Il sindaco Alemanno ha azzerato la giunta. Il primo cittadino ha ritirato tutte le deleghe agli assessori e ai consiglieri delegati riservandosi un paio di giorni per decidere sulle nuove nomine e sull’ingresso di nuovi assessori. Beh, buona giornata.
Categoria: democrazia
(fonte: repubblica.it)
Il direttore del Fbi, Robert Mueller, ha dichiarato che la strage è stata frutto di un attacco isolato ed esclude che l’evento possa generare “ulteriori minacce”. A proposito di “Rinascimento americano, un membro del ministero dell’Interno, ottenuto da Fox News e reso noto da Greta Wire nel suo blog, Jared Lee Loughner sarebbe legato a un gruppo di suprematisti bianchi e antisemiti denominato “Rinascimento americano”. Gli agenti del Fbi hanno ricostruito il legame tra l’attentatore e il gruppo indagando nei profili che il giovane aveva negli account su Youtube e su Myspace. La pista delle indagini si nutre di “forti sospetti nella direzione” del gruppo, che opera sotto la copertura della New Century Foundation, apparentemente impegnata a organizzare conferenze e seminari di contenuto razzista. Sul magazine della fondazione appaiono teorie pseudoscientifiche sulla superiorità della razza bianca. Agli incontri della fondazione partecipano, talvolta, esponenti degli ambienti neonazisti.
A morire sotto i colpi dell’attentatore sono stati un assistente trentenne della Giffords, Gabe Zimmermann, una bambina di 9 anni nata il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, un giudice federale e tre pensionati. Quattordici persone, compresa la deputata, sono rimaste ferite.
Gabrielle Giffords è una democratica moderata che aveva vinto a novembre la rielezione alla Camera battendo un candidato del Tea Party per quattromila voti. E’ favorevole alla libera scelta in tema di aborto, alla ricerca sulle cellule staminali, ed è una sostenitrice delle energie rinnovabili, mentre ha posizioni rigide in materia di immigrazione e favorevole al libero commercio di armi. E’ sposata con l’astronauta Mark Kelly, il comandante dell’ultima missione dello shuttle in programma ad aprile. L’attacco è avvenuto mentre la deputata stava tenendo un comizio, chiamato ‘Congress in Your Corner’, per dare modo agli elettori di esprimere le loro opinioni al loro rappresentante al Congresso. “Tutto il Tea Party la odiava ” rivela adesso Spencer Giffords, padre della deputata.
Gabrielle Giffords è finita anche nella “target list” di Sarah Palin. L’ex governatore dell’Alaska ed ex candidata alla vicepresidenza aveva stilato un elenco di avversari da sconfiggere politicamente “per la loro responsabilità nel disastro” rappresentato dal voto con cui il Congresso aveva approvato la riforma sanitaria. (Beh, buona giornata).
(pubblicato su 3Dnews, inserto del quotidiano Terra).
I colpi di stato al giorno d’oggi non si fanno più con i carri-armati nelle strade, come nel 1956 è successo in Ungheria, ma con l’occupazione politica dell’informazione libera. Succede così che il governo ungherese, guidato da Victor Orban, capo di una coalizione di centrodestra ha varato una nuova legge sull’informazione. Si tratta di un attacco frontale alla libertà di stampa che in Europa ha precedenti solo negli anni tragici del nazismo, del fascismo, del franchismo. Per capire la portata di questo avvenimento, è bene vedere nel dettaglio cosa comporta la legge- bavaglio ungherese:
– Soppressione di tutte le agenzie che producono o diffondono informazione nelle radio e nelle televisioni: resterà solo l’Agenzia di stampa governativa (Mti), che centralizzerà tutte le informazioni e le distribuirà direttamente ai media.
– Multe salate per chi scrive articoli “non equilibrati politicamente”. L’equilibrio sarà valutato dal Garante per l’informazione, nominato dal governo.
– Ancora multe per chi pubblica “informazioni contrarie agli interessi nazionali” o “lesive della dignità umana”. E’ il Garante a decidere a sua discrezione.
– I giornalisti avranno l’obbligo di rivelare le loro fonti, pena sanzioni penali, quando ci sono “questioni legate alla sicurezza nazionale”, devono consegnare tutti i loro documenti e supporti elettronici su semplice richiesta del potere esecutivo.
– I telegiornali dovranno rispettare la soglia del 20% per la cronaca nera, mentre la musica dovrà essere, per il 40%, di provenienze ungherese.
Come si può facilmente capire questa legge approvata dal Parlamento ungherese ha creato scandalo, e forte preoccupazione presso le cancellerie europee, anche in considerazione che proprio a Victor Orban toccherà la presidenza di turno della Ue.
Le analogie con la spasmodica ricerca di mettere il bavaglio alla stampa italiana da parte del governo Berlusconi sono talmente evidenti che sottolinearle ulteriormente sarebbe addirittura banale.
Quello che invece è utile mettere in chiaro è che i governi di centrodestra in tutta Europa sono e saranno sempre di più alle prese con la necessità politica di oscurare la verità sulle cause della crisi economica, la verità sulle tensioni sociali, prodotte da politiche neoliberiste: lo smantellamento del welfare, la mancanza di politiche di rilancio dell’economie, l’aumento della disoccupazione sono il comune denominatore che accomuna tutti i governi europei.
L’attacco sistematico e frontale ai diritti sociali, sindacali e civili sembra essere la panacea per rimandare la resa dei conti tra i poteri forti e le spinte sociali che premono dal basso in tutto il Vecchio Continente.
L’Europa è nel pantano: non ha una costituzione condivisa, non riesce a difendersi dalla speculazione sull’euro, non riesce a rilanciare la sua crescita economica. Se adesso produce attacchi violenti alle libertà, in primo luogo alla libertà di stampa e di informazione, va in pezzi anche l’ultimo tassello della sua credibilità agli occhi del mondo globalizzato
Facciamo un esempio: con quale faccia tosta si possono avanzare critiche al modello cinese, che applica la censura su vasta scala, quando il prossimo presidente della Ue ha varato nel suo paese, l’Ungheria, una legge sull’informazione degna del più ottuso, gretto, arrogante regime autoritario?
Beh, buona giornata.
Nel giornale assediato “Noi cronisti resistiamo ma non lasciateci soli”,di Andrea Tarquini- La Repubblica
La e-mail circolare del direttore è ancora calda su ogni schermo, emozioni e timori li leggi sui volti. «Cari colleghi, questa legge crea una situazione nuova, da voi mi aspetto ancora più coraggio e rigore giornalistico, narrate ancora ai lettori la realtà nei suoi molteplici momenti», ha scritto Kàroly Voeroes, direttore del Népszabadsàg. Nello stanzone del desk centrale, i capistruttura più anziani ricordano i tempi bui della dittatura comunista, i giovani appena sposati e con figli piccoli dissimulano dignitosi l´ansia per il futuro.
Evoca quasi il clima di un brutto romanzo sovietico un giorno passato con i colleghi ungheresi sotto il torchio del potere. Bécsi Ut, viale Vienna, numero 122. In un modesto palazzo-uffici anni Settanta è la redazione del Népszabadsàg. Ex organo ufficiale del più gorbacioviano tra i Pc al potere nella guerra fredda, poi dall´89 quotidiano liberal di qualità. Sono stati Voeroes e il suo staff a iniziare la protesta della pagina bianca sull´esempio di Repubblica contro le leggi-bavaglio italiane.
«Stiamo pubblicando un grazie a voi di Repubblica e a tutti i media e politici d´Europa che sono stati solidali con noi», dice commosso il direttore.
«Il governo Merkel, quello lussemburghese, la Francia, hanno protestato. I media filogovernativi ne tacciono. Vi rendete conto? Li censurano! A raccontare al pubblico come il mondo reagisce alla legge, qui restiamo solo noi, l´ex quotidiano sindacale Népszava, la rivista letteraria élet es irodalom, e pochi altri. Continuiamo, rilanciamo con forza», sussurra il direttore ai suoi. «Vogliono instillare l´istinto vile dell´autocensura, un clima di rischio permanente, contrastiamoli. Vogliono creare una situazione in cui i media non possano più controllare il potere, come è normale nel mondo libero, ma finiscano invece controllati dal potere».
Dal tavolo rotondo dell´ufficio centrale, due occhi verdi con un bel sorriso triste fanno capolino da dietro un computer, una voce gentile mi saluta in un tedesco perfetto. Riconosco la giovane Edit, corrispondente dalla Germania fino a pochi anni fa. «Resti a Berlino libera, sono felice per i tuoi figli», mi dice sorridendo con gli occhi lucidi. La sua bimba cresce qui in un´altra realtà.
«Ho scritto alla Consulta», rivela il direttore. «La legge ha troppe irregolarità. Primo, è entrata in vigore il giorno dopo la firma del capo dello Stato, senza i normali 60 giorni perché i cittadini s´informino. Secondo, ha creato l´Autorità centrale per il controllo dei contenuti dei media. Si rende conto? Sembra quasi la realtà che Goebbels raccontò con precisione nei suoi diari. Quando nel 1928 Hitler aveva fretta di prendere il potere, a costo di usare subito la violenza. Goebbels gli disse che non era il caso, che era meglio pazientare e puntare a vincere le libere elezioni usando le leggi della democrazia di Weimar, per poi cambiare tutto. Non paragono il 1933 tedesco al nostro presente, ma con la maggioranza di due terzi Orban e il suo partito, la Fidesz, possono fare quel che vogliono. In pochi mesi, da quando Orban è al potere, sono passate 800 nuove leggi senza obiezioni. Non solo i media, anche la Consulta hanno perduto ruoli costitutivi». Il tempo stringe, il giornale va fatto in corsa, tanto peggio per come l´Autorità per il controllo dei contenuti reagirà domani.
«Guardate la prima pagina di Gazeta Wyborcza scritta da Michnik in ungherese anziché in polacco, le corrispondenze di Repubblica, della Welt e del New York Times, coraggio», mormora il direttore. Finora, mi dice, l´autorità di controllo dei media che nel mondo libero controllano loro il potere, non si è ancora fatta viva. Dal suo ufficio ai piedi della collina del castello di Buda, tace e comincia a scrutare. Sa che può applicare la nuova legge e incute timore in ogni momento, come i potenti nel Castello di Kafka.
Le speranze fanno andare avanti, a denti stretti, i timori pesano. Non solo perché l´autorità di controllo, nel nome, ricorda alla lontana la famigerata Avo, la polizia segreta della repressione-carneficina contro la rivoluzione del 1956. «La crisi pesa nel settore, mille licenziamenti in radio e tv sono alle porte, andiamo per ragioni economiche verso un futuro con tanti giornalisti a spasso. Il governo influenza il mercato della pubblicità, e le prime sanzioni hanno già colpito», mi racconta il vicedirettore Gabor Horvath. «Attila Mong, conduttore del news-talkshow radio del mattino, 180 minuti, e il suo capostruttura Zsolt Bogar, prendono ancora lo stipendio di dipendenti della radio pubblica ma non vanno più in onda da quando Attila ha commentato la legge-bavaglio con la sfida di un minuto di silenzio al microfono. Antonia Mészaros, fino a poco fa conduttrice delle tv news serali più seguite, adesso deve rassegnarsi a guidare soltanto programmi per bambini.
Di noi, della Merkel, di ogni critica parlano descrivendo congiure internazionali». Termine cupo, evoca il linguaggio antisemita del regime che in guerra fu, all´Est, l´alleato più zelante di Hitler. «Legga», dice Horvath. Mi mostra l´editoriale del filogovernativo Magyar Hirlap a firma di Zsolt Bayer, commentatore considerato vicino al presidente che scrive: «È sempre la stessa puzza, peccato non esser riusciti a sistemarli tutti a Orgovany». Allusione a un massacro di comunisti compiuto nel 1919 dalle guardie bianche di Horthy. I giornalisti democratici, per mettere alla prova la nuova legge, hanno denunciato Bayer ieri sera.
(Beh, buona giornata).
(fonte: articolo21.com)
La legge bavaglio ungherese è incompatibile con la libera circolazione delle notizie
di Franco Siddi*
La nuova legge sui mass media in Ungheria che limita in modo pesante la libertà di stampa e introduce forme di censura è motivo di preoccupazione e protesta di tutti i giornalisti italiani e del loro Sindacato internazionale. Se non cambieranno le cose le nostre organizzazioni non solo intensificheranno la cooperazione con i colleghi europei, e ungheresi in particolare, perché l’Unione Europea dichiari la legge bavaglio entrata in vigore il 1 gennaio contraria al trattato e alla Carta fondamentale dell’Unione stessa, ma parteciperanno a ogni iniziativa pubblica e giurisdizionale che dovesse ritenersi indispensabile per far arretrare un disegno antidemocratico e liberale.
E’ chiaro a tutti che la nuova legge ungherese è incompatibile con la libera circolazione delle notizie, delle idee e delle diverse opinioni che hanno diritto di cittadinanza e che sono la condizione attraverso la quale si identificano i Paesi democratici.
La richiesta di chiarimenti avanzata dalla vice presidente dell’Esecutivo europeo deve trovare risposta immediata e correzioni di rotta prima che si diffonda nei Paesi di nuova democrazia – e produca spinte regressive nei paesi di antica adesione ai principi della libertà e del pluralismo – una malattia grave e irreparabile.
Avevamo detto in Italia, contrastando vari tentativi di disegni di legge liberticidi (come quello sulle intercettazioni che cancellava il diritto di cronaca giudiziaria) – che la nostra battaglia era una battaglia di civiltà e di libertà senza confini. Oggi, sostenendo le proteste e le battaglie i colleghi ungheresi contro le invasioni di campo dello Stato, fino a nuove forme di censura preventiva, sui media riconfermiamo il senso universale dell’impegno civile della stampa e dei giornalisti, per promuovere una pubblica opinione consapevole affinché possa far arretrare definitivamente disegni di questo tipo. E’ veramente inconcepibile che, nel XXI secolo, ci sia un potere pubblico che, con norme di legge, ritenga normale arrogarsi il potere di sanzionare i media in virtù di una attività di informazione considerata “politicamente non equilibrata”.
La nostra solidarietà ai colleghi ungheresi è totale e si unisce, in questa fase, allo sconcerto per una legge cosi brutalmente contraria alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, promulgata, peraltro, proprio nei giorni in cui l’Ungheria assume la presidenza dell’Unione.
Tutto ciò stride con i valori dell’europeismo storico e indispensabile più che mai per un’Europa che avanzi insieme come entità istituzionale che metta in rapporto popoli e civiltà sulla base dei valori fondamentali di libertà e, quindi, di pace e di convivenza civile.
La Fnsi è pronta a supportare i colleghi ungheresi, se sarà necessario, anche alla Corte di Giustizia europea, mettendo a disposizione il dossier predisposto con altre associazioni italiane di difesa della libertà dell’informazione (come Articolo 21) con illustri giuristi per contrastare leggi liberticide. Nello stesso tempo sostiene tutte le iniziative sovranazionali messe in campo dalla Federazione Europea dei Giornalisti (Efj) e Mondiale (Ifj). Il prossimo congresso della stampa italiana sarà anche in questo un momento significativo di azione civile per la libertà. (Beh, buona giornata).
*segretario generale della Federazione Nazionale Stampa Italiana
(fonte: repubblica.it)
La pagina bianca del Népszabadsàg ricorda la protesta di Repubblica contro i piani di legge-bavaglio del centrodestra italiano. «La libertà di stampa muore in Ungheria», è scritto sotto la testata, in tutte le lingue dell’ Unione europea. A Budapest un bavaglio che a Berlino ambienti governativi definiscono «in stile tra Putine la Bielorussia», è passato senza problemi. Insieme a tasse punitive e retroattive contro le grandi aziende straniere e a sgravi fiscali varati per conquistare consenso, nonostante Moody’ s abbia degradato il rating del paese a poco più del livello spazzatura. Gennaio 2011: per la prima volta da quando l’ Unione europea esiste, un paese il cui governo non solo predica, ma pone in atto politiche autoritarie e incompatibili con la Carta europea assume la presidenza semestrale della Ue stessa. Protestano i media in tutto il mondo, e tra i governi alza la voce quasi solo quello di Angela Merkel. Il premier nazionalconservatore magiaro, Viktor Orban, replica durissimo: «Non mi sogno nemmeno di cambiare la legge, né di inginocchiarmi, né di reagire ai commenti occidentali».
La libertà di stampa muore in Ungheria. Il monito scritto su quella prima pagina bianca, in tutte le lingue della “casa comune” chiamata Europa, suona come un grido disperato nel deserto. Con una maggioranza di due terzi del Parlamento, la Fidesz, il partito nazionalconservatore di Orban, può fare e disfare leggi a piacimento. Prepara anche una riscrittura della Costituzione. Zoltan Kovacs, sottosegretario per la government communication al ministero della Pubblica amministrazionee della Giustizia, vicinissimo al premier, si indigna quando qualcuno gli chiede se il governo pensa a una riforma costituzionale in senso più democratico o liberal. «Che cosa vuol dire democratico, o liberal? Noi vogliamo rendere la Costituzione meno socialista», risponde.
L’ ispirazione ideologica è chiara: nazionalismo, conservatorismo cattolico-tradizionalista, più potere all’ esecutivo, più controllo sulla Giustizia. La Corte costituzionale si è già vista sottrarre poteri significativi. «Adesso comunichiamo su Facebook col pubblico», ha spiegato l’ altro giorno Attila Mong. Era una star del gr del mattino, ha perso l’ incarico per aver protestato con un minuto di silenzio al microfono contro la legge sulla stampa. Legge che in qualsiasi altro paese della Ue è giudicata inaccettabile. Un Consiglio dei media, in mano agli uomini della Fidesz, controlla di fatto tv, radio, la principale agenzia di stampa e il primo portale Internet. E soprattutto, il Consiglio dei media ha il potere di punire ogni media, pubblico o privato, che giudichi colpevole di diffusione di notizie politicamente sbilanciate, con multe che nella fragile situazione economica del paese possono mandare più di un’ azienda editoriale in fallimento: dai 90mila euro a ogni “sgarro” per i media cartacei e online, fino a 750mila euro per radio e tv. Non è finita: i giornalisti sono obbligati a rivelare le fonti, «se è in gioco la sicurezza nazionale». Se e quando sia in gioco, lo decide il Consiglio stesso. Una radio privata è stata multata per un motivo del rapper Ice-T che «minaccia la morale dei giovani».
Berlino ha protestato con durezza. E in prima pagina su Die Welt, giornale vicinissimo ad Angela Merkel, un ex consigliere di Helmut Kohl, lo storico professor Michael Stuermer, ha ammonito contro il “Fuehrerstaat” guidato da Orban: un potere senza scrupoli, che a differenza dell’ Austria ai tempi del partito di Haider al governo non lancia slogan autoritari, li traduce in fatti. «Ecco quanto rapidamente una democrazia può distruggersi da sola, quasi come in un remake del film tragico degli autoritarismi antisemiti degli anni Trenta». Ieri hanno protestato i vertici di molte grandi aziende europee, Deutsche Telekom in testa: chiedono sanzioni Ue contro la politica fiscale di Budapest, definita demagogicamente ostile agli investitori stranieri.
Leggi-bavaglio, frusta contro i global player stranieri in nome di un facile anticapitalismo, flat tax per promettere un rilancio economico ignorandoi moniti degli economisti sulla fragilità dei conti pubblici, limiti alla magistratura. E in più ricordo costante con forti toni nazionalisti della “Tragedia del Trianon”, i territori perduti dall’ Ungheria sconfitta nella prima guerra mondiale perché parte dell’ Impero austriaco, e promessa di cittadinanza a slovacchi, romeni o serbi di origine magiara. Atti che inquietano i vicini: che clima graverebbe sull’ Europa se Angela Merkel ricordasse i territori perduti dalla Germania o promettesse passaporti e diritto di voto tedeschi in Alto Adige, in Boemia o in Slesia? Orban va avanti «senza scrupoli, mosso dall’ istinto del potere», accusa l’ ex consigliere di Kohl.
Bruxelles guarda e tace, anche davanti a quella pagina bianca. (Beh. buona giornata).
Il testo integrale del messaggio di fine anno di GIORGIO NAPOLITANO
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA- (fonte: lastampa.it)
Buona sera e Buon Anno a voi tutti, italiane e italiani di ogni generazione. Non vi stupirete, credo, se dedico questo messaggio soprattutto ai più giovani tra noi, che vedono avvicinarsi il tempo delle scelte e cercano un’occupazione, cercano una strada. Dedico loro questo messaggio, perché i problemi che essi sentono e si pongono per il futuro sono gli stessi che si pongono per il futuro dell’Italia.
Incontrando di recente, per gli auguri natalizi, i rappresentanti del Parlamento e del governo, delle istituzioni e dei corpi dello Stato, ho espresso la mia preoccupazione per il malessere diffuso tra i giovani e per un distacco ormai allarmante tra la politica, tra le stesse istituzioni democratiche e la società, le forze sociali, in modo particolare le giovani generazioni. Ma non intendo tornare questa sera su tutti i temi di quell’incontro. Ribadisco solo l’esigenza di uno spirito di condivisione – da parte delle forze politiche e sociali – delle sfide che l’Italia è chiamata ad affrontare; e l’esigenza di un salto di qualità della politica, essendone in giuoco la dignità, la moralità, la capacità di offrire un riferimento e una guida.
Ma a questo riguardo voi che mi ascoltate non siete semplici spettatori, perché la politica siete anche voi, in quanto potete animarla e rinnovarla con le vostre sollecitazioni e i vostri comportamenti, partendo dalle situazioni che concretamente vivete, dai problemi che vi premono.
Siamo stati anche nel corso di quest’anno 2010 dominati dalle condizioni di persistente crisi e incertezza dell’economia e del tessuto sociale, e ormai da qualche tempo si è diffusa l’ansia del non poterci più aspettare – nella parte del mondo in cui viviamo – un ulteriore avanzamento e progresso di generazione in generazione come nel passato. Ma non possiamo farci paralizzare da quest’ansia : non potete farvene paralizzare voi giovani. Dobbiamo saper guardare in positivo al mondo com’è cambiato, e all’impegno, allo sforzo che ci richiede. Che esso richiede specificamente e in modo più pressante a noi italiani, ma non solo a noi: all’Europa, agli Stati Uniti. Se il sogno di un continuo progredire nel benessere, ai ritmi e nei modi del passato, è per noi occidentali non più perseguibile, ciò non significa che si debba rinunciare al desiderio e alla speranza di nuovi e più degni traguardi da raggiungere nel mondo segnato dalla globalizzazione.
E innanzitutto è conquista anche nostra, è conquista della nostra comune umanità il rinascere di antiche civiltà, il travolgente sviluppo di economie emergenti, in Asia, in America Latina, in altre regioni – anche in Africa ci si è messi in cammino – rimaste a lungo ai margini della modernizzazione. E’ conquista della nostra comune umanità il sollevarsi dall’arretratezza, dalla povertà, dalla fame di centinaia di milioni di uomini e donne nel primo decennio di questo nuovo millennio. Paesi e popoli con i quali condividere lo slancio verso un mondo globale più giusto, più comprensivo dell’apporto di tutti, più riconciliato nella pace e in uno sviluppo davvero sostenibile.
E’ in effetti possibile un impegno comune senza precedenti per fronteggiare le sfide e cogliere le opportunità di questo grande tornante storico. Siamo tutti chiamati a far fronte ancora alla sfida della pace, sempre messa a dura prova da persistenti e ricorrenti conflitti e da cieche trame terroristiche : della pace e della sicurezza collettiva, che esigono tra l’altro una nuova assunzione di responsabilità nella Comunità Internazionale da parte delle grandi potenze emergenti. Siamo chiamati a cogliere le opportunità di un processo di globalizzazione tuttora ambiguo nelle sue ricadute sul terreno dei diritti democratici e delle diversità culturali, ed estremamente impegnativo per continenti e paesi – l’Europa, l’Italia – che tendono a perdere terreno nell’intensità e qualità dello sviluppo.
Ecco, da questo scenario non possono prescindere i giovani nel porsi domande sul futuro. Non possono porsele senza associare strettamente il discorso sull’Italia e quello sull’Europa, senza ragionare da italiani e da europei. Molto dipenderà infatti per noi dalla capacità dell’Europa di agire davvero come Unione: Unione di Stati e di popoli, ricca della sua pluralità, e forte di istituzioni che sempre meglio le consentano di agire all’unisono, di integrarsi più decisamente. Solo così si potrà non solo superare l’attacco all’Euro e una insidiosa crisi finanziaria nell’Eurozona, ma aprire una nuova prospettiva di sviluppo dell’economia e dell’occupazione nel nostro continente, ed evitare il rischio della sua irrilevanza o marginalità in un mondo globale che cresca lontano da noi. Sono convinto che questa sia una verità destinata a farsi strada anche in quei paesi europei in cui può serpeggiare l’illusione del fare da soli, l’illusione dell’autosufficienza.
Pensare con positivo realismo in termini europei equivale a non illuderci, in Italia, di poter sfuggire agli imperativi sia della sostenibilità della finanza pubblica sia della produttività e competitività dell’economia e più in generale del sistema-paese. D’altronde, sono convinto che quando i giovani denunciano un vuoto e sollecitano risposte sanno bene di non poter chiedere un futuro di certezze, magari garantite dallo Stato, ma di aver piuttosto diritto a un futuro di possibilità reali, di opportunità cui accedere nell’eguaglianza dei punti di partenza secondo lo spirito della nostra Costituzione.
Nelle condizioni dell’Europa e del mondo di oggi e di domani, non si danno certezze e nemmeno prospettive tranquillizzanti per le nuove generazioni se vacilla la nostra capacità individuale e collettiva di superare le prove che già ci incalzano. Tanto meno, ho detto, si può aspirare a certezze che siano garantite dallo Stato a prezzo del trascinarsi o dell’aggravarsi di un abnorme debito pubblico. Quel peso non possiamo lasciarlo sulle spalle delle generazioni future senza macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale.Trovare la via per abbattere il debito pubblico accumulato nei decenni ; e quindi sottoporre alla più severa rassegna i capitoli della spesa pubblica corrente, rendere operante per tutti il dovere del pagamento delle imposte, a qualunque livello le si voglia assestare. Questo dovrebbe essere l’oggetto di un confronto serio, costruttivo, responsabile, tra le forze politiche e sociali, fuori dall’abituale frastuono e da ogni calcolo tattico.
Ma affrontare il problema della riduzione del debito pubblico e della spesa corrente, così come mettere mano a una profonda riforma fiscale, vuol dire compiere scelte significative anche se difficili. Si debbono o no, ad esempio, fare salve risorse adeguate, a partire dai prossimi anni, per la cultura, per la ricerca e la formazione, per l’Università? Che questa scelta sia da fare, lo ha detto il Senato accogliendo espliciti ordini del giorno in tal senso prima di approvare la legge di riforma universitaria. Una legge il cui processo attuativo – colgo l’occasione per dirlo a coloro che l’hanno contestata – consentirà ulteriori confronti in vista di più condivise soluzioni specifiche, e potrà essere integrato da nuove decisioni come quelle auspicate dallo stesso Senato.
Occorre in generale individuare priorità che siano riferibili a quella strategia di più sostenuta crescita economico-sociale che per l’Italia è divenuta – dopo un decennio di crescita bassa e squilibrata – condizione tassativa per combattere il rischio del declino anche all’interno dell’Unione Europea.
Vorrei fosse chiaro che sto ragionando sul da farsi nei prossimi anni ; giudizi sulle politiche di governo non competono al Capo dello Stato, ma appartengono alle sedi istituzionali di confronto tra maggioranza e opposizione, in primo luogo al Parlamento.
E vorrei fosse chiaro che parlo di una strategia, e parlo di priorità, da far valere non solo attraverso l’azione diretta dello Stato e di tutti i poteri pubblici, ma anche attraverso la sollecitazione di comportamenti corrispondenti da parte dei soggetti privati. Abbiamo, così, bisogno non solo di più investimenti pubblici nella ricerca, ma di una crescente disponibilità delle imprese a investire nella ricerca e nell’innovazione. Passa anche di qui l’indispensabile elevamento della produttività del lavoro : tema, oggi, di un difficile confronto – che mi auguro evolva in modo costruttivo – in materia di relazioni industriali e organizzazione del lavoro.
Reggere la competizione in Europa e nel mondo, accrescere la competitività del sistema-paese, comporta per l’Italia il superamento di molti ritardi, di evidenti fragilità, comporta lo scioglimento di molti nodi, riconducibili a riforme finora mancate. E richiede coraggio politico e sociale, per liberarci di vecchie e nuove rendite di posizione, così come per riconoscere e affrontare il fenomeno di disuguaglianze e acuti disagi sociali che hanno sempre più accompagnato la bassa crescita economica almeno nell’ultimo decennio.
Disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Impoverimento di ceti operai e di ceti medi, specie nelle famiglie con più figli e un solo reddito. E ripresa della disoccupazione, sotto l’urto della crisi globale scoppiata nel 2008.
Gli ultimi dati ci dicono che le persone in cerca di occupazione sono tornate a superare i due milioni, di cui quasi uno nel Mezzogiorno ; e che il tasso di disoccupazione nella fascia di età tra i 15 anni e i 24 – ecco di nuovo il discorso sui giovani, nel suo aspetto più drammatico – ha raggiunto il 24,7 per cento nel paese, il 35,2 nel Mezzogiorno e ancor più tra le giovani donne. Sono dati che debbono diventare l’assillo comune della Nazione. Se non apriamo a questi ragazzi nuove possibilità di occupazione e di vita dignitosa, nuove opportunità di affermazione sociale, la partita del futuro è persa non solo per loro, ma per tutti, per l’Italia : ed è in scacco la democrazia.
Proprio perché non solo speriamo, ma crediamo nell’Italia, e vogliamo che ci credano le nuove generazioni, non possiamo consentirci il lusso di discorsi rassicuranti, di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo. C’è troppa difficoltà di vita quotidiana in diverse sfere sociali, troppo malessere tra i giovani. Abbiamo bisogno di non nasconderci nessuno dei problemi e delle dure prove da affrontare : proprio per poter suscitare un vasto moto di energie e di volontà, capace di mettere a frutto tradizioni, risorse e potenzialità di cui siamo ricchi. Quelle che abbiamo accumulato nella nostra storia di centocinquant’anni di Italia unita.
Celebrare quell’anniversario, come abbiamo cominciato a fare e ancor più faremo nel 2011, non è perciò un rito retorico. Non possiamo come Nazione pensare il futuro senza memoria e coscienza del passato. Ci serve, ci aiuta, ripercorrere nelle sue asprezze e contraddizioni il cammino che ci portò nel 1861 a diventare Stato nazionale unitario, ed egualmente il cammino che abbiamo successivamente battuto, anche fra tragedie sanguinose ed eventi altamente drammatici. Vogliamo e possiamo recuperare innanzitutto la generosità e la grandezza del moto unitario : e penso in particolare a una sua componente decisiva, quella dei volontari. Quanti furono i giovani e giovanissimi combattenti ed eroi che risposero, anche sacrificando la vita, a quegli appelli per la libertà e l’Unità dell’Italia! Dovremmo forse tacerne, e rinunciare a trarne ispirazione? Ma quello resta un patrimonio vivo, cui ben si può attingere per ricavarne fiducia nelle virtù degli italiani, nel loro senso del dovere comune e dell’unità, e nella forza degli ideali.
Ed è patrimonio vivo quello del superamento di prove meno remote e già durissime, come il liberarci dalla dittatura fascista, il risollevarci dalla sconfitta e dalle distruzioni dell’ultima guerra, ricostruendo il paese e trovando l’intesa su una Costituzione animata da luminosi principi. No, nulla può oscurare il complessivo bilancio della profonda trasformazione, del decisivo avanzamento che l’Unità, la nascita dello Stato nazionale e la sua rinascita su basi democratiche hanno consentito all’Italia. Di quel faticoso cammino è stato parte il ricercare e stabilire – come ha voluto sottolineare ancora di recente il Pontefice, indirizzandoci un pensiero augurale che sentitamente ricambio – “giuste forme di collaborazione fra la comunità civile e quella religiosa”.
Sono convinto che nelle nuove generazioni sia radicato il valore dell’unità nazionale, e insieme il valore dello Stato unitario come presidio irrinunciabile nell’era del mondo globale. Uno Stato, peraltro, in via di ulteriore rinnovamento secondo un disegno di riforma già concretizzatosi nella legge sul federalismo fiscale. Sarà essenziale attuare quest’ultima in piena aderenza ai principi di “solidarietà e coesione sociale” cui è stata ancorata.
Sarà essenziale operare su tutti i piani per sanare la storica ferita di quel divario tra Nord e Sud che si va facendo perfino più grave, mentre risulta obbiettivamente innegabile che una crescita più dinamica dell’economia e della società nazionale richiede uno sviluppo congiunto, basato sulla valorizzazione delle risorse disponibili in tutte le aree del paese.
Il futuro da costruire – guardando soprattutto all’universo giovanile – richiede un impegno generalizzato. Quell’universo è ben più vasto e vario del mondo studentesco. A tutti rivolgo ancora la più netta messa in guardia contro ogni cedimento alla tentazione fuorviante e perdente del ricorso alla violenza. In particolare, poi, invito ogni ragazza e ragazzo delle nostre Università a impegnarsi fino in fondo, a compiere ogni sforzo per massimizzare il valore della propria esperienza di studio, e li invito a rendersi protagonisti, con spirito critico e seria capacità propositiva, dell’indispensabile rinnovamento dell’istituzione Università e del suo concreto modo di funzionare.
Investire sui giovani, scommettere sui giovani, chiamarli a fare la propria parte e dare loro adeguate opportunità. Che questa sia la strada giusta, ho potuto verificarlo in tante occasioni. Dall’incontro, nel gennaio scorso, con gli studenti di Reggio Calabria impegnati sul tema della legalità, a quello, in novembre, con i giovani volontari di Vicenza mobilitatisi per far fronte all’emergenza alluvione ; e via via potendo apprezzare realtà altamente significative. Penso ai giovani che con grandissima consapevolezza e abnegazione fanno la loro parte nelle missioni militari in aree di crisi : alle famiglie di quelli tra loro che sono caduti – purtroppo ancora oggi – e di tutti gli altri che compiono il loro dovere esponendosi a ogni rischio, desidero rinnovare stasera la mia, la nostra gratitudine e vicinanza. Penso ai giovani magistrati e ai giovani appartenenti alle forze di polizia, che contribuiscono in modo determinante al crescente successo nella lotta per liberare l’Italia da uno dei suoi gravi condizionamenti negativi, la presenza aggressiva e inquinante della criminalità organizzata.
Sì, possiamo ben aprirci la strada verso un futuro degno del grande patrimonio storico, universalmente riconosciuto, della Nazione italiana. Facciano tutti la loro parte : quanti hanno maggiori responsabilità – e ne debbono rispondere – nella politica e nelle istituzioni, nell’economia e nella società, ma in pari tempo ogni comunità, ogni cittadino. Dovunque, anche a Napoli : lasciatemi rivolgere queste parole di incitamento a una città per la cui condizione attuale provo sofferenza come molti in Italia. Faccia anche a Napoli la sua parte ogni istituzione, ogni cittadino, nello spirito di un impegno comune, senza cedere al fatalismo e senza tirarsi indietro.
Sentire l’Italia, volerla più unita e migliore, significa anche questo, sentire come proprio il travaglio di ogni sua parte, così come il travaglio di ogni sua generazione, dalle più anziane alle più giovani. A tutti, dunque, agli italiani e agli stranieri che sono tra noi condividendo doveri e speranze, il mio augurio affettuoso, il mio caloroso buon 2011.
La vicenda della non concessione dell’estradizione a Cesare Battisti, chiude un anno di incapacità, gaffes e cialtronerie in politica estera del governo Berlusconi. Scrive Benedetta Tobagi, su Repubblica di oggi, 31 dicembre:
” La pagina nera della gestione vergognosa di questa vicenda di estradizione va ad aggiungersi alle gaffes collezionate dal premier Silvio Berlusconi all’estero, oggetto di scherno (per gli stranieri) e profondo imbarazzo (per buona parte dei cittadini italiani), che negli anni hanno degradato l’immagine dell’Italia e della sua diplomazia. E sì che la vicenda è antica, e si sa quanto sia delicata, su molteplici fronti. Nel campo dei rapporti bilaterali, la legittima
domanda della giustizia italiana si scontra con la Realpolitik, nutrita dai fortissimi interessi economici che legano Italia e Brasile: basti ricordare che Lula l’altroieri stava inaugurando un nuovo stabilimento Fiat in Brasile, oppure Telecom, che considera il Brasile “una seconda patria”, o l’accordo di partnership militare, 5 miliardi di forniture militari da Finmeccanica e Fincantieri (che imporrebbe al ministro della Difesa La Russa un imbarazzato silenzio, anziché dichiarazioni ammiccanti a un generico boicottaggio)”.
Per poi aggiugere la ferale notizia dell’ennesima lingua biforcuta di Berlusconi: ” Se si può dubitare della buona fede del senatore brasiliano Eduardo Suplicy, fiero sponsor di Battisti, altrettanto triste scetticismo suscitano le smentite da Palazzo Chigi da parte di un premier che è uso invalidare dichiarazioni battute dalle agenzie e riprese dalle telecamere”.
L’anno si chiude, ma le vicende che riguardano l’incapacità del governo Berlusconi continueranno anche oltre la mezzanotte dell’ultimo giorno del 2010. Esse riguardano la governabilità di una compagine senza maggioranza reale; la grottesca vicenda della munnezza a Napoli, perché di promesse in promesse i napoletani faranno il Capodanno tra i cumuli di immondizie nelle strade; l’apertura dell’inchesta a Lecce, promossa dagli azionisti Alitalia contro la dissennata scelta di liquidare la compagnia di bandiera, per farla mangiare da una nuova campagnia, permettendo di scaricare i debiti su una bad company, violando le leggi, come al solito; la vicenda della Fiat, che dimostra l’incapacità assoluta del governo di mediare le tensioni sociali,vicenda che porterà a una scontro frontale tra diritti acquisiti e interessi meramente finanziari dell’azienda torinese. E poi ci sono i terremotati de L’Aquila, cittadini senza città, dunque senza cittadinanza. E poi ci sono studenti, insegnanti, precari e ricercatori per i quali, come ha sottolineato lo stesso presidente della Repubblica, sono state varate norme sbagliate. E poi ci sono pastori sardi, trattati come servi della gleba, pestati, respinti e deportati in Sardegna, come se non fossero cittadini italiani, come se per il nostro governo fossero “indesiderati” sul territorio italiano. E poi c’è il generale impoverimento delle famiglie italiane, su cui graveranno, senza controlli, gli aumenti previsti di tutte le tariffe nel 2011. E poi, proprio oggi un altro militare italiano è caduto in Afghanistan
Purtroppo, il cambio di un anno è solo una superstizione del calendario. Il cambio di un governo, bugiardo, cialtrone, incapace, arrogante, sciagurato e pericoloso è da venire. Solo quel giorno ci potremo fare davvero auguri di buon anno. Beh, buona giornata.
Le lotte contro l’arroganza del potere del governo Berlusconi insorgono in tutta Italia.
Studenti, precari, operai, cassaintegrati, cittadini contro la munnezza, ma anche contro i tagli alla sanità e agli asili nido, ma anche i pendolari. E poi gli eroici pastori sardi.
Senza contare gli agenti di polizia e gli opertori della sicurezza, in lotta da mesi contro le bugie del governo.
L’unica risposta che il governo sa dare è mandare reparti di polizia. In tutti gli anni in cui in Italia ci sono stati disordini sociali, i deputati, i senatori, i consiglieri comunali, provinciali e regionali della sinistra hanno partecipato alle manifestazioni per interporsi tra i manifestanti e le forze dell’ordine, con lo scopo di garantire la legalità del diritto di manifestare, con lo scopo di impedire degerazioni violente.
Oggi tra le forze dell’ordine e i manifestanti ci sono i telefonini che riprendono manganellate, abusi ed eccessi di rabbia. Il fatto è che la loro funzione è di testimonianza di ciò che è successo. Mentre alla democrazia italiana farebbe bene che certe cose non succedessero.
La domanda è semplice, e perentoria: quando i manifestanti scendono in piazza, dove sono, che fanno, a che pensano i deputati e i senatori dell’opposizione? Beh, buona giornata.
(fonti: repubblica.it; ansa.it)
Scontri fra allevatori sardi e polizia al porto di Civitavecchia. Circa duecento membri del Movimento Pastori Sardi sono sbarcati questa mattina all’alba, decisi a compiere un blitz nella capitale. Ma ad attenderli hanno trovato un presidio delle forze dell’ordine che ha impedito loro di salire sui pullman che li stavano aspettando per condurli a Roma. E li ha bloccati nell’area portuale. Due di loro sono stati denunciati in stato di libertà per resistenza a pubblico ufficiale, tutti sono stati denunciati per manifestazione non autorizzata.
“Siamo padri di famiglia, invece ci stanno trattando come criminali – dice Felice Floris, uno degli organizzatori della protesta – siamo venuti con intenzioni pacifiche e invece continuano a impedirci di muoverci. Stasera torneremo in Sardegna scortati dalle forze dell’ordine anche durante la traversata. E’ una vergogna – aggiunge – siamo stati sottoposti a un vero e proprio sequestro preventivo, insieme ai pullman i cui autisti sono stati identificati e minacciati di denuncia se solo si fossero mossi. Non solo, successivamente ci hanno privati dell’elementare diritto di salire sui treni diretti a Roma. E pensare – conclude il leader del Movimento – che una nostra delegazione voleva solo proporre al ministero la costituzione di un Coordinamento mediterraneo dei paesi che praticano la pastorizia allo scopo di far fronte alle attuali normative che penalizzano pesantemente l’intera categoria”.
Il comparto agro pastorale della Sardegna è sul piede di guerra da mesi. Gli allevatori del Movimento pastori sardi (Mps) chiedono contributi per il settore (un de minimis di 15 mila euro per azienda) ed un equo prezzo per il latte ovi-caprino.
La protesta è rivolta contro il Governo ma soprattutto contro la Regione, accusata di non aver mantenuto gli accordi siglati il 2 novembre scorso a Cagliari dopo giorni di occupazione del Consiglio regionale culminati con una guerriglia urbana che ha portato in carcere alcuni manifestanti.
I pastori, insoddisfatti dalle risposte della Giunta Cappellacci, contestano la legge salva-agricoltura – 147,7 milioni in tre anni – approvata dall’Aula a novembre nei giorni caldi della contestazione, con le associazioni professionali di categoria che si sono spaccate andando in ordine sparso.
Al Movimento guidato da Felice Floris non piacciono gli interventi messi in campo dalla Regione sia per l’eseguità dei fondi a disposizione che per le modalità di assegnazione delle risorse.
Secondo i pastori, il rischio è che i contributi coprano solo una parte delle aziende, lasciando le briciole a quelle più piccole. Per sostenere la loro protesta, gli allevatori hanno promosso in questi mesi iniziative eclatanti con blocchi stradali che hanno tagliato in due la Sardegna, occupazione di porti e aeroporti. (Beh, buona giornata).
La “fascistopoli” dell’Atac e dintorni, grazie al metodo di governo del sindaco Alemanno ha fatto venire fuori non solo rigurgiti di clientelismo degni della peggiore Democrazia Cristiana
(da Petrucci a Giubilo, passando per lo Squalo, il Luparetta e compagnia cantando), ma anche la schiumetta dei fascistelli attempati, che collocati nelle aziende municipalizzate si credono
ancora di essere adepti di Pino Rauti, mentre semmai sono i raccomandati di Isabella Rauti, la moglie del Sindaco.
In tutto questo lezzo, sono saltati alla luce scherzi e lazzi antisemiti che Roma, medaglia d’oro della Resistenza, proprio non merita prima ancora che proprio non può sopportare: la deportazione e lo sterminio degli ebrei romani, rastrellati al Ghetto dai nazisti con la complicità dei fascisti, è una tragedia che non appartiene solo alla Comunità Ebraica romana, ma a tutta Roma e ai suoi cittadini, all’Italia e agli italiani, all’Europa e a tutti i cittadini d’Europa. E al Mondo e a tutte le generazioni degli esseri umani su questo Pianeta.
La Comunità Ebraica di Roma ha il diritto di eleggere i suoi rappresentanti. Le simpatie politiche di Riccardo Pacifici sono un suo problema, potrebbero anche essere un problema della Comunità che lo ha nominato.
Ma questi sono problemi che sapranno risolvere tra loro. Quello che però è giusto è chiedere al signor Pacifici come ha potuto credere, come persona e come nominato dalla sua Comunità di essere disponibile alla benevolenza di chi è antisemita puro, dimenticando che le Leggi Razziali colpirono anche gli ebri fascisti.
Questo lo deve a tutti noi, che non siamo membri della Comunità Ebraica, né della Chiesa Cattolica, né convertiti all’Islam, e neppure buddisti, e neanche Protestanti, e magari neppure credenti, lo deve a tutti coloro che non possono tollerare alcuna discriminazione politica, religiosa, razziale, non fosse altro perché è sancita dalla Costituzione della Repubblica italiana.
Al signor Riccardo Pacifici non viene in mente di aver frequentato “politicamente” pessime compagnie, e male esserne stato infine ripagato? Beh, buona giornata.
Il bamboccione al potere, di Marco Bracconi-repubblica.it
Chiunque abbia cresciuto dei figli sa che c’è una età in cui la colpa è sempre di qualcun altro. Se si va male a scuola è perché il professore è stronzo, se si perde la partita è colpa dell’arbitro cornuto, se si va a sbattere col motorino è perché il comune non ripara le buche.
E’ una età particolare, che va assecondata con pazienza, e ai poveri genitori non resta che continuare a spiegare che la colpa, se le cose non vanno come dovrebbero, non è sempre degli altri.
Silvio Berlusconi sta appunto attraversando questa delicata fase del suo sviluppo.
Se nessuno apprezza il suo straordinario lavoro in Abruzzo perché c’è chi butta fango. Se a Napoli si farà Natale tra i rifiuti è perché c’è una manovra contro di lui. Se in pochi gli riconoscono il ruolo di grande capo della politica estera europea è perché la stampa internazionale si fa dettare i pezzi da Di Pietro. Se il debito pubblico sale ancora è perché qualcuno lo ha fatto salire prima di lui.
Quando l’adolescente si comporta così, i bravi genitori gli tolgono il motorino o lo spediscono a ripetizioni di greco e latino. Ma in Italia, si sa, i papà e le mamme sono molli come pasta di sale. E coccolano fieri il loro bamboccione, tutti contenti se il pargolo – piangendo e fottendo – finisce a Palazzo Chigi, e domani al Quirinale. (Beh, buona giornata).
“Resta prerogativa del capo dello Stato sancire l’impossibilità di completare la legislatura parlamentare e quindi sciogliere le Camere”. Giorgio Napolitano, Capo dello Stato, dixit. Beh, buona giornata.
(da ilmessaggero.it)
«Siamo con voi. Se siamo in piazza è per consertivi che il vostro diritto di manifestare sia rispettato». È quanto scrive Maurizio Cudicio, un poliziotto della questura di Trieste, in una lettera aperta agli studenti che «che mercoledì andranno in piazza».
«Io poliziotto, sono figlio e padre, e quando finisco di lavorare torno a casa dalla mia famiglia – scrive Cudicio nella lettera pubblicata su Grnet.it, il portale di informazione indipendente del comparto Difesa e Sicurezza – Mia moglie mi chiama al cellulare e mi dice di non fare tardi. Io la tranquillizzo e le dico che tornerò prima possibile. Passano le ore e mi ritrovo in ospedale con la testa rotta. Studente, mi rivolgo a te, io sono consapevole che non sei stato tu, tu hai tutte le ragioni del mondo di manifestare per i tuoi diritti, ma quello che non sai forse è che noi poliziotti siamo con voi, siamo dalla vostra parte e non siamo contro nessuno».
«Noi rappresentiamo lo Stato quando ci vedete in strada – continua la lettera – ma credimi siamo orgogliosi di farlo, amiamo il nostro lavoro ma siamo in piazza anche per voi. Per noi siete tutte persone che hanno diritto di manifestare e noi siamo in piazza perchè questo diritto sia rispettato. Non siamo lì per divertimento e facciamo di tutto, credimi studente, per evitare che qualcuno si faccia male. Certo gli ordini sono ordini e noi siamo obbligati ad eseguirli, ma sappiamo benissimo dove dobbiamo fermarci per il bene nostro e vostro. Abbiamo paura, sì tanta a volte e in certi momenti forse sbagliamo, ma credimi, parlo con il cuore, quando ci troviamo tra due fronti, in mezzo alla guerriglia urbana è veramente dura».
Cudicio ha creato un gruppo su Facebook, Movimento poliziotti, con il quale si propone di creare un punto di incontro fra cittadini e poliziotti. (Beh, buona giornata).
(fonte: repubblica.it)
Il rapporto italiano sulla morte di Nicola Calipari in Iraq, almeno nella parte che definiva l’uccisione del funzionario dei servizi da parte di un posto di blocco americano come “non intenzionale”, era costruito “specificatamente” per evitare ulteriori inchieste della magistratura italiana. Lo si legge in un cable siglato dall’ambasciatore Usa a Roma, Mel Sembler, nel maggio 2005, diffuso dal Guardian, media partner di Wikileaks.
Il governo Berlusconi, secondo il documento, voleva “lasciarsi alle spalle” la vicenda, che comunque non avrebbe “danneggiato” i rapporti bilaterali con Washington. Nicola Calipari fu ucciso la notte del 4 marzo 2005. L’agente era in un’auto dei servizi assieme alla giornalista Giuliana Sgrena, appena rilasciata dai suoi rapitori dopo una lunga mediazione. L’auto si ndirigeva all’aeroporto di Bagdad quando dal check-point americano partirono alcuni colpi d’arma. Calipari fece scudo col suo corpo per difendere la giornalista e fu ucciso da un proiettile alla testa. Il soldato che sparò fu poi identificato in Mario Lozano, addetto alla mitragliatrice al posto di blocco.
ll cablo, datato 3 maggio 2005, il giorno dopo gli incontri a Palazzo Chigi tra l’ambasciatore Sembler e, tra gli altri, l’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta e il capo del Sismi Niccolò Pollari, per discutere del rapporto italiano sulla morte di Calipari. Il governo italiano, scriveva l’ambasciatore Sembler, “bloccherà i tentativi delle commissioni parlamentari di aprire indagini”, malgrado vi siano già delle precise richieste delle opposizioni in proposito, sostenendo la tesi del “tragico incidente”. Beh, buona giornata.
(fonte: corriere.it)
Duecento poliziotti sono tornati sotto Villa San Martino (la villa di Berlusconi di Arcore) per protestare contro il governo che «da due anni e mezzo non mantiene gli impegni». «Il pacchetto sicurezza è stato convertito in legge, ma purtroppo il nostro emendamento è stato ritirato: permangono quindi i disagi e i tagli alla sicurezza, per questo siamo tornati», dice Santo Barbagiovanni, segretario regionale della Silp Lombardia. «Abbiamo anche inviato delle letterine al premier per chiedergli che ci regali qualcosa di buono. La categoria è preoccupata – spiega Barbagiovanni – soprattutto di fronte alla possibilità che dopo il 31 dicembre i nostri straordinari rischieranno di non essere pagati. Non è un buon regalo alla categoria e c’è un forte disagio». «I nostri colleghi stanno tutti i giorni a prendere le botte in piazza o essere additati come comunisti e il governo li ripaga così: i carabinieri poi la pensano esattamente come noi, ma non possono dare voce ai loro disagi. Non si tratta di politica o ideologie, ma di impegni che il governo ha sottoscritto con il comparto e che non ha onorato. Sono fatti oggettivi», conclude il sindacalista, che poi fa un riferimento alle polemiche di questi giorni sulle «misure preventive» ipotizzate per scongiurare incidenti durante i cortei studenteschi: «Non condividiamo nessun tipo di Daspo, la piazza è giusto che esprima la propria opinione. Il bavaglio non è segno di una democrazia vera come quella del nostro Paese». (Beh, buona giornata).
di Alexander Stille-http://stille.blogautore.repubblica.it/2010/12/19/centrosinistra-che-non-combatte/?ref=HREC1-1
La recente vittoria dei repubblicani nell’imporre il taglio delle tasse ai ceti economici più ricchi degli Stati Uniti ha fatto scattare una riflessione più generale. Come mai la destra americana era disposta a combattere strenuamente e a rischiare parecchio per difendere gli interessi del 2% del paese, mentre i democratici non erano disposti a fare altrettanto per l’altro 98%, quando i sondaggi dimostravano che la maggioranza degli americani era favorevole alla loro posizione? In parole povere, come mai la destra combatte e la sinistra no?
In Italia si verifica un fenomeno in qualche modo analogo. Berlusconi non esita a dipingere una possibile vittoria del centrosinistra come il ritorno dei seguaci di Pol Pot e a evocare lo spettro dei comunisti cinesi che avrebbero usato i bambini come concime. Mentre il buon Walter Veltroni ha fatto un punto di orgoglio del non attaccare il suo avversario e l’insistere su un problema lampante come il conflitto di interessi viene considerato una forma di demonizzazione di Berlusconi.
Qual è quindi il problema? Facciamo qualche ipotesi.
1) È la mancanza di una visione netta da parte della sinistra, che non le dà forza dialettica?
2) È una questione della maggior frammentazione dell’elettorato del centrosinistra? Negli Stati Uniti l’elettorato del partito democratico è più eterogeno di quello del partito repubblicano. La base del partito è fermamente a sinistra, mentre la delegazione democratica al Congresso conta molti centristi, che quindi tendono a tradire il loro partito sotto la pressione di attacchi molto forti da destra. In Italia è difficile presentarsi con un fronte comune su qualsiasi iniziativa, se si pensa alla diversità tra i gruppi: cattolici da una parte, ex-comunisti dall’altra, e poi garantisti e giustizialisti dell’Italia dei Valori. La confusione dentro l’ultimo governo Prodi, composto di nuovi partiti separati, ognuno con un’agenda politica diversa, ne è un esempio.
3) Sia gli Stati Uniti sia l’Italia sono paesi sostanzialmente di centrodestra, e quindi in contese molto combattute la destra gioca con il vento in poppa mentre i suoi avversari con il vento contrario. Per esempio negli Stati Uniti, anche se il partito democratico è in genere più popolare di quello repubblicano, il 42% dell’elettorato si riconosce come conservatore mentre solo il 20% si descrive come ‘liberal’, cioè di sinistra, e il 35% si considera moderato. La maggioranza di Obama è quindi composta di questi due gruppi abbastanza diversi, il 20% dei liberal più il 35% dei moderati; invece i repubblicani quando vincono possono contare sulla stragrande maggioranza compatta dei conservatori, più una piccola fetta di moderati. In modo simile, quando in Italia ha vinto il centrosinistra, è stato con un candidato con un passato di centro come Romano Prodi che ha potuto convincere una parte rilevante dell’Italia di centro a convivere con elettori molto più a sinistra. Ci sono anche fratture nel centrodestra, soprattutto tra gli autonomisti e i federalisti della Lega, gli ex seguaci di Alleanza Nazionale, però come abbiamo visto il centrodestra può perdere qualche ruota di scorta.
4) L’incapacità della classe dirigente del centrosinistra e gli errori strategici sia dei democratici americani sia del centrosinistra italiano. Se Obama avesse cercato di cavalcare la rabbia popolare contro le elite dopo la crisi economica, quando era molto forte all’inizio della sua amministrazione, mettendo i repubblicani in un angolo sul regolamento delle banche, le tasse di successione, il taglio delle tasse per i ricchi, avrebbe potuto avere successo? Se la sinistra italiana avesse assunto una posizione coerente e decisa sul conflitto d’interessi, sullo stato di diritto e il bisogno di legalità, se avesse martellato sull’insuccesso clamoroso dell’economia sotto tutti i governi Berlusconi, se avesse articolato una visione più chiara di un’alternativa di una società più giusta ma anche più aperta, più meritocratica, avrebbe prodotto risultati migliori? (Beh, buona giornata).
Non si capiscono le cose se le si guardano con gli occhi del vorrei dire, ma non posso. Il 14 dicembre a Roma c’ entra niente con gli scontri di piazza del ’77. A quella stagione di furore, per esempio, il governo Andreotti, chiedendo un prestito di ventimila miliardi di vecchie lire seppe dare una risposta: nacquero le cooperative, grazie alla Legge 285. I giovani incazzati trovarono una via d’uscita, trovarono la via di un reddito.
Il 14 dicembre a Roma, ma non solo a Roma, in tutta Italia, ci sono state grandi manifestazioni: studenti, metalmeccanici, mamme di Napoli, terremotati de L’Aquila. Tutti in piazza, tutti credevano fosse giusto fare qualcosa di concreto in un Paese il cui Parlamento avrebbe sfiduciato il governo Berlusconi. Almeno questo.
Ma così non è stato. Il Parlamento, il tempio della democrazia di un Paese a democrazia parlamentare ha tradito il Paese: alcuni piatti di lenticchie hanno comprato il consenso in Aula, hanno determinato la sopravivenza , almeno per ancora qualche settimana, del governo Berlusconi. Così è, con buona pace delle opposizioni parlamentari. Il governo è riuscito a salvare se stesso. E chi ha pensato di fare che per le contraddizioni sociali del Paese? Nessuno.
Adesso, parliamoci chiaro: di fronte ai quei piatti di lenticchie, che cosa saranno mai stati petardi, tre o quattro automobili incendiate, scazzottamenti, tafferugli, vetrine imbrattate? Per favore, vogliamo fare la proporzione degli avvenimenti coi fatti politici? Che cosa sono mai due pietre scagliate contro i poliziotti, di fronte allo scempio della convivenza civile, che è andato in scena alla Camera dei Deputati, dove aleggiava la compravendita del consenso ad personam degli eletti.
Il capo della Polizia è stato più chiaro di ogni commentatore da strapazzo: Manganelli ha detto chiaro e tondo che non si può scaricare sull’ordine pubblico il peso delle ingiustizie sociali prodotte dalle politiche del governo in carica. Anche perché i poliziotti sono molto più incazzati col governo di quanto non siano apparsi i manifestanti dello scorso 14 dicembre.
Facciamola finita con la storia del black bloc. Sono palle inventate per intrattenere il pubblico televisivo. Ma le tensioni sociali non sono materia di un reality show. E il pubblico non ci sta più a fare il pubblico: mentre i ragazzi e le ragazze facevano casino, il pubblico stava dalla parte loro. Perché era la parte giusta: di quelli che non ce la fanno più.
La Politica non è riuscita a fornire nessuna via d’uscita dalla crisi. Ma una via d’uscita è necessaria. Con le buone o con le cattive. Berlusconi ricomincia da tre (voti in Parlamento). I giovani, gli studenti, i precari, i cassaintegrati, i cittadini asfissiati dalla monnezza, i ricercatori sui tetti, i migranti, gli imprenditori piccoli, da che cosa possono ricominciare? Forse la rabbia sociale è un buon inizio. Beh, buona giornata.
di CORRADO ZUNINO-repubblica.it
È il governo ad alzare le barricate, questa volta. E loro, quelli del movimento studentesco, questa volta eviteranno lo scontro: “Li sorprenderemo”. L’esecutivo si appresta a battezzare il Daspo per gli studenti che restano impigliati nei fermi della celere: universitari come gli ultras. E il ministro Roberto Maroni per martedì prossimo prospetta la fortificazione dell’area della “zona rossa” attorno ai palazzi della politica. Martedì, infatti, torna al Senato per la sua approvazione definitiva la riforma dell’Università: mercoledì dovrebbe essere licenziata grazie alla blindatura del governo sugli emendamenti e con i voti favorevoli dei finiani. Per due giorni e per la terza volta in poche settimane il centro storico di Roma sarà interdetto agli studenti in corteo con i blindati messi di traverso alle strade d’accesso.
“Ogni atto del governo, ogni successivo inasprimento dell’ordine pubblico, dimostrano che hanno paura della nostra protesta”, dice Francesco Brancaccio, dottorando in Scienze politiche alla Sapienza di Roma. “Una zona rossa sempre più blindata offende l’idea di una Roma città aperta, idea che dovrebbe essere di tutte le forze politiche. Il Daspo è una limitazione della libertà di manifestare e per noi è incostituzionale. Ridurre un fenomeno politico e sociale a un problema di ordine pubblico è la peggiore delle risposte possibili”. Quindi, manifesterete o no? “Siamo un movimento intelligente, che sa spiazzare. Da domani
torniamo a discutere nelle facoltà, ma è già chiaro a tutti: ci mobiliteremo e la polizia non ci troverà dove ci sta aspettando. Non cadremo nelle trappole che vogliono tenderci”. Gli ultimi due “mob” dell’anno saranno quindi a sorpresa e terranno conto del fatto che molti universitari stanno già lasciando le facoltà per i rientri natalizi.
All’Università orientale di Napoli domani ci sarà un incontro con gli studenti di Londra e Atene per sottolineare come l’allargamento in tutta Europa di moti violenti sia il segnale di “una crisi sociale a cui i governi voltano le spalle”.
Giovanni Pagano, Scienze politiche a Napoli: “Il diritto a manifestare non è paragonabile a una partita e gli studenti, dopo la giornata del 14 con tutti i suoi problemi, sono più motivati di prima. Piazza del Popolo ci ha cambiati, ma non ci ha frenato”. A Napoli sono ripartite le occupazioni delle scuole superiori e mercoledì è previsto un corteo cittadino. “C’è voglia di tornare in piazza, non c’è l’ansia. Lo faremo in modo ironico”. Alla Sapienza romana domani ci saranno riunioni nelle singole facoltà, e poi dell’intero ateneo, per preparare il martedì della protesta. Luca Cafagna, Scienze politiche: “Viviamo questi nuovi provvedimenti come una provocazione, una richiesta di scontro frontale, e non ci scontreremo. Continuare ad evocare lo spettro della violenza degli Anni Settanta è un ottimo modo per non capire che gli studenti hanno grossi problemi oggi. Noi non facciamo ideologia, il governo sì”.
L’opposizione alla “Gelmini” avrà tempi lunghi e il movimento si prepara a una fase di interdizione sostanziale nei confronti del decreto nel momento in cui diventerà legge. “È un provvedimento tecnicamente difficile, con una pletora di decreti attuativi che impegneranno nel tempo il governo e i tecnici del ministero. Noi daremo battaglia su ogni punto”. Dalla scuola secondaria arriva l’esempio delle difficoltà concrete che le riforme Gelmini stanno incontrando. I sindacati segnalano che a Torino ottanta scuole fin qui non hanno accettato la sperimentazione che dovrebbe portare alla scelta dei professori da premiare: il “no”, in questo caso, è stato dei docenti. “Il campo di battaglia è ampio”, assicurano gli universitari. Quelli del Mamiani, liceo di Roma, ieri hanno consegnato occhiali di cartone ai giornalisti, miopi nelle interpretazioni degli scontri di Piazza del Popolo: di CORRADO ZUNINO
ROMA – È il governo ad alzare le barricate, questa volta. E loro, quelli del movimento studentesco, questa volta eviteranno lo scontro: “Li sorprenderemo”. L’esecutivo si appresta a battezzare il Daspo per gli studenti che restano impigliati nei fermi della celere: universitari come gli ultras. E il ministro Roberto Maroni per martedì prossimo prospetta la fortificazione dell’area della “zona rossa” attorno ai palazzi della politica. Martedì, infatti, torna al Senato per la sua approvazione definitiva la riforma dell’Università: mercoledì dovrebbe essere licenziata grazie alla blindatura del governo sugli emendamenti e con i voti favorevoli dei finiani. Per due giorni e per la terza volta in poche settimane il centro storico di Roma sarà interdetto agli studenti in corteo con i blindati messi di traverso alle strade d’accesso.
“Ogni atto del governo, ogni successivo inasprimento dell’ordine pubblico, dimostrano che hanno paura della nostra protesta”, dice Francesco Brancaccio, dottorando in Scienze politiche alla Sapienza di Roma. “Una zona rossa sempre più blindata offende l’idea di una Roma città aperta, idea che dovrebbe essere di tutte le forze politiche. Il Daspo è una limitazione della libertà di manifestare e per noi è incostituzionale. Ridurre un fenomeno politico e sociale a un problema di ordine pubblico è la peggiore delle risposte possibili”. Quindi, manifesterete o no? “Siamo un movimento intelligente, che sa spiazzare. Da domani
torniamo a discutere nelle facoltà, ma è già chiaro a tutti: ci mobiliteremo e la polizia non ci troverà dove ci sta aspettando. Non cadremo nelle trappole che vogliono tenderci”. Gli ultimi due “mob” dell’anno saranno quindi a sorpresa e terranno conto del fatto che molti universitari stanno già lasciando le facoltà per i rientri natalizi.
All’Università orientale di Napoli domani ci sarà un incontro con gli studenti di Londra e Atene per sottolineare come l’allargamento in tutta Europa di moti violenti sia il segnale di “una crisi sociale a cui i governi voltano le spalle”.
Giovanni Pagano, Scienze politiche a Napoli: “Il diritto a manifestare non è paragonabile a una partita e gli studenti, dopo la giornata del 14 con tutti i suoi problemi, sono più motivati di prima. Piazza del Popolo ci ha cambiati, ma non ci ha frenato”. A Napoli sono ripartite le occupazioni delle scuole superiori e mercoledì è previsto un corteo cittadino. “C’è voglia di tornare in piazza, non c’è l’ansia. Lo faremo in modo ironico”. Alla Sapienza romana domani ci saranno riunioni nelle singole facoltà, e poi dell’intero ateneo, per preparare il martedì della protesta. Luca Cafagna, Scienze politiche: “Viviamo questi nuovi provvedimenti come una provocazione, una richiesta di scontro frontale, e non ci scontreremo. Continuare ad evocare lo spettro della violenza degli Anni Settanta è un ottimo modo per non capire che gli studenti hanno grossi problemi oggi. Noi non facciamo ideologia, il governo sì”.
L’opposizione alla “Gelmini” avrà tempi lunghi e il movimento si prepara a una fase di interdizione sostanziale nei confronti del decreto nel momento in cui diventerà legge. “È un provvedimento tecnicamente difficile, con una pletora di decreti attuativi che impegneranno nel tempo il governo e i tecnici del ministero. Noi daremo battaglia su ogni punto”. Dalla scuola secondaria arriva l’esempio delle difficoltà concrete che le riforme Gelmini stanno incontrando. I sindacati segnalano che a Torino ottanta scuole fin qui non hanno accettato la sperimentazione che dovrebbe portare alla scelta dei professori da premiare: il “no”, in questo caso, è stato dei docenti. “Il campo di battaglia è ampio”, assicurano gli universitari. Quelli del Mamiani, liceo di Roma, ieri hanno consegnato occhiali di cartone ai giornalisti, miopi nelle interpretazioni degli scontri di Piazza del Popolo: “In troppi hanno visto black bloc che non c’erano”.
(Beh, buona giornata).
About black bloc.
Rissa tra i senatori in commissione-repubblica.it
Enzo Bianco finisce in infermeria- Rissa agli Affari costituzionali, coinvolti Balboni (PdL) e Enzo Bianco (Pd), costretto a farsi medicare per escoriazioni al labbro e contusioni allo zigomo. Schifani condanna l’episodio, solidarietà dall’UdcROMA – Una polemica conclusa a ceffoni, con finale in infermeria. E’ quanto è accaduto oggi alla riunione congiunta delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato, finita in rissa tra PdL e Pd. E con il senatore Enzo Bianco, centrosinistra, in infermeria per aver ricevuto due pugni dal senatore Balboni. Che a sua volta lamenta una gomitata al labbro ricevuta da un altro senatore.
Tutto è cominciato quando Bianco ha tolto il microfono a fine riunione al presidente della commissione Giustizia Filippo Berselli che voleva dichiarare inammissibili alcuni emendamenti. Bianco ha sostenuto che non poteva farlo, essendo terminata la riunione. A questo punto, è intervenuto Franco Mugnai del Pdl, strattonando Bianco che si era impossessato del microfono. Arriva quind Balboni in aiuto di Mugnai, a sua volta spintonato da Bianco. E così si arriva al parapiglia: secondo la versione di alcuni senatori del Pd, è partita l’aggressione con due pugni in faccia da parte di Balboni ai danni di Bianco.
Due diretti che hanno spