Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Fermiamo l’emendamento D’Alia.

da byoblu.com

L’Abruzzo è andato. La Sardegna… andata! La rete farà presto la stessa fine.

Quante volte da queste stesse pagine abbiamo ripetuto «La Cina è vicina». Forse solo una maniera di esorcizzare le nostre paure, ma non ci credevamo veramente. Se passa l’emendamento D’Alia alla Camera, invece, questa volta l’Art. 21 della Costituzione diventerà un cimelio da collezionisti, e l’Italia sarà il primo paese occidentale ad allinearsi alla Cina e alla Birmania in quanto a libertà di espressione. Dopo la censura dei siti di scommesse, dopo il caso ThePirateBay – rientrato temporaneamente solo per un vizio di forma – il Governo potrà oscurare su indicazione del Ministro degli Interni i blogger che non si allineano a Mediaset, alla Rai e ai maggiori quotidiani nazionali.

Farlo sarà di una banalità sconcertante: basterà incaricare servizi segreti, lobby, logge massoniche o semplici attivisti di nascondere tra le pagine di un blog commenti realizzati ad arte che possano ricadere in qualche modo nei casi previsti dall’Apologia di Reato. Lo si fa di notte. La mattina seguente si fa una segnalazione formale al Ministero degli Interni, e Maroni dirama agli internet provider il dictat: filtrare l’indirizzo IP e il nome di dominio del blog incriminato. Non importa se avete i server alla Casa Bianca, nell’ufficio di Obama, o in Bielorussia. Il filtraggio avviene in Italia, sui DNS – i domain name servers – del vostro fornitore di connettività. A meno che non sappiate impostarvi un proxy anonimo, o sappiate come puntare a domain name server alternativi, dite addio alle voci indipendenti della rete. Data la cultura digitale degli italiani, gli esiti sarebbero certi.

In Italia la guerra dell’informazione ha due soli schieramenti: il duopolio RaiSet, governato dal PDL-PDmenoElle voluto da Gelli nel suo Piano di Rinascita Democratica , e la Rete. Davide contro Golia. Chi ha provato a fare l’Obama de noi artri, a fare campagna elettorale su internet, ha perso. Ha perso Carlo Costantini in Abruzzo. Ha perso Renato Soru in Sardegna.
Il motivo è semplice. Negli USA l’80% della popolazione è online. Quasi la metà degli americani tra 12 e i 40 anni legge un blog, e in rete si informa perfino un quarto dei settantenni. Sto dicendo che un quarto dei nonni americani legge un blog! Mio padre non sa usare neppure il mouse…

In Italia, i navigatori sono poco meno di 28 milioni, ovvero il 58,5% della popolazione (dati audiweb). Solo il 12% legge un blog (fonte eurostat): parliamo del 7% degli italiani, 3.360.000 persone. Negli states invece l’informazione indipendente in rete viene letta da un americano su tre. Ecco perché Obama ha vinto.
Da noi c’è ancora troppo squilibrio. Nel solo mese di gennaio, la media degli ascolti in prima serata di tutte le reti Rai è stata di 11.505.638 telespettatori. Mediaset ha fatto meglio: 11.087.401. Più di 22 milioni di persone divise tra Vespa e Mentana (fonte Auditel), il quale si è licenziato perchè non trovava giusto non poter fare la maratona Englaro. Io, diversamente, me ne sarei invece andato perchè non si può parlare del conflitto di interessi o del Discepolo 1816, ma sono opinioni.
 
Se stai leggendo, sei uno di quei fortunati 3.360.000 italiani che si informano anche sui blog. Sei la nostra speranza. Puoi ancora raccontarlo agli altri. Se l’emendamento del Senatore D’Alia dovesse passare anche alla Camera, digitando www.byoblu.com potresti ritrovarti a leggere un messaggio del tuo provider, che ti informa che il sito è stato oscurato perchè non rispetta la normativa italiana in materia di libertà di espressione.

La strada della libertà è lunga, ma possibile. Dove possa condurre non è ancora così ovvio, tuttavia è chiaro da dove deve partire: dallo stralcio dell’Art.50 bis. Se passa, un giorno racconterete ai vostri figli cosa poteva essere internet, che non è mai diventato.

Questa è l’ultima frase della Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio, di John Perry Barlow, che Leonardo Facco cita molto opportunamente nel suo contributo video di apertura del post. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Nel futuro dei mass media più web e meno tv: chi non innova è perduto.

di Marco Ferri da ilmessaggero.it

Nel futuro dei mass media c’è scritto sempre meno giornali, sempre più internet e la tv perderà terreno. Sir Martin Sorrell fondatore e ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale, sostiene che nel giro di un paio d’ anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri. Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi “tradizionali” che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d’ intrattenimento e informazione audiovisiva.

Le stime dicono di una riduzione dei fatturati della pubblicità fra il 5 e il 10%, nel primo semestre del 2009. Difficile però immaginare cosa accadrà in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa. Le previsioni che riguardano i grandi giornali americano sono brutte.

Il New York Times per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York; il Wall Street Journal , divenuto di proprietà di Rupert Murdoch, ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti. Se questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana, anche dall’Europa non giungono buone notizie. In particolare in Spagna, dove alcuni editori di giornali e tv italiani hanno forti interessi, la crisi ha colpito duramente: il crollo della raccolta pubblicitaria rasenta il 30 per cento, mentre cinquecento giornalisti spagnoli sono stati allontanati dal lavoro e le previsioni parlerebbero di circa tremila licenziamenti entro la fine del 2009.

Il ragionamento di Sorrell si fa più fosco quando egli affronta l’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’ attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, vede anche qui una riduzione al 20-25%. Giornali e riviste sono i più esposti alla concorrenza dei media via internet.

E per quanto riguarda l’Italia? Forse, dice Sorrell la televisione riuscirà a mantenere, in termini di introiti, quote di mercato superiori rispetto alla media degli altri paesi, ma la tendenza è la stessa. Infatti, secondo l’ultima rilevazione di Nielsen, azienda americana specializzata nelle ricerche di mercato, lo scenario italiano sembrerebbe in linea con le previsioni di Sorrell: il confronto fra dicembre 2008 e dicembre 2007 registra un calo del -10,0% della pubblicità italiana. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa.

Certo è, comunque che dovremo prepararci a significativi cambiamenti, spinti dalla crisi globale che ha impattato su un sistema dei media e della pubblicità già in evoluzione, ben prima che la crisi economica si facesse sentire, con tutta la sua potenza.

A partire dagli anni Ottanta, l’avvento sulla scena di grandi holding che hanno fatto della comunicazione un formidabile fattore di business ha radicalmente cambiato il rapporto tra la pubblicità e i mass media. Una volta la pubblicità era “ospite gradito” dei giornali, poi della radio, poi della tv e poi di internet. Ma la forza economica conquistata dalle grandi holding finanziarie, quotate in Borsa ha capovolto i rapporti di forza economici, a tutto vantaggio delle comunicazione commerciale.

Oggi sembrerebbe quasi che tv, stampa e internet siano diventati loro gli “ospiti fissi” della pubblicità, ospiti che devono piegarsi, nel bene e nel male, alle esigenze del padrone di casa e degli inserzionisti globali e locali. La cosa è molto evidente su scala globale, anche se ha delle serie ripercussioni su un mercato “locale” come quello italiano.

Secondo l’opinione corrente, molto diffusa in Italia, giornali e i giornalisti sarebbero chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. Ecco allora che si è dato vita a nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, si è cercato di incrementare l’offerta di un servizio.

«Tutto questo non basta», dice Hans-Rudolf Suter, il capo di Stz in Altavia, agenzia di pubblicità fondata in Italia negli anni Settanta da due svizzeri, Suter, appunto e Fritz Tschirren. Dice Suter: «La faccio breve: in ottobre il New York Times ha avuto 20 milioni di visitatori unici sul sito e venduto un milione di copie al giorno, 1,4 la domenica. Ma la tiratura -continua Suter – è in calo e i soldi in cassa basteranno fino a maggio. Poi qualcosa dovrà succedere: o vendita di giornali come Boston Globe (ma chi compra oggi un giornale ?) o chiudere lo Herald Tribune, vendere gli immobili (come è stato fatto), naturalmente sono tutte soluzioni che non cambiano la realtà: lettori in calo, pubblicità in calo, economia in calo». E conclude: «Potrebbero chiudere il giornale stampato, e andare completamente sul web, ma il sito (del resto uno dei migliori al mondo) riuscirebbe a pagare solo il 20% dei giornalisti attuali».

Un alto dirigente di un gruppo editoriale italiano sostiene che per ogni euro di pubblicità che il suo giornale perde, forse riesce a recuperare venti centesimi sul web. Evidentemente queste risorse sono insufficienti alla vita del giornale.

Tuttavia i lettori italiani dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell’acquisto del quotidiano in edicola. Secondo Emanuele Pirella, decano dei copy writer italiani «i giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole».

Qui a quanto pare c’è il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise, ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa, sviluppare il web. Infatti, se in Italia gli investimenti pubblicitari nella tv rientrassero nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale.

Con il vantaggio che le idee farebbero la differenza, che la strategia di comunicazione farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza.

Un esempio? In Gran Bretagna, Bbc e Itv hanno sofferto la concorrenza di BSkyB. Però Bbc ha saputo reagire, creando quel che, a parere di Sorrell è forse oggi il miglior “marchio” di servizi online al mondo.

I giornali italiani perdono copie, diffusione e raccolta pubblicitaria, ma hanno una buona presenza non solo sul territorio ma anche sul web, testimoniata da un elevato e crescente numero di “visitatori unici” quotidiani. Un know- how che permetterebbe loro di occupare uno spazio inedito nel fornire ottimi servizi on line. Ne hanno le capacità, le competenze, ma soprattutto l’autorevolezza che deriva dalla reputazione storica delle testate.

La visione globale del panorama dei media e del loro rapporto con la pubblicità aiuta certo a comprendere i cambiamenti in atto. Ma non si devono confondere le politiche delle grandi marche globali con le dinamiche delle marche locali. Essi occupano differenti pesi specifici sui mercati e dunque possono avere un rapporto diverso con la pubblicità e differente con i media. Il tessuto connettivo dell’economia italiana è fatto di una miriade di piccole e medie imprese, alle quali bisognerebbe favorire l’accesso alla pubblicità nei media, senza che si sentano schiacchiate dalle politiche dei grandi numeri che le marche globali importano e inevitabilmente impongono nel nostro paese, condizionando la vita dei media italiani.

Bisognerebbe avere il coraggio di investire in tecnologie (gli editori), in professionalità (i giornalisti). La qual cosa imporrebbe una maggiore e migliore flessibilità da parte dei pubblicitari. E attirerebbe gli inserzionisti, sempre pronti a dirottare i budget pubblicitari verso il media più promettente.

