
emittenti radiofoniche in Italia, come fa la più famosa Auditel per le tv.
Questi dati molto negativi arrivano nel momento sbagliato, nel posto
sbagliato, l’Audiradio, appunto, mentre è in atto la sospensione di ogni
forma di rilevazione dei dati, perché l’indagine non è mai partita.

Lo stop alla diffusione dei dati derivanti dal Panel Diari decretato da Audiradio lo
scorso settembre avrebbe dovuto essere temporaneo, in attesa di stabilire le
soluzioni tecnicamente più idonee e affidabili per affinarne i risultati
partendo da una nuova ricerca di base finalizzata alla costruzione di un
campione adeguato e corrispondente agli obiettivi dell’indagine stessa.

La situazione di stallo totale finora ha prodotto una situazione paradossale:
le emittenti locali fanno attualmente riferimento ai dati dell’indagine Cati
(interviste telefoniche); al contrario, le emittenti nazionali, in assenza
dell’accordo condiviso sulla validità del Panel Diari, continuano a far
riferimento all’indagine sugli ascolti del 2009. Insomma, è come se in
Italia alcuni adottassero l’euro e altri, invece ancora le lira.

E così succede che più precisamente, dal lato del panel sarebbero schierate Radio
Rai/Sipra, Gruppo Espresso/Manzoni (Deejay, Capital ed M20), Radio 24/Sole
24 Ore System, e Mondadori (R101), anche in virtù del fatto che i dati
registrati attraverso i Diari premierebbero, e non poco, tali emittenti.
Radio Rai, per esempio, conta molto sull’esatta rilevazione dei dati di
ascolti relativi ai programmi, in modo da modulare il palinsesto attraverso
una valutazione più evoluta, che tenga conto molto più precisamente delle
fasce orarie di ascolto.

Sul fronte opposto ci sono invece RTL 102.5/Open Space, RDS, Finelco (105, MonteCarlo, Virgin), Kiss Kiss e Radio Italia: essi si dicono non contrari ‘per principio’ ai Diari (sui quali come tutti gli altri hanno del resto investito, e molto), ma insistono perché per loro sarebbe utile, e profittevole, fornire i dati 2010 ottenuti tramite Cati (inchieste telefoniche). C’è una terza posizione sostenuta da
Assocomunicazione, la Confindustria delle agenzie di pubblicità. Per
Assocomunicazione la “balcanizzazione” di Audiradio è pericolosa per tutti i
soggetti del mercato, cioè per gli investitori pubblicitari, le emittenti,
le agenzie perché senza un metro di misura univoco si andrebbe verso la
perdita di quella credibilità che sostiene la radio come mezzo efficace per
gli investimenti in pubblicità.

Se con il sistema Cati, si hanno dati “soggettivi”, ricavati da domande fatte via telefono; se con i Diari si potrebbero raccogliere dati per segmenti temporali di 15 minuti, ecco che Assocomununicazione propone di adottare il meter, cioè un apparecchio più o meno simile a quello adottato da Auditel, che permetterebbe di conoscere gli ascolti “minuto per minuto”, tanto per parafrasare un famosissimo programma radiofonico. Questo però significherebbe ulteriori investimenti che si
andrebbero ad aggiungere ai denari spesi per l’indagine Diari mai
utilizzata.

Come se ne esce? Probabilmente con un “atto di forza” da parte
delle emittenti nazionali, Rai compresa, vale a dire con l’esposizione,
cliente per cliente, dei dati Diari. Il che di fatto mette Audiradio in mora
per tutto il tempo per il quale non si troverà un accordo con le emittenti
locali. Certo, non dichiarare ufficialmente i dati equivale a staccare la
spina, come era già successo con Audipress, la cui messa in mora per tre
anni non ha certo giovato alla raccolta pubblicitaria sulla carta stampata.

Ma tant’è: alla fine vince chi ha più tela da tessere. E le emittenti
nazionali, Rai compresa hanno la forza e il prestigio per convincere il
mercato della validità dei Diari, promettendo, magari a breve l’introduzione
dei meters. E le agenzie media, cioè le aziende che s occupano della
compra-vendita degli spazi pubblicitari si dedicheranno più volentieri dove
più alti sono i volumi e dunque i margini. E’ la crisi, bellezza. Beh. buona giornata.

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“Atomausstieg”, ovvero facciamo come la Germania, abbandoniamo il nucleare. Ecco un buon motivo per andare a votare sì.

Atomo, addio, di Riccardo Valsecchi- Avvenire dei Lavoratori

Ripristinando la decisione assunta dal governo rosso-verde di Gerhard Schroeder, l’attuale cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha deciso che la Germania rinuncerà all’energia nucleare. Il tema scompare così dai programmi di tutti i partiti presenti nel Bundestag. La terza potenza industriale del mondo avvia la sua fuoriuscita dall’atomo.

“Atomausstieg”, abbandono del nucleare: una parola, un sogno, uno slogan politico che oggi, dopo 42 anni dall’apertura del primo reattore atomico per uso commerciale sul territorio tedesco, pone una data definitiva, il 2022, per la chiusura del programma nucleare in Germania. A dare l’annuncio, lunedì scorso, dopo una notturna riunione tra i partiti di maggioranza, il ministro dell’ambiente Norbert Röttgen.

Il futuro dei 17 reattori attivi sul territorio è, come ha scandito il segretario dell’Unione Cristiano Sociale (CSU) Horst Seehofer, “ir-re-ver-si-bi-le”: chiusura immediata degli otto impianti più vecchi, scadenza al 31 dicembre 2021 per altri sei reattori e data finale di uscita dal programma nucleare fissata al 31 dicembre 2022 con la chiusura delle tre centrali Isar 2, Emsland e Neckarswestheim 2.

Una decisione, in realtà, che ripristina i limiti imposti dalla legge sul nucleare del 2002, approvata dall’allora governo SPD-Verdi e soppiantata non più di otto mesi fa da un decreto dell’attuale governo Merkel che prolungava l’attività nucleare per altri 14 anni.

Poi Fukushima e le successive sconfitte elettorali in Baden-Württemberg e Brema hanno imposto un drammatico dietrofront alla maggioranza. Oggi la Germania è la prima potenza industriale non solo che rinuncia in maniera definitiva all’uso del nucleare, ma che cancella l’aggettivo dal programma di tutti i partiti presenti nel Bundestag, di qualsiasi colore e posizione politica essi siano.

Ma, nonostante ciò, le polemiche non mancano.
Il mercato nucleare tedesco è attualmente dominato principalmente da tre colossi: E.ON, che detiene 6 dei 17 impianti attivi – più partecipazioni azionarie in altri quattro -, RWE, che possiede 6 reattori, ed EnBW, l’azienda pubblica del Baden Württemberg che gestisce i 4 impianti localizzati sul proprio territorio. L’impianto di Brunsbüttel, invece, è di proprietà per il 67 % della società svedese Vattenfall e per il 33% di E.On
Secondo Wolfgang Pfaffenberger della Jacobs University di Brema, gli otto reattori nucleari in chiusura forniscono attualmente guadagni per oltre 1,5 miliardi di euro e vendite per circa tre miliardi di euro l’anno. La totalità dei 17 impianti in funzione creerebbe circa quattro milardi di euro di profitto annuo, per un giro d’affari di 7,5 miliardi. Il solo gruppo E.ON, secondo una valutazione interna, avrà, come conseguenza della chiusura immediata di tre degli impianti attivi, una perdita sull’utile di circa il 30%.

Ad aggravare la situazione, l’imposta fiscale che dal gennaio 2011 impone il pagamento di 2,3 miliardi annui sul combustibile nucleare per la produzione commerciale di energia.

Gli analisti della Landesbank Baden-Württemberg valutano, nel complesso, una perdita di valore per E.On e RWE di circa il 6% e l’11%, con conseguente esposizione dei due giganti energetici alle mire espansionistiche dei rivali stranieri EFD e Gazprom.
Se le prospettive future per le due aziende appaiono tutt’altro che rosee, meglio non va per le municipalità dove hanno sede gli impianti.
“Ci aspettiamo un deficit annuo di circa tre milioni di euro” ha spiegato il tesoriere di Neckarwestheim, nel Baden-Wuerttemberg. “EnBW – la compagnia che controlla l’impianto locale – è il più grande contribuente della zona.”

A Phillipsburg il sindaco Martus (CDU) è rimasto anch’egli perplesso: “Grazie alle tasse pagate dal gestore dell’impianto EnBW la nostra piccola cittadina di 12.600 abitanti si è potuta permettere un ginnasio, una scuola secondaria e una scuola speciale.” Secondo il sindaco, Phillipsburg dovrebbe comunque rimanere in futuro un centro d’infrastrutture energetiche, in virtù dell’impianto solare costruito a ridosso della cittadina e inaugurato quest’anno – con 87.500 metri quadrati di pannelli, il più grande impianto solare sul territorio tedesco -.

Hildegard Cornelius-Gaus è il sindaco di Biblis in Assia, dove sono localizzati due reattori RWE. Mercoledì scorso, in una conferenza stampa, ha ricordato lo scompenso fiscale dovuto alla chiusura degli impianti: “L’impianto nucleare comporta più del 50 per cento delle nostre entrate fiscali.” La centrale locale, di proprietà RWE, dà lavoro a più di 1.000 persone e, secondo RWE, garantisce inoltre annualmente all’intera regione metropolitana del Rhein-Neckar-Kreis, tra attività correlate, strutture commerciali e alberghiere, circa 70 milioni di euro.

Le polemiche non si sono esaurite all’interno del confine nazionale. Sebbene, infatti, la decisione di Berlino abbia riacceso i focolari della speranza di un futuro antinucleare negli ambienti ecologisti di tutta Europa, i governi in carica con programmi già attivi sul proprio territorio, dalla Spagna fino alla Finlandia, passando per Francia, Gran Bretagna, Belgio, Paesi Bassi, Svezia e Polonia, si sono affrettati a precisare, intimoriti dall’eventuale boomerang mediatico, che la scelta della Germania non avrebbe avuto alcun effetto sulla loro politica energetica.

Il Commissario Europeo per l’energia, Guenther Oettinger, ex Presidente dei Ministri dello Stato del Baden-Württenberg, ha dichiarato in una conferenza a Vienna lunedì scorso che “la politica tedesca funzionerà solo se ci saranno dei miglioramenti strutturali, maggiori capacità di stoccaggio e più consistenti investimenti nelle nuove energie.” Ha poi aggiunto che “il nucleare continuerà a giocare un ruolo importante in Europa, dato che Paesi come la Francia sono estremamente dipendenti da esso, ma dopo la decisione di Berlino il gas – con tutto ciò che comporta in quanto a dipendenza energetica dall’estero – diventerà il vero fattore guida nella crescita.”
(Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

“Caro direttore, Ti chiedo di essere sollevata dall’incarico di conduttrice del tg 1 della notte”.

Elisa Anzaldo lascia il Tg1, di Giuseppe Giulietti-articolo21.com

“Caro direttore, Ti chiedo di essere sollevata dall’incarico di conduttrice del tg 1 della notte. Ritengo non sia più possibile per me rappresentare un telegiornale che, secondo la mia opinione, ogni giorno rischia di violare i più elementari doveri dell’informazione pubblica: l’equilibrio, l’imparzialità, la correttezza, la completezza…”
Così il 19 aprile scorso la giornalista del Tg 1 Elisa Anzaldo, una cronista serena, coraggiosa, stimata da tante colleghe e colleghi, senza distinzione di parte alcuna, aveva scritto al suo direttore Minzolini, manifestando un disagio professionale e civile profondo e doloroso per chi in quella testata ha speso tanta parte della vita.
In quella prima lettera la Anzaldo non si nascondeva certo dietro lettere anonime o sentito dire, ma documentava e denunciava alcuni episodi di ” malainformazione”.

Ne riportiamo alcuni: “Ancora ieri – scrive la giornalista – non abbiamo dato conto degli sviluppi dell’inchiesta Minetti- Fede- Mora. Domenica sera, 17 aprile, è stato “sfilato” alle 20 un pezzo pronto sui manifesti “Via le BR dalle procure completo in ogni sua parte, intervista a Lassini, parere del sindaco Moratti e di Pisapia, questione autosospensione di Lassini dalle elezioni comunali.
“Nel titolo delle 20 dell’11 aprile si metteva insieme il rinvio a giudizio dell’ex segretario del Quirinale Gifuni con l’arresto del prefetto Ferrigno per reati sessuali, Qual è il criterio giornalistico adottato?”
“Non c’era notizia nei nostri titoli delle 20 del 6 aprile dell’apertura del processo Ruby a Mlano, Forse non è stata considerata una notizia?”

La lettera non riceve risposta, o almeno non ha ricevuto una risposta riferibile, almeno in questa sede.
Per questo Elisa Anzaldo riprende carta e penna e riscrive al suo direttore in data 11 maggio e, fedele al suo ruolo di scrupolosa cronista, arricchisce ulteriormente la denuncia con altri fatti spariti o resi incomprensibili, anche qui ci limitiamo a citare testualmente:

“Non si comprende perchè i telespettatori del tg1 non abbiano avuto notizia della proposta di modifica, da parte di un parlamentare, dell’articolo 1 della Costituzione. Perchè se si tratta di una non notizia tutti i quotidiani gli hanno dedicato l’apertura?
Ed erano forse degne di due righe le critiche di un ministro, Galan, ad un altro ministro, Tremonti? Questione che ha reso necessario l’intervento del premier?
O perché abbiamo ignorato, nonostante fossero disponibili i mezzi, la nuova emergenza rifiuti a Napoli sino a quando il governo non ha nuovamente inviato l’esercito…allora si..
Non meritava una notizia, nel decreto dello sviluppo, la concessione delle spiagge per 90 anni?
E la notizia che il governo ha sollevato conflitto di attribuzione dei poteri alla Consulta per non avere la Procura di Milano considerato un legittimo impedimento la partecipazione del premier ad un consiglio dei ministri?
E l’arresto di due assessori leghisti per tangenti? Alle 20 niente.
E la chiusura delle indagini sull’inchiesta per i grandi eventi, con la richiesta di rinvio a giudizio per ‘ex capo della Protezione Civile. Per noi tre righe, per i giornali intere pagine…”

Queste alcune solo alcune, delle osservazioni della Anzaldo, alla fine delle quali con grande fermezza conferma da una parte le sue dimissioni dalla conduzione del tg 1 della notte, dall’altra la sua volontà di restare a lavorare in redazione, come caposervizio alla cronaca e di voler continuare a proporre “quelle che ritengo siano notizie di cronaca”, anche quelle che non vengono considerate tali dalla direzione”.

