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La brutta stagione della carta stampata.

da blitzquitidiano.it
Sembra ormai un bollettino di ospedale durante un’epidemia. In America chiudono giornali importanti, il New York Times prevede ancora chiusure, alcuni hanno abbandonato la carta, optando per l’on line only.

Leggendo dell’America, e non solo per i giornali, bisogna fare attenzione alle abissali differenze, sia nella flessibilità della forza lavoro, cioè la possibilità di licenziamento; sia nella crisi, che da loro ha preso una piega molto più brutta, ameno per ora, che da noi.

Molti dei giornali che chiudono sono giornali della sera, travolti non solo dal crollo della pubblicità ma anche dal cambiamento delle abitudini di vita degli americani che vivono fuori dei grandi centri urbani (causa la smisurata offerta tv degli ultimi anni); da noi i giornali della sera hanno chiuso da decenni.

Ora c’è anche chi parla di affidare i giornali in fondazioni. L’ex direttore del Wall Street Journal, Paul Steiger, ha trovato finanziatori per un suo sito dedicato al reporting investigativo, uno dei tipi di giornalismo messi più a rischio dal crollo dei ricavi e quindi delle disponibilità economiche dei giornali per investire nel prodotto.

Sono idee molto affascinanti. C’è da dubitare che in Italia possano funzionare delle fondazioni che controllano dei giornali, specie se il capitale è pubblico o si tratta di una fondazione con diversi finanziatori.

In Europa c’è un modello che funziona, quello della fondazione che controlla il quotidiano inglese the Guardian. Ma la fondazione, costituita negli anni trenta da un ricco industriale di Manchester per impedire che i suoi eredi vendessero il giornale, con tutti i vantaggi fiscali connessi, è un’istituzione privatissima, dove comandano solo i discendenti del fondatore, non entrano altri padroni e meno che mai i partiti.

In Italia una legge speciale per l’editoria prevede particolari vantaggi per fondazioni che posseggano giornali. Ma non si tratta di iniziative destinate a stare sul mercato, bensì a far affluire soldi pubblici in modo diverso. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
new york times
the american

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La quarta crisi: “Il problema non è che i giornali non sono più attraenti per i loro lettori, è che non sono più capaci di trasformare quell’interesse in ricavi.”

da blitzquitidiano.it
Il futuro dell’informazione, e dei giornali in particolare, è molto cupo e, se non saranno capaci di sviluppare un modello a pagamento, cosa sulla cui possibilità ormai ci sono forti dubbi, il loro destino è affidato ai sussidi statali o a fondazioni benefiche.

La tesi è esposta con un lungo articolo, molto ben scritto e argomentato, da James V. DeLong, vice presidente e analista senior del Convergence Law Institute. Il saggio è stato pubblicato da American.com, versione on line del magazine American. È stato proposto in Italia dal sito Wittgenstein in cui si criticavano, con una certa veemenza, i concetti espressi da Marco Benedetto, direttore di Blitzquotidiano.it, in un’intervista al Sole 24 Ore. Su DeLong Wittgenstein ha ragione.

L’analisi è pienamente condivisibile, anche se bisogna sempre tenere presente il fatto che il mercato dei quotidiani in America presenta caratteristiche molto diverse dall’Italia. Dice infatti DeLong: è vero che la diffusione ha raggiunto nel 1984 un picco di 63,3 milioni di copie e da allora è stato, continuo calo, fino ai 54 milioni del 2007, ma di quel calo, 20,4 milioni di copie sono venuti da giornali della sera, uccisi dalle notizie in tv (e forse, viene da aggiungere, da qualcosa di più: il fatto che lo smisurato aumento dell’offerta televisiva portato dalla tv via cavo ha profondamente cambiato le abitudini serali degli americani).

Nello stesso periodo, continua DeLong, la diffusione dei quotidiani del mattino è dalita a 44,5 milioni di copie nel 2007 dai 35,7 del 1984.

Anche sul fronte della pubblicità le cose non sono andate così male nel ventennio, anche se il fatturato complessivo dei giornali è raddoppiato mentre il mercato è triplicato. Ma, si può aggiungere, quando il mercato cresce, tutti sono contenti di crescere, anche se gli altri crescono di più.

Qui il terreno dell’analisi in cui si avventura DeLong è più complesso, perché passa per la crescita del materiale prodotto dai giornali in uno sforzo continuo di rappresentare un’offerta alternativa alla tv e soprattutto per una serie di passaggi di mano dei pacchetti di controllo, che hanno portato, a prezzi fuori del mondo, alla formazione di mega gruppi editoriali e all’uscita di scena delle vecchie famiglie proprietarie, ultimi i Bancroft del Wall Street Journal. Resistono ancora i Sulzberger del New York Times, ma per quanto?

L’effetto di questi fattori estranei alla intrinseca natura del giornale porta i un primo momento DeLong a affermare che, se uno guarda allo stato patrimoniale dei giornali depurandolo di voci non peculiari all’attività editoriale, come l’ammortamento dei vari goowill, e trasformando i debiti in capitale attraverso la purga del fallimento, un futuro appare possibile, una volta che i giornali siano stati ricostruiti come un’operazione combinata fra carta e internet.

Il problema non è che i giornali non sono più attraenti per i loro lettori, è che non sono più capaci di trasformare quell’interesse in ricavi.

Per tutte queste ragioni, si può prevedere che dei giornali che ci sono oggi pochi ci saranno ancora in futuro. A meno che, sostiene DeLong, non siano capaci di reinventare un modello economico che ridia valora ai contenuti, così come, fino a poco tempo fa, nessuno obiettava sul fatto che che leggere un giornale lo si dovess comprare. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
American.com
Wittgenstein

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La stampa italiana ai tempi della quarta crisi, quella dell’informazione.

di Peter Gomez – da voglioscendere.ilcannocchiale.it

Brutti, conformisti, omertosi e per molti versi inutili. Non è un bel periodo quello che stanno vivendo i giornali italiani. Travolti dalla crisi economica, che riduce anche del 40 per cento gli introiti pubblicitari, i quotidiani annaspano e, dopo essere sopravvissuti per anni drogando i dati di vendita e di diffusione, si trovano di fronte a un bivio: o chiudere, o tentare di far passare la nottata espellendo centinaia di giornalisti e riducendo, di molto, i costi.

La soluzione, insomma, è la solita: la cura da cavallo. Solo che questa volta tagliare le spese e cercare di innovarsi almeno un po’ investendo nell’on-line non basta. O meglio, può bastare solo per allungare un’agonia cominciata nel 2000, ben prima dell’esplosione della bolla finanziaria.
Che fare, allora? Ricominciare dai fondamentali: ricordarsi cioè che un giornale trova dei lettori quando è in grado di raccontare loro (con autorevolezza) qualcosa che non sanno. Solo così ci saranno persone disposte a comprarlo.

Se devo pagare per avere delle informazioni (e delle opinioni) è ovvio che pretenda di avere informazioni (e opinioni) diverse da quelle che posso avere gratuitamente dalla tv, dalla free press o dalla rete.

Nessuno, o quasi, tra gli attempati manager e direttori che siedono ai vertici della maggioranza delle testate italiane sembra però in grado di capirlo. Raccontare cose diverse vuol dire infatti faticare molto, rompere schemi mentali, abitudini consolidate e, soprattutto, andare contro corrente. Vuol dire cioè non rinunciare a raccontare il Potere, un Potere di cui anche molti editori,direttori e giornalisti fanno parte, o dal quale attendono qualcosa.

Pensate a ciò che sta accadendo in questi mesi. Le aziende editoriali per salvarsi sperano di ottenere degli aiuti dal Governo. A Palazzo Chigi si studiano diverse soluzioni: dalla cassa integrazione, fino agli scivoli per i prepensionamenti pagati non dagli editori, ma dagli enti previdenziali. Non è ancora chiaro che cosa verrà deciso. È chiaro invece che cosa accade nell’informazione: si viaggia sotto traccia, si sta tranquilli, si cerca di non irritare troppo il manovratore.

Un esempio? Marco Lillo da le colonne de “L’espresso” racconta, dati segreti alla mano, come solo Publitalia riesca a non risentire della crisi della pubblicità. Gli investitori infatti, per tenersi buono Berlusconi, tendono a dirottare sulle sue reti le loro campagne. È una notizia, non vi pare? E lo dovrebbe essere anche per i grandi giornali che la pubblicità non riescono più a trovarla. E invece Lillo scrive e tutti gli altri tacciono. O al massimo registrano e non commentano. Pensano, così, di potersi salvare, poverini. Contano su un occhio di riguardo. E sempre più soli, con sempre meno lettori, corrono veloci e a schiena curva, verso la fine che si meritano. La chiusura. (Beh, buona giornata).

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Il governo italiano manovra per piazzare uomini di fiducia al comando della stampa?

di Miguel Mora – «El País» (da megachip.info)

Il cataclisma finanziario, il calo della pubblicità, l’adattamento all’universo digitale e i licenziamenti dei giornalisti sono questioni che occupano tutti i giornali del mondo. Molti esperti, e non pochi lettori, temono che il processo incida sulla qualità della stampa. In Italia, forse il paese europeo, assieme alla Russia, nel quale il controllo politico dei media è meno discutibile, l’inquietudine è duplice. Al duopolio televisivo, o piuttosto al monopolio tout court, formato da Mediaset e RAI, potrebbe presto aggiungersi una sorta di rivoluzione della stampa scritta.

Al fondo di questo movimento tellurico in incubazione risuona il solito nome: Silvio Berlusconi, magnate dei media e primo ministro, il cui nuovo obiettivo sono due testate milanesi molto prestigiose, il «Corriere della Sera», il più grande quotidiano italiano, e «Il Sole 24 Ore», il grande quotidiano economico del paese.

«Questa volta, Berlusconi non farà prigionieri, vuole controllare tutto e lo farà», ha detto Giancarlo Santalmassi, giornalista della RAI dal 1962 al 1999 e direttore di Radio24 fino a quando non è stato epurato, l’autunno scorso, dopo essere stato dichiarato nemico ufficiale da parte del governo del Cavaliere nel 2006. Enzo Marzo, giornalista veterano del Corriere, ha concordato “pienamente” con Santalmassi. Giovedì, nel corso di un dibattito sulla libertà di stampa tenutosi presso la sede della Commissione europea a Roma, ha detto che la battaglia per la direzione del quotidiano è già iniziata.

Il nucleo dirigente del gruppo RCS – editore di Unedisa in Spagna – nonché proprietario del «Corriere», ha spiegato Marzo, ha ritirato la sua fiducia al direttore del quotidiano, Paolo Mieli, e tratta su due sostituti. Il primo è Carlo Rossella, sponsorizzato da Berlusconi, e il secondo è Roberto Napoletano, direttore de «Il Messaggero», che, ricorda Marzo, «divenne famoso nell’ultima notte elettorale, perché fu immortalato da una telecamera mentre patteggiava al telefono con il portavoce di Casini (leader della democristiana UDC dei Democratici e genero dell’editore del quotidiano) il titolo principale che doveva piazzare il giorno dopo».

Rossella è il presidente di Medusa, la casa distributrice cinematografica di Berlusconi, e ha ricevuto la benedizione de «Il Giornale», il quotidiano della famiglia del magnate, che ha ricordato che questi lo «ha in grande simpatia, e lo ha già incaricato di dirigere le sue due più importanti testate, «Panorama» e Tg5 [il telegiornale di Canale 5].»

All’interno di RCS, Rossella conta su altri sostegni significativi: Diego Della Valle, proprietario di Tod’s e della Fiorentina, e Luca Cordero di Montezemolo, patron della Fiat e di Ferrari nonché amministratore delegato de «La Stampa».

Ma la parola di Berlusconi sarà decisiva, ragiona senza nessun cenno di pudore il quotidiano di suo fratello, perché, mentre la crisi strangola i giornali, «l’intero sistema bancario dipende dal primo ministro.»

Napoletano ha le sue carte: non spiace a Berlusconi ed è uno dei pochi a parlare al telefono con Giulio Tremonti, ministro dell’Economia e editorialista per «Il Messaggero». Secondo «Il Giornale», il ministro «sa che il peggio della crisi economica sta per arrivare» e la sua idea è quella di collocare Napoletano a «Il Sole» (proprietà, come Radio24, del padronato di Confindustria) e dare al suo attuale direttore, Ferruccio De Bortoli, il timone del «Corriere». Se non parlassimo dell’Italia, tutto questo fermento risulterebbe inverosimile, degno tutt’al più di una citazione in un pezzo di gossip. Ma tutte le fonti concordano nel segnalare che si tratta di “manovre serie e reali”, il cui effetto produrrà “un terremoto”.

Il malcontento del governo nei confronti di un altro grande giornale, «La Stampa» di Torino, di proprietà Fiat, è lampante. Secondo gli ambienti berlusconiani, il suo direttore, Giulio Anselmi, verrà tentato con una grande poltrona: quella di presidente dell’agenzia Ansa. Se accetta, verrà messo al suo posto un direttore meno ostile al governo.

Mentre questo disegno politico prende corpo, i media italiani tengono testa come possono alla tempesta. Il presidente di RCS, Piergaetano Marchetti, che ha visto i profitti del gruppo abbassarsi nel 2008 a 38 milioni di euro rispetto ai 220 milioni del 2007, ha confermato che stanno soffrendo «gravi e immediati tagli di pubblicità.» E il suo amministratore delegato ha annunciato che l’andamento del gruppo nei primi mesi dell’anno obbligherà a «ridurre il personale». «Dobbiamo agire sui costi e sui modelli di business, in Italia e all’estero.»

Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, prevede ugualmente «chiusure e riallineamenti». In modo ironico, Benedetto non è pessimista sul futuro del settore: «Entro dieci anni sarà splendido.» Beh, buona giornata).

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras

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Media e tecnologia

Sky vs Mediaset: licenziato Mike Bongiorno (Mettete un Fiorello nei vostri cannoni).

(da ilmessaggero.it)

E’ ufficiale. Non vedremo più Mike Bongiorno sugli schermi di Mediaset. O meglio: l’azienda non esclude in futuro progetti con il maestro della tv, ma per ora il divorzio è certo. Mediaset non ha rinnovato il contratto al noto conduttore. E spiega: «Vincolare un simile personaggio ad un contratto di esclusiva con una sola azienda senza un progetto di produzione concretamente avviato, sarebbe stato controproducente per lo stesso Mike».

Mike ci tiene a sottolineare: non sono un traditore, semplicemente il contratto non è stato rinnovato. E ora Mike è libero di apparire in altre trasmissioni. Prima X-Factor sulla Rai nella serata in cui su Canale 5 andrà in onda la finale di Amici, e poi, immancabile, su Sky al fianco del partener ultra collaudato Fiorello che il 2 aprile sbarca sulla rete di Murdoch con un mega spettacolo. «Da molte parti leggo che Mike Bongiorno ha tradito Silvio Berlusconì, ma la verità è un’altra Mediaset prima della fine dell’anno scorso – spiega Mike – senza preavviso, non mi ha rinnovato il contratto che mi legava al gruppo fin dalla sua fondazione. Di conseguenza ora non avendo legami sono libero di svolgere il mio lavoro con chiunque».

La coppia Bongiorno-Fiorello è ormai consolidata. Nella lunga serie di spot pubblicitari, ma anche in iniziative “in strada”, come quando Fiorello epr festeggiare il mitico programma VivaRadioDue scese in strada con Bongiorno sotto gli studi Rai di via Asiago in veste di banda a stelle e strisce. In tv il duetto tv risale al novembre 2006, quando Mike, prestato da Mediaset, fu ospite d’onore su Raiuno di uno degli speciali tv di Viva Radiodue. E fece il picco di ascolti, 13 milioni di spettatori. «Questo è un avvenimento straordinario, un po’ come quando ho lasciato la Rai e sono andato a lavorare per Berlusconi a Mediaset», aveva detto Mike con tono profetico nello spot con Fiorello, in onda qualche giorno fa su Sky Sport poco prima di Torino-Juventus.

I rapporti con Mediaset. Qualcuno intanto ricorda che i rapporti fra il re del quiz e Mediaset – che nel 1990 lo nominò vicepresidente ad honorem di Canale 5 – negli ultimi tempi si erano un pò deteriorati: a Mike, per esempio, era dispiaciuto che l’unica a non festeggiare i suoi 80 anni era stata proprio la sua azienda. Mediaset, comunque, non chiude le porte al re del quiz e pensa «a nuovi progetti adeguati alla professionalità di Mike Bongiorno». Giorni fa Maurizio Costanzo aveva criticato la scelta di Mike di promuovere promuovere su Sky il nuovo show di Fiorello. (Beh, buona giornata).

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Il mainstream e la quarta crisi.

di Pino Cabras – Megachip.info

Beppe Grillo si bea del crollo dei giornali, che perdono una valanga di copie e tantissima pubblicità, e ormai si avviano a un rapido declino, per molti la chiusura. Lui dice che in sostanza trionferà la Rete, e lì, finalmente, la qualità emergerà. I blog che faranno tanti contatti evolveranno darwinianamente verso un nuovo “modello di business” informativo. Per Grillo la crisi, su questo punto, è una buona notizia, anzi eccellente.
Anch’io prenderei come bersagli gli stessi personaggi che sbeffeggia Grillo. Ma essendo circospetto nei confronti delle sue brusche semplificazioni, tiro il freno a mano. Voglio capire meglio.

Il contesto individuato è giusto. Per anni l’informazione alternativa era fuori dal recinto, mentre ora non è più emarginabile. Sempre più spesso le testate “autorevoli” hanno bucato le notizie vere, mentre fuori succedeva un finimondo ben descritto da altri soggetti.

I silenzi dei grandi giornali contavano sulla potenza soverchiante del loro apparato. Ma ora i cedimenti ci sono, e arrivano tutti insieme. Traballa un intero sistema di potere, e il «Financial Times» arriva a scriverne il necrologio.
In qualche modo il mainstream informativo reagirà, statene certi. E anche Grillo lo sa, tanto che segnala pure lui i bavagli che si preparano a carico del web, quantunque ora egli esulti per il tramonto dei giornali stampati. Prima di gongolare anch’io voglio capire se il tramonto della stampa è l’alba della Rete libera e bella, o l’aurora dei piduisti.

Tutti vogliamo essere ottimisti, nel mezzo delle notizie da Grande Depressione. E quindi cerchiamo la buona notizia, proviamo a essere positivi. Tento di cogliere elementi analitici potenti nel ragionamento di Grillo.

In effetti crescono i luoghi di informazione indipendente. La novità c’è e le Caste stentano ad afferrarla, o fingono, sperando che la tempesta passi e si possa tornare allo status quo ante.

Giorno per giorno si scalfisce la supposta «autorevolezza» dei giornali e dei media «prestigiosi».
Lo smascheramento galoppa: le vecchie gazzette non vengono più ormai percepite come autorevoli ma come “ufficiose”. Praticano quel poco di libertà che calpesta i pascoli ristretti di una critica tollerata. Spazi ogni giorno più angusti.

È la vecchia storia del Palazzo con la P maiuscola, la storia di una complicità, una connivenza che lega il giornalista al potere politico ed economico. Il giornalista parla al e per il potente e il potente parla al giornalista per se stesso. Della società nessuno dei due parla, e perciò nessuno la rappresenta più.

Prendiamo la guerra in Iraq. Tutto un mondo indipendente ha raccolto i documenti che davano prova dello smisurato imbroglio delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, e sin dal primo istante ha ridicolizzato i presunti legami di Saddam con Al Qa‘ida sbandierati dall’Amministrazione Bush-Cheney. Erano i grandissimi media ad accettare le menzogne del potere e a dare una mano a una guerra costosa e insensata. Nel misurarsi con la guerra hanno fallito e hanno perso copie e spettatori. Ma non basta.
Bisogna andare più a fondo sulla tendenza in atto. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) ad esempio hanno mostrato una totale divaricazione dalla verità del mainstream informativo. Frotte di lettori disperati si allontanavano dai giornali bugiardi – che però ancora facevano massa critica – per dissolversi in direzione di una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di vincere.

I media che seguono la corrente del grande conformismo devono fare ormai i salti mortali per dettare la gerarchia delle notizie. La trita politichetta nazionale in prima pagina, la notizia scomoda a pagina 26, tutto questo riusciva bene. Il direttore usava il soffio divino che faceva esistere o non esistere la notizia. Oggi comincia ad andare diversamente, il declino rapido appare certo, ma sono incerti gli esiti finali.

Un esercito di centinaia di migliaia di lettori si informa meglio dei direttori, e lo fa prima, ha già coperto di pernacchie le notizie false poi spacciate per vere, una marea.

Ma internet ci può bastare? E milioni di persone che non hanno mai cliccato nemmeno una pagina, chi le raggiunge, chi le informa? Chi va in TV a raccontare la più grande crisi economica del secolo?

Ai piani alti lo sanno, si pongono il problema. E noi, ce lo poniamo? Vedete un po’ cosa diceva nel 2005 Rupert Murdoch, il superpadrone dei media:

«Sono cresciuto in un mondo dell’informazione assai centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che decretavano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani sarebbero nate nel mondo digitale.»

Poi aggiungeva: «Il cimento particolare, per noi immigrati digitali – molti dei quali in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse – è di sforzarci nell’applicare la mentalità digitale a una nuova gamma di sfide. […] Dobbiamo comprendere che la prossima generazione che si trova ad avere accesso alle notizie, siano dai giornali o da qualsiasi altra fonte, ha diversi parametri di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come la ottiene, e da chi».

La crisi della stampa di oggi il “global tycoon” la vedeva già tutta nell’atteggiamento delle nuove generazioni digitali:

«Non vogliono più affidarsi a una figura divina che sta lì a dirgli dall’alto cosa sia importante; e per ampliare un pochino l’analogia religiosa, non vogliono di certo notizie presentate come vangelo. All’opposto, vogliono le loro notizie su richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, anziché esserne controllati.»

Nessun sussiego in Murdoch. Non vedeva affatto il nuovo giornalismo partecipativo come «secondario» e parassita rispetto ai media ancora più importanti. Non paventava un giornalismo di qualità più bassa. Non vituperava il giornalismo di tipo nuovo perché conosceva i suoi polli nei media «autorevoli»: le loro fandonie, i loro ritardi, il loro snervante bilancino fra i poteri.

Lui più di tutti, Murdoch, sa che la stragrande maggioranza delle notizie che appaiono nei media mainstream trovano la loro fonte in tre sole agenzie internazionali, e nessuno si prende la briga di vagliarle, smontarle, riscontrarle davvero. Il resto sono trucchi per contrabbandare idee ricevute, che funzionano male, tanto che i lettori alla fine se la stanno filando.

È anche vero che per un lettore che diserta l’edicola ce ne sono due che aprono le pagine delle versioni online dei quotidiani, ma la qualità della lettura è diversa, e anche l’impatto economico sulle testate è incomparabile, per via della fruizione pubblicitaria e degli schemi di abbonamento. L’attuale modello online non basta a ripagare i costi di redazioni che coprano un ampio spettro di notizie con standard di qualità accettabili.

È stato triste in questi anni osservare come i siti dei grandi quotidiani abbiano trasformato – gradualmente ma inesorabilmente – la loro homepage. Hanno affiancato alla colonna delle notizie “serie” una seconda colonna di gossip. Questa era dapprima esile e statica, poi si è via via allargata, si è riempita di aggiornamenti continui, richiami, frizzi e lazzi, mentre erodeva millimetro dopo millimetro l’altra colonna, contaminandola con un tono sempre più fru fru. I lettori in più sul web se li sono guadagnati in questo modo. Ma non hanno portato soldi né autorevolezza.

Murdoch nel mentre è entrato in campo con prepotenza anche sul digitale, assicurandosi il gigantesco portale MySpace e marchiando la strada che condurrà verso pochi oligopolisti la vita digitale di miliardi di esseri umani, i loro consumi, i gusti, i modi di vivere, consegnati così ai marketers che disporranno di sofisticate schedature personalizzate, ottenute gratis e con spensierata imprevidenza di massa.

Qual è il futuro della democrazia? Cosa sarà la politica nei prossimi decenni? Sarà internet a liberarci fra quarant’anni, regalando un trionfo a Beppe Grillo per la festa dei suoi cento anni, circondato dai vapori ideologici dei suoi vecchi amici visionari e ipersemplicisti della Casaleggio Associati? Oppure il flusso delle comunicazioni prenderà la strada di chi controlla Facebook e i suoi fratelli? Oggi l’entusiasmo per le novità è forte, abbastanza da far rimandare la risposta a queste domande, quasi certamente una risposta che sarà dura con le illusioni.

Nel frattempo si preferisce guardare al fermento, la corsa all’Eldorado delle tecnologie “libere”. Il fermento c’è sul serio, non è solo un abbaglio.
Spesso c’è un ritorno – in via elettronica – a un certo giornalismo delle origini. Quello che si affacciava nel discorso pubblico prima che la comunicazione diventasse il tramite timoroso e umiliato della pubblicità. Ora che questa crolla, si trascina tutto un sistema, nel frattempo diseducato fino all’irresponsabilità.

Quel giornalismo ideale a volte lo abbiamo visto rappresentato nei fumetti di Tex, dove vedevamo il direttore di periodici che si chiamavano «Tucson Gazette» o «Sonora Herald», il quale scriveva artigianalmente i suoi pezzi, li stampava lui stesso, circondato da giovanotti svegli, un po’ reporter un po’ strilloni. Un giornalismo di carta vetrata, urlato, parzialissimo, esposto, senza reti protettive, capace anche di striduli errori, eppure efficace, utile: era il mestiere che il giornalismo “autorevole” di oggi non sa più fare.

Questa umiltà e parzialità faceva bene alla crescita di uno spirito democratico. O almeno ci provava seriamente. Somigliava più alla satira – quella vera, non gli sfottò – che a un editoriale azzimato come Gianni Riotta. Esagerare consentiva di approssimarsi alla verità.

Non è esistita nessuna età dell’oro del giornalismo, sia chiaro. Eppure c’è come una memoria di un qualcosa di diverso che si oppone alla deriva di oggi e fa diffidare del giornalismo controllato e disinformativo, che ora crollerà.

Perciò, nel nostro piccolo, pensiamo un altro tipo di informazione, ad altri giornali e siti e blog, a un altro tipo di TV. Siamo qui ad aprire il vaso di Pandora. Una cosa che può nascere solo dal basso.

Il punto però è questo. A dispetto dell’ottimismo di chi si entusiasma del web non dobbiamo nasconderci le ombre.

Le continuità ideologiche con l’era apparentemente defunta del neoliberismo sono più forti di quanto si pensi. Il flusso delle comunicazioni è il nuovo luogo virtuale in cui si narra il mondo contemporaneo e si ridefiniscono le sovranità. L’esaltazione acritica di questo flusso, giudicato come lo spazio in cui avviene lo scambio “alla pari” tra soggetti trasmettitori e soggetti riceventi, appare come una nuova ideologia tesa a legittimare i nuovi poteri, tutti da sottrarre ad ogni vincolo. Per i neoliberisti il mondo è il mercato-mondo. La libertà è la libertà dei commerci. Il cittadino è il consumatore sovrano nelle sue scelte dentro il libero mercato. Come diceva quasi vent’anni fa il teorico dei media Armand Mattelart, «nella sua lotta contro tutte le forme di controllo (escluse le proprie, quelle della libera iniziativa), promanino esse dallo stato o dalla società civile organizzata, il neoliberismo si rivela una sorta di neopopulismo. Per questo esso ha il bisogno ricorrente di richiamarsi alla rappresentatività dei consumatori, che assumono così la veste di parti di mercato.» Mi sembrano considerazioni ancora fresche, e ritraggono con precisione i populisti di oggi, in buona e in malafede.

Saranno ancora le dottrine d’impresa ad avere molta più forza di tutti nella ristrutturazione dei mercati della comunicazione. Un’impresa che si muove in uno spazio in cui deve individuare segmenti transnazionali di consumo e forme culturali universali, ma anche nicchie di mercato locali e particolari alle quali parlare con il cosmopolitismo manageriale. Il mondo diventa solo uno spazio da gestire. La psicologia del cittadino consumatore viene già studiata a fondo. Si studia come spende, come reagisce alle campagne pubblicitarie, come si muove nel supermercato o nelle mall delle chincaglierie elettroniche, da quali luci e colori viene colpito, come rapporta i suoi valori personali alle offerte del mercato. Si taylorizza il consumo. È il trionfo del marketing. Con Facebook miliardi di agnelli vanno volontariamente al macello delle schedature. Sempre Mattelart afferma che «il fatto che l’impresa e la libertà d’intrapresa siano divenute il centro di gravità della società ha ridistribuito le gerarchie, le priorità e il ruolo degli altri soggetti. Ciò che è cambiato, in breve, è l’insieme dei modi di produrre il consenso, di cementare la volontà generale.» E aggiunge una citazione del sociologo Michel Vilette: «La dottrina management ha contaminato tutti i segmenti della società configurandosi come modello culturale universale.»

Si dispiega un’idea gestionale della politica in cui le imprese sono comunque al centro. Le nuove élites si autorappresentano e non delegano ad altri la mediazione politica. Non si pongono obiettivi democratizzanti, non sentono la necessità dei riequilibri territoriali, non pensano a forme di integrazione per i conflitti sociali ed etnici. Quando Grillo dice niente mediazioni loro annuiscono tranquillamente.

Per la dottrina management il controllo sociale non è più un problema politico. E’ un problema socio-tecnico. Più poliziotti privati a tutelare il quartiere ricco dalle rivolte dei quartieri degradati. Più telecamere nelle strade, più schedature elettroniche, più farmaci Prozac antitristezza. Ma anche più sorveglianza informatica nel lavoro, più strumenti di persuasione per “amministrare il pensiero”. Chi se ne frega dei quotidiani che muoiono.
I candidati occhieggiano dai loro spot: «Metti un manager alla guida della città».
«I liberali possono star tranquilli: anche il Grande Fratello sarà privatizzato», profetizzava Christian De Brie nel 1994.

Se ogni utopia si collegava a un archetipo di città ideale, la mancanza di utopie genera una nuova ecologia metropolitana. Non domina il Grande Fratello quanto il Micro Fratello: lo scanner alla cassa dell’ipermercato che misura la reattività del consumatore alle campagne di persuasione, gli automatismi diffusi e impersonali della burocrazia che possono decidere le condizioni di concessione del credito o l’ammissione a un impiego, le banche-dati che tramite controlli incrociati possono costruire rapide schedature dei nostri profili personali, i profili che spontaneamente sono regalati.
Il gioco sociale diventa così misurabile. I marketers fanno le loro scorrerie infliggendoci nuovi bisogni. Le banlieues intanto esplodono. L’assenza di quotidiani che parlino di tutto questo non pare ancora bilanciata da un’opinione pubblica in grado di raggiungere una consistenza collettiva altrettanto forte.

Il gioco politico si presta così al marketing plebiscitario e neopopulistico. «La libertà politica non può fermarsi al diritto di esercitare la propria volontà», asserisce Mattelart. «Il problema sempre più fondamentale è quello del processo di formazione di tale volontà.»

Le corporation diventano soggetto politico primario e proiettano la propria organizzazione-mondo come il tipo di organizzazione ideale, la propria comunicazione come l’unica proponibile, il proprio leader con il suo corredo mitologico aziendale come il solo leader universale. Mano a mano cadono gli ostacoli che separano le incarnazioni statuali del potere dalla concreta egemonia conquistata dall’impresa-mondo nelle casematte della società civile. I magnati della comunicazione raccolgono i frutti di un lungo lavoro di trasformazione della cultura operato da parte dei propri intellettuali organici.
E forse anche chi si innamora troppo della Rete lavora generosamente per il Re di Prussia, che nel frattempo sfronda anche lui le intermediazioni, decentralizza molto, ma centralizza le risorse strategiche, e un domani vorrà concentrare la censura tecnologica.

Perciò è urgente costruire strumenti forti di comunicazione per non regalare tutto alle oligarchie e alle false coscienze. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Una precisazione a proposito della guerra tra Sky e Mediaset.

Ieri Confalonieri e Adreani (ad di Publitalia) hanno dichiarato un calo della raccolta pubblicitaria del -12% nel primo bimestre 2009. Quindi è inesatto dire che tutte le concessionarie calano tranne Publitalia, come ho erroneamente scritto in “Sky contro Auditel. Tom Mockridge ha letto “L’arbitro è il venduto”?

Ringrazio Salvatore Sagone, direttore di advexpress.it per la cortese precisazione di cui mi ha fatto partecipe. Mi scuso con Publitalia per l’inesattezza. E, soprattutto con i lettori di “Beh, buona giornata”, i quali avrebbero potuto avere la sensazione di una posizione predominante sul mercato della pubblicità da parte di Mediaset.

Nonostante le buone intenzioni di chi sta al governo, anche la tv commerciale soffre della “quarta crisi,” quella che sta attraversando i media e la pubblicità. Coraggio, il meglio è passato. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Informazione, la quarta crisi.

di Marco Ferri- Il Manifesto

Come se non bastassero la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziaria, che ha subito tracimato sulla crisi economica, ecco la quarta crisi: la crisi dell’informazione sta attraversando tutto il mondo occidentale.
A prima vista sembrerebbe che la crisi dei giornali sia la diretta conseguenza della crisi della pubblicità, che da anni foraggia tutti i mass media. In realtà, come per le altre tre crisi
(ambientale, energetica e finanziario-economica) la crisidell’informazione viene prima della “tempesta perfetta”: tanto che non ha saputo prevederla. Schiacciata dall’insorgenza dei new media
(internet in testa) e dalla invadenza della tv (sia generalista che
tematica, vale a dire sia analogica che digitale) la stampa ha perso colpi, per poi perdere copie, diffusione, lettori e pubblicità.

Sir Martin Sorrell fondatore e ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale ha sentenziato che nel giro di un paio d’ anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri .
Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi “tradizionali” che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d’ intrattenimento e informazione audiovisiva.

Difficile però immaginare cosa accadrà in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa dove le previsioni dei grandi giornali, dal New York Times (che, per ripianare i bilanci in rosso ha
dovuto vendere il grattacielo, disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York), per non parlare del Wall Street Journal (divenuto di proprietà di Ruppert Murdoch, ha annunciato tagli e
licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti): questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della
stampa americana. Anche il Washington Post ha annunciato di tagliare dal prossimo 30 Marzo l’inserto dedicato al business, compresa le pagine quotidiane dedicate ai listini di Borsa.

L’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media è fosco. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’ attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%.
Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, si vedrà anche qui una riduzione al 20-25%. Insomma, giornali e riviste saranno i più esposti alla concorrenza dei media via internet.

E’ un fatto che l’intrattenimento condizioni l’informazione, che la stessa sia “condizionata” dagli introiti pubblicitari, senza i quali le testate giornalistiche rischiano la chiusura. E’ un fatto che la
crisi dei consumi riguardi anche il “consumo” di informazioni. E’un fatto che la comunicazione abbia assunto un ruolo determinante nella politica dei governi, spesso come grande diversivo, per orientare le
opinioni pubbliche a favore di scelte e a detrimento di altre, non solo durante le campagne elettorali, ma anche durante l’azione di governo.

La crisi che sta attraversando il mondo dei media rischia di mettere in secondo piano la difesa del diritto a una informazione corretta, il diritto a una comunicazione libera. La crisi degli investimenti pubblicitari spinge sempre più a “catturare “ l’attenzione verso le marche globali, invece che a “liberare” l’attenzione di molti verso la democrazia della comunicazione, verso la democrazia nella comunicazione. Per dirla come la dice Zygmunt Bauman “in veste di compratori siamo stati adeguatamente preparati dagli uomini di
marketing e dai copywriter pubblicitari a svolgere il ruolo disoggetto: finzione vissuta come verità di vita, parte recitata come vita reale’ che col passare del tempo spinge da parte la vera vita
reale, privandola di ogni possibilità di ritorno” (“Consumo, dunque sono”, Editori Laterza, Roma-Bari 2009).

Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente di Upa, l’associazione degli investitori pubblicitari, a conclusione del Summit della pubblicità che si è svolto a Roma giorni fa, ha detto “La comunicazione è e resta
driver competitivo, posto di lavoro per talenti, stimolo all’innovazione e libertà di scelta per il consumatore”. Eccola, allora tutta intera l’esplicitazione della “quarta crisi”, quella che
lega pubblicità e informazione: la spasmodica ricerca di un nuovo paradigma tra informazione e pubblicità che perpetui la società dei consumi. Se questo è il pensiero di chi spende i soldi per la
pubblicità nell’informazione, emblematica è la sinergia del ragionamento con chi sta sperimentando, per altro con successo, forme alternative di informazione sul web. Arianna Huffington, co-fondatrice ed editrice dell’Huffington Post, attualmente il sito più famoso d’America, lei, indicata da Time tra i 100 personaggi più influenti degli Stati Uniti, partecipando al Summit della pubblicità, organizzato appunto da Upa ha tracciato tre tendenze in atto: a) i giovani vivono online; b) di crescente importanza è la fase d’ascolto
del proprio pubblico da parte di ogni testata giornalistica; c) centrali i contenuti generati dagli utenti.
In particolare, secondo Arianna Huffington, intervistata da Kara Swisher del Wall Street Journal, il futuro vedrà giornali, TV e internet alimentarsi a vicenda. L’ Huffington Post ha circa 20milioni
di visitatori mensili che sempre più desiderano interagire con informazione. Il mese scorso sono stati un milione i commenti al celebre sito. Tutto ciò senza un dollaro di marketing, ma solo attraverso il passaparola.
Nonostante le dimensioni del fenomeno internet – soprattutto negli USA – e la misurabilità dei risultati grazie ai click, vi sono ancora inspiegabili resistenze da parte delle aziende a investire in questo mezzo. Negli Usa, figuriamoci in Italia.

“Questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria”, ha detto al Sole 24 Ore Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, una vita spesa a creare prodotti editoriali di successo, che ha appena fondato blitzquotidiano.it, sito emulo di Haffington Post.

Forse la quarta crisi è solo un momento di transizione verso la convergenza di stampa, tv e internet. Oppure, come per la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziario-economica, anche la crisi del rapporto tra pubblicità e informazione è una crisi strutturale, che rimanda alle contraddizioni della società dei consumi: “consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta consumando noi e la sostanza del nostro desiderio. E’ una guerra silenziosa e la stiamo perdendo” (Z.Bauman). Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Sky contro Auditel. Tom Mockridge ha letto “L’arbitro è il venduto”?

E’ successo giorni fa, durante la seconda giornata del convegno romano sulla pubblicità, intitolato ”Tutto cambia. Cambiamo tutto?”. Se ai più il primo giorno è risultato alquanto noioso, a movimentare le schiene sulle poltrone dell’ Auditorium ci ha pensato l’amministratore delegato di Sky Italia, Tom Mockridge, che ha attaccato frontalmente l’assetto proprietario di Auditel.

«Non è possibile avere una performance dei programmi televisivi – ha detto l’ad di Sky – finché la società di rilevazione è controllata al 60% da Rai e Mediaset, che ne controllano le decisioni attraverso il Cda: è un assetto, quello di Auditel, che riflette il mercato com’era 15 anni fa. Le emittenti tv, tutte, dovrebbero scendere sotto al 50% del capitale, lasciando la maggioranza ad altri soggetti. Nel Cda potrebbero entrare consiglieri indipendenti, come avviene in altri grandi mercati».

La guerriglia tra Sky e Mediaset è stata scatenata dall’introduzione dell’Iva sugli abbonamenti della tv satellitare, decisa settimane fa dal governo Berlusconi. Le ostilità si sono via via intensificate fino alla costruzione di una nuova piattaforma, nata da una società con Mediaset, Rai e Telecom, che permetterà di non trasmettere più sul satellitare Sky i programmi in chiaro del canale commerciale e di quello pubblico. Lo scopo sembrerebbe sgonfiare la quota di mercato che Sky ha conquistato negli ultimi anni, arrivando a lambire il 10%. Sky ha reagito arruolando star della tv generalista, come la Cuccarini e addirittura Fiorello, il quale, invitato a Palazzo Grazioli si è sentito chiedere da Berlusconi: “Perché vai a lavorare col nemico?”

Gli ultimi dati ufficiali danno una calo di raccolta pubblicitaria da parte di tutte le reti televisive. Tranne che di Publitalia, la concessionaria di Mediaset. Di qui, l’attacco all’Auditel da parte di Sky: Auditel fornisce i dati ufficiali di ascolto che servono a fare il prezzo degli spazi pubblicitari sulla tv. E Sky si sente penalizzata e quindi attacca a testa bassa, alzando il livello dello scontro con le tv di Berlusconi.

E’ singolare che Tom Mockridge, l’ad di Sky, nell’attaccare Auditel usi gli stessi argomenti di un libro intitolato
“L’arbitro è il venduto” di Giulio Gargia (Editori Riuniti, 2005). All’epoca il libro scatenò le ire dei manager di Auditel, e il plauso degli addetti alla televisione e alla comunicazione, nonché di associazioni di intellettual e operatori dell’informazione democratica, tra cui Megachip di Giulietto Chiesa e Articolo 21 di Giuseppe Giulietti.

Oggi “L’arbitro è il venduto” di Gargia sembra essere diventato un cavallo di battaglia nella guerra di ascolti tra Sky e Mediaset. Potenza della concorrenza. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Arianna Haffington: il futuro è la convergenza tra giornali e internet.

Arianna Huffington, co-fondatrice ed editrice dell’Huffington Post, indicata da Time tra i 100 personaggi più influenti degli Stati Uniti partecipando a “Tutto cambia. Cambiamo tutto?”, convegno sui media e la pubblicità, organizzato da Upa (associazione degli investitori pubblicitari italiani) che si è tenuto a Roma la scorsa settimana ha tracciato tre tendenze in atto:a) i giovani vivono online; b) di crescente importanza è la fase d’ascolto del proprio pubblico da parte di ogni testata giornalistica; c) centrali i contenuti generati dagli utenti.

In particolare, secondo Arianna Huffington,a intervistat da Kara Swisher del Wall Street Journal, il futuro vedrà giornali, TV e internet alimentarsi a vicenda. La Huffington si è detta sicura che, se non fosse stato per internet, Obama non sarebbe stato eletto Presidente.

Con orgoglio ha fornito i numeri relativi all’Huffington Post: circa 20milioni di visitatori mensili che sempre più desiderano interagire con l’informazione. Il mese scorso sono stati un milione i commenti al celebre sito. Tutto ciò senza un dollaro di marketing, ma solo attraverso il passaparola.

Nonostante le dimensioni del fenomeno internet – soprattutto negli USA – e la misurabilità dei risultati grazie ai clic, vi sono ancora inspiegabili resistenze da parte delle aziende a investire in questo mezzo.Negli Usa, figuriamoci in Italia. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: il Washington Post perde business.

da blitzquotidiano.it

Il quotidiano Washington Post a partire dal 30 marzo eliminerà nei giorni feriali la sua sezione business come edizione a parte e la incorporerà nel suo principale fascicolo denominato ”A”. Lo ha annunciato un portavoce del quotidiano.

Il Post eliminera’ anche i listings quotidiani delle azioni, sostituendoli con mezza pagina di informazioni economiche e performance dei principali titoli. Il Post aveva già eliminato la sezione Book Review dal mese di febbraio.

Con l’editoria dei quotidiani in piena crisi, molti giornali hanno già preceduto il Post nell’eliminare la sezione business separata per tagliare i costi di produzione in un momento in cui la pubblicità ha subito un crollo a causa della crisi: tra gli altri, The Atlanta Journal-Constitution, e il Los Angeles Times.

Sempre a partire dal 30 marzo il Post eliminerà anche dalla sua sezione cartacea il supplemento Style e una serie di comic strips, e le pubblicherà solo nella versione online del giornale. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
The Huffington Post

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

“Il totale degli introiti derivanti dalla pubblicità commerciale in Italia scende nel 2008 da 8 miliardi e 172 milioni di euro a 7 miliardi e 978 milioni. E invece Publitalia sale.”

di MARCO LILLO -L’espresso

Nel pieno della crisi peggiore degli ultimi settant’anni, Silvio Berlusconi predica ottimismo: “Nessun dramma”. Effettivamente il Cavaliere ha le sue ragioni per vedere rosa. Il gruppo del presidente del Consiglio può vantarsi di essere riuscito ad aumentare (di poco) la raccolta pubblicitaria (pari a 3 miliardi e 35 milioni di euro) nel 2008. Lo dicono le stime di Nielsen Media che ‘L’espresso’ pubblica in esclusiva. Secondo questi dati, anche nell’anno in corso la corazzata Mediaset reggerà l’onda della recessione meglio dei competitori. Nonostante l’Auditel in ribasso e la crescita del concorrente Sky, la concessionaria Publitalia, guidata da Giuliano Adreani, riesce ancora a condire di spot i programmi delle reti guidate da Piersilvio Berlusconi e Fedele Confalonieri.

I grandi clienti, come Wind, Infostrada, Barilla, Telecom Italia e Fiat non resistono all’appeal delle reti Fininvest. Nel primo anno del governo Berlusconi i primi 15 inserzionisti del nostro mercato hanno aumentato i loro investimenti su Mediaset di 30 milioni di euro mentre la Rai è rimasta al palo. Eppure le reti Mediaset hanno perso telespettatori sia nel prime time che nell’intera giornata. Proprio quando Mediaset perde colpi, più della Rai, il gruppo del presidente del Consiglio aumenta le quote di pubblicità rispetto a viale Mazzini e agli altri media. La stessa situazione si pose nel 2002 e allora l’opposizione, sulla base di stime parziali, gridò al ‘conflitto di interessi’. ‘L’espresso’ ha provato a ricostruire l’andamento della raccolta pubblicitaria per capire se davvero le aziende del presidente del Consiglio hanno beneficiato di una particolare attenzione delle imprese.

Nielsen: Publitalia aumenta
Il punto di partenza sono i dati contenuti nel monitoraggio effettuato quotidianamente da Nielsen Media, la principale società di ricerche del settore. Nielsen rileva le inserzioni pubblicate o trasmesse per poi ricostruire (in base al listino) il valore dell’investimento del cliente. Le stime fotografano in tempo reale lo stato di salute del mercato pubblicitario e quindi dell’editoria e della televisione.

Cosa dicono i dati? Per i giornali e, in misura minore, per radio, tv e Internet è in corso una gelata senza precedenti. Solo Mediaset e pochi altri (come le radio del Centro-Sud) sembrano beneficiare dell’ultimo scampolo di primavera. Il totale degli introiti derivanti dalla pubblicità commerciale in Italia scende nel 2008 da 8 miliardi e 172 milioni di euro a 7 miliardi e 978 milioni. E invece Publitalia sale, anche se di poco: 3 milioni. La concessionaria del Cavaliere riesce ad aumentare la sua quota di un punto percentuale fino al 38 per cento. La Rai invece sembra vittima di un paradosso opposto. Sipra, la società del gruppo che raccoglie la pubblicità per viale Mazzini lascia sul campo ben 53 milioni di euro.

Il crollo della Rai
Le ragioni di questa Caporetto vanno ricercate in tre fenomeni: lo spostamento di pubblicità da Rai a Mediaset da parte di alcuni grandi investitori; l’incremento maggiore della quota riservata al network berlusconiano e infine l’aumento della pubblicità ‘amica’, che comprende quella che proviene dall’imprenditore Berlusconi (Medusa, Mondadori e Mediolanum) e quella che viene invece dalle aziende e dalle istituzioni controllate dal governo: ministeri, Poste, Eni ed Enel (vedi scheda a pagina 35).

L’effetto di questi tre fattori è ben descritto dai grafici della Nielsen, che raccontano un’Italia nella quale la pubblicità si concentra sempre di più nelle reti radiotelevisive e si focalizza su un solo gruppo. Quello del presidente del Consiglio. Apparentemente stiamo parlando di merendine e automobili, in realtà è in ballo qualcosa di più importante. La pubblicità è la principale fonte di sostentamento non solo delle radio e tv, ma anche dei giornali. Solo chi raccoglie pubblicità oggi ha i mezzi per produrre buona informazione, che costa.

La concentrazione del 38 per cento delle risorse nelle mani del colosso televisivo del premier, il contestuale indebolimento della tv pubblica e della carta stampata non incidono solo sul mercato, ma anche sulla quantità e sulla qualità delle fonti alle quali può attingere l’opinione pubblica per informarsi. Ovviamente le aziende inserzioniste non pensano a tutto questo quando pagano per pubblicare o trasmettere uno spot. Pianificano le loro campagne cercando solo di massimizzare il ritorno. Non è colpa loro se in Italia esiste una situazione paradossale determinata dall’oligopolio televisivo e dal conflitto di interessi. Non è colpa loro se devono fare i conti con un presidente del Consiglio che nell’ottobre scorso arriva a dire a un gruppo di imprenditori: “Non capisco come fate ad accettare che i vostri prodotti siano pubblicizzati dalla Rai”.(Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia

Reporter Senza Frontiere: allarme censura su Internet

di Alessandro Oppes da repubblica.it
Un tasto speciale, “ctrl”, ovvero “control”, riprodotto in maniera ossessiva su tutta la tastiera del computer. Reporter senza Frontiere presenta con questa immagine la nuova campagna contro la censura su Internet. Il “controllo” è quello totale e assoluto esercitato dai regimi dittatoriali sulle informazioni circolanti in rete. Ma, secondo quanto denuncia l’organizzazione internazionale per la difesa della libertà di stampa, anche alcuni paesi democratici hanno adottato misure preoccupanti.

Per questo Rsf, oltre a denunciare le gravissime violazioni della libertà da parte dei dodici “nemici di Internet” (Arabia Saudita, Birmania, Cina, Corea del Nord, Cuba, Egitto, Iran, Uzbekistan, Siria, Tunisia, Turkmenistan e Vietnam), ha deciso di mettere “sotto vigilanza” altri undici governi, nel timore che gli abusi si possano estendere in altre aree del mondo.

Le democrazie sotto osservazione sono quella australiana e la sud-coreana. Nel gennaio 2008, il Parlamento australiano ha esaminato un progetto di legge che esige che i provider di Internet creino sempre due collegamenti in ogni casa, uno per gli adulti e un altro per i bambini, entrambi sottomessi a un filtro rigido e segreto. Il progetto è considerato da Rsf come un grave attentato alla confidenzialità della corrispondenza privata, perché viene presentato in un momento in cui la legislazione contro il terrorismo permette già a un’agenzia indipendente del governo di intercettare qualunque messaggio e-mail sospetto e di compiere indagini sugli internauti anche in assenza di un’autorizzazione giudiziaria.

Anche in Corea del Sud, secondo Reporter senza Frontiere, sono state adottate misure “sproporzionate” per regolare l’acesso alla rete. Il 7 gennaio scorso è stato arrestato un blogger con l’accusa di aver messo in pericolo “gli scambi economici sui mercati”, così come “la credibilità della nazione” con la pubblicazione di alcuni articoli su uno dei forum di dibattito più importanti del paese.

Attualmente, denuncia l’organizzazione per la libertà di stampa, nel mondo ci sono 69 ciberdissidenti in carcere: in vetta alla lista nera, ancora una volta, la Cina, seguita da Vietnam e Iran. I dodici paesi indicati come “nemici di Internet” secondo Rsf hanno trasformato le loro reti in Intranet, impedendo agli internauti di accedere a quelle informazioni che i governi considerano “indesiderabili”. Oltre a censurare, i regimi dimostrano anche grande efficacia nella repressione, spesso giustificata con la necessità di difendere la “sicurezza nazionale”.

Accusate di aver collaborato spesso con i regimi censori – anche loro malgrado, per le fortissime pressioni dei governi – alcune delle grandi imprese globali di Internet hanno reagito con coraggio nei mesi scorsi: Google, Yahoo e Microsoft hanno aderito alla fine del 2008 ai principi del “Global Network Initiative”, affermando pubblicamente la volontà di rispettare la libertà di espressione dei loro clienti in tutto il mondo. Una dichiarazione di principio che si spera possa diventare realtà. Per questo nei giorni scorsi Rsf ha lanciato insieme ad Amnesty International un appello ai direttori generali delle tre compagnie, chiedendo che oggi, giornata mondiale contro la cyber-censura, diano un segnale forte a difesa della libertà d’espressione. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La crisi della stampa: “Questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria.”

Intervista a Marco Benedetto, vice presidente del Gruppo Espresso di Paolo Madron- Il Sole 24 Ore.

La Cina è vicina. Nel senso che ti si struscia addosso per poi nascondersi tra le pile di libri e giornali accatastate. Cina è la gatta di Marco Benedetto, che si muove da padrona nella sua grande casa romana di Piazza in Piscinula, dove al piano terra l’ex amministratore delegato dell’Espresso (ora ne è vicepresidente) ha impiantato la piccola redazione dell’avventura online che sta per cominciare.
Fa coppia con U-boat, il maschio, che di giorno sovrintende al lavoro dei giornalisti. Insomma, gatto ci cova dietro a Blitz, il sito che non sarà un giornale ma, per dirlo con una brutta parola che tra gli adepti della rete spopola, un aggregatore di notizie. Si prende un po’ di qua un po’ di là, si rimanda ai vari blog, si condisce il tutto con qualche commento originale per affermare un tono editoriale. Nel tempo che gli resta, Benedetto ha anche cominciato un libro di memorie sul mondo che lo ha visto per tanto tempo protagonista, lo scrive «come se lo spiassi dal buco della serratura» dice, e che Mondadori si è già fatta avanti per pubblicare.

Questa è in assoluto la sua prima intervista, dopo che con puntiglio si era sempre sottratto alla curiosità di coloro,i giornalisti, che quotidianamente erano uno dei referenti del suo lavoro.

Si è buttato su internet perché i giornali sono morti o perché costa troppo farli?
Ma no, non siamo all’apocalisse. I giornali non moriranno e il bisogno d’informazione ci sarà sempre. A non esserci più sono i soldi. O meglio, non ci sono più tutti quelli che servono per fare un giornale di carta.

Neanche un giornale di quattro paginette, stile Foglio o vecchio Riformista?Ho studiato tanto l’idea di fare un Foglio di sinistra, ma la simulazione del conto economico era inesorabile: ci si perdevano milioni di euro. Internet è croce e delizia: rappresenta una minaccia per l’editoria tradizionale, ma serve la democrazia dell’accesso perché ha drasticamente abbassato i costi.

E Blitz come le è venuto, si è ricordato della vecchia trasmissione di Gianni Minà?
No. Mi sono seduto sul divano e, pensa e ripensa, mi è venuto di associare la velocità del mezzo al lampo…
Però Blitz sarà un giornale e non, come dicono i ragazzotti che se ne intendono, un blog di social network…
Ma io vengo da Genova, per il mio carattere i torinesi sono già troppo invasivi, cosa vuole che ne capisca di social network… Mi ricordo di quando rompevo le balle a Scalfari con le ricerche di mercato e lui mi mandava a stendere.

Ma Scalfari le pare uno da ricerche di mercato?
Una volta Eugenio che non ne poteva più delle mie indagini mi raccontò di quando lui faceva lo stesso con Arrigo Benedetti, che le prendeva e le buttava per terra strepitando: «Non mi rompa i co…, tanto io faccio il giornale che piace a me e ai miei amici». Poi sa, ognuno fa i conti con la struttura mentale che si ritrova.

La sua com’è?
Io vengo dall’informazione scritta, quello che conta è la notizia. Ero partito dall’idea di un quotidiano online, ma siccome lo finanzio coi miei soldi ho capito che non ce la facevo. Allora ho deciso di fare l’aggregatore di news. Segnalo ai miei amici che mentre loro dormono nel mondo è successo questo e quello. Non vado contro i giornali, ma nel mio piccolo aiuto a diffondere quello che pubblicano

Quanti soldi ci mette?
Per cominciare 100mila euro all’anno bastano e avanzano. Metà vanno ai ragazzi che lavorano con me: prendo studenti, disoccupati, precari. Ma sulla parte tecnica credo di aver scelto tra i più bravi. La grafica me l’ha studiata Remigio Guadagnino, l’impostazione internettiana 77Agency.

A volte, in questa tristezza generale, penso che in fondo siamo l’unica categoria che da viva si è già fatta il funerale.Magari si esagera. Certo che se mettiamo insieme la crisi della pubblicità con quella economica…
Perché il crollo è soprattutto della pubblicità. Prenda in America, dove internet sta mangiando ai giornali tutta la classificata. Lì il nemico non è Google che ha ucciso le pagine gialle…

Chi è il nemico?
Più di Google ai giornali fa male Craigslist, il sito degli annunci. Se cerchi una segretaria attraverso il New York Times ti costa 300 dollari, lì te la cavi con 50.

A proposito del New York Times, che impressione: nel 2007 guadagnava 200 milioni di dollari, l’anno dopo ne ha presi 50.
In America il primo cliente dei giornali è l’auto,il secondo l’immobiliare. Non mi pare che per loro le cose vadano a gonfie vele.

E la diminuzione dei lettori è colpa di internet?
No, diminuiscono per effetto dell’offerta televisiva. E delle fotocopie.

Le fotocopie?
Sì, Repubblica e Corriere ne sono vittime illustri. Non c’è rassegna stampa dove manchino. Ha idea di quante copie si perdono così? Tanto che gli editori volevano mettere una tassa sulle fotocopie, ma non se ne fece mai nulla.

Ci sono però editori che a internet come media di news non credono. Mondadori ha deciso di investire sull’online solo come marketing complementare dei femminili.
Fanno bene, loro non hanno il quotidiano. Fare di Panorama un sito di news comporterebbe investimenti sul cui ritorno non c’è certezza. Guardi lo Spiegel: ha un fior di sito internet, con 80 giornalisti che ci lavorano, ma non è stato un successo travolgente.

Sicuro che la carta non muore?
La carta non muore, se mai potrà cambiare il modo in cui la si mette in mano ai lettori. Oggi vanno all’edicola, domani gliela si porta a casa. Sul mio sito ad esempio con un clic ti stampi la pagina, e gratis.

Non crede che gli editori, cullandosi sulla cuccagna dei collaterali, si siano accorti tardi del cataclisma che stava arrivando?
Un po’ sì, anche perché le ristrutturazioni non sono neutre e uno se può cerca di procrastinarle. Però è curioso che in America i giornali che vanno peggio sono quelli che hanno fatto i tagli più radicali. E poi c’è Murdoch che resta un mito.

Un mito che però ha appena perso in trimestrale 6 miliardi di dollari.
Un mito perché nonostante questo ha detto ai suoi: «Signori, dobbiamo avere i coglioni. Tutti taglieranno i costi per favorire i dividendi, noi dobbiamo privilegiare i contenuti».

Uno squalo intelligente. Lui, per ora, non taglia, altri lo fanno. Mentre qui da noi uno spettro si aggira per le redazioni: il prepensionamento.
All’epoca pre-pensionando i poligrafici abbiamo ristrutturato il settore e tutti erano contenti, perché andavano a casa guadagnando bene. Con i giornalisti è diverso.

A spanne ci perdono un sacco sullo stipendio.
Sì, uno che guadagna 10 rischia di andare in pensione con 5. E il giornalista non ce la fa perché solitamente è un big spender: ha due famiglie, l’amante, i figli, e magari un mutuo contratto a cinquant’anni. Secondo me l’idea di De Benedetti che gli editori dovrebbero versare all’Inpgi un contributo proporzionale al livello di pensione del giornalista è perfetta.

E se prepensionassimo anche gli editori e i manager che invece d’innovare il prodotto vanno a farfalle? L’idea, giusto per non rubare niente, è di Tina Brown.

Beh, non mi risulta che alla Condé Nast si ricordino con entusiasmo dei profitti del New Yorker, per non parlare di Talk che ha addirittura chiuso.

Un editore internettiano quale si accinge ad essere dove si abbevera?
I miei siti di riferimento sono Drudge Report, un misto di cattiveria e veleno. The DailyBeast di Tina Brown, che è una brava giornalista. E HuffingtonPost, esempio da seguire perché è partito con quattro lire per poi diventare il più importante blog americano.

Vedo che si abbevera solo all’estero.
Da noi oltre ai siti dei grandi giornali ce ne sono alcuni di eccellenti. E non penso solo al bravissimo Dagospia. Ci sono Affaritaliani, il Velino, Informazione…

Pensi al giorno in cui, come è successo ad Arianna Huffington, un fondo busserà alla sua porta con 25 milioni di euro.
Qualcuno mi aveva offerto dei soldi, ma io voglio essere prudente. Cominciare a 40 anni è un conto, ma io ne ho 64 e se fallisco sono morto. Ora che ci penso, c’è un altro sito che mi piace, si chiama Gawker, fa gossip sul mondo dei media. Di recente ho letto tutti i pettegolezzi sul tycoon dei media Summer Redstone che ha lasciato la moglie per mettersi con la hostess del suo aereo.

E chi lo fa?
Nick Denton, un ex giornalista omosessuale del Financial Times, e lo fa benissimo. Adesso si è messo a prendere in giro Roubini, sa l’economista che aveva previsto la catastrofe, perché ha tappezzato le pareti di casa sua con quadri di donne nude.

Ma a giudicare la montagna di giornali che invade casa sua la carta le piace ancora. Cosa legge la mattina?
Repubblica.

Troppo facile.
Il Corriere, il Sole, il Messaggero e molto la Stampa. Giulio Anselmi ha un carattere di m…, ma lo ha fatto diventare un gran bel giornale.

E i settimanali?
Guardo l’Espresso, anche perché confesso un’adorazione per Daniela Hamaui, una che nel giornale sa sempre mettere qualcosa che non ti aspetti e ti sorprende. E poi guardo con attenzione Chi.

«Chi» è il vero news magazine dei nostri tempi, un compendio di antropologia del potere cafonalotto e trionfante.
E guarda caso Chi non ha sito internet.

Provocazione. La tivù si ristruttura meglio dei giornali. Vedi Mediaset che diversifica dalla tv generalista.
Non è vero. Parliamo dell’America, dove è già successo tutto. Lì la tivù ha ucciso i giornali. Non i tre network, ma i cento canali via cavo che sono arrivati fin nelle lande più desolate del Paese. Allora i giornali, specie quelli della sera, hanno cominciato a chiudere.

È per questo che qualcuno ha avanzato l’idea di farne una specie protetta da sottrarre ai condizionamenti del conto economico?
Qualcuno lo pensa, ma non ci credo. E poi sarebbe come la Jugoslavia. Guardi in Gran Bretagna The Guardian, l’unico di sinistra in un mercato di giornali tutto di destra. Fa capo a una fondazione, perché il vecchio Scott non aveva eredi. Dopodiché il giornale è gestito da una Spa.

A un grande manager editoriale non si può non chiedere di dire una prece al capezzale dell’Unità. Si ricorda di quando alla domenica col porta a porta vendeva un milione di copie?
Sì, peccato che allora i comunisti avessero il 30% dei voti. È un giornale troppo legato alla sua storia per poterlo tirare su.

Anche se a dirigerlo c’è una sua ex dipendente?
L’Unità è entrata in crisi ancora prima della caduta del Muro. Mario Lenzi, quando ne era presidente, commissionò una ricerca da dove venne fuori che il lettore tipico era sessantenne e stalinista. Mi disse: «Sai, ogni vecchio compagno che muore per noi è un lettore in meno che non viene sostituito ». Si ricorda di quando Togliatti non volle inaugurare la sede di Milano perché diceva che era una megalomania?

No. Declino irreversibile?
Il declino non lo fermi con una ragazza brava, simpatica e carina, ma nemmeno prendendo le migliori firme del mondo. Se non altro perché ti toccherebbe pagarle.

Eppure alla fine si trova sempre qualcuno che sui giornali è disposto a mettere soldi.
Giorgio Fattori, che per me è stato come un vecchio zio, mi diceva: «Gli industriali si sono rovinati di più con i giornali che con le donne e i cavalli». I padroni sono affascinati dal mestiere, dicono al giornalista di dargli del tu, e i giornalisti accettano così si sentono importanti. Ha mai visto un capo azienda dare del tu al suo direttore amministrativo? Romiti dava del lei a tutti, persino a Paolo Mattioli che si è comportato con lui più che da figlio. Ma da una sua intervista apprendo che con Concita De Gregorio si danno del tu.

Sbaglio o adesso Repubblica sembra un po’ in affanno sul Corriere?
Ma quando mai, in edicola vende di più. La differenza è nelle copie regalate.

Venendo da lei non ho potuto fare a meno di alzare lo sguardo all’ultimo piano del palazzo di fronte. Ci si immagina ancora Carlo Caracciolo seduto sul divanetto del soggiorno.
Sua figlia Jacaranda mi ha portato una suo foto con una bella dedica. E Montezemolo continua ancora a chiedermi dei quadri che mi ha lasciato in eredità.

Se è per questo anche Ciarrapico è fiero del suo bastone da passeggio col pomello in argento. L’impressione comunque è che per età o l’uscita di scena di alcuni suoi protagonisti sia venuto meno quel patto che ha permesso a Repubblica di prosperare.
Non sono d’accordo. Se mai Repubblica ha altri problemi, in primis quello di essere troppo romanocentrico. Scrive ogni giorno della Caffarella, ma a Verona o Mantova sanno cos’è la Caffarella? E soprattutto cosa gliene importa?

Francamente mi sembra più problematico essere un giornale di sinistra quando la sinistra non c’è più.
Il giornale ha avuto un momento di difficoltà quando Eugenio si è buttato su Occhetto, meno male che ha vinto D’Alema. La bravura di Ezio Mauro è stata quella di aver dato spazio a tutti. Prima Repubblica si occupava di Bertinotti come dello scemo del villaggio, Ezio invece lo ha assurto al rango di protagonista importante. E così anche per molta della destra. Secondo lei se Fini vuole spazio lo trova su Repubblica o sul Giornale?

Repubblica è un caso interessante. Le incomprensioni in casa De Benedetti rivelano un non banale dilemma tra ragioni del cuore e quelle del conto economico.
Siamo stati tutti figli…

Magari non di padri così ingombranti.
Per fortuna, se no uno non ha alternative: o lo uccide o scoppia. Invece Rodolfo per me è stato un bravissimo azionista, e lo dico da manager che ha lavorato con lui per quindici anni.Quando ho deciso di partire col «D» di Repubblica mi sostenne in tutto e per tutto.

Tra dieci anni, a parte il suo sito che sarà fortissimo, cosa vede?
Vedo che sarà meglio che tra cinque, questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria. Bisognerà ridimensionare tutto senza far morire il mestiere. E poi ci sarà internet, che adesso ancora non spopola perché il mercato non lo riconosce. A proposito, ha visto la campagna online di Danacol?

Le pare che si possa perdere Little Tony in versione anti colesterolo?
Alla Danone c’è una signora brava che si chiama Bergamini…

Ma non stava in Parlamento con Forza Italia…
Questa è Marcella Bergamini, viene dalla Rcs e, pur sapendo che i suoi datori di lavoro hanno la televisione in cima ai pensieri, prova a sperimentare mezzi nuovi e meno costosi. Quando la signora Bergamini paga un decimo di quello che paga l’inserzione sul Corriere e magari funziona anche, è un buon segno.

La nuova avventura non cancella però il passato.
Un lungo passato: quarant’anni di editoria di cui 28 come manager.

Siccome le piace il gossip, mi corre l’obbligo di dirle che girano voci su un suo ritorno alla plancia di comando dell’Espresso.
Quale migliore occasione di avere a disposizione l’interessato per smentirle?

E la sua fama di mastino delle redazioni a cosa si deve?
Forse al fatto che ho pronunciato spesso dei no in un ambiente dove dire sì è molto più facile, e ti risparmia un sacco di grane. E poi perché ho fatto tante ristrutturazioni, ma pensando sempre a salvaguardare il lavoro, non a distruggerlo.

Il mestiere le ha dato molto, compresa questa imponente casa.
Merito della lotteria delle stock option. È una questione di tempistica, se le avessi adesso sarei povero in canna.

Lei ha cominciato come giornalista alla Stampa, che era il suo mito.
In Liguria c’era la Stampa. Luigi Russo scrisse su Belfagor un saggio che comparava il Corriere diretto da Alfio Russo alla Stampa di Giulio De Benedetti. Il primo lo definiva il giornale dei cotonieri lombardi, il secondo il giornale della classe operaia più colta. Insomma, la Stampa era l’innovazione, il Corriere la tradizione.

Ai suoi tempi alla Stampa c’era una bella squadra di giovani.
Sì, e Fattori è stato un perfetto direttore. Ma Montezemolo e io dovemmo sudare per convincere l’Avvocato a prenderlo.

Non gli piaceva?
Diceva che era vecchio, anche se aveva solo 51 anni. Ma poi si parlarono e lì nacque l’amore. Fattori era anche amico di Romiti, poi non so perché litigarono, questioni di donne o di figli. Alla fine, poveretto, si ammalò per le vicende di Gemina.

Lei è sempre stato di sinistra?
Sinistra centro. Anche se, non raccontiamocela, l’Italia è sempre stata democristiana. Berlusconi ha detto ai suoi di stare attenti a Franceschini mica per altro, perché è un ex democristiano. Per questo il Giornale gli sta facendo la campagna contro.
De Benedetti l’ha conosciuto in Fiat?
No, l’ho conosciuto prima, quando era presidente dell’Unione industriali. Carlo in Fiat ha avuto l’enorme merito di aver spalleggiato Giovannini durante i 25 giorni di sciopero dei poligrafici della Stampa nel 1976.

Era molto legato a Giovannini.
Nella storia dell’editoria ha avuto uno straordinario merito: far passare la legge sull’editoria grazie alla quale lo Stato diede agli editori almeno 300 miliardi di lire. Invece che comprarsi ville o barche, ebbero il buon gusto di reinvestirli nelle loro aziende. Senza quella legge non ci sarebbero molti giornali, tra cui parecchi del gruppo Espresso.

Poi l’Ingegnere la chiamò all’Espresso.
No, mi ha chiamato Caracciolo e mi ha portato da lui. Da lì è nato il sodalizio.

Lei era in sella quando Berlusconi voleva prendersi Repubblica.
Non ci ho mai creduto. Ha ragione Ciarrapico: Andreotti non avrebbe mai consentito un’operazione che avvantaggiava in quel modo Craxi.

E se invece fosse successo?
Berlusconi avrebbe fatto fuori Caracciolo, non Scalfari. Una delle prima volte che lo vidi ai tempi della trattativa mi disse: «Io ho bisogno dell’alleanza di Eugenio». Detto questo continuo a pensare che Berlusconi sia uno che arriva prima di tutti, è uno che mentre ti dice ci vediamo al bar è già là che ti aspetta. Però editorialmente ha commesso solo due errori.

Quali?
All’epoca ha sottovalutato Caracciolo, poi non ha capito le potenzialità e la capacità di Murdoch.

Siamo alla fine. Le sue cose più significative oltre, buon per lei, alle sue stock option?
Beh, qualcosa di buono mi sembra di averlo fatto. Penso al «D»di Repubblica, all’introduzione del colore sul quotidiano, alla fiducia data a Linus quando Claudio Cecchetto uscì dalla radio.

E gli errori?
Su quelli stendiamo un velo pietoso. L’inferno è la contemplazione per l’eternità delle cazzate fatte. In fondo ho solo 64 anni, un po’ presto per iniziare a contemplare no? (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Media e tecnologia Popoli e politiche Società e costume

Sicurezza: ecco come sono stati avvelenati i pozzi.

(fonte: repubblica.it)
Durante i due anni del governo Prodi (2006 e 2007) i tg hanno raddoppiato lo spazio della cronaca nera. Secondo uno studio del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva (nato da un’iniziativa dei radicali) dal 2003 al 2007, il tempo dedicato ai servizi su delitti, violenze e rapine è raddoppiato (se non triplicato) passando dal 10,4% dei tg del 2003 al 23,7% di quelli del 2007. Dato significativo che potrebbe avere aumentato la percezione di insicurezza da parte degli italiani, e avere avuto un peso alle elezioni politiche del 2008, tesi sostenuta dal centrosinistra in molte occasioni. Come la convinzione che il senso di incertezza e paura sarebbe nato in parte per il battage dei media.

I numeri dicono che nel 2003 il Tg1 ha dato notizie di cronaca nera per l’11% del suo tempo, il 19,4% nel 2006, il 23% nel 2007. Il Tg2 è passato dal 9,7% del 2003 al 21% del 2006, fino ad arrivare nel 2007, al 25,4%. Il Tg3 è la testata che registra il minore aumento, passando dall’11,5% del 2003 al 18,6% del 2007. Sulle reti Mediaset l’aumento è maggiore: per Studio Aperto, la percentuale è stata pari al 30,2 della durata totale dei tg del 2007, contro il 12,6% del 2003. Il Tg5 è passato dal 10,8% al 25,7%. Il Tg4, malgrado il raddoppio negli ultimi 5 anni, ha avuto l’incremento minore, dal 10,2% del 2003 al 20,9% del 2007. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia

Il black out di Gmail.

di VITTORIO ZAMBARDINO da repubblica.it

Una cosa è certa, da San Francisco a Roma, da Londra a Sidney l’abbiamo saputo tutti allo stesso modo: su facebook e twitter. Le proteste si moltiplicavano col passare dei minuti. E la notizia è stata appresa grazie a questa gigantesca pubblicazione distribuita di massa: “Gmail, la posta di Google, è andata giù. Fate qualcosa.” Un’altra prova di quanto ormai la parte più attiva dell’utenza internet è dipendente da Google per la sua vita digitale quotidiana (Qui il servizio di Repubblica.it).

Tre ore e passa di sospensione del servizio. Non la prima volta per il motore. E un gran buio di dati oggettivi, anche se l’azienda ha subito ammesso che c’era un problema, cominciato alle 9,30 ora GMT, quindi le 10,30 in Italia e proseguito fino a dopo le 13 (ora italiana).

Gran buio perché nessuno sa quanti utenti siano stati coinvolti: secondo la Bbc, Gmail ha 113 milioni di iscritti, secondo Comscore ed altre società di rilevazione ha 238 milioni di utenti unici (che non equivalgono ai registrati). Secondo una fonte di Google Italia si tratta di “decine di milioni” in tutto il mondo. E pur volendo considerare che gran parte di coloro che usano il sistema risiedono negli Stati Uniti, che all’ora del blocco erano immersi nella notte, l’idea che “decine di milioni di persone” si siano viste bloccare non solo la posta ma anche i documenti di lavoro che sono ospitati nelle applicazioni on line, come Google Documents, è plausibile.

C’è stato chi, come un blog ufficiale del Guardian ha provato a fare un calcolo delle perdite economiche, visto che almeno 1 milione di piccole aziende nel mondo si affida a Google Mail per le proprie attività: ma francamente sembra un esercizio di fantamatematica, più che il processo di dati reali.

Che conclusione trarne? – Al buio attuale, cioè nella più completa mancanza di informazioni di merito, nessuna. E nessuno specialista si pronuncia. Semmai gli addetti ai sistemi di posta, sentiti al telefono, sollevano un argomento serio. Questo: che un servizio con 113 milioni di utenti, che ormai usano Gmail come archivio, prima che come servizio di posta, e sul quale vengono fatti viaggiare dati pesantissimi, come i video, rappresentano un volume di traffico talmente grande che non c’è poi da menar scandalo se c’è stato un problema.

Negli anni predigitali, a Natale e per decenni, i giornali hanno pubblicato la foto degli uffici postali paralizzati dai milioni di cartoline di auguri e pacchi postali. Forse è successo qualcosa di analogo, ma di certo nessuno lo sa.

E questo è il punto cruciale del discorso. Che Google non fornisce mai informazioni precise sulle questioni che lo/la riguardano. Che si tratti dei meccanismi che regolano l’asta per l’assegnazione della pubblicità o che si tratti di un black out di posta. Ma questo è un tema di trasparenza, non di inaffidabilità tecnica: problema rilevantissimo,perché nel momento in cui un servizio privato è alla base della quotidianità di decine di milioni di persone – ed oggetto di transazioni economiche, come per gli adsense – la chiarezza nell’informazione aziendale è questione costitutiva di un rapporto sano col mercato e con i clienti.

p.s.

un piccolo punto messo a segno dai telefoni mobili: Google Mail non si è mai fermata per chi accedeva con modalità diverse da quella web. Quindi iPhone e Blackberry hanno funzionato alla grande. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia

Agcom li multa, loro continuano. E’ una nuova strategia di marketing?

Negli ultimi mesi una serie di procedimenti diretti a verificare la corretta osservanza – da parte di alcuni operatori telefonici – delle norme in tema di portabilità del numero, servizi non richiesti, indici di qualità, applicando sanzioni per complessivi 2.804.000 euro, hanno portato, come annuncia la stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) a multare i cinque principali operatori nel mercato italiano: Vodafone è stata multata con 1.680.000 euro; Telecom Italia con 536mila euro; Opitel, che è l’azienda che gestisce Tele 2 Italia con 348mila euro; Bt Italia ed Eutelia con 120mila euro ciascuna.

Le sanzioni inflitte a Vodafone, per un totale di 1.680.000 euro, riguardano innanzi tutto la violazione delle norme relative alla mobile number portability e in particolare: 1.440.000 euro per aver illegittimamente ostacolato le richieste di trasferimento di utenti verso operatori concorrenti; 240.000 euro per aver utilizzato in modo improprio i dati dei clienti che avevano chiesto la portabilità del numero verso un altro operatore.

Telecom Italia viene invece multata per diverse violazioni della normativa a tutela dei consumatori: 240.000 euro per aver utilizzato in modo improprio i dati dei clienti che avevano chiesto la portabilità del numero verso un altro operatore; 180.000 euro per aver addebitato servizi a sovrapprezzo non richiesti; 116.000 euro per il mancato raggiungimento degli obiettivi di qualità stabiliti per l’anno 2007, sia per quanto riguarda il tasso di malfunzionamento delle linee di accesso più alto del dovuto, sia per i tempi di riparazione dei guasti superiori a quelli previsti.

Opitel (Tele2 Italia) viene punita per aver attivato servizi non richiesti ad utenti che si ritrovavano, senza saperlo, ad essere clienti della società; in questo caso l’Autorità non ha ritenuto sufficiente la proposta di impegni presentata dall’operatore, «in quanto non conteneva alcuna modifica migliorativa rispetto agli obblighi già imposti dalla normativa di settore a tutti i gestori».
Infine 240.000 euro complessivi (120.000 ciascuno) è la multa per Bt Italia ed Eutelia, per la violazione della normativa sui servizi a sovrapprezzo.
Quello che colpisce è la reiterazione delle infrazioni e il fatto che sia un costume generalizzato a tutti gli operatori. Tanto da far pensare che abbiano fatto “cartello”, cioè che si siano accordate sulla violazione della normativa. Dal che deriverebbe il fondato sospetto che venga calcolato il rischio delle eventuali sanzioni pecuniarie, a priori nei piani tariffari, tanto più che le somme dovute dalle sanzioni sono un costo accettabile, visti i fatturati delle compagnie telefoniche.
Il che configurerebbe una strategia di marketing, poco ortodossa, ma tutto sommato conveniente: forzo le norme, incamero i proventi, pago le sanzione e alla fine faccio comunque profitti. Non è etico? Tanto i clienti si incazzano, ma poi gli passa, anche perché, in barba alla concorrenza, non è che cambiando gestore cambia la situazione: lo fanno tutti! E possono continuare a farlo, perché la “class action”, cioè la possibilità di intentare cause civili collettive contro i cattivi comportamenti delle grandi compagnie è stata rinviata di due anni, dal decreto “milleproroghe” varato dal governo.
Due anni coincidono con la presunta durata dell’attuale crisi economica, che colpisce tutti i consumi, con il conseguente calo dei fatturati delle aziende. Però, la telefonia tiene, sia dal punto di vista dei consumi che dei fatturati. Forse adesso è chiaro perché. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia Società e costume

L’emendamento anti-internet di D’Alia:”noi italiani dobbiamo sempre distinguerci, anche nelle misure illibertarie e stupide al tempo stesso.”

di Carlo Gubitosa – da giornalismi.info
E’ impossibile mettere un bavaglio politico alla rete: per un sito che viene chiuso in una Repubblica delle Banane, altri mille siti in altri cento paesi del mondo sono disposti ad ospitarne i contenuti ritenuti “scomodi” da una miope legislazione nazionale.

Un provvedimento inutile per reprimere reati affida al ministero dell’Interno il potere di oscurare interi servizi web.

Per questa ragione ogni tentativo di normare la comunicazione dal basso piu’ che un bavaglio e’ solo un “bavaglino”, come quelli che si mettono ai bambini per contrastare il loro istinto naturale di giocare col cibo, sperimentando, manipolando e lanciando tutto quello che gli passa per le mani e per la bocca.

E i bavaglini sono solo palliativi inutili, come ben sa chi ha scoperto a sue spese che nonostante i nostri sforzi i bambini riescono comunque a sporcare seggiolone, genitori, tavola e pareti.

Anche i tentativi di regolamentare una tecnologia intrinsecamente libertaria e creativa come internet sono pezze colorate che non potranno fermare con un colpo di penna la forza inarrestabile della comunicazione sociale, che segue tempi, regole e dinamiche di evoluzione non governabili per legge, nonostante il pugno dei governi cerchi da sempre di stringersi attorno alla sabbia della comunicazione orizzontale. Ma la sabbia si sposta altrove, e le mani dei governi restano vuote.

Inizialmente si e’ cercato di affermare la responsabilita’ dei fornitori dei servizi internet, obbligandoli a controllare tutti i siti che ospitano come se le compagnie telefoniche fossero responsabili dei reati organizzati con una telefonata. Poi questo principio e’ diventato talmente assurdo da essere comprensibile perfino a un parlamentare.

Poi si e’ maldestramente provato ad equiparare ogni pagina web ad una testata giornalistica, col risultato tragicomico di veder oscurato un sito sciocchino pieno di bestemmie su Padre Pio (Vedi http://beta.vita.it/news/view/3208/ ), ma solo dopo averlo elevato al rango di “prodotto editoriale”, come se fosse stato il Corriere della Sera e non un banale sfogo anticlericale.

Ora c’e’ la cosiddetta “dottrina Sarkozy”, che chiude i rubinetti della rete agli “utenti cattivi” e sta prendendo piede in vari paesi europei per minacciare e criminalizzare tutti quelli che condividono materiali culturali in rete senza guadagnarci un centesimo, proprio come fanno le biblioteche pubbliche, ma pagando di tasca propria i costi di connessione e delle bollette telefoniche.

Ma noi italiani dobbiamo sempre distinguerci, anche nelle misure illibertarie e stupide al tempo stesso. Ed ecco quindi l’ultimo “bavaglino politico” con cui si e’ cercato di piegare la rete alla visione di un singolo: l’articolo 50-bis del Ddl n° 773 gia’ approvato dal Senato, un emendamento del pacchetto sicurezza varato dal governo e presentato dal senatore Udc Gianpiero D’Alia, che a suo dire servirebbe a reprimere l’utilizzo di internet per commettere reati di opinione.

Alcune bestialita’ saltano subito all’occhio gia’ dalla prima lettura: se c’e’ una apologia di reato su una pagina web si oscura tutto il sito (un po’ come oscurare tutte le reti Mediaset perche’ hanno esaltato in una specifica trasmissione l’eroismo del mafioso Vittorio Mangano) e non e’ la magistratura che dispone “l’interruzione dell’attivita'” di un sito, ma il ministero dell’Interno con apposito decreto.

Il tutto con una formulazione talmente vaga da lasciare ampi e prevedibili margini di discrezionalita’ politica al “censore” di turno, che a seconda dei suoi orientamenti decidera’ se censurare “da destra” i filmati violenti e sanguinari che mostrano i reati commessi dai poliziotti durante il G8 genovese del 2001, oppure oscurare “da sinistra” i siti padani quando fanno apologia di reato inneggiando alla rivolta armata secessionista. Ce n’e’ per tutti i gusti.

Intervistato da Alessandro Gilioli (L’Espresso), D’Alia ha spiegato che secondo lui quando un video sconveniente fa capolino su youtube bisognerebbe oscurare tutto il servizio. Affermazioni sufficienti a scatenare la protesta del popolo della rete e di chi ha sottratto alla lobotomia televisiva i neuroni sufficienti a leggere e capire una norma scritta male.

Ma il senatore ha ribadito le convinzioni espresse a Giglioli con una lettera indirizzata a Vittorio Zambardino di Repubblica.It, in cui afferma che rifiutare il suo emendamento equivale a “legittimare gli insulti, le nefandezze di cui è già piena la nostra società reale” e concedere “diritto di parola di chi incita alla mafia, al terrorismo, alla violenza, alla pedofilia, agli stupri di gruppo”.

Ma nel testo dell’emendamento si parla di “delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali”, e allora se sono gia’ previsti dal codice e puniti dalla magistratura, che bisogno c’e’ di reprimerli anche con l’azione discrezionale del Ministro dell’Interno?

Questo dubbio e’ sollevato anche dalla dettagliata analisi giuridica di questo stupido bavaglino giuridico fatta da Elvira Berlingieri sulle pagine di Apogeonline (http://www.apogeonline.com/webzine/2009/02/11/fact-check-il-50-bis-secondo-dalia) in cui si afferma che tutte le brutture descritte dal senatore sono gia’ sanzionate “da adeguati strumenti già presenti nel nostro ordinamento”, e al tempo stesso “la pericolosità sociale dei reati individuati dall’articolo 50-bis sembra sproporzionata agli effetti che la norma potrebbe perseguire”.

Tra i “delitti contro l’ordine pubblico” puniti dal codice penale, c’e’ anche l'”istigazione a delinquere” (art. 414) che punisce con la reclusione fino a cinque anni “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati, per il solo fatto dell’istigazione”, oppure l'”Istigazione a disobbedire alle leggi” (art. 415), che sbatte in galera da sei mesi a cinque anni “chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali”.

C’era bisogno di altri strumenti repressivi da affidare al potere politico anziche’ a quello giudiziario? D’Alia e’ sempre piu’ convinto di si’, e nel testo inviato a Repubblica.it sostiene che la sua azione e’ mirata a colpire “chi insulta le vittime di Mafia, si mette a disposizione di Cutolo, inneggia alla Jihad o alle Brigate rosse, spiega come fabbricare un esplosivo, incita a picchiare i romeni o considera filantropi gli stupratori di Guidonia o i pedofili”.

Ma le vittime di Mafia che tira in ballo D’Alia saranno state interpellate?Sembra proprio di no, almeno a giudicare dalla reazione di Sonia Alfano, presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia: “invece di oscurare internet – sostiene la Alfano – si potrebbero ad esempio riaprire le inchieste sulle stragi di Ustica, Via D’Amelio, Capaci, Piazza Fontana, e molte altre, e far avere alle vittime delle molteplici stragi italiane la giustizia che non hanno mai ottenuto”.

Sul suo blog “piovono rane”, Giglioli racconta che “ho proposto via mail a D’Alia un di realizzare un dibattito audio-video da registrare qui a Kataweb e da pubblicare sul sito de L’espresso, in cui il senatore avrebbe potuto rispondere a tutte le accuse mossegli in questi giorni, confrontandosi con due giornalisti e due blogger”. Ma Il senatore D’Alia, tramite il suo addetto stampa, ha rifiutato il confronto. La “bonta'” delle sue idee e’ tale da non aver bisogno di dibattito per essere colta nella sua pienezza.

Dopo essere stata demolita sul versante giuridico, l’invenzione di D’Alia e’ stata attaccata anche sul fronte tecnico dal blogger Stefano Quintarelli ( http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/quel-biiip-di-biiip-ha-biiip-una-biiip-.html )

Oltre a rilevare “una sproporzione colossale tra il garantismo relativo alle intercettazioni telefoniche e il filtraggio di qualunque comunicazione internet”richiesto dall’emendamento D’Alia, Quintarelli dimostra con dati tecnici alla mano che “quanto richiesto dalla norma non è tecnicamente fattibile. Almeno non più di quanto sia fattibile combattere le inondazioni facendo evaporare l’acqua”.

Quintarelli prosegue affermando che “la rete non e’ un luogo diverso dal mondo reale; la rete e’ uno strumento che fa parte del mondo e quindi per i comportamenti attuati con questo strumento valgono gia’ le leggi esistenti! Ma forse il legislatore lo ignora. Sequestri di contenuti, imputazioni di reati, condanne di persone che hanno compiuto reati usando lo strumento Internet, avvengono gia’, su provvedimento delle autorità”. Ma non ancora su ordine del ministro dell’Interno.

Per commentare questo pastrocchio si e’ scomodata perfino la “Grande G” di Google, che per bocca del suo rappresentante italiano Marco Pancini ha denunciato l’ignoranza e la sordita’ delle istituzioni. “Non c’è dubbio che per chi non è un nativo digitale – scrive Pancini – non è semplice comprendere immediatamente le dinamiche delle nuove tecnologie. Ma per questo è importante il dialogo fra Istituzioni, industria e società civile”, lo stesso dialogo a cui D’Alia si e’ sottratto dopo le sue esternazioni unilaterali. Pancini fa riferimento esplicito al “filtraggio di tutti i siti Internet” auspicato da D’Alia, affermando senza mezzi termini che “non serve a combattere il crimine, perché basta segnalare un’attività illecita a qualunque Internet service provider perché questi la possa rimuovere: è già previsto dalla legge e dai contratti di tutti coloro che forniscono servizi online”. Ma allora qual e’ lo scopo di questi maldestri tentativi? Google non ha dubbi: “questo serve a controllare la Rete e in quanto tale è pericoloso per la nostra libertà”.

Che sia proprio questo l’obiettivo del pasticciaccio brutto innescato dal senatore UDC? Poche righe ben confuse per consegnare al ministro dell’Interno la chiave di un potentissimo lucchetto che puo’ chiudere un intero sito anche per una piccola istigazione a delinquere di due righe, qualcosa di tremendo e di sovversivo come “non ubbidite alle leggi ingiuste, stupide e repressive scritte da parlamentari ignoranti che non hanno la minima idea del funzionamento tecnico della rete, delle sue dinamiche sociali e degli strumenti gia’ a disposizione contro gli abusi”. (Oops! Mi e’ scappato! Speriamo che non se ne accorga nessuno senno’ si chiude baracca)

Di fronte alla superficialita’ cialtrona con cui si stanno affrontando nel nostro paese i problemi delle nuove tecnologie, viene voglia di rileggere la “Dichiarazione di Indipendenza del Ciberspazio”, scritta nel 1996 da John Perry Barlow, pioniere della difesa dei diritti civili in rete e cofondatore della “Electronic Frontier Foundation”.

Per reagire alle prime leggi che mettevano le briglie alla comunicazione elettronica, Barlow affermava che “queste misure sempre più ostili e coloniali ci mettono nella stessa posizione di quegli antichi amanti della libertà e dell’autodeterminazione che furono costretti a rifiutare l’autorità di poteri distanti e poco informati. Noi dobbiamo dichiarare le nostre coscienze virtuali immuni dalla vostra sovranità, anche se continuiamo a permettervi di governare i nostri corpi. Noi ci espanderemo attraverso il Pianeta in modo tale che nessuno potrà fermare i nostri pensieri”.

Tredici anni dopo, questa sfida e’ ancora valida. (Beh, buona giornata).

Note:

APPROFONDIMENTI

L’analisi tecnica di Stefano Quintarelli
http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/quel-biiip-di-biiip-ha-biiip-una-biiip-.html

L’analisi giuridica di Elvira Berlingieri
http://www.apogeonline.com/webzine/2009/02/11/fact-check-il-50-bis-secondo-dalia

La posizione del Senatore Dalia
http://zambardino.blogautore.repubblica.it/2009/02/17/risponde-il-sen-dalia-ma-quale-censura/

La posizione di Google
http://googleitalia.blogspot.com/2009/02/filtrare-la-rete-no-grazie.html

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

La legge contro le intercettazioni:”Sì, il giornalismo italiano non ha alcuna intenzione di rispettare una norma che sequestra ai cittadini notizie importanti.”

di Roberto Natale * – da articolo21.info

E’ una battaglia che possiamo vincere: perché poche altre volte le ragioni della categoria dei giornalisti hanno avuto la limpida coincidenza che oggi c’è fra la difesa del nostro diritto-dovere di informare e il diritto – non meno fondamentale – di un’intera comunità civile ad essere informata, a non vedersi sottratta la conoscenza dei fatti che è l’alimento di base di una opinione pubblica degna di questo nome.

L’iniziativa pubblica contro il disegno di legge Alfano che si terrà martedì 24 febbraio, dalle 10,30, nella sede della Fnsi (corso Vittorio Emanuele II, 349), è una nuova tappa della mobilitazione che il giornalismo italiano ha messo in piedi dal giugno scorso, dal primo apparire di un testo pericoloso. Ad organizzarla è un insieme di sigle che dice quanto compatto sia il mondo dell’informazione: c’è la Federazione della Stampa, c’è l’Ordine, c’è l’Unione Cronisti, e stavolta a partecipare è anche la Fieg. Cosa rara, tanto più anomala in anni nei quali giornalisti ed editori sono divisi da un rinnovo contrattuale mai prima così lungo e conflittuale.

Noi giornalisti non siamo caduti nella tentazione cieca di pensare che le maximulte minacciate dal testo fossero un problema solo delle imprese chiamate a pagare. Gli editori, a loro volta, non si sono fatti affascinare dall’idea di mettere bocca nelle scelte di direttori e redazioni; anzi hanno denunciato con chiarezza che il disegno di legge stravolgerebbe il corretto funzionamento di una impresa editoriale scardinando i fondamenti dell’autonomia giornalistica.

Abbiamo capito bene, giornalisti ed editori, che non soltanto possiamo e dobbiamo procedere insieme, ma che le nostre ragioni sono così forti perché coincidono con un interesse e un diritto ben più vasti dei nostri: l’interesse e il diritto di un intero Paese a non veder scomparire la cronaca giudiziaria. Questo è il punto cruciale, che abbiamo saputo cogliere e tener fermo nelle analisi, senza farci distrarre o confondere dalle modifiche che il testo del disegno di legge ha via via subìto. 

Il carcere per i giornalisti – presente nel testo originario, poi tolto, poi inserito di nuovo – è stato ed è uno dei temi che rischiano di provocare confusione: così enorme la minaccia, da richiamare su di sé l’attenzione e le richieste di cancellazione. Misura medievale, certo, come è stato detto. Ma se anche fosse cancellata, il nostro giudizio negativo sull’impianto del disegno di legge Alfano non verrebbe attenuato: perché rimarrebbe intatto il suo nocciolo vero e più insidioso, la secretazione per anni di vicende di assoluta rilevanza pubblica. Così come non ci siamo fatti fuorviare dai ripetuti richiami alla privacy: la riservatezza sta a cuore anche a noi, ma basta pensare al crack Parmalat per capire che questa norma impedirebbe non indebite intrusioni nella vita privata (da impedire in altro modo), ma fatti di indubbia importanza sociale.

Di questo parleremo martedì con politici di entrambi gli schieramenti, con magistrati, con avvocati, con rappresentanti delle grandi confederazioni sindacali ed esponenti dell’associazionismo dei consumatori. Abbiamo la forza di argomenti che hanno fatto breccia anche nelle discussioni di questi ultimi giorni alla Camera. L’on. Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia, ha riconosciuto che “in aula dovremmo aprire una riflessione seria sul diritto di cronaca, che è incomprimibile, e sul previsto divieto di pubblicare anche per riassunto pure gli atti investigativi non coperti da segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari. Altrimenti la norma rischia di non essere rispettata”. Sì, il giornalismo italiano non ha alcuna intenzione di rispettare una norma che sequestra ai cittadini notizie importanti. E per questo nelle prossime, decisive settimane, farà tutto il possibile – proprio tutto – per evitare che il bavaglio divenga legge. (Beh, buona giornata).

* Roberto Natale (Presidente Fnsi)

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

L’Atac di Roma contro la tv di Al Gore: il carattere (tipografico) della censura.

Il presidente dell’Atac, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma ha bloccato l’uscita di una campagna pubblicitaria favore di Current Tv(*), pianificata sui bus della Capitale. Si tratta di scene di sesso? Di droga? Di rock’n roll? Macché: è una semplice campagna, composta da due soggetti, a favore di “Vanguard”, un nuovo programma televisivo di Current Tv, il canale satellitare fondato da Al Gore. La campagna  invita semplicemente alla visione del programma. In uno  dei soggetti si vede la foto di una bibbia trapassata da tre proiettili, e reca il titolo:” Vanguard: i martiri della camorra”; nell’altro soggetto si vede un mitra kalashnikov, col manico a stelle e strisce e reca il titolo:”la guerra segreta all’Iran”. 

Tutto qui, direte voi? No, c’è di più. Perché il presidente dell’Atac non ha resistito a esprimere giudizi  professionali sulla comunicazione.“I manifesti non vanno bene per dei mezzi in movimento, la gente non ha  il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, dice il presidente degli autobus romani.

Fantastico: cari pubblicitari adesso vi insegno io come si fa. Si fa che mi do una bella zappa sui piedi, parlando male della pubblicità sugli autobus “che la gente non ha il tempo di fermarsi a leggere.” Scusi, signor presidente degli autobus romani: non le viene i sospetto che parlare male della pubblicità sui mezzi pubblici significa danneggiare gli introiti che Atac raccoglie attraverso la pubblicità dinamica?

Insomma, Machiavelli diceva il che il fine giustifica i mezzi, Tafazzi sosterebbe che i mezzi (pubblicitari) non giustificano i fini (economici).

Non pago, il presidente degli autobus romani dispensa lezioni di grafica: “I caratteri sono troppo piccoli per poterli leggere quando l’autobus è in movimento.” Cari ragazzi di Cookies Adv, (l’agenzia che ha ideato la campagna): non vi hanno censurato la campagna, solo il carattere tipografico che avete usato nei layout.

In una nota il Campidoglio, l’azionista di riferimento dell’Atac dice: “La campagna utilizzava immagini inopportune e non adatte a essere apposte sui mezzi pubblici.” La qual cosa non si capisce, visto che la campagna sarà on air sui mezzi pubblici di Milano a partire dal prossimo 26 febbraio.

Cosa c’ha di speciale Roma che non può tollerare una campagna pubblicitaria per Current TV che invece può essere vista dai milanesi?

Presto detto: “Immagini pesanti, inopportune, possono offendere la sensibilità dei cittadini, peraltro in un momento di grave tensione sociale, e per di più in una città come Roma che è la sede  della Chiesa Cattolica”. Parola del presidente degli autobus romani. Eccola, allora, tutta intera “la scomoda verità”, tanto per parafrasare  il titolo del famoso documentario di Al Gore, vincitore di un Oscar, il film e di un Nobel, l’autore.

Si è trattato molto semplicemente di un eccesso colposo di buona volontà da parte dell’azienda dei trasporti pubblici e del Comune di Roma.  Il solito, inutile, grottesco eccesso di zelo, di cui spesso la creatività è vittima in Italia. “Nella scelta non ha avuto nessun ruolo il problema della sicurezza” , ha tenuto a precisare il Campidoglio. Come a dire: niente paura, è solo censura. Beh, buona giornata.

 

(*) Current è attualmente visibile negli Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda, Italia in oltre 58 milioni di case attraverso i partner di distribuzione Comcast (Canale 107), Time Warner, DirecTV (Canale 366), Dish Network (Canale 196), BSkyB (Canale 193) e Virgin Media Cable (Canale 155) e Sky Italia (canale 130). Le trasmissioni italiane sono partite l’8 maggio 2008. Nella primavera 2009 sarà on air anche il quarto paese del network: il Canada.

Secondo il co-fondatore Hyatt: “Si tratta di portare l’Internet intelligente in TV, non la TV stupida sugli schermi di Internet”.

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