Tutte le crisi impongono scelte. In quella attuale, chi non innova è perduto. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“La Corte di Strasburgo ha già detto no alla carcerazione per intercettazioni.”

di Pino Cabras – Megachip

L’Europa dei diritti dell’Uomo dice no al carcere per i giornalisti. Il governo italiano vorrebbe punire con la detenzione i cronisti che pubblicano le intercettazioni soggette a segreto. Ma un simile provvedimento sfiderebbe una sentenza della Corte di Strasburgo che ha già condannato analoghe sanzioni. Ne parla l’associazione internazionale per la libertà di stampa, Information Safety and Freedom (Isf). «La sentenza emessa a carico della Francia dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo il 7 giugno del 2007 sul caso Dupuis – precisa Isf – ha già chiarito che la pubblicazione di intercettazioni e atti secretati non viola l’articolo 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».

La vicenda richiamata è quella di due giornalisti francesi. Isf ricorda che nel loro paese furono condannati anche in secondo grado per aver divulgato in un libro alcune intercettazioni effettuate in modo illegale dal presidente François Mitterrand e soggette al segreto istruttorio.

«La Corte osserva che quel libro riguardava una questione di rilevante interesse politico per l’opinione pubblica e che si trattava di un affare di stato e osservava che l’articolo 10 della Convenzione “non lascia spazi a restrizioni della libertà di stampa nell’ambito di questioni politiche e di interesse generale”».

Le sentenze di questa Corte, pur non avendo lo stesso significato imperativo delle sentenze emesse dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (quella di Lussemburgo), sono tuttavia il più autorevole presidio dei diritti umani in Europa. Uno dei 47 stati membri del Consiglio d’Europa – putacaso l’Italia – che dovesse fronteggiare una valanga di denunce a Strasburgo – per esempio di giornalisti ed editori – si troverebbe in una situazione politicamente e alla fine giuridicamente difficile da sostenere. È bene che le organizzazioni categoriali si attivino subito in sede di giudizio per prevenire le violazioni della legalità europea poste a tutela della libertà di espressione. (Beh, buona giornata)

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia Società e costume

Processo Mills: “la sede di Milano della Rai non ha neppure mandato una troupe al tribunale per fare un servizio.”

di  ALEXANDER STILLE da repubblica.it

ALLORA, fammi capire – mi ha scritto un mio collega giornalista americano – viene condannato per corruzione il coimputato del primo ministro ma si dimette il capo dell’ opposizione. Che strano Paese, l’ Italia». Poi, mi chiama più tardi un’ altra collega americana che chiede, «ma è possibile che non avrà conseguenze gravi la condanna di David Mills?». «DOPO tutto – aggiunge – se Berlusconi non avesse fatto passare il Lodo Alfano sarebbe stato condannato anche lui? Come spieghi il fatto che cose di questa gravità passano come se nulla fosse?».

Prima, ricapitoliamo i fatti principali. Nel febbraio 2004, David Mills, l’ avvocato britannico di Berlusconi che si occupava dei conti “off-shore” della Mediaset, i conti cosidetti “very discreet,” per operazioni finanziarie segrete e forse illegali, mette penna su carta. Impaurito dalla possibilità di essere colto in fallo con un pagamento di 600.000 dollari non dichiarato al fisco inglese, decide di spiegarne l’ origine al suo fiscalista. Spiega che i soldi erano un regalo o un prestito a lungo termine per il silenzio nei vari processi di Berlusconi che chiama sempre B.o Mr. B. Il fiscalista, per non essere complice di un reato, passa la lettera alle autorità britanniche, le quali a loro volta, informano la magistratura italiana.

Quindi, il processo nasce non da una caccia alle streghe dei giudici italiani ma da una comunicazione di un reato denunciata nel Regno Unito alla quale la magistratura ha dovuto rispondere. Mills conferma ai magistrati italiani il contenuto della sua lettera. Solo in un momento successivo, quando si accorge forse di essere in guai ancora più gravi, ritratta le sue dichiarazioni e dice di aver avuto i soldi da un’ altra parte. Evidentemente il tribunale di Milano ha trovato più convincente la prima versione e l’ ha condannato.

Nel processo originario, Berlusconi era coimputato con Mills e con buona probabilità, dato l’ esito del processo, sarebbe stato condannato anche lui se il suo governo, con grande tempestività, non avesse varato il Lodo Alfano che protegge il primo ministro da qualsiasi processo penale durante il suo mandato.

Che un caso così grave (un primo ministro che rischia la condanna per aver corrotto un testimone al fine di evitare, forse, altre condanne – falsando completamente il sistema giudiziario – e poi si toglie dai guai usando il Parlamento per farsi leggi ad personam) passi quasi inosservato, desta stupore e incredulità nel pubblico americano. Dopotutto, quando il governatore democratico dell’ Illinois viene scoperto a promettere favori in cambio di denaro, viene espulso dall’ assemblea sia dai democratici che dai repubblicani.

Quando l’ uomo scelto da Barack Obama per riformare la sanità americana, Tom Daschle, viene scoperto nei guai con il fisco, il presidente è costretto ad allontanarlo.

Allora, come si spiega la mancanza di risposta in Italia? In parte, bisogna partire da lontano; con l’ unità d’ Italia, lo Stato visto come un’ imposizione; l’ abitudine di guardare la legge con sospetto come strumento di potere, evitata dai potenti, interpretata per gli amici e applicata ai nemici. Ma questo è solo lo sfondo, non spiega tutto.

Ricordiamoci, l’ opinione pubblica era massicciamente a favore della magistratura ai tempi dell’ inchiesta Mani Pulite quando Berlusconi è sceso in campo. Ma in un paese normale, non avrebbe mai potuto farlo essendo ancora proprietario di tre grandi reti televisive. Sarebbe stato messo fuori gioco dai soldi a Craxi, dalle tangenti alla Guardia di Finanza, anche se i processi non hanno portato a condanne. O dal caso Previti: per conto di chi l’ avvocato Previti ha corrotto il magistrato Renato Squillante? O dal caso Dell’ Utri: per chi ha lavorato Marcello Dell’ Utri in tutti gli anni in cui ha intrattenuto rapporti con esponenti importanti della mafia? Si potrebbe andare avanti per molti paragrafi. Ma ovviamente, la risposta è più complessa. Una delle più grandi prestazioni di Berlusconi (se le possiamo chiamare cosi) è di aver sistematicamente smantellato Mani Pulite.

Per ogni guaio giudiziario del Cavaliere e della Mediaset, partiva un attacco feroce contro i giudici. Venivano fatte sistematicamente delle accuse gravissime – che andavano dalla corruzione all’ assassinio, contro Di Pietro, Borrelli, Caselli, contro altri magistrati di punta come Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo. E poi i vari casi Mitrokhin e Telekom con le accuse di megatangenti a Romano Prodi e Piero Fassino. Il fatto che queste accuse siano tutte crollate non importa. Creava l’ apparenza, falsa, di un’ equivalenza morale. Così fan tutti. La raffica di accuse e contro-accuse crea una tale confusione che l’ elettore medio ha deciso di non tenere conto delle questioni giudiziarie e morali.

La retorica antipolitica di Berlusconi ha aggravato il già diffuso cinismo degli italiani da cui trae beneficio politico. Con abilità brillante, riesce a governare il paese per anni in una fase di netto declino ma riesce a presentarsi come l’ uomo dell’ opposizione alla politica. Peggio va, meglio è per lui, un sistema perfetto – per ora. In tutto questo ha un ruolo estremamente pesante il mondo dell’ informazione. Appariva in prima pagina e all’ inizio dei telegiornali la conferenza stampa in cui Berlusconi ha dichiarato, cimice in mano, di essere stato spiato – il delitto politico più grave dopo il Watergate. Ma la notizia che era tutta una bufala è stata riportata come una notizietta.

Ho suggerito un piccolo esame alla mia collega americana che chiedeva perché il caso Mills non avrebbe inciso nel dibattito italiano: vediamo se il Tg1 o il Tg2 riportano o citano la lettera di David Mills, la pistola fumante del processo. Qualsiasi resoconto del processo avrebbe l’ obbligo di spiegare su quale base un tribunale della Repubblica ha condannato qualcuno di un reato molto grave. Se c’ è un’ informazione libera in Italia i tg menzioneranno almeno l’ esistenza della lettera. Ma i due grandi Tg della Rai hanno sepolto la notizia con dei brevi servizi in mezzo al programma e nessuno ha spiegato sulla base di quali prove è stato condannato l’ avvocato Mediaset.

Ho saputo che il servizio ha rischiato addirittura di non esserci. La sede di Milano della Rai non ha neppure mandato una troupe al tribunale per fare un servizio. Hanno spiegato i dirigenti che senza Berlusconi come imputato non aveva nessuna importanza nazionale, aggiungendo figuriamoci dopo i risultati in Sardegna. Solo dopo la protesta dei giornalisti e il loro sindacato – e per evitare uno scandalo – si è fatto qualcosa, ma a quell’ ora la Rai ha dovuto comprare il filmato da una troupe privata.

Ormai i giornalisti dei tg sono talmente condizionati che diventa prassi normale tacere su notizie imbarazzanti o sgradevoli. Berlusconi ha detto un giorno a Marcello Dell’ Utri: “Non capisci che se qualcosa non passa in televisione non esiste? E questo vale per i prodotti, i politici e le idee.” E’ anche per questo che in Italia il caso Mills non esiste o quasi. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Antitrust, tariffe e pubblicità: Telecom dice “di aver agito nel pieno rispetto della normativa vigente”.

(fonte: AGI)

Telecom italia ricorrera’ al Tar del Lazio contro la multa da 500 mila euro comminata dall’Antitrust a Tim. L’annuncio e’ contenuto in una nota del gruppo che sottolinea di ritenere “di aver agito nel pieno rispetto della normativa vigente”. L’azienda , prosegue il comunicato, “ha dato ampia e dettagliata comunicazione alla propria clientela sulla manovra di rimodulazione tariffaria, in particolare riguardo alle modalita’ per l’esercizio del diritto di recesso i cui tempi sono stati addirittura estesi a beneficio dei consumatori. Questo e’ avvenuto attraverso una reiterata campagna informativa che ha utilizzato diversi mezzi di comunicazione quali sms, annunci stampa ed internet al fine di garantirne la massima diffusione, e che proprio per questo”, conclude la nota, “non puo’ essere considerata ambigua ed omissiva”.

Non ci resta che aspettare la sentenza del Tar del Lazio. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Antitrust, tariffe e pubblicità: continuiamo a farci del male.

L’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato ha multato Tim e Vodafone con una sanzione da 500.000 euro ciascuno “per modifica unilaterale e sistematica dei piani tariffari senza fornire adeguate informative al consumatore”. Ne da notizia l’associazione Altroconsumo, che aveva denunciato in agosto all’Authority i due operatori per pratiche commerciali scorrette sui rincari delle tariffe di telefonia mobile.

Secondo i rilievi di Altroconsumo, accolti dall’Antitrust, “la mancanza di informazione e trasparenza ha impedito agli utenti di conoscere le caratteristiche delle nuove tariffe”, e le modalità di attuazione della portabilità e di rimborso del credito residuo.

Finora, tra il crollo generalizzato dei consumi degli italiani, le uniche voci che si salvavano era le spese per informatica e telefonia mobile. Così facendo, le compagnie telefoniche coinvolte dalle sanzioni dell’Antitrust danno un brutto colpo a questo settore dei consumi. Non solo. Tra il crollo generalizzato della pubblicità, con le conseguenti ripercussioni sui bilanci dei giornali italiani, tenevano i budget pubblicitari sulle offerte telefoniche.

Le campagne pubblicitarie di questi mesi sono state, evidentemente, lanciate all’insegna della “ mancanza di informazione e trasparenza”, come recita la decisione dell’Antitrust. Il che è un altro brutto colpo alla credibilità della pubblicità italiana.

Se alla crisi economica si aggiunge la crisi di fiducia nelle compagnie telefoniche e di conseguenza alla pubblicità promossa dai gestori, tutto questo fa malissimo alla ripresa dei consumi. Diventa inutile chiedere ai cittadini e ai consumatori di mantenere i nervi saldi di fronte alle difficoltà economiche del Paese, quando alcuni comportamenti mettono in discussione la trasparenza delle aziende e la veridicità delle informazioni.

Queste mille piccole bolle speculative, che si scoprono di frequente sono  forse un danno calcolato, tanto da far venire il sospetto che le eventuali sanzioni comminate dall’Antitrust vengano messe in conto e portate comunque a profitto nei conti economici calcolati sugli aumenti tariffari poco trasparenti. Il che, sia detto con tutto il rispetto,  rischia anche di vanificare l’operato stesso dell’Authority , minarne l’efficacia, screditarne le funzioni agli occhi dei consumatori, diffondere un pericoloso senso di impotenza da parte di milioni di clienti.

Recentemente negli Usa una commissione parlamentare ha chiesto conto ai top manager delle banche dei loro comportamenti. Una cosa simile è successa in Gran Bretagna. E’ ora che anche in Italia si cominci seriamente a pensare come fermare e sanzionare pratiche commerciali scorrette.

La violazione delle norme antitrust non è solo un dolo, sanabile per via amministrativa. E’ un danno continuo e continuato, oltre che alla correttezza verso i consumatori, anche alla credibilità dei soggetti del mercato: in definitiva, al libero mercato stesso.

La cosa non è risolvibile  solo con l’introduzione della “class action”, cioè la possibilità di intentare cause civili collettive da parte dei cittadini lesi nei loro diritti, che pure il governo italiano ha prorogato di due anni, come stabilito nel decreto “mille proroghe”(!). 

Il punto è che non si tratta più  solo di introdurre deterrenti ai cattivi comportamenti. Si tratta di intervenire con tempestività e decisione, perché in Italia cambi profondamente il rapporto tra grandi compagnie e i loro clienti. Non lo imporrebbero semplicemente astratti principi di etica dell’impresa. E’ la crisi dei consumi che lo chiede: senza correttezza e trasparenza non c’è fiducia, senza fiducia non c’è nessuna luce possibile, in fondo al tunnel della peggiore congiuntura economica mai vissuta dai mercati globali. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Quanto sta male la pubblicità italiana.

di Marco Ferri da ilmessaggero.it

ROMA (14 febbraio) – Secondo Nielsen Media Research, gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2008 ammontano a 8.587 milioni. La variazione dicembre 2008 su dicembre 2007 è del -10,0%. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa, mentre la Radio segna +2,3% superando i 487 milioni di raccolta.

I Quotidiani a pagamento registrano il -7,0% con la Commerciale Nazionale a -10,7%, la Locale a -0,8% e la Rubricata/Di Servizio a -4,9%. Sui Quotidiani sono in forte diminuzione gli investimenti di Auto (-21,5%), Finanza/Assicurazioni (-18,4%) e Distribuzione (-11,3%). E’ positivo, ma in rallentamento, l’Abbigliamento (+6,9%).

I Periodici sono in flessione del 7,3%. Tra i settori, è positivo l’Abbigliamento (+1,5%), ma diminuiscono Abitazione (-7,5%), Cura Persona (-12,6%), Alimentari (-11,0%), Oggetti personali (-17,1%) ed Automobili (-15,5%).

C’è da notare che questi dati smentiscono clamorosamente la professione di ottimismo di molti manager della pubblicità italiana, che sul finire del 2008 rilasciavano dichiarazioni tranquillizzanti circa l’andamento del mercato, nonché delle rispettive agenzie. Come si può vedere, la realtà era ed è tutt’ora molto diversa, tanto da far pensare che la situazione miri verso ulteriori peggioramenti.

Non è, infatti pensabile ci possano essere incrementi di spesa pubblicitaria da parte di aziende, globali e nazionali che subiscono la pesante congiuntura della crisi economica. Tutti i settori sono in crisi, molti tagliano e taglieranno ulteriormente, accanto ai budget di comunicazione, anche stabilimenti e posti di lavoro.

Questa situazione non può che riverberarsi anche sulla agenzie di pubblicità, con il conseguente ulteriore taglio dei livelli occupazionali, già in atto a partire dalla seconda metà dello scorso anno. In barba, appunto alle dichiarazioni pubbliche di buona salute finanziaria delle agenzie di pubblicità, rese dalla quasi totalità dei top manager della pubblicità italiana.

Questa “cortina fumogena” di ottimismo gratuito ha, anzi, peggiorato la situazione, dando la viva impressione di essere totalmente impreparati ai nuovi scenari descritti alla crisi, aggravando ancor di più le già scarse risorse di reputazione e autorevolezza di cui godono le aziende di comunicazione italiana presso gli investitori pubblicitari.

Tra circa un mese, a metà di marzo, Upa, l’associazione degli inserzionisti pubblicitari e Assocomunicazione, l’associazione delle imprese di comunicazione commerciale hanno convocato un meeting a Roma sullo stato dell’arte della pubblicità italiana. Visti i dati, poco edificanti e sottolineati i comportamenti, poco trasparenti sarebbe il caso di suggerire agli organizzatori di mettere al primo punto dell’agenda dei lavori dell’assise romana la correttezza nell’informazione sull’andamento del mercato e sui bilanci delle agenzie. Come, per altro si faceva fino ai primi anni del 2000, quando questi dati erano comunicati e pubblicati su Advertising Age, la famosa rivista americana.

E’ vero che la pubblicità ha il dovere di dire la verità, solo la verità, tutt’altro che la verità. Ma questo può valere nella comunicazione dei messaggi, dove l’esagerazione e i meccanismi di rovesciamento sono leciti, perché accettati dai lettori come il tipico linguaggio della pubblicità, irridente, provocatorio, sorprendente e per questo accettabile, magari con un sorriso.

Tutto ciò non è invece accettabile quando si ha a che fare i numeri dei fatturati. Lì è in gioco la correttezza dei rapporti tra i protagonisti del mercato della comunicazione commerciale in Italia. Alla quale farebbe bene che a essere molto creativi fossero copywriter e art director, non Ceo e direttori finanziari. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Torna il reato d’opinione.

intervista di Vittorio Zambardino a Marco Pancini – da zambardino.blogautore.repubblica.it

“No, le leggi ad Aziendam che poi hanno un impatto su tutto l’ecosistema non si possono fare. E bisognerebbe evitare di portare l’Italia a livello dei peggiori paesi del mondo in fatto di reati d’opinione”

Al telefono c’è  Marco Pancini, resposabile per le relazioni istituzionali di Google in Italia. L’argomento è l’emendamento “ammazzaFacebook“, approvato il 5 febbraio per iniziativa del senatore D’Alia (Udc). Il parlamentare ieri ha spiegato in questa intervista ad Alessandro Gilioli  le sue posizioni e ripetuto che casi come quello delle pagine che inneggiano a Riina potrebbero portare alla chiusura dell’intero social network…

Non posso parlare a nome di Facebook, ma per quanto ci riguarda per la verità è peggio, se chiedessero a noi di togliere una certa pagina, noi lo faremmo subito, come facciamo con ogni contenuto segnalato come criminoso dall’autorità. Invece con questo emendamento lo chiederanno ai provider, ai fornitori di accesso cioè alle aziende telefoniche

Ma mi sbaglio o il nocciolo dell’emendamento D’Alia è che l’ordine di cancellare un dato contenuto e di eventualmente oscurare la pagina viene dal governo?

Tra l’altro questo è uno degli aspetti cruciali. Si crea una nuova filiera, si parla di controlli preventivi, qualcosa che da noi non è mai esistito.  E poi in questo momento i ministeri non hanno una struttura adeguata a seguire tuttio ciò che si pubblica in rete, quindi dovrebbe esserci un nuovo organismo. Me lo lasci dir bene, su questa faccenda siamo molto preoccupati, davvero…

Dica pure, ma mi pare che già il fatto – questa è una valutazione mia, non sua – che il governo si occupi “personalmente” di colpire i reati di opinione metta la cosa su un’orbita incredibile fino a poco tempo fa

A dire il vero fino a poco tempo fa il governo, con il disegno di legge Cassinelli aveva dimostrato di capire che esistono profili differenziati di responsabilità per chi si esprime in rete, si pensava ad una differenziazione tra blog individuali e siti che riflettono organizzazioni più professionali. Ora invece pare che la tendenza sia ad omologare il signor Rossi, titolare di un piccolo blog, al direttore di Repubblica. Ma come si fa?

Sta invocando anche lei un tavolo di trattative?

Certamente. Sarebbe così folle avere una sede di discussione nella quale esporre, spiegare, far capire? Perché sa, qui si tratta di istituire una filiera del controllo preventivo che è ignota all’ordinamento italiano. Noi possiamo parlare e parliamo con tutti, dalla polizia postale fino al governo, purché ci sia la volontò di ascoltarci…

E invece arriva l’emendamento D’Alia

C’è un orientamento in una parte del mondo politico che riflette una totale separazione dall’industria internet e dal mondo degli utenti

Loro pensano alle pagine su Riina o agli antisemiti

Ma già oggi è possibile individuare e colpire le responsabilità di chi commette un reato, e mi risulta che ci sia ancora scritto nel nostro ordinamento che la responsabilità penale è personale. Qui invece per la responsabilità di uno si vuole oscurare il diritto all’espressione di tutti

Può descrivere in concreto il meccanismo che la preoccupa, cosa intende quando parla di filiera del controllo?

Lei si immagini la Telecom o qualsiasi altro provider  che si vede recapitare l’ordine di rimuovere una pagina “incriminata”. Cosa succede? Chiamano l’autore? Non lo fanno, non possono materialmente farlo in breve tempo. Quindi chiudono tutto il servizio. Per poi riaprirlo a crisi superata… ma ci rendiamo conto a quali paesi stiamo equiparando l’Italia?

La Birmania, la Cina…

Non lo so, ai peggiori della classe in fatto di libertà di espressione: lo ripeto, stiamo parlando del reato d’opinione. A me pare l’abc del diritto. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“Più passa il tempo, più sembra che i nostri governanti non sappiano che cosa sia Internet né come funzioni.”

da www.zeusnews.com

La risposta del social network alla recente legge che permette al nostro governo di bloccare qualunque sito a proprio piacimento.

Bloccare l’accesso a tutto Facebook per colpa della presenza di alcuni gruppi discutibili è come chiudere un’intera rete ferroviaria a causa della presenza di alcuni graffiti offensivi in una singola stazione: così Facebook risponde alla proposta censoria avanzata dal governo italiano.

Il problema era nato a seguito della scoperta di alcuni gruppi inneggianti a criminali riconosciuti, da Riina agli stupratori di Guidonia. La soluzione? Mettere il bavaglio a Internet, incuranti di quanti usano lo stesso strumento per fini più che leciti.