Non vogliamo strumentalizzare in modo alcuno questa testimonianza che, purtroppo, conferma quanto avevano denunciato Maria Luisa Busi, Tiziana Ferrario che insieme ai Piero da Mosso, ai Raffaele Genha, ai Paolo Di Giannantonio, ai Massimo de Strobell, sono già stati messi in condizione di andarsene, oppure stanno aspettando che sia il giudice a riconoscere le loro ragioni professionali.
La lettera della Ansaldo è impressionante proprio per il suo rigore, per la capacità di stare ai fatti o meglio “ai non fatti”, di documentare omissioni e faziosità che, ancor prima che la politica, colpiscono l’articolo 21 della Costituzione e cioè il diritto dei cittadini ad essere informati in modo ampio e completo.
La cosa sarebbe grave anche se riguardasse un tg privato lo è ancora di più se riguarda il più grande tg della Rai, quello che un tempo amava confrontare se stesso con il Corriere della Sera, mentre oggi contende la palma della faziosità al Tg4. Non si tratta di poca cosa, dal momento che stiamo parlando dello svilimento di tanta parte del patrimonio pubblico e della sua credibilità.
Vogliamo sperare, anzi ne siamo certi che, di fronte alle consuete volgarità e banalizzazioni che si scateneranno contro questa scelta della Anzaldo (peraltro e per l’ennesima volta un’altra coraggiosa donna che si ribella all’ordine ingiusto,) la redazione, il sindacato, interno e nazionale, vorranno sentire come propria questa denuncia, impugnarla collettivamente e pretendere che questa situazione abbia fine e che siamo rimosse radicalmente le cause, anzi la causa di questo malessere, di questa umiliazione.
Forse come nel finale del film ” L’attimo fuggente ” sarà davvero il caso che chi non vuole rendersi complice, salga sul banco o sulla scrivania e cominci a battere i piedi sino a quando la nuova direzione generale non deciderà di restituire l’onore professionale al Tg 1 e non solo al Tg1.

Prima di predisporre una nuova lenzuolata di nomine, sarebbe davvero il caso che quella che, un pò troppo pomposamente, è già stata battezzata la “nuova Rai” della signora Lei, procedesse a liberare l’azienda da veleni e arroganze che la stanno conducendo a morte, con grande gioia della concorrenza, saldamente nelle mani del loro presidente del consiglio.

Da parte nostra grazie a Maria Luisa Busi, a Tiziana Ferrario, a Elisa, Anzaldo, a quella parte del comitato di redazione che ha reclamato il rispetto della legge e a quante e a quanti non hanno alzato ancora bandiera bianca
Qualcuno li deriderà. Ma tra qualche giorno, gli opportunisti di sempre, faranno la fila per farsi fotografare accanto a chi non ha venduto la dignità.

Adesso è il momento di chiedere e di pretendere che, anche alla Rai, persino al tg 1, siano ripristinate le regole della repubblica, senza eccezione alcuna. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia

“Resta il fatto che Milano non rischia nulla di terribile, anzi può darsi che si realizzi, nel caso che vinca Pisapia, qualcosa di quanto propone da anni la Chiesa ambrosiana”.

Se l’arroganza umilia la politica, di Beppe Del Colle-famigliacristiana.it

Il clima politicamente molto caldo che ha caratterizzato le due settimane precedenti il ballottaggio per l’elezione di parecchi sindaci, soprattutto quelli di Milano e di Napoli, ha rivelato un aspetto finora inedito: l’arroganza delle forme, fino al ridicolo delle sostanze. Sull’arroganza delle forme, più precisamente nelle (finte) interviste del presidente Berlusconi trasmesse quasi in contemporanea sui tre canali televisivi privati (i suoi) e sui due pubblici sotto il controllo del Governo (Tg1 e Tg2), molto è stato detto e scritto e con l’intervento dell’Autorità competente, e qui non c’é nulla da aggiungere.

Sulla sostanza che ha sfiorato in diverse occasioni il ridicolo per la totale irrilevanza politico-costituzionale di alcune prese di posizione di Berlusconi e di Bossi, vale la pena di riflettere. Il premier ha denunciato in toni accorati il rischio che, se vincesse a Milano il candidato dell’opposizione Pisapia, in vantaggio al primo turno, la metropoli lombarda diventerebbe preda di zingari, rom, drogati, immigrati, musulmani, centri sociali, sinistra estrema: una vera “Stalingrado italiana”. Su un sito di area cattolica è apparsa per l’avvocato Pisapia l’accusa di “Anticristo”.

Con questi atteggiamenti si negano decenni di storia civile di Milano, una città socialmente aperta e generosa sia sul piano pubblico sia su quello religioso cattolico, governata a lungo da sindaci socialisti con l’appoggio del Pci. Durante un’intervista corale in Tv all’allora presidente del Consiglio Craxi, gli domandammo come giustificasse che il suo Psi governasse a Roma con la Dc e a Milano con il Pci, ed egli ci rispose: «Non mi occupo di beghe locali».

Resta il fatto che Milano non rischia nulla di terribile, anzi può darsi che si realizzi, nel caso che vinca Pisapia, qualcosa di quanto propone da anni la Chiesa ambrosiana, operando attraverso la sua Caritas entro i limiti delle sue possibilità e competenze, in difesa degli ultimi arrivati, in particolare proprio quei rom così trasformati in incubo.

E che dire della proposta leghista di spostare alcuni ministeri da Roma a Milano, con Berlusconi che rispondendo impacciato allude ad analoghe iniziative per il Sud, provocando l’immediata reazione del sindaco di Roma e della parte non padana del Pdl? Su questa idea, come sulla legislazione riguardante gli immigrati, le moschee, il controllo dei consumi di droga, e così via, la competenza legislativa non spetta agli enti locali, ma al Parlamento, e dunque non ha senso discuterne in occasioni che presentano ben altre questioni di interesse generale immediato.

Ma se la polemica elettorale resta ferma all’anticomunismo, al taglio delle tasse (promesso da 17 anni), fino all’assurdo della cancellazione delle multe stradali, anche se domenica vincesse la Moratti quale riforma si potrebbe attendere per una politica così desolante come quella di oggi in Italia? (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Sondaggi e ballottaggi.

Secondo quanto ha riportato la stampa italiana, Berlusconi s’impegnerebbe nel ballottaggio a Milano solo se i sondaggi gli facessero intravvedere una possibilità di rimonta della Moratti su Pisapia.

Siamo talmente abituati all’idea che le scelte politiche siano per forza di cose eterodirette dalle percentuali di successo diagnosticabili, interrogando un campione di elettori, che quanto avrebbe detto Berlusconi ai suoi ci appare normale. E non invece la prova provata del solito modo furbastro di fare politica. Quel modo furbastro che è stata la vera causa della sua debacle elettorale.

La domanda è: è lecito fare politica basandosi sui sondaggi? Da anni i sondaggi su argomenti politici ed elettorali svolgono un ruolo centrale nelle democrazie occidentali, in quanto permetterebbero di conoscere gli orientamenti dei cittadini nei confronti di istituzioni, partiti, leader politici e politiche pubbliche. Pare che non se ne potrebbe più fare a meno, allo stesso modo di come sarebbe difficile per una grande azienda rinunciare alle ricerche di mercato per conoscere i gusti, gli orientamenti, la propensione dei consumatori attuali e potenziali. Addirittura i risultati dei sondaggi godono di una tale sproporzionata visibilità mediatica, da rendere facile il meccanismo di auto-convincimento di chi commissiona l’indagine.

Un caso eclatante di autoavveramento indotto dai sondaggi si è appunto verificato in occasione delle elezioni comunali di Milano. I sondaggi davano la Moratti vicino al 49% e Pisapia intorno al 40%. A urne chiuse, oplà: i valori erano esattamente rovesciati, lasciando tutti a bocca aperta. Nessuno dei due contendenti, nessuno dei due schieramenti, nessuno in Italia in genere ci poteva credere. Come mai? Per almeno due motivi “tecnici” e per una ragione politica e sociale.

Il primo motivo tecnico lo confessa Luigi Crespi: “Il Pdl sta perdendo voti da due anni, infatti li ha persi alle Regionali e alle Europee, ma questa perdita non è stata rilevata poiché Berlusconi aveva comunque vinto le precedenti elezioni.” L’ineffabile Crespi ci dice candidamente che lui e i suoi colleghi sondaggisti hanno preso un abbaglio, perché non hanno mai voluto dire pubblicamente della costante emorragia di voti. Per vile compiacenza con il committente? Per venale convenienza contrattuale? Fatto sta che durante la campagna elettorale, interrogato dai media, Crespi ebbe a dire che per la Moratti a Milano si sarebbe ripetuto “l’effetto chiodi”. Si chiamava Chiodi il governatore dell’Abruzzo che Berlusconi riuscì a far eleggere, facendogli la campagna elettorale. La qual cosa ci rimanda al secondo motivo tecnico.

L’Istituto Cattaneo di Bologna sostiene la tesi secondo la quale vista la rilevanza delle funzioni dei sondaggi e dei rischi connessi, è essenziale che i loro risultati rispecchino fedelmente gli orientamenti dei cittadini e che vi trovino riscontro le relative interpretazioni. Però, succede che se da una lato un numero elevato di aziende specializzate hanno dato vita a un mercato concorrenziale per la conduzione dei sondaggi, con il rischio di impoverire la qualità delle ricerche pur di abbassarne i costi; dall’altro lato le diverse categorie di utenti di queste inchieste difficilmente posseggono le competenze metodologiche per valutare criticamente le tabelle delle percentuali. Senza contare che i risultati dei sondaggi godono di una visibilità mediatica sempre più crescente che tende a rendere effimero il loro impatto sulla realtà e sulla comprensione della realtà.

Un esempio concreto è quanto sostiene proprio l’Istituto Cattaneo di Bologna. Secondo l’analisi dei risultati del primo turno elettorale delle elezioni amministrative 2011, il Pdl ha perduto 164 mila voti rispetto a quelli raccolti, con Alleanza Nazionale nelle precedenti elezioni comunali, con una flessione pari al -24,6%. Il Partito democratico ha perduto 111 mila voti rispetto alla comunali precedenti, con una flessione pari al 16,2%. La Lega ha guadagnato 56 mila voti in tutto il nord. Rispetto alle Regionali del 2010, la Lega ha perso 25 mila voti a Milano e Torino, ma li ha guadagnati a Bologna, grazie al candidato sindaco, ancorché battuto al primo turno.

Se si fossero tenuti in corretta considerazione i flussi elettorali che hanno portato ai risultati delle ultime elezioni, essi sarebbero stati sorprendenti, ma non inaspettati. E questo ci riporta, infine, alla ragione politica e sociale per cui i sondaggi hanno mancato l’obiettivo di una corretta previsione dei risultati.
Infatti, una valutazione “oggettiva” della condizione materiale della stragrande maggioranza degli italiani avrebbe fatto, quanto meno presumere, se non proprio prevedere una sonora punizione elettorale nei confronti dei partiti che fanno parte della coalizione di governo. Non fosse altro perché è successo così in tutte le elezioni amministrative in Europa.

Nello specifico, in Italia il declino del berlusconismo aveva già dato vistosi segnali, che la sconfitta di Milano ha semplicemente certificato. La fatica di vincere a Bologna, la sconfitta di Napoli hanno detto chiaro quello che del Pd già si sapeva: l’opposizione non è all’altezza del compito se non si dà il compito di una nuova politica, a cominciare da una nuova visione della politica. I primi a non aspettarsi il successo di Pisapia a Milano, i primi a non immaginare il successo di De Magistris a Napoli sono proprio quelli che avrebbero, quanto meno, dovuto progettare candidature credibili su programmi efficaci.

Ma questo modo di capire l’esistente non lo può suggerire nessun sondaggio. La differenza tra politica e statistica sta nel fatto che quest’ultima fotografa l’esistente al passato prossimo, mentre la politica dovrebbe costruire una visione del presente prossimo, tendente al futuro semplice.
La cosa comica, a una settimana dal prossimo voto, è che nessuno sembra sapere che pesci prendere, forse perché essendo saltati i riferimenti dei sondaggi, nessuno si espone. Proprio come pare abbia confessato Berlusconi. A parte, ovviamente Pisapia a Milano, De Magistris a Napoli, Zetta a Cagliari e tutti i candidati al ballottaggio: loro il “campione” lo incontrano dal vivo, ce l’hanno davanti in carne e ossa. Difficile per loro non fare i conti con la realtà. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Popoli e politiche

E’ come se l’uccisione di Osama andasse in onda a puntate su Fox Crime.

La ricerca di una verità credibile sul come sia stato fatto fuori Osama bin Laden è stata deliberatamente ostacolata dalla stessa sceneggiatura da telefilm d’azione, dagli stessi effetti speciali, modello fiction con cui si è costruita la gestione mediatica dell’attacco militare. Vi mettereste a caccia di incongruenze narrative, per esempio della serie 24, piuttosto che dell’ultima stagione di NCIS ? Tutti vi diranno: e piantala! fammi vedere come va a finire questa nuova puntata. E tutto diventa come se fosse stato appena trasmesso da Fox Crime.

Sarà perché quanto è successo a proposito delle controverse ricostruzioni dell’Attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre ha fornito un precedente prezioso e istruttivo, quanto sta avvenendo dopo l’uccisione di Osama bin Laden sembra perfettamente scontato. Le reticenze dell’Amministrazione Obama, le mezze verità rilasciate alla stampa da Leon Edward Panetta, il capo della Cia, le contraddizioni sulla ricostruzione ufficiale della meccanica degli avvenimenti che hanno portato all’individuazione del nascondiglio, all’attuazione del piano di attacco e alla successiva morte del ricercato globale n.1, senza contare la decisione di non divulgare foto e video del corpo di Osama bin Laden, tutti questi fatti messi insieme congiurano perché nascano dubbi, dietrologie, teorie complottiste. La domanda è semplice: perché? C’è chi dice che Barak Obama ha fatto un grande cosa dando l’ordine di eliminare fisicamente Osama, ma che ha sbagliato a farlo uccidere, invece che catturare. E che il suo secondo errore è stata la decisione di non divulgare le foto, alimentando la possibile leggenda di un Osama ancora vivo.

Ma se ben guardiamo le cose, dobbiamo contestualizzarle, in almeno tre scenari contemporanei e in un certo senso contigui. Il primo scenario è la ripercussione sulla politica interna agli Stati Uniti, ben sapendo che la politica interna degli Usa è vissuta con la stessa importanza che assume la politica estera. Alla notizia della morte di Osama, data dallo stesso presidente Obama in diretta televisiva, le tv di tutto il mondo hanno trasmesso le scene di giubilo a Washington e a New York. Di li a qualche ora le Borse di tutto il mondo hanno registrato un incremento del valore del dollaro Usa e un calo del prezzo del petrolio. I sondaggi hanno dato il gradimento Obama in risalita di un decina di punti. Un grande viatico alla rielezione del 2012, dopo la debacle elettorale di medio termine. Poiché tutti i commentatori dicono che i temi della prossima campagna elettorale saranno prettamente sociali ed economici, ecco che è di tutto interesse per lo staff di Obama che la memoria dell’uccisione di Osama rimanga attivo il più a lungo possibile: polemiche, sospetti e dietrologie sono utilissime allo scopo. Rilasciare informazioni col contagocce dilata i tempi di attenzione sull’evento, a tutto vantaggio della reputazione del presidente in carica.

Il secondo scenario è la guerra in Afghanistan: da nove anni si trascina una guerra, senza apprezzabili né visibili risultati. La morte di Osama può essere una svolta: l’uccisione del nemico globale n.1 può dare impulso a una exit strategy, che coinvolga i Taliban del mullah Omar, per dare quel tanto di stabilizzazione, che permetta agli Stati uniti e alla Nato, dunque ai governi europei coinvolti nelle operazioni belliche di sganciarsi dalla regione, senza perdere la faccia davanti alle rispettive opinioni pubbliche, stanche di aver perso tanti uomini sul terreno, ma anche di aver speso un sacco di soldi, sin qui inutilmente. Anche in questo caso tutti i mezzi sono utili, per tener vivo e presente a tutti il più a lungo possibile il successo dell’uccisione di Osama, anche, appunto polemiche, sospetti e dietrologie sulla morte del capo di al Qaeda.

Il terzo scenario è proprio collegato alla situazione in Afghanistan: è il Pakistan. Per anni gli Usa hanno finanziato il Pakistan, prima per sostenere i Taliban contro i Russi, poi per sostenere gli alleati occidentali contro i Taliban e al Qaeda. Siccome il Pakistan è strategico per la stabilizzazione dell’Afghanistan, la decisione di far fuori dallo scacchiere la pedina Osama è stata un passaggio decisivo. Ma agli occhi del mondo arabo non si possono far passare i potenti servizi segreti come “traditori”. Quindi le contraddizioni della ricostruzione circa il ruolo dei servizi segreti, circa il ruolo della polizia pakistana, circa la proprietà del villone di Abbottabad sembrano molto funzionali a creare quella confusione che possa permettere al Pakistan di assumere un ruolo pubblicamente diverso nella “guerra”al terrorismo in Afghanistan.

Dunque, siccome i media sono un terreno di scontro politico, molto moderno e sofisticato, ma non per questo meno feroce, le presunte defaiances della strategia di comunicazione dell’Amministrazione Obama altro non appaiono che leve sapientemente utilizzate per guidare il consenso verso i prossimi salti mortali in politica estera Usa, senza rinunciare a una eccellente spendibilità nella prossima campagna elettorale. Chi da noi critica la versione ufficiale sembra avere lo stesso atteggiamento scettico dei repubblicani negli Usa, così come la totale accettazione della verità ufficiale da parte dell’opinione pubblica orientata a destra in Italia è, paradossalmente, omologabile ai sentimenti dei democratici americani, come a dire: abbiamo fatto fuori il nemico globale n.1, che altro andate cercando?

Il che è un altro modo per dire che chi fa dietrologia sta semplicemente giocando, forse inconsapevolmente lo stesso gioco di chi depista la verità. Tutto il mondo è paese, le campagne elettorali sono per i partiti politici nelle democrazie occidentali come gli esami per Edoardo De Filippo: non finiscono mai. Beh, buon giornata.

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

La beatificazione di Wojtyla e il marketing del potere.

Ci sono quelli preoccupati per le sorti future del Vaticano e, più in
generale della religione cattolica. Uno di questi è Bruno Ballardini,
che su questo argomento ha scritto un nuovo libro (“Gesù e i saldi di
fine stagione”, Piemme 2011), nel quale si prodiga di buoni consigli
per il marketing della fede cattolica.

Durante una conversazione con
l’autore si è esaminato, a grandi linee, lo stato dell’arte della
religione cattolica nel Terzo Millennio, ovviamente da un punto di
vista assolutamente superficiale, perché il marketing è superficiale
per antonomasia.

Ballardini sostiene che la Chiesa Cattolica ha nemici
interni: l’Opus Dei, Comunione e Liberazione, I Legionari di Cristo e
organizzazioni similari sono potentati che mettono in pericolo
l’universalità della Chiesa. Ma anche nemici esterni: le nuove
organizzazioni sia cristiane che di origine, ma sarebbe meglio dire di
‘matrice’ buddista rischiano di invadere il campo della fede, intesa
come offerta di “spiritualità”. Che fare? Un Concilio Vaticano 3.0,
aperto, partecipato, condiviso, che sancisca un ritorno alla
spiritualità, un passo indietro nella politica e nella finanza. Bene.

Difficile dire se queste idee siano solo di marketing o non invece un
modo per stimolare un dibattito ‘pentecostale’ sulla crisi che
attraversa il mondo cattolico, al di là delle stesse intenzioni
dell’autore. Fatto sta che lo stato di salute dello Stato Vaticano
torna continuamente di attualità, come una sorta di paradigma
dell’inversamente proporzionale: più la Chiesa attacca su certi
fronti, più dimostra la sua debolezza. Più si scusa per nefandezze,
come la terribile lunga storia della pedofilia, più appare poco
credibile. Più riempie le piazze, più dà il senso del vuoto nelle
chiese, nelle parrocchie.

L’ultimo episodio di questa ‘via crucis’
discendente è la beatificazione di Giovanni Paolo II. Capire come si
riesca a gestire nel Terzo Millennio la beatificazione di un papa con
le esigenze di modernizzazione della fede cattolica è davvero molto
complicato. Rinverdire la superstizione popolare attorno a un paio di
miracoli operati in vita, come viatico per essere proclamato santo, ha
tutto il sapore di una suggestione che vuole rimandare a una procedura
smaccatamente medioevale.

In questo senso, c’è un atteggiamento
pervicacemente relativista proprio da parte di chi critica il
relativismo tutti i”santi” giorni. Ma tant’è.

Convivono strumenti
dell’attualità, come la trasmissione televisiva durante la quale Papa
Ratzinger risponde alle domande di persone di tutto il mondo, con
l’antico rituale della piazza gremita di fedeli per beatificare il
papa di prima, evento che a sua volta torna “moderno” per via delle
dirette tv, dei commenti via internet, delle pagine dei quotidiani di
tutto il mondo.

Di fronte a questa potente macchina propagandistica
della fede cattolica, ogni ‘consiglio per gli acquisti’ della
spiritualità cattolica diventa un poco puerile, sia detto con tutti il
rispetto per chi ci prova. La Chiesa Cattolica sarà pure in crisi, ma
finché i media e la politica daranno uno spazio sproporzionato alla
effettiva pratica religiosa dei precetti del cattolicesimo, questa
crisi, paradossalmente, diventa un vantaggio competitivo nei confronti
delle altre confessioni religiose, per non dire un ingombrante
ostacolo alla normale vita civile, alla dialettica laica dei diritti e
dei doveri in una società moderna.

A chi suggerisce un passo indietro
alla Chiesa cattolica bisognerebbe ricordare che, siccome i miracoli
non esistono, sarebbe meglio che fossero la politica, l’informazione,
diciamo pure la stessa democrazia moderna a fare un deciso passo
avanti, per superare i lacci e i laccioli che legano, spesso a doppio
filo, gli interessi della Chiesa con quelli di un certo modo di
concepire il potere politico.

All’establishment politico-cattolico
importa un fico della spiritualità. Uno che se intende, una volta lo
ha detto a chiare lettere: il potere logora chi non ce l’ha. Abbiate
fede: questo si chiama marketing del potere. Beh, buona giornata.

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La lobby del nucleare (e Publitalia) vittime del conflitto di interessi.

A quelli del Forum nucleare deve essere preso un attacco di bile. Lo si capisce dalle dichiarazioni di Chicco Testa che, sorvolando sulle motivazioni politiche che hanno fatto dire stop al nucleare al neo ministro dello Sviluppo economico, si è limitato a osservare che così vince il petrolio e i suoi derivati.

Certo è che a quelli del nucleare gli devono girare forte. Come ha avuto modo di dire Massimo D’Alema ,con il suo consueto cinismo, il governo Berlusconi si rimangia, in un boccone solo, l’unica vera innovazione della sua travagliata legislatura: il ritorno al nucleare , con tanto di accordi firmati con i francesi, la gran cassa mediatica, il cavallo di battaglia dell’ex ministro Scajola, il quasi riuscito sfondamento a sinistra in fatto di energia atomica, con i possibilisti pronti all’avventura, per non dire dei neoconvertiti già partiti all’attacco, di cui Chicco Testa è stato alfiere.

Adesso che tutto è andato in vacca, ci si chiede ma chi è che ha portato sfiga? E’ stato il Forum che ha gettato sul piatto della comunicazione quattro o cinque milioni di euro per la famosa campagna degli scacchi? L’operazione di comunicazione sollevò un vespaio, beccandosi anche una censura dal parte degli organi di autodisciplina della pubblicità italiana. E’ come se quella campagna avesse evocato il disastro di Fukushima, come dire che il Forum se l’è tirata: si è fatto scacco matto da solo.

Oppure, chi ha portato sfiga è stato Scajola? Scajola è quello che faceva il ministro degli Interni quando si scatenò l’inferno a Genova per quel G8 che vide morire ammazzato Carlo Giuliani, che vide la “macelleria messicana” alla Diaz e alla Caserma Bolzaneto. Non pago, Scajola qualche settimana dopo in barca se se esce con i giornalisti che Marco Biagi, ammazzato della nuove Br a Bologna era (testuale) “un rompicoglioni”. Bufera e Scajola si dimette. Tornerà al governo con il nuovo governo Berlusconi, ma si deve dimettere dopo la scoperta della cricca dei costruttori, quelli che si sfregavano le mani non solo per il terremoto de L’Aquila, ma anche al pensiero delle tonnellate di cemento armato che servono per costruire le centrali nucleari. Ma per via dell’acquisto di quella famosa casa “che se scopro che qualcuno me l’ha pagata a mia insaputa…..”, ecco che è proprio Scajola che ha portato sfiga al nucleare, lui che gli tsumani politici se li crea e se li scatena addosso.

Oppure a portare sfiga al ritorno al nucleare è stato Marcello Andreani, amministratore delegato di Publitalia, la concessionaria di pubblicità di Mediaset. Le reti del Biscione si leccavano i baffi, avevano già offerto spazi a tutte le aziende dell’energia, che, in occasione del Referendum, avrebbero potuto inondare le tv di spot a favore del nucleare. Forse l’eccessiva sicurezza di avere il portafoglio già pieno di inserzioni pubblicitarie ha giocato un brutto scherzo alle reti del Cavaliere: succede il disastro a Fukushima, tutti loro dicono che non bisogna farsi prendere dall’emotività, poi però ci sono le elezioni amministrative, si rischia di perderle. Le aziende dell’energia mangiano la foglia e cominciano a disinvestire. A Publitalia sfuma l’affare pubblicitario, che avrebbe potuto salvare un anno difficile anche per loro.

C’è da pensare che Andreani, se potesse, ammazzerebbe Berlusconi, ma ovviamente non può. Anche se è proprio Berlusconi l’unico vero colpevole della fine del sogno nucleare. Deve aver pensato, che sfiga: se quelli vanno a votare contro e vincono, il governo va in minoranza nel Paese e addio sogni di gloria dell’”eletto dal popolo”. Col pericolo che magari vince anche il referendum contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e, sciagura delle sciagure, magari già che ci sono gli elettori mettono una bella croce sul Sì all’abrogazione della legge sul legittimo impedimento.

Insomma, ‘sta volta Berlusconi è stato vittima del suo stesso conflitto di interessi. E’ diventata una scoria radioattiva, che ha portato sfiga alla stessa lobby dell’atomo made in Italy. Beh, buona giornata.

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Il 2011 peggio del 2010: pessimo inizio d’anno per la pubblicità italiana.

SECONDO NIELSEN MEDIA RESEARCH, IN ITALIA L’ ADVERTISING E’ IN CALO NEL PRIMO BIMESTRE 2011. NEGATIVI TV E STAMPA, POSITIVI, INTERNET, RADIO E DIRECT MAIL.

Il mercato

Inizio non particolarmente brillante per il mercato pubblicitario italiano che chiude il primo bimestre in negativo: a totale pubblicità il cumulato gennaio – febbraio 2011 mostra una variazione del -2,0% rispetto allo stesso periodo 2010.

I risultati di televisione e stampa, rispettivamente – 0,5% e -7,4% (considerando pubblicità nazionale, locale e altre tipologie rilevate), influenzano la variazione totale del bimestre,
buone notizie arrivano dagli altri principali mezzi in particolare internet (+15,5%), radio (+1,0%) e direct mail (+2,1%).

Per i primi due mesi dell’anno buoni risultati nei settori automobili e distribuzione. Il primo dopo la crescita moderata del 2010 registra un +9,9%, il secondo nonostante una variazione più bassa rispetto al 2010 cresce del +7,6%. Arrancano altri importanti settori quali alimentari e telecomunicazioni.

I mezzi

La televisione mostra un rallentamento nei primi due mesi dell’anno, dovuto soprattutto
alla diminuzione dei livelli di investimento di importanti aziende inserzioniste dei settori
alimentari (-7,3%), telecomunicazioni (-8,5%) e farmaceutici/sanitari (-4,3%).
La stampa in generale raggiunge un -7,4%, con una periodica particolarmente colpita dalla
riduzione degli investimenti di settori strategici quali abbigliamento (-4,1%) e abitazione (-
14,8%) che hanno influito sull’andamento del mezzo portandolo al -4,3% rispetto all’anno
precedente.
Variazione positiva invece per la radio, che sostenuta dal suo settore core, quello
automobilistico (+10,9%), ottiene una variazione del +1,0% rispetto al primo bimestre
2010, ma rimane sempre internet, il mezzo più dinamico e in evoluzione, con un +15,5%
di variazione data soprattutto dall’aumento di investimenti nei settori automobilistico

(+13,5%), media/editoria (+15,6%), distribuzione (+211,8%) e tempo libero.
Calano gli investimenti per cinema (-15,3%) e affissioni (-24,1%), mentre buoni risultati
ottengono out of home tv (+4,0%) e cards (+1,0%), nonostante rimangano ancora
marginali nel mercato pubblicitario italiano.

I settori

Nel 2011 il mercato pubblicitario parte sottotono anche guardando ai singoli settori
merceologici con poco più della metà dei settori analizzati con variazioni negative. Tra i
primi cinque settori top spender spicca però il risultato positivo del settore automobilistico
(+9,9%) che tenta di riprendersi dalle ancora cattive performance di vendita con un buon
livello d’investimento pubblicitario.
Negativi i risultati invece per gli alimentari (-6,6%) cosi come per gli altri componenti del
largo consumo (toiletries -2,9% e gestione casa -7,1%) ad eccezione di bevande/alcoolici
che ottengono un buon +13,0%.
Tra i primi spender risultati poco brillanti anche per le telecomunicazioni, che già nel 2010
avevano avuto difficoltà di ripresa, e media/editoria. Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La dittatura mediatica.

Avete presente quando le orche marine fanno le loro evoluzioni e poi sbattono, gettandosi di peso, fragorosamente sulle onde del mare producendo copiosi schizzi d’acqua? Esattamente come quando l’altra sera Giuliano Ferrara dai microfoni di Radio Londra, luogo televisivo che continua a occupare, nonostante gli ascolti lo puniscano, come continuano a punire il Tg di Minzolini, esattamente come Giuliano Ferrara, quando si è buttato a pesce sulle tesi sostenute su Il Manifesto da Alberto Asor Rosa.

Asor Rosa dice cose giuste: la nostra democrazia è al collasso, il berlusconismo che si compra tutto, si è comprato anche la democrazia parlamentare, la situazione di impotenza istituzionale è paragonabile alla presa del potere di Mussolini e di Hitler. I quali non andarono al potere con un golpe, ma sfruttando la totale debolezza politica delle istituzioni del tempo, si fecero incaricare, sfruttando le pieghe delle regole istituzionali.

E qui la similitudine tra la debolezza dell’attuale opposizione con l’inconsistenza delle opposizioni sia nell’Italia del ’24 che nella Germania del ’33 è, ahinoi, lampante.

Asor Rosa suggestiona l’idea che lo Stato scateni le forze dell’ordine contro il berlusconismo. Idea balzana, ma che la dice lunga sulla totale sfiducia nella possibilità di un cambiamento. Asor Rosa dice che non è prevedibile un cambiamento promosso dal “basso”, vale a dire promosso dai cittadini, le associazioni, dalla base popolare dei partiti, dalle forze del lavoro, dello studio, della cultura.

Forse, piuttosto che attardarsi sulle ipotesi di “golpe istituzionale”, bisognerebbe capire perché l’indignazione per le porcherie del governo Berlusconi non riesce a diventare forza di trasformazione, che metta in moto un processo di superamento di questi partiti, di queste forze politiche, per arrivare a prefigurare una vera alternativa alla crisi della democrazia italiana.

Una delle ragioni è sicuramente la dittatura mediatica, esercitata contro la democrazia del nostro Paese. Una dittatura feroce, capillare, letale per le coscienze. Quella dittatura che si esplicita all’insegna del semplice “se vuole fare carriera, sposi un uomo ricco”, oppure se da precario cerchi lavoro, cerca di fare il provino per “Non è mai troppo tardi”, talent show prossimamente condotto da Signorini, uno dei lacché del signor B. La vicenda delle sconsiderate nottate del capo del Governo ci ha spiegato con dovizia di particolari che il bunga-bunga è un modo per far carriera nel mondo dello spettacolo e che anche la politica, in Italia, fa parte del mondo dello spettacolo. D’altro canto, “I responsabili”, il gruppo parlamentare di Mimmo “monnizza” Scilipoti non sembra forse il titolo di un programma tv?

Il fatto è che questa dittatura mediatica si esercita soprattutto quando si distrae il pubblico dalla politica vera, dal reale disagio sociale, dalle proteste di massa che hanno invaso le piazze del Paese. Secondo l’Osservatorio di Pavia, le reti televisive italiane hanno dedicato nel 2010 alle vicende di nera e processuali nei rispettivi telegiornali: 867 servizi all’omicidio di Avetrana, 204 al caso Claps; 98 al delitto di Perugia, 55 al delitto di Garlasco. Senza contare i talk show, con tanto di criminologi, plastici, e ospiti tuttologi a comando. Il collasso di cui parla Asor Rosa non è solo istituzionale, è sistemico.

Il conflitto di interessi è stato superato brillantemente dai fatti: oggi in Italia la politica è solo una questione di interessi personali, la tv è ormai solo una commodity di quegli interessi. Beh, buona giornata.

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democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia Società e costume

“C’è chi vede, in quella coazione a mentire, l’archetipo del Bambino come se alloggiasse nell’inconscio del Cavaliere una personalità che “ragiona” in base al principio di piacere e non al principio di realtà.”

Il grande imbroglione,di GIUSEPPE D’AVANZO-La Repubblica.

BERLUSCONI mente con costante insolenza. È una consuetudine che da sempre sollecita molte attenzioni per afferrarne le ragioni, per così dire, costitutive. Per dirne una. C’è chi vede, in quella coazione a mentire, l’archetipo del Bambino come se alloggiasse nell’inconscio del Cavaliere una personalità che “ragiona” in base al principio di piacere e non al principio di realtà. Lungo questa via è suggestiva l’interpretazione di chi avvista Berlusconi afflitto da “pseudologia phantastica”.

«Una forma di isteria caratterizzata dalla particolare capacità di prestar fede alle proprie bugie. Di solito succede – scrive Carl G. Jung – che simili individui abbiano per qualche tempo uno strepitoso successo e che siano perciò socialmente pericolosi». Sono accostamenti utili e intriganti, ma rischiano di annebbiare quel che è semplice e chiaro da tempo: se l’imbroglione è, come si legge nei dizionari, «una persona che ricorre al raggiro come espediente abituale», Berlusconi è innanzitutto un imbroglione.

È un imbroglio, un abituale inganno l’ultimo flusso verbale del capo del governo – che come sempre parla soltanto di se stesso, soltanto del suo prezioso portafoglio, soltanto dei complotti che gli impedirebbero di governare e arricchirsi. Berlusconi manipola fatti, eventi e contingenze della sua storia di imprenditore e di politico per mostrarsi vittima di un’aggressione, nell’una come nell’altra avventura. Deve farlo, il Cavaliere, poverino.
Non solo per una fantasia di potenza adolescenziale (anche per quello), ma (soprattutto) per la consapevole accortezza di dover nascondere il catastrofico fallimento della sua leadership e i sistemi che ne hanno fatto un uomo di successo.

Dice il Cavaliere: «Mi trattano come se fossi Al Capone». Il fatto è che Berlusconi, con Al Capone, condivide il rifiuto delle regole, il disprezzo della legge, l’avidità, una capacità di immaginazione delirante. Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli Anni Venti, Berlusconi rappresenta – ne è il simbolo – l’Italia corrotta degli Anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. Berlusconi è tutt’uno con quella storia e senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato un “delinquente abituale”.

Scorriamo i reati che gli sono stati contestati nei dodici processi che ha subito finora. La fortuna del premier è il risultato di evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc); della polizia tributaria (che non vede i suoi conti taroccati); dei giudici (che decidono dei suoi processi); dei testimoni (che lo salvano dalle condanne). Senza il dominio nell’informazione e il controllo pieno dei “dispositivi della risonanza”, sarebbe chiaro a tutti come la chiave del successo di Berlusconi la si debba cercare nel malaffare, nell’illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

Deve farlo dimenticare e deve mentire per tenere in vita la mitologia dell’homo faber e il teorema vittimistico. È quel che fa per nascondere il passato e salvare il suo futuro. Confondendo come sempre privato e pubblico, Berlusconi ora denuncia anche un assalto al suo patrimonio, la sola cosa che ha davvero a cuore. Si lamenta: «Contro di me tentano anche un attacco patrimoniale: a Milano c’è un giudice, di cui potrei dire molto, che ha formulato un risarcimento di 750 milioni per la tessera numero 1 del Pd, De Benedetti, per un lodo a cui la Mondadori fu costretta. È una rapina a mano armata».

Si sa come sono andate le cose. La Cassazione dice colpevoli il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora (assistono la Fininvest nella guerra di Segrate): hanno barattato la sentenza del 1991 sul cosiddetto “Lodo Mondadori” che, a vantaggio di Berlusconi, ha sottratto illegalmente la proprietà della casa editrice a De Benedetti (editore di questo giornale). Sono i soldi della Fininvest che corrompono il giudice, ma Silvio Berlusconi si salva per una miracolosa prescrizione.

Per il suo alto incarico (nel 2001 è capo del governo) gli vanno riconosciute – sostengono i giudici – le attenuanti generiche e quindi la prescrizione e non come sarebbe stato più coerente, proprio per le sue pubbliche responsabilità, le aggravanti e quindi la condanna insieme agli uomini che, nel suo interesse, truccarono il gioco. «Corresponsabile della vicenda corruttiva», il Cavaliere con Fininvest deve ora risarcire – come ha deciso la Cassazione – i danni morali e patrimoniali quantificati in primo grado in 750 milioni di euro. Troppo o troppo poco, lo dirà il giudice dell’appello che deciderà degli interessi di due privati e non, come vuole far credere l’Imbroglione, di due fazioni politiche.

È altro quel che qui conta ripetere, una volta di più semmai ce ne fosse bisogno. Come dimostra il tentativo di gettare nel calderone delle polemiche anche un suo affare privato, dietro la guerra scatenata dal capo del governo contro la magistratura ci sono soltanto gli interessi personali del premier. Null’altro. Riforma costituzionale, riforma della giustizia, asservimento del pubblico ministero al potere politico, che oggi paralizzano la vita pubblica del Paese, sono soltanto gli espedienti ricattatori di Berlusconi per ottenere un salvacondotto che lo liberi dal suo passato illegale, da una storia fabbricata, oggi come ieri, con l’imbroglio. (Beh, buona giornata).

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Il burlesquoni show a Patacca Italia.

La performance di Berlusconi a Lampedusa segna una tappa nuova nella vita politica italiana. Lampedusa come l’Isola dei Famosi è stato il set televisivo dello show del capo del Governo: un programma di tipo nuovo, un cocktail preparato con un terzo di reality, un terzo di infomercial, un terzo di videomessaggio in salsa web.

Il programma-pilota era andato in onda su tutti gli schermi qualche giorno prima a Milano, durante lo show del processo, che non c’era, perché era solo un’udienza preliminare, però c’era il pubblico, il predellino, e il “cuscino” antiproiettile sulla schiena del nostro eroe. Ora bisognerebbe chiedere aiuto a eminenti critici televisivi per dare un nome a questo nuova forma di intrattenimento: nel frattempo, la chiameremo provvisoriamente “burlesqu-oni show”.

Bisogna dire che il ”burlesquoni show” ha fatto subito scuola. E così succede che il ministro della Difesa, attorniato da poliziotti si mette a provocare i manifestanti davanti a Montecitorio come fosse ancora ai tempi del Fronte della gioventù nella Milano degli anni Settanta. Poi entra in Aula e dà in escandescenze. Richiamato dal presidente, che una volta era anche il “suo” presidente, il fascistello attempato non trova di meglio che mandare affanculo la terza carica dello Stato.

Il giorno dopo, tocca al ministro della Giustizia che arriva trafelato sui banchi del governo per votare, e mentre il presidente della Camera chiude le votazioni, il ministro perde la testa e getta il tesserino parlamentare verso i banchi dell’opposizione. Un comportamento degno di Cassano o Balotelli verso l’arbitro.

Comunque sia, la vera forza del “burlesquoni show” sta nel fatto che è una forma estrema di intrattenimento, che supera anche i vasti confini della tv. Il “burlesquoni show” è multimediale, multicanale. Pensate all’on. Nicole Minetti, parlamentare della Regione Lombardia. Ha detto a Vanity Fair e poi a Repubblica che lei sta mica tanto a preoccuparsi per quella storia del bunga bunga, ma che scherziamo, lei aspira a ben altri traguardi, che vi credete che un giorno non riesca a diventare ministro degli Esteri? La notizia non ha solo fatto il giro del mondo dei media italiani, ma è come se la cosa si fosse davvero materializzata: che differenza farebbe una Minetti al posto di un Frattini? Vista il peso relativo che ormai la nostra diplomazia ha in Europa, non si capisce perché la sorte non dovrebbe accontentare i sogni della più famosa igienista dentale italiana.

Insomma, il “burlesquoni show” ha una forza comunicazionale inedita: niente a che vedere con i reality. Per tenerli in piedi, quelli bisogna pomparli: mandare la Ventura in Honduras e poi magari anche un citrullo di ex Casa Savoia. Niente a che vedere con roba decotta come Forum, dove una finta terremotata viene smascherata in quattro e quattr’otto.

Il “burlesquoni show” è genuino, perché i personaggi non fingono, sono proprio così: Berlusconi che compra casa a Lampedusa, vuole un campo da golf e un casinò è lui, lui in persona. Lo si capisce quando promette che Lampedusa sarà un paradiso fiscale. La Russa è lui, proprio lui, quando scatena una gazzarra fascista in Aula, è se stesso. Il ministro Alfano è lui, proprio lui, quando, nel tentativo di confutare i dati diffusi dall’associazione dei magistrati, secondo i quali col processo breve salterebbero il cinquanta per cento dei processi per gravi reati, il ministro sostiene invece che la norma che salverebbe Berlusconi dal processo Mills potrebbe riguardare solo l’uno per cento dei processi in Italia. Dal che si evince, per ingenua confessione che il provvedimento non è affatto strategico per la giustizia in Italia, lo è solo per il capo del Governo. Anche la Minetti è lei, proprio lei, quando alza la posta in gioco della sua carriere politica, in vista della testimonianza al processo Rubygate.

Eccola, allora la forza del “berlusquoni show”: fa rabbia, fa ridere, fa un po’ schifo, fa anche molta pena. Ma una cosa è drammaticamente certa: è tutto vero. È l’ultimo regalo della vulcanica inventiva del Berlusca ( ovvero, Burlesca): il “burlesquoni show” è sinonimo, all’interno e all’esterno del Paese di un’Italia molto speciale.

Ci rende famosi nel mondo, siamo ormai a pieno titolo nell’epoca di Patacca Italia. Beh, buona giornata.

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L’incerta primavera della pubblicità italiana.

Secondo l’Istat, la benzina aumenta del 3,4% su mese e del 12,7% su anno, il gasolio del 4,3% e del 18,5%, il gpl +0,1% e +20,7%, il gasolio da riscaldamento +4,3% e +19,1%. Nel settore regolamentato, i prezzi salgono dello 0,2% su mese e del 3,4% su anno, a causa del rialzo del costo del gas (+0,3% su febbraio e +8,5% tendenziale).

Ed ecco riapparire l’inflazione: a febbraio il costo della vita aveva registrato un incremento dello 0,3% rispetto a gennaio e del 2,4% su base annua. Ed ecco un’accelerazione a marzo: i prezzi sono saliti dello 0,4% mensile per un incremento tendenziale del 2,5%, massimo da novembre 2008.

Com’è facile prevedere, questa situazione non favorisce i consumi, dunque fa male alla pubblicità. Non solo. Fa male alla pubblicità anche il fatto che l’aumento dei prezzi all’ingrosso dei prodotti derivati dal petrolio, utili al confezionamento di beni di largo consumo sta determinando una situazione critica: per non aumentare i prezzi al dettaglio si tagliano i budget pubblicitari, in modo da riequilibrare i relativi business plan.

Gli effetti di questa politica commerciale, che potremmo definire di resistenza alla crisi petrolifera da parte delle aziende italiane comincia a farsi sentire a partire da i centri media e non tarderà ad attraversare tutta la filiera.

Ma non sono solo le turbolenze geopolitiche del nord Africa, con le conseguente corsa al rialzo dei prezzo del petrolio, a turbare i sonni già da tempo molto agitati della pubblicità italiana. Il terremoto e lo tsunami che hanno sconvolto il Giappone stanno diventando un incubo per le concessionarie di pubblicità, soprattutto delle tv commerciali italiane.

La catastrofe nucleare di Fukushima ha provocato un’ondata di generale disapprovazione nei confronti delle politiche nucleariste. La cosa ha provocato una vera e propria catastrofe nella raccolta pubblicitaria.

Se in previsione del referendum erano stati prenotati spazi, soprattutto televisivi, da parte delle aziende del settore energia per sostenere il No al referendum, l’effetto Fukushima ha azzerato tutto: ha costretto il governo a ipotizzare una moratoria di un anno sulla legge che prevedeva il ritorno al nucleare.

E così le aziende del comparto energia hanno disinvestito, annullato le prenotazioni, gettando nel panico le concessionarie. Così è in questa incerta primavera. Beh, buona giornata.

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In pubblicità, sempre meglio non esagerare troppo.

Il capo del governo italiano, in visita a Lampedusa, isola siciliana, meta di continui sbarchi di profughi in fuga dalle catastrofi umanitarie del nord Africa, ha tentato di placare gli animi esasperati dei cittadini promettendo la soluzione di tutti i problemi nelle prossime ore.

Per fugare ogni scetticismo, il capo del governo italiano, durante un comizio, ha affermato, tra l’altro che: acquisterà una villa nell’isola; che aprirà un casinò; che farà nascere un campo da golf.
Bene. Poi però ha esagerato: ha promesso la candidatura dell’isola al Premio Nobel per la Pace, direte voi. Ma va.

Non è questo il problema, che è invece aver promesso che Lampedusa sarà zona franca dalle tasse. Questa proprio non ci voleva, esagerando rischia di tirarsi la zappa sui piedi: un casinò, un campo da golf, una villa in un paradiso fiscale, ancorché nostrano? Poi dice che uno pensa sempre male. In pubblicità, sempre meglio non esagerare troppo.
In politica, non so. Beh, buona giornata.

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