I provider, naturalmente, avrebbero dovuto essere lo strumento della censura, applicando i filtri secondo le disposizioni del Ministero dell’Interno, pena una multa salata.

Sembra che per quanti siedono a Roma Facebook sia il ricettacolo – almeno per adesso, fino alla prossima moda – di ogni malvagità. Qualcuno dovrebbe far loro notare, che il social network è complesso quanto il mondo reale, e che a fronte di 433 fan di Provenzano ce ne sono 369.463 di Falcone e Borsellino.

Il senatore Gianpiero D’Alia ha poi cercato di correggere il tiro: non tutto Facebook verrebbe bloccato, ma solo le pagine incriminate.

C’è da chiedersi se il senatore si sia mai chiesto quali difficoltà tecniche la cosa comporterebbe per i provider, i quali potrebbero essere costretti ad ammettere di non poter fare quanto richiesto.

Più passa il tempo, più sembra che i nostri governanti non sappiano che cosa sia Internet né come funzioni. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

«La crisi riduce i budget della pubblicità su carta E anche il pluralismo»

di FRANCESCO PICCIONI da Il Manifesto
È uno dei più noti copy writer italiani, con una carriera «all’americana», da semplice fattorino a «presidente e direttore creativo esecutivo» della Tbwa/Italia. Poi, per Marco Ferri, una girandola di incarichi e riconoscimenti internazionali, sempre all’interno del delicato snodo tra pubblicità e media.
Inserti e giornali femminili sono «dimagriti»…
La crisi viene da lontano ed è strutturale. L’Italia, in particolare, non consuma molti giornali. Come per il resto dell’editoria, credo ci siano più testate che lettori. Oggi si aggrava perché la crisi economica fa sì che si taglino budget e posti di lavoro, e quindi ai giornali arriva meno pubblicità, con scompensi gravissimi.
Cala la «torta» complessiva della pubblicità?
C’è un restringimento stimato nell’ordine del meno 3 e qualcosa. Sono dati non confermati e non smentiti, perché tutte le grandi holding di pubblicità – non solo le agenzie, ma anche i centri media – non dichiarano più i dati dall’inizio del 2000, con la crisi della net economy. Un accordo per non pubblicare più le loro classifiche sulla rivista Usa Advertising age, come avvenuto fin lì. All’epoca tutte le holding di pubblicità furono sottoposte a controlli della Sec – la Consob americana – per delle «irregolarità». Furono costrette a rimettere a posto i propri bilanci e in alcuni casi anche a restituire delle over commission ai grandi clienti.
A livello globale?
Sì. Molta della pubblicità prodotta in Italia è legata a holding internazionali; i manager italiani non hanno fatto altro che adeguarsi agli ordini. Noi abbiamo però il grave problema che gran parte dei budget pubblicitari viene assorbito dalla tv; da Mediaset e Rai. In una fase di crisi, con quasi il 70% assorbito dal sistema televisivo, si può immaginare come si sia ridotto il flusso verso la carta stampata. I giornali perdono contemporanemaente copie, diffusione, lettori e pubblicità. Questo assottiglia non solo le pagine, ma – temo – anche la forza lavoro.
E’ possibile un uso selettivo e condizionante della pubblicità in queste condizioni?
Temo di sì. La pubblicità ha già la sua forte influenza sui contenuti giornalistici. In tempi di crisi, «urtare la suscettibilità» di un investitore condiziona chi deve affrontare un’inchiesta. Un esempio di oggi: Carlos Ghosn, da Tokyo, ha dichiarato che taglia il 10% dei costi globali di Nissan. Si potrebbe però obiettare: «ma come, una marca globale si prende gli incentivi in tutto il mondo e licenzia gli operai?» Scrivere una cosa del genere urterebbe gli investitori, che invece vorrebbero invece utilizzare le pagine del giornale per promuovere i propri modelli sottoposti a incentivi governativi. Ma la «stortura» vera riguarda il drenaggio eccessivo della quota di mercato assorbita dalla tv, il peso abnorme della tv commerciale. La Ue ha scritto di recente all’Italia per dire che la «legge Gasparri» non va bene. Ma non ne ha scritto nessuno.
L’inrgresso di Murdoch che effetto ha avuto?
Secondo i dati Fox la presenza è cresciuta dal 3,4% al 9,8. E’ ora un competitor robusto, più appetibile come strumento di comunicazione pubblicitaria. Questo crea malumori e scontri molto forti. C’è stato quel conflitto sull’iva al 20% come risposta, ma anche un cambio di strategia. Con il passaggio al digitale terrestre la tv generalista sta cercando di tematizzare i propri programmi , Sky sta facendo l’opposto. Hanno preso Fiorello, si parla di Celentano, già è in scuderia la Cuccarini. Personaggi tipici che hanno fatto grandi ascolti nell’intrattenimento «generalista». Murdoch sta investendo in Italia, nonostante le perdite globali. Ma il satellitare può essere un competitor della tv in chiaro.
Si va a una concentrazione delle testate?
E’ un ridimensionamento duro, rigido, del mercato. Dolori veri. In Italia è anche venuto meno il finanziamento «su carta» ed è in discussione la legge di riforma dell’editoria. Sono tutti molto cauti, sia l’Fnsi che gli editori.
Un grande futuro, per il pluralismo…
Appunto. E’ come se il pluralismo fosse stato ridotto al telecomando. Ho l’impressione che, nell’editoria, sia tutta un’altra cosa. (Beh, buona giornata).
Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Botte da orbi tra Mediaset e Sky. La pubblicità sta a “guardare”.

Sky non ha fatto nemmeno in tempo ad annunciare ufficialmente l’arrivo di Fiorello  che Mediaset  per rappresaglia sta facendo di tutto perché vengano tolti dalla piattaforma satellitare di Murdoch i suoi canali (Canale5, Italia1 e Rete 4) per essere trasmessi esclusivamente sulla nuova piattaforma satellitare Tivù Sat, Insomma, tra Sky Mediaset sta per scorrere sangue. 

Pare che in questi giorni, ogni tanto succede che dei tre canali Mediaset visibili su Sky uno venga oscurato e su un altro  compaia in modo continuato una scritta che avvisa lo spettatore dell’opportunità di vedere lo stesso canale anche sul digitale terrestre.

Sicuramente il lancio di Tivù Sat, la piattaforma realizzata in collaborazione da Mediaset, Rai e Telecom Italia Media, cioè La 7, riveste un’importanza strategica in particolare per Mediaset, che sta spingendo sulla pay tv. Infatti sul digitale terrestre sta operando nell’ottica di affiancare canali a pagamento a quelli in chiaro, soprattutto allo scopo di diversificare il fatturato. Il gruppo sta cercando di dare una spinta propulsiva agli abbonamenti a importo fisso mensile, proprio sul modello inventato da Sky appunto, in sostituzione alle carte prepagate.

Però, per sfruttare al meglio le potenzialità del modello pay, è innegabile che la piattaforma migliore resti quella satellitare; da qui la fiducia che Mediaset ripone nella nuova Tivù Sat e la decisione di portare su di essa anche i tre canali free, togliendoli alla tv satellitare di Sky.

Che intanto però, colleziona successi, non solo in termini di ascolti ma anche di raccolta pubblicitaria. Pare infatti che, nonostante l’annus horribilis del mercato, il 2008 per Sky si sia chiuso con lo stesso risultato del 2007, se non addirittura con qualche punto in più.

Finalmente un po’ di concorrenza nel mercato televisivo italiano. Anche se c’è da notare come in questo nuovo scenario la Rai appaia “embedded” alle scelte di Mediaset. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Gli italiani e la crisi dei consumi. Un monito per la pubblicità italiana: meno tv, più comunicazione; meno emozioni, più concrete informazioni. Insomma: meno blàblàblà, più creatività.

di MAURIZIO RICCI da repubblica.it

STARBUCKS, la leggendaria catena del caffè e degli yuppies, taglia 7 mila posti e 300 negozi. McDonald’s, il re degli hamburger, apre 300 ristoranti e assume 12 mila persone. Non è solo la storia divergente di due aziende, ma di come la crisi che scuote il mondo stia stravolgendo i nostri stili di vita. Alle spalle le luci soffuse, l’atmosfera rilassata, la scelta tra un (costoso) caffè della Colombia e un (costoso) caffè dell’Ecuador, con il Mac sulle ginocchia a chattare con gli amici. E’ il momento delle luci crude, i tavoloni di formica affollati, i panini politicamente scorretti, da consumare in fretta, ma spendendo poco. Dal superfluo al necessario.

Come dicono sconsolati gli analisti di Goldman Sachs, esaminando il bilancio sconfortante di Polo Ralph Lauren, un simbolo del vestire con classe, nei consumatori l’aspirazione (“con questa cosa faccio un figurone”) è stata sostituita dalla disperazione (“ma davvero devo spendere tutti questi soldi?”). Un rapporto sui consumi di una grande banca, Credit Suisse, sottolinea che l’unico comparto che regge è l’alimentare: a mangiare non si rinuncia.

Tutto intorno, la spirale della deflazione è nel suo giro più maligno: i prezzi scendono, ma non abbastanza da stimolare la domanda. In Inghilterra, a dicembre, le vendite di beni non alimentari sono aumentate del 4 per cento. Ma i relativi incassi sono diminuiti dell’1,4 per cento, devastando i bilanci delle aziende e avvitando di più verso il basso la spirale della deflazione.

Non c’è da sorridere, comunque, per nessuno. Negli Stati Uniti, Saks e Neiman Marcus, gli Starbucks dell’abbigliamento, hanno visto a dicembre le vendite scendere fra il 20 e il 30 per cento, nonostante i saldi iniziati, spesso, il pomeriggio della vigilia di Natale. Wal-Mart, il McDonald’s della grande distribuzione, le ha aumentate, ma solo dell’1,7 per cento. Dice Giorgio Santambrogio, direttore generale al marketing di Interdis, una grande catena di supermercati italiana, con quasi 3 mila punti vendita: “Un fatturato che regge è già un successo”.

L’esempio più immediato lo troviamo nei luoghi che del risparmio – la carta vincente, oggi, per i consumatori – fanno la loro ragion d’essere. I mercatini dell’usato, online e sulle bancarelle, vanno alla grande e soddisfazione c’è anche nel più grande dei mercati dell’usato: l’auto. L’anno scorso, gli italiani hanno comprato quasi 3 milioni di macchine usate, contro poco più di 2 milioni di macchine nuove. Ormai, si vendono (comprese quelle cedute ai concessionari quando si acquista un’auto nuova) 138 macchine usate ogni 100 nuove.

Anche l’usato, in realtà, dall’autunno, secondo le stime di CarNext, una società del settore, ha subito una flessione nei numeri venduti, ma meno di un terzo, rispetto a quanto è avvenuto nel nuovo. E, intanto, la quota del fatturato, rispetto al nuovo, si allarga: nel 2008, i rivenditori di auto usate hanno incassato 24 miliardi di euro, il 56 per cento del giro d’affari delle auto nuove. Dove, a salvarsi, sono state solo le superutilitarie e quelle che, almeno, con gpl o metano, risparmiano sul carburante. Piano, però, a generalizzare l’effetto-risparmio.

Se, in effetti, il parametro decisivo è l’incrocio fra prezzo e necessità, sembrerebbe logico dedurre che, anche al di là dell’auto, i meglio attrezzati a galleggiare sulla crisi siano i profeti del discount, gli alfieri del prezzo scontato, spesso giganti globali: Wal-Mart, Carrefour, Tesco, Metro. E le loro repliche locali. Ma la psicologia dei consumatori è più complicata di così e la crisi morde in modo più selettivo. In termini generali, questa è l’era del discount: secondo i dati della Nielsen, nella prima metà del 2008, il 63,5 per cento degli italiani è andato a fare la spesa nei discount. Dallo scorso luglio, questa quota è salita al 72 per cento.

Eppure, un gigante degli ipermercati, paradiso del prezzo basso, come Carrefour, nel 2008 ha visto diminuire di quasi il 2 per cento le sue vendite in Italia e ha dovuto ridimensionare drasticamente il suo grande ipermercato della Romanina, nella capitale.

Metro sta tagliando il personale. Che succede? Ce lo fa capire Alessandro, direttore del discount Tuo a Roma, nel quartiere Gianicolense: “Noi – dice – più o meno vendiamo come prima. Ma sa qual è la differenza, rispetto ad un anno fa?” Con il mento indica i clienti che si muovono fra gli scaffali spartani: “Vediamo ogni giorno le stesse facce. Prima venivano una volta a settimana e riempivano il carrello. Adesso, vengono ogni giorno e se ne vanno con una bustina”. “E’ finita – spiega Santambrogio – l’epopea della shopping expedition, quando si partiva per riempire il bagagliaio della macchina con la spesa per un mese”.

Il consumatore italiano non pensa di potersi permettere progetti di spesa per più di due-tre giorni. “Noi – dice Santambrogio – facciamo più scontrini, ma ognuno per una cifra inferiore a prima”. Nielsen conferma: lo scontrino medio dei discount è passato da 69,7 a 63,6 euro. A soffrirne sono proprio gli ipermercati alla periferia delle città: il viaggio non vale più la pena. Le analisi di mercato di Infoscan dicono che, a novembre (ultimo dato disponibile prima che le vendite venissero drogate dallo shopping natalizio), gli ipermercati hanno venduto l’1,6 per cento in meno, rispetto ad un anno prima, e incassato il 3,1 per cento in meno. I supermercati, secondo Santambrogio che, da Interdis, segue marchi come Dimeglio e Sidis, in particolare quelli di quartiere, sono meglio in grado di adattarsi alle caratteristiche della clientela locale, ad una prevalenza di clienti anziani, piuttosto che di coppie con figli. Infoscan registra che, a novembre, gli incassi dei supermercati sono cresciuti dell’1,7 per cento rispetto al 2007.

Il consumatore italiano, insomma, pensa in piccolo e tira la cinghia. Tuttavia, i contorni della crisi italiana sono ancora fluidi e incerti. Gennaio è il mese dei saldi e delle tredicesime ancora in tasca, la massa dei precari tagliati il 31 dicembre ha ancora un mese di stipendio, le ondate di licenziamenti e di cassa integrazione si stanno materializzando solo adesso. Il picco della crisi deve, forse, ancora arrivare. Oppure la crisi italiana sarà diversa da quella dei paesi dove, oggi, sta colpendo più duro.

Stefano Beraldo, amministratore delegato del gruppo Coin-Oviesse, ha un osservatorio privilegiato: i negozi Oviesse hanno un’offerta economica, mentre l’offerta di abbigliamento Coin si rivolge ad un segmento di mercato più alto. “Francamente – dice Beraldo – io non vedo differenze. Natale 2008 è andato, più o meno, come il 2007 e, anzi, forse Coin è andata meglio di Oviesse. Anche i saldi sono andati bene in tutt’e due le catene. Certo, non ci sono più i turisti russi e giapponesi a tenere su le vendite, le donne si concedono meno sfizi e tutti sono più attenti al rapporto qualità/prezzo. Fare il nostro mestiere è diventato più difficile. Ma niente di paragonabile al massacro cui assistiamo su mercati come quello americano, inglese o spagnolo. Magari il consumatore italiano è più resistente. Oppure stava peggio già prima”.

In effetti, in Italia non c’è stato ancora nulla di paragonabile allo “sboom” dei paesi in cui lo sgonfiarsi della bolla immobiliare prima, del credito al consumo e delle carte di credito, poi, ha determinato un crollo repentino, verticale, devastante delle vendite. Non c’è stato lo sboom, perché, prima, non c’era stato il boom: da anni, redditi e consumi italiani sono ai limiti dell’asfittico. Questo, tuttavia, vuol dire che la ripresa, quando arriverà, sarà più lenta ed incerta e che la crisi, se arriverà a colpire duro, troverà un organismo già indebolito. Soprattutto, perché il malessere dell’economia italiana, che viene da lontano e che la crisi globale può solo aggravare, ha già intaccato la resistenza di quelle classi medie che sono il nerbo dell’esercito dei consumatori.

Una ricerca condotta da Interactive Market Research ci fornisce un panorama degli umori e delle paure di queste classi medie. Come tutti i sondaggi on line, il campione non è rappresentativo della realtà nazionale. Ma, in questo caso, è un vantaggio. Perché un campione con il 30 per cento di laureati e il 50 per cento con un reddito sopra i 2 mila euro mensili è l’immagine della classe media attiva e, se da questa esce un sentimento univoco di pessimismo e rinuncia, i prossimi mesi saranno duri per tutti. E, qui, quasi metà degli intervistati ha difficoltà ad arrivare a fine mese e tre quarti si dichiarano molto preoccupati, al pensiero di un acquisto imprevisto che costi quanto un mese di stipendio. La lista delle rinunce e delle cose indispensabili ci fornisce una guida per capire chi soffrirà di più e chi meno, per la crisi.

Via libri, dvd, giornali, sigarette, cinema e teatro. Più televisione? Rai e Mediaset, però: metà del campione dichiara di aver rinunciato a Sky. Niente videocamera o videogames. Anche la tv a schermo piatto può attendere. Tagliati la palestra e l’estetista. Niente abiti eleganti, borse, attrezzature sportive. Neanche il cappotto nuovo. Al supermercato, basta con i dolci, l’acqua minerale, pesce, vino e birra. In generale, basta con i prodotti di marca: chi se ne frega dell’abito griffato e, per mangiare, vanno benissimo i prodotti con il marchio del supermercato locale.

Se ogni crisi, come dicono gli economisti, è anche un’opportunità, questa è l’ora dei terzisti, delle etichette anonime e un incubo per che si è preoccupato soprattutto di costruire il proprio “brand”, il proprio marchio. E, poi, chi si salva? Sulla tavola delle classi medie continueranno ad esserci pane, pasta, olio, latte, uova e carne. I bambini avranno i loro giocattoli. Se proprio bisogna spendere, agli interventi di piccola manutenzione per la casa non si può rinunciare. Ai gadget tecnologici, invece, sì. La decimazione è quasi totale. Quasi. Per Nokia, Dell, Ericsson, Samsung, Asus, c’è un po’ di luce, in fondo al tunnel. Computer e telefonino restano due must. La classe media affonda, ma comunica. (Beh, buona giornata). 

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Il pacchetto sicurezza ha preso di mira Internet.

Con il pacchetto sulla sicurezza approvato dal Senato, il Governo italiano dà al ministro degli Interni il potere di chiudere siti Internet, filtrarli e multarli pesantemente.

Infatti, il pacchetto sulla sicurezza appena approvato dal Senato (dovrà ancora tornare alla Camera) prevede che il ministero dell’Interno potrà ordinare l’oscuramento dei siti Internet sui quali si commette il reato di apologia o si istiga a delinquere. Lo stesso ministero potrà chiedere che vi vengano apposti filtri adeguati. I siti “disobbedienti” dovranno pagare una sanzione dai 50mila a 250mila euro.

In pratica il governo si arroga un potere che nei Paesi democratici può essere esercitato solo dall’autorità giudiziaria e mai dal governo per via amministrativa.
Il senatore  Gianpiero D’Alia, dell’UDC, firmatario dell’emendamento anti-internet accolto nel pacchetto sulla sicurezza ha detto: “In questo modo diamo concretezza alle nostre iniziative per ripulire la rete, e in particolare il social network Facebook, dagli emuli di Riina, Provenzano, delle Br, degli stupratori di Guidonia e di tutti gli altri cattivi esempi cui finora si è dato irresponsabilmente spazio.” 

Ripulire? Un verbo che evoca tristi esempi di soppressione delle libertà civili.

E’ la solita vecchia storia della censura di tutti i tempi: fare della libertà di opinione e di espressione una mera questione di ordine pubblico.  

Ecco il testo inserito nel pacchetto sicurezza, con i complimenti ai senatori che lo hanno approvato e a quelli che, pur non condividendolo non lo hanno pubblicamente denunciato come  attentato alla libertà di espressione, di opinione  e al diritto all’ informazione.  Così i complici si sono deliberatamente messi sullo stesso piano  dei colpevoli. (Beh, buona giornata)

Art. 50-bis.

(Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet)

1. Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il Ministro dell’interno, in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l’interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine.

2. Il Ministro dell’interno si avvale, per gli accertamenti finalizzati all’adozione del decreto di cui al comma 1, della polizia postale e delle comunicazioni. Avverso il provvedimento di interruzione è ammesso ricorso all’autorità giudiziaria. Il provvedimento di cui al comma 1 è revocato in ogni momento quando vengano meno i presupposti indicati nel medesimo comma.

3. I fornitori dei servizi di connettività alla rete internet, per l’effetto del decreto di cui al comma 1, devono provvedere ad eseguire l’attività di filtraggio imposta entro il termine di 24 ore. La violazione di tale obbligo comporta una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000, alla cui irrogazione provvede il Ministro dell’interno con proprio provvedimento.

4. Entro 60 giorni dalla pubblicazione della presente legge il Ministro dell’interno, con proprio decreto, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con quello della pubblica amministrazione e innovazione, individua e definisce i requisiti tecnici degli strumenti di filtraggio di cui al comma 1, con le relative soluzioni tecnologiche.

5. Al quarto comma dell’articolo 266 del codice penale, il numero 1) è così sostituito: “col mezzo della stampa, in via telematica sulla rete internet, o con altro mezzo di propaganda”.»

Share
Categorie
Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Dopo Wall Street crolla anche il Wall Street Journal: la crisi della pubblicità mette in crisi i giornali.

da repubblica.it

Primo rosso da oltre tre anni per la News Corporation di Rupert Murdoch: il colosso dei media chiude il secondo trimestre dell’esercizio 2008-2009 con perdite per 6,4 miliardi di dollari. E annuncia un “rigoroso taglio dei costi” che si tradurrà in una riduzione della forza lavoro, anche al Wall Street Journal. A pesare sui conti della società sono gli 8,4 miliardi di svalutazioni effettuate e il calo della raccolta pubblicitaria sia dei quotidiani del gruppo sia delle stazioni televisive, che hanno visto scendere l’utile di gestione del 93%.

“I nostri risultati trimestrali riflettono direttamente il difficile clima economico” spiega Murdoch, presidente e amministratore delegato di News Corp. “Il rallentamento è più severo e probabilmente più lungo di quanto precedentemente previsto” e per questo News Corp “sta mettendo in atto un rigoroso piano di riduzione dei costi in tutte le attività e di riduzione personale dove è opportuno”.

La riduzione dell’organico riguarderà anche il Wall Street Journal, l’illustre quotidiano economico di Dow Jones, gruppo acquistato da Murdoch nel dicembre 2007 per 5,2 miliardi di dollari. L’imprenditore non ha specificato quali settori del gruppo saranno colpiti dal ridimensionamento. Ma secondo quanto riportato dallo stesso Wall Street Journal, i tagli riguarderanno circa 24 posizioni e saranno effettuati attraverso licenziamenti e incentivi all’uscita.

News Corp, così come tutte le società media, accusa un calo della raccolta pubblicitaria, oltre che un rallentamento nelle vendite di dvd. Nel trimestre che si è chiuso il 31 dicembre scorso le vendite di News Corp sono scese del 9,4% a 7,87 miliardi di dollari, al di sotto quindi delle attese degli analisti. Nel quarto trimestre 2008 l’industria dei giornali americana ha accusato – secondo le stime di Wachovia Capital markets – un calo della raccolta pubblicitaria del 20%.

Fra le varie unità del gruppo News Corp, la divisione cable network ha registrato un utile operativo di 428 milioni di dollari, grazie all’aumento dei prezzi delle pubblicità. La divisione film e produzione televisiva, invece, ha visto scendere i propri profitti del 72% a causa della brusca frenata delle vendite di dvd.

Significativa battuta d’arresto anche per la divisione via satellite, i cui profitti operativi sono scesi dell’84% in seguito all’aumento dei costi legato al più alto volume di sottoscrittori, e ai diritti tv per lo sport rincarati, così come i costi di marketing. In rosso anche Fox Interactive e MySpace, che soffrono una perdita di 38 milioni in seguito all’espansione internazionale, alla crescita del numero di utilizzatori unici e al lancio di MySpace Music. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

L’Unione europea contro la legge Gasparri: un richiamo ufficiale sul duopolio Rai Mediaset.

da ilmessaggero.it

La Legge Gasparri sul sistema radiotelevisivo e della Rai è ancora sotto osservazione da parte della Ue. Il portavoce della Commissione Ue Jonathan Todd ha confermato le notizie secondo le quali ieri Bruxelles ha inviato un nuovo richiamo a Roma con una lettera indirizzata al governo.

La procedura, aperta nel luglio 2006, contesta in particolare il sistema di duopolio televisivo dell’Italia, con Rai e Mediaset, e il sistema in vigore di assegnazione delle frequenze digitali. E nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale l’Italia avrebbe riprodotto lo schema di duopolio. Bruxelles chiede dunque al governo italiano di superare questa situazione cambiando i criteri previsti. 

«La procedura di infrazione Ue contro la Legge Gasparri non è stata affatto archiviata e la mancata apertura del mercato delle frequenze è una grave ipoteca sulla transizione al digitale nel nostro paese» ha detto Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione del Pd. Il decreto dello scorso anno «non serviva a chiudere la procedura di infrazione, ma dava una ulteriore legittimazione all’occupazione di fatto delle frequenze da parte di emittenti come Rete 4 prive di concessione. Allora riuscimmo a sventare l’operazione “salvafrequenze di Rete4” e oggi la Ue conferma le nostre ragioni di allora». (Beh, buona giornata).
 

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

Legge Alfano contro le intercettazioni: “muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale.”

 
di GIAN CARLO CASELLI* da lastampa.it
Molto si è scritto sul tema delle intercettazioni. In particolare sugli emendamenti del governo al progetto di legge ancora in discussione. Si sa, quindi, che mentre per mafia e terrorismo le intercettazioni richiederanno «sufficienti indizi di reato», per tutti gli altri delitti (dalla rapina all’omicidio, dal traffico di droga allo stupro, dalla corruzione all’aggiotaggio) occorreranno «gravi indizi di colpevolezza»: si potranno disporre intercettazioni solo se saranno già accertati i colpevoli. Ma se si conoscono i colpevoli, manca l’altro requisito richiesto dagli emendamenti (l’intercettazione è data «quando è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini»), per cui l’intercettazione non sarà mai data. Escluso il perimetro mafia-terrorismo, bloccando le intercettazioni in tutti gli altri casi, si sacrifica la sicurezza dei cittadini, la possibilità stessa di difenderli efficacemente dalle aggressioni d’ogni sorta di pericolosa delinquenza. Conviene?

Ma c’è un altro punto degli emendamenti governativi di cui meno si è parlato, mentre presenta anch’esso profili d’incongruenza: la disposizione relativa ai procedimenti contro ignoti, per i quali l’intercettazione dev’essere richiesta «dalla persona offesa, sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, al solo fine di identificare l’autore del reato». Prendiamo un caso tipico, il sequestro di persona a scopo di estorsione. Il sequestrato non potrà chiedere l’intercettazione del suo telefono; semmai lo potranno fare i familiari. Ma questi, per tutelare l’integrità del loro caro, potrebbero avere interesse a vedersela direttamente coi sequestratori con una trattativa privata, baipassando la polizia e la magistratura (soprattutto nei casi «di sequestri mordi e fuggi»). In tal modo sarebbe rimessa alla discrezionalità di un privato, scosso dal delitto che ha colpito la famiglia, la difficile scelta se mettere o no sotto controllo i suoi telefoni, che all’inizio dell’indagine sono di solito l’unica strada per non brancolare nel buio.

Anche le estorsioni danno quasi sempre vita, all’inizio, a procedimenti contro ignoti (pensiamo all’incendio doloso d’un negozio o cantiere, presumibile opera di un racket, che spesso non è mafia). La vittima, specie quella (statisticamente frequente) che fa di tutto per escludere ogni riferibilità a estorsioni, si guarderà bene dal chiedere che il suo telefono sia messo sotto controllo. Magari perché bloccato dalla paura degli estortori (che conosce o intuisce chi possano essere). Di nuovo: una scelta difficile, che potrebbe aprire l’unica via possibile all’accertamento della verità, rimessa a un privato. Mentre ci sono in giro gruppi di balordi o bande che praticano estorsioni e sequestri, delinquenti che occorre neutralizzare nell’interesse della sicurezza generale, oltre che dei singoli soggetti coinvolti (facilmente ricattabili dai delinquenti con minacce di ritorsioni in caso di collaborazione con le autorità). Può poi accadere che si sospetti qualcosa che porta all’ambiente di lavoro del sequestrato o dell’estorto (tipico il caso del dipendente infedele «basista»), ma senza la richiesta della vittima niente intercettazioni «nei luoghi di sua disponibilità». Non credo di esagerare dicendo che tanti gravi delitti potranno essere di fatto agevolati. Muovere in questa direzione, con il tanto parlare che si fa di sicurezza e tolleranza zero, mi sembra a dir poco paradossale. (Beh, buona giornata).

*procuratore capo di Torino

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

“Il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.”

di Roberto Natale* – da liberainformazione.org

La minaccia del carcere per i giornalisti è venuta meno, ma la sostanza non cambia: anche dopo gli emendamenti presentati dal governo il disegno di legge Alfano sulle intercettazioni resta un testo estremamente pericoloso per il nostro diritto-dovere di informare.

Non solo perché le sanzioni rimangono comunque pesanti: diecimila euro di ammenda massima per il singolo cronista, che diventano però quasi cinquecentomila per l’editore che ospiti il pezzo; con l’ovvia conseguenza – giustamente denunciata dalla Fieg – che i proprietari dei giornali sarebbero indotti ad intervenire sui contenuti, violando le prerogative dei direttori ed attuando quella “censura preventiva” contro la quale ha messo in guardia il Presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick.

Il disegno di legge si conferma incompatibile con il diritto ad informare e ad essere informati perché il governo ha scelto di non modificare la scelta di fondo: quella di impedire la cronaca giudiziaria, vietando la pubblicazione (“anche parziale, o per riassunto o nel contenuto”, e “anche se non sussiste più il segreto”) degli atti di indagine fino al termine dell’udienza preliminare. E’ qui l’attacco più grave, dissimulato sotto gli insistenti richiami alla riservatezza. La privacy è diritto caro anche a noi giornalisti, ed abbiamo dato piena disponibilità a rendere più incisive, se necessario, le norme di autoregolamentazione per salvaguardarla.

Ma non ha senso invocare la sfera privata quando parliamo di scalate bancarie, del crack Parmalat, dello scandalo del calcio, della clinica Santa Rita: tutte vicende che, se la proposta Alfano fosse stata già legge, i cittadini italiani avrebbero potuto conoscere soltanto mesi o anni dopo.

E’ questo il gigantesco esproprio che si prepara, ai danni di noi giornalisti e ai danni dell’intera comunità civile: verrà mutilato il suo diritto di conoscere fatti di assoluta rilevanza sociale, che solo un’interessata mistificazione politica può cercare di spacciare per pettegolezzo o gossip.

Ne va proprio della qualità della nostra democrazia. E dunque dobbiamo sapere sviluppare ogni possibile alleanza. Con gli editori c’è un’ampia concordanza, che attende di essere tradotta in visibili, incisive iniziative comuni: consapevoli entrambi, giornalisti e imprenditori, che per la vita dell’informazione il diritto di fare cronaca è essenziale almeno quanto nuovi ammortizzatori sociali per il settore. E insieme ci sono i nostri lettori, spettatori, ascoltatori: pochi altri temi ci consentono di presentarci loro come titolari e difensori di un diritto di tutti.

Il Presidente del Consiglio ama ripetere che, nei suoi comizi, nessuno alza la mano quando lui chiede chi sia sicuro di non essere intercettato. Gli proponiamo di aggiungere un’altra domanda: chiedere alla piazza chi avrebbe rinunciato a sapere di Moggi, di Antonio Fazio, di una truffa ai danni dei piccoli risparmiatori, dei trapianti disposti da medici senza scrupoli. Abbiamo la forza di essere dalla parte dell’interesse generale. Perciò nessuno strumento sindacale andrà risparmiato, nelle prossime settimane, se servirà per evitare una legge-bavaglio. (Beh, buona giornata).

* Presidente Fnsi

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia Società e costume

“Il Google Drive (“GDrive”) potrebbe uccidere il computer da scrivania.”

di David Smith – «The Guardian» – tradotto da ComeDonChisciotte.org

Secondo un rapporto dell’azienda, Google sta per lanciare un servizio che permetterebbe agli utenti di accedere al loro personal computer da qualunque connessione Internet. Ma i critici avvertono che ciò darebbe al behemoth della rete un controllo senza precedenti sui dati personali degli individui.

Il Google Drive, o “GDrive”, potrebbe uccidere il computer da scrivania basato su un potente hard disk. Invece i file personali dell’utente e il sistema operativo potrebbero essere custoditi sui server di Google avendovi accesso tramite Internet.

Secondo il sito Web di notizie tecnologiche TG Daily, che lo descrive come “il prodotto più atteso della storia di Google”, il GDrive di cui si è tanto parlato dovrebbe essere lanciato quest’anno. Esso viene visto come un cambio di paradigma, con l’allontanamento dal sistema operativo Windows di Microsoft, che gira all’interno di gran parte dei computer del mondo, in favore del “cloud computing” [“elaborazione a nuvola” N.d.t.], in cui l’elaborazione e la memorizzazione vengono effettuati a migliaia di chilometri in remoti centri dati.

Gli utenti da casa o da lavoro si stanno sempre più rivolgendo a servizi basati sul Web, solitamente gratuiti, che vanno dalle e-mail (come Hotmail e Gmail) alla memorizzazione di foto digitali (come Flickr e Picasa) e a sempre più applicazioni per documenti e fogli dati (come Google Apps). La perdita di un computer portatile o la rottura di un hard disk non mettono a repentaglio i dati perché essi sono regolarmente salvati nella “nuvola” e possono essere consultati tramite Web da qualunque macchina.

Il GDrive seguirà questa logica sino alla sua estrema conclusione spostando i contenuti dell’hard disk dell’utente nei server di Google. Il PC sarà un dispositivo più semplice ed economico che funzionerà come portale verso l’Web, forse tramite un adattamento di Android, il sistema operativo di Google per telefoni cellulari. Gli utenti penseranno al loro computer come a un software piuttosto che a un hardware.

È questa prospettiva che mette in allarme i critici delle ambizioni di Google. Peter Brown, direttore esecutivo della Free Software Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro che difende le libertà di chi utilizza il computer, non ha messo in discussione la convenienza che viene offerta, ma ha detto: “Sarebbe un po’ come dire ‘siamo in una dittatura, i treni viaggiano in orario’. Ma vi importa che qualcuno possa vedere tutto ciò che avete sul vostro computer? Vi importa che Google può essere in qualunque momento vincolato legalmente a consegnare tutti i vostri dati al governo americano?”

Google si è rifiutata di dare conferme sul GDrive, ma ha riconosciuto l’esistenza di una crescente domanda per il cloud computing. Dave Armstrong, direttore del dipartimento prodotti e marketing della Google Enterprise ha detto: “Vi è una chiara direzione… che allontana dall’idea ‘ Questo è il mio PC, questo è il mio hard disk’ e porta verso ‘ Questo è il modo in cui interagisco con le informazioni, questo è il modo in cui interagisco con il Web'”. (Beh, buona giornata).

Titolo originale: “Google plans to make PCs history”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
Link
25.01.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALCENERO

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La stampa spagnola è in guai seri.

di Ettore Siniscalchi – da www.articolo21.info

I venti della crisi si abbattono sulla stampa spagnola. Licenziamenti, ristrutturazioni, testate che chiudono e gli editori che chiedono a Zapatero aiuti al settore. Solo tra i giornalisti ci sono stati oltre cinquecento licenziamenti in tre mesi. Ondata di proteste e scioperi in arrivo.
 
In Spagna c’è un sistema editoriale vitale, con una molteplicità di operatori, di dimensioni anche internazionali, che competono sulla base dei prodotti in un mercato aperto, nel quale non manca anche un’importante presenza italiana. È interessante per molti motivi, quindi, guardare a cosa accade in Spagna, davanti alla grande crisi che colpisce il settore dell’informazione.

Alla base di tutto c’è il crollo della domanda di spazi pubblicitari, scesa del 35% nell’intero settore della comunicazione, alla quale si aggiunge una flessione dell’audience dei media tradizionali. A fare il quadro, sembra un bollettino di guerra, a cominciare dai giganti.
Il gruppo Prisa – un colosso editoriale che opera in mezzo mondo, il principale in Spagna – è in un momento difficile. Lo sbarco televisivo, col lancio di Cuatro, la nuova emittente nazionale in chiaro, è costato molto in quanto a valori di borsa. Partita alla grande coi diritti del campionato di calcio, li ha poi persi, ma comunque è in crescita. Il disastro c’è stato però col consorzio di televisioni locali, Localia Tv, nato anni fa, che non ottenne le frequenze per il passaggio al digitale terrestre e che il 31 dicembre ha chiuso, lasciando in strada 250 lavoratori. Ciò pesa su tutto il gruppo, non solo sul settore televisivo.
Nel quotidiano El País, in flessione di vendite anche se minore rispetto alla concorrenza, c’è stato un pesante intervento, con l’unificazione delle redazioni tradizionale e internet, che ha fatto sfiorare lo sciopero. I lavoratori di Prisa ora temono lo spettro della vendita, di testate, come la radio Cadena Ser, o di intere divisioni editoriali, dato che i vertici hanno fatto capire che intendono “disinvestire”.

Gli avversari de El Mundo – del gruppo Unidad Editorial, nel quale è presente anche Rizzoli – non se la passano meglio. Proprio da Milano pare sia venuta la pressante richiesta di riduzione dei costi del personale, per trenta milioni di euro l’anno. Il direttore del giornale, Pedro J. Ramirez, ha convocato i sindacati per informarli e chiedere proposte. Intanto, loro hanno tradotto quei trenta milioni in una riduzione del 17% dell’organico: 400 lavoratori, più o meno.

Il catalano Grupo Z, è quello che per ora paga di più la crisi. Per tutto febbraio i lavoratori terranno scioperi e mobilitazioni. Il governo autonomico ha aperto un tavolo di mediazione per un piano che prevede 531 licenziamenti su 2300 lavoratori.

Anche il gruppo basco Vocento, editore tra l’altro dello storico quotidiano conservatore Abc, si presta a licenziare 125 persone del giornale. Mentre sono già  in strada gli 83 lavoratori, la maggioranza giornalisti, di Metro, lo storico gratuito internazionale che, travolto dal crollo della pubblicità, ha chiuso le sue edizioni spagnole malgrado 1milione e 800mila lettori quotidiani lo attestassero come quinto quotidiano più letto del paese.
La crisi di un altro gratuito, Adn – che supera il milione di esemplari diffusi ma soffre il crollo delle inserzioni – porta alla chiusura Adn.es, in cui lavoravano 40 persone. Non si trattava della semplice versione on-line del giornale ma di una redazione autonoma che agiva in sinergia col giornale.

Un primo tentativo di un quotidiano esclusivamente on-line, che si è rivelato un grande successo, con milioni di contatti unici quotidiani. In questo caso l’amarezza dei lavoratori è ancora più grande perché il progetto è stato affondato mentre andava come un treno, bruciando le tappe dei piani di rientro, per colpa della crisi della versione cartacea. Il gruppo Planeta, partecipato da De Agostini, ha puntato sul giornale più tradizionale decidendo di sacrificare tutto il comparto Medios Digitales. Resta in piedi, invece, AdnTv, recente iniziativa nata nell’esperienza di Adn.es.

La caduta pubblicitaria colpisce senza pietà anche i canali televisivi. Per il mese di gennaio le previsioni sono di una caduta che arriva fino al 37% rispetto allo stesso periodo del 2008, come nel caso di Telecinco. La rete Mediaset diretta da Paolo Vasile incasserà circa 30 milioni di euro in meno, a fronte di una perdita di share del 3.4%.
Antena 3, del gruppo Planeta – De Agostini, è la seconda rete più colpita dalla contrazione delle entrate pubblicitarie, un 23% meno rispetto allo scorso gennaio, con una perdita di share dell’1,3%.
Terza, con il 23% di ingressi pubblicitari in meno, La Primera, di Television Española, a fronte però di una crescita dell’1% di share.

Nessuno degli operatori che operano nel sistema dei media spagnolo è escluso dalle conseguenze della crisi finanziaria globale, che si aggiunge alla rivoluzione tecnologica in atto, con internet che diventa la prima fonte di informazioni per sempre più persone. Anche la rete, però, a fronte di una sempre maggiore penetrazione, non vede aumentare il valore degli spazi pubblicitari.

Se il mercato editoriale soffre la brusca caduta degli investimenti pubblicitari, non vuol dire che non si scontino anche scelte sbagliate – i sindacati dei giornalisti puntano il dito verso un esagerato espansionismo imprenditoriale – a fronte delle consistenti entrate di cui gli editori hanno goduto negli ultimi 20 anni.

L’Associazione degli editori spagnoli (Aede), dal canto suo, ha lanciato un grido d’allarme per il futuro del settore, facendo una serie di richieste al governo spagnolo. Come l’applicazione dell’Iva allo 0%, attualmente è al 4. Gli editori si rifanno agli aiuti per difendere e sviluppare il pluralismo nella stampa, nati proprio che in occasione della crisi economica degli anni ’70, in vigore in molti paesi, sotto forma di rimborsi per le spese di distribuzione, di finanziamenti per lo sviluppo tecnologico, per la diffusione della lettura tra i giovani e per lo sviluppo dell’editoria web. E sottolineano l’esempio di paesi come l’Italia, la cui stampa ha ricevuto 150 milioni di euro, e la Francia, con 101 milioni.

Intanto, la situazione dell’occupazione giornalistica non è rosea. Allo scorso settembre, dei circa 50mila giornalisti spagnoli, 3.247 erano in disoccupazione, altri 4.374 in condizioni di lavoro precarie e instabili e nei tre mesi precedenti, in 450 avevano perso il posto, secondo i dati dell’Instituto Nacional de Empleo (Inem), presentati lo scorso dicembre nell’ambito del Rapporto annuale sulla professione giornalistica della Asociación de la Prensa de Madrid (Apm).

In quell’occasione, il presidente dell’Apm, Fernando González Urbaneja, ha fatto previsioni fosche per il 2009, citando un’inchiesta del Rapporto per la quale 6 direttori di testata spagnoli su 10 prevedono licenziamenti nella loro redazione. Una perdita più vicina «ai duemila che ai mille posti», secondo Urbaneja, che ha invitato gli editori a preservare la forza lavoro, gli inserzionisti a premiare la qualità e il governo a non aiutare solo gli amici e a perseguire con durezza la precarietà lavorativa.
Se nel 2009 ci saranno «perdite superiori ai 3000 posti di lavoro – ha aggiunto Urbaneja – sarà una catastrofe». (Beh, buona giornata.)

Share
Categorie
Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

C’è del marcio in Italia se un quotidiano della Danimarca aveva pubblicato lo scorso dicembre un reportage da Lampedusa, completamente ignorato da quasi tutta la stampa nostrana.

di Mads Frese –  «Information», Copenhagen

Sull’isola italiana di Lampedusa c’è un cimitero delle barche. Centinaia di barche da pesca e altre piccole imbarcazioni sono state negli anni trascinate a terra e accatastate le une sulle altre. Le barche sono ancora piene di scarpe, vestiti e bottiglie vuote. Nella parte interna degli scafi sono rimasti gli escrementi secchi dei migranti.
Nei primi otto mesi del 2008, il numero di immigrati che passano da Lampedusa è aumentato del 60 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Eppure sulla strada principale di Lampedusa, l’unico centro abitato dell’isola, non vi è alcuna traccia degli oltre 23.000 emigranti che nel corso del 2008 sono arrivati nel centro di accoglienza per i rifugiati dell’isola. Non vi è praticamente alcun contatto tra locali e immigrati, che al loro arrivo vengono trasportati direttamente al centro di prima accoglienza e dopo un paio di giorni vengono imbarcati su aerei o navi e trasferiti in altri centri di accoglienza in varie zone dell’Italia continentale. Si ha l’impressione che questo sia, paradossalmente, il luogo meno multietnico di tutta Europa.

Sebbene i vari locali pubblici e gli alberghi dell’isola incrementano le proprie entrate grazie alla presenza di oltre 600 poliziotti e soldati che svolgono durante l’anno l’attività di pattugliamento via terra, mare e aria, il sindaco Bernardino de Rubeis sostiene che i 6.000 residenti nel suo comune sono le vere vittime.
“L’igiene è minacciata”, ha detto in occasione di un incontro presso la sede del piccolo municipio.
Il sindaco, che appartiene al Movimento per l’Autonomia – l’equivalente nell’Italia meridionale del partito di estrema destra federalista Lega Nord –
aveva dichiarato al quotidiano italiano la Repubblica che ” la carne dei negri puzza anche quando è lavata “. Egli spiega ora che il giornale lo ha rappresentato a torto come un razzista, riportando le sue dichiarazioni al di fuori del contesto originale.
“Queste sono persone che non sono abituate ad usare la carta igienica”, chiarisce il De Rubeis e continua:
“Sono costretti a vivere e a puzzare come animali”.
Affissi sulla parete, alle spalle del sindaco, un crocifisso e le immagini del papa e della Vergine Maria, e sulla sua scrivania un offerta per l’acquisto del filo spinato per recintare il centro di prima accoglienza.
” Scappano – ha detto – tre li ho bloccati per strada”.

La reception
Ai piedi del paese c’è un porticciolo, affollato di pescherecci, delimitato da un molo chiuso dalla guardia costiera italiana. Il molo pullula di persone che svolgono le attività di soccorso e di giornalisti. Non appena la barca attracca al molo si vedono tanti volti africani, tutti diversi gli uni dagli altri: somali, sudanesi, maghrebini, egiziani. La maggior parte sono giovani tra i 15 ei 25 anni, ma ci sono anche donne e bambini piccoli.
Una donna nordafricana in stato di gravidanza che non si regge in piedi deve essere aiutata a scendere a terra.
La maggior parte sono a piedi nudi e non trasportano bagagli. Nonostante la evidente stanchezza, molti i sorrisi di sollievo. Alcuni baciano la terra nella quale sono sbarcati. Si stima che almeno 20.000 rifugiati hanno perso la vita nel canale di Sicilia negli ultimi 15 anni, ma non esistono dati certi.
La maggior parte si radunano sulla costa libica e la traversata dura minimo due giorni. Grazie all’agenzia di frontiera dell’Unione europea FRONTEX, la guardia costiera viene avvisata non appena un’imbarcazione non identificata viene individuata in acque territoriali italiane. I pescherecci più grandi vengono scortati fino all’arrivo in porto, mentre gli immigrati che intraprendono il viaggio su piccole imbarcazioni vengono trasferiti sulle motovedette della Guardia Costiera in alto mare.
Dopo lo sbarco Medici Senza Frontiere effettua un rapido controllo sullo stato di salute già al molo di approdo, e quindi i rifugiati vengono fatti salire su degli autobus e trasferiti nel centro di accoglienza.

L’ignoranza e il razzismo
La nuova struttura che ospita il centro di accoglienza, che è il più grande del suo genere in tutta Europa, è ben nascosta in una valle al centro dell’isola. Un’unica strada che dal centro conduce ad un alto cancello.
Il centro di accoglienza ha la capacità di 840 posti, ma a causa dei numerosi sbarchi degli ultimi giorni gli ospiti sono più del doppio. Materassi lungo il recinto e sotto gli alberi dimostrano che in molti hanno dormito all’aperto.
Mentre Federico Miragliotta, che è il direttore di Lampedusa Accoglienza, la società privata che opera su mandato del Ministero degli Interni italiano, ci porta in giro e ci illustra con grande rigore e professionalità il decoro dei luoghi e del cibo, non soffermandosi troppo sugli immigrati, come se questi fossero ad un campo estivo . La maggior parte sono vestiti in tuta da jogging, che è stata loro consegnata all’arrivo. Bambini che giocano felici con i giocattoli distribuiti dalle organizzazioni umanitarie, mentre le donne fanno la coda di fronte a due cabine telefoniche in attesa di chiamare i loro familiari.
“Alcuni hanno impiegato diversi anni per arrivare a Lampedusa, e per la prima volta da lungo tempo – o forse da sempre – non sono costretti a preoccuparsi della loro sicurezza o a procurarsi del cibo “, afferma Laura Rizzello, operatrice della delegazione della Croce Rossa nel centro. Un numero crescente di profughi arrivano affetti da gravi sofferenze fisiche e psicologiche a causa della guerra e della tortura, situazioni che, a suo dire, i politici europei ignorano:
“Non si dovrebbe definire l’immigrazione come un problema, ma piuttosto come un fenomeno. Parlare di immigrazione per ragioni economiche dimostra una mancanza di conoscenza e una visione razzista del fenomeno. Equivale a nascondersi dietro un filo d’erba”, afferma Laura Rizzello.
E continua:
“E viene davvero da piangere se si considera che quanti attraversano il Mediterraneo a rischio della vita, sono fermamente convinti che i paesi europei difendano i diritti umani universali. Chi parla di recintare il centro di accoglienza col filo spinato, dimentica che le ragioni dell’immigrazione di massa sono cambiate. La maggior parte non migrano per cercare un lavoro, ma fuggono da guerre e persecuzioni “.

Bambini scomparsi
E le statistiche confermano la tesi di Laura Rizzello. La maggior parte degli immigrati che arrivano a Lampedusa provengono dalla Nigeria, dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dal Sudan. Secondo le cifre del ministero degli interni italiano, sette immigrati su dieci avrebbero titolo per richiedere asilo politico in Italia, ma molti scelgono di evitare la battaglia con la burocrazia italiana e non sono alla ricerca di un permesso di soggiorno, dice Laura Rizzello.
In realtà essi mirano solo a rimanere al centro di accoglienza per due giorni prima di essere trasportati nei centri di detenzione sul territorio italiano. Ma poiché tutti i centri di detenzione in Italia sono attualmente sovraffollati, restano qui, in media, una settimana, come spiega Laura Rizzello.
La maggior parte di coloro che non vengono rispediti direttamente nel loro paese di origine in forza di accordi bilaterali di rimpatrio, finiscono per lavorare in nero per 20 euro al giorno nelle imprese agricole ed industriali d’Italia. Alcune donne finiscono sulla strada costrette a prostituirsi, mentre una parte degli uomini vengono reclutati da organizzazioni criminali. Qualche giorno fa il quotidiano la Repubblica ha rivelato che si sono completamente perse le tracce di almeno un terzo dei 1.400 minori “non accompagnati”, giunti quest’anno a Lampedusa ed affidati a delle case-famiglia.

Missili e doni
Fino al 1986, pochissimi avevano sentito parlare di Lampedusa. Ma poi la Libia sparò due missili contro la base radar degli Stati Uniti sull’isola. I missili andarono a finire in mare, ad oltre due chilometri dalla costa di Lampedusa, ma l’aggressione di Muammar Gheddafi ebbe l’effetto di portare alla ribalta questa piccola isola, fino ad allora poco più che un puntino su qualsiasi mappa. Da allora i turisti hanno cominciato ad arrivare in massa ed a portare prosperità sull’isola. Con conseguente raddoppio della popolazione di questa piccola comunità di pescatori.
Laura Rizzello crede che la storia si stia ripetendo con i grandi flussi migratori che negli ultimi anni hanno portato l’isola nuovamente alla ribalta .
“I numerosi turisti scelgono l’isola non solo per il mare, ma anche con la speranza di scattare qualche foto agli immigrati”, ha detto.
Il Sindaco Bernardino de Rubeis, tuttavia, ritiene che il fenomeno dell’immigrazione abbia danneggiato l’immagine dell’isola e costituisca una minaccia per la fiorente industria del turismo.
“L’accordo con Gheddafi non funziona”, ha detto, riferendosi ad un accordo che il precedente governo italiano ha concluso con la Libia nel dicembre 2007 ed avente ad oggetto il pattugliamento congiunto delle coste libiche.
Gheddafi, in effetti, ha sfruttato il cambio di governo della scorsa primavera in Italia per tentare di ottenere qualcosa di più sostanzioso. Alla fine di agosto Silvio Berlusconi ha visitato la Libia ed ha elargito 500 milioni di dollari per finanziare la sorveglianza elettronica delle coste e dei confini meridionali della Libia con il Niger, il Ciad e il Sudan.
Secondo alcuni osservatori la frontiera sarebbe solo un pretesto: il finanziamento, che Berlusconi ha concesso a Gheddafi in nome dei contribuenti italiani, deve essere piuttosto visto come una sorta di pagamento per la protezione delle grandi aziende italiane che operano in Libia. L’Italia non è autosufficiente nel campo della produzione di energia elettrica ed è quindi fortemente dipendente dal petrolio libico. Di contro, appare legittimo mettere in dubbio la reale volontà di arginare la marea di profughi, che è funzionale al rafforzamento della competitività in Italia, per esempio nell’industria agricola.
Ma dopo la visita di Berlusconi in Libia, i media italiani hanno scelto di minimizzare il problema, che ora è in gran parte scomparso dai telegiornali, nonostante l’aumento del flusso.

Affollamento
Il sindaco è preoccupato per l’aumento del numero dei rifugiati.
“L’isola rischia una vera e propria crisi”, ha detto Bernardino de Rubeis.
“Non si deve dimenticare che l’isola vive principalmente di turismo, e, pertanto, dobbiamo essere in grado di garantire ai turisti sicurezza. Non può continuare così”, dice il sindaco, che sogna dei grandi alberghi sulla piccola isola dove la popolazione già adesso aumenta di dieci volte nei mesi estivi, e i turisti sono ammassati in quattro spiagge come aringhe in un barile.
Ogni anno, grazie ai finanziamenti statali e regionali, oltre 50 milioni di euro affluiscono nelle casse del comune di Lampedusa. Il Consiglio comunale è attualmente impegnato nei colloqui per la redazione del bilancio per il 2009, e sebbene il centro di accoglienza non comporti alcun costo per il comune, ma offra solo garanzie di posti di lavoro e di reddito per molti abitanti dell’isola, il sindaco punta ad ottenere il massimo dell’attenzione sui presunti disagi creati dal flusso di immigrati. Ha scelto di giocare al rialzo e ora chiede al governo, come compensazione per l’onere del fenomeno, che l’isola venga dichiarata porto franco.
Il comune ha già rifiutato un’offerta dell’Alto Commissario per i rifugiati, relativo al finanziamento di un ampliamento del piccolo aeroporto e ad una campagna pubblicitaria per l’isola. Invece, si è preferito richiedere un risarcimento di 200 milioni di euro da parte del governo di Roma per gli abitanti di Lampedusa. Così da far passare l’immagine di un’isola costretta ad affrontare un problema tanto al di sopra delle sue possibilità da spingere le persone a scegliere di concentrarsi esclusivamente sui possibili benefici economici e ad ignorare tutto il resto. (Beh, buona giornata).

[Articolo originale di Mads Frese]

Traduzione da information.dk: admin@ItaliadallEstero.info

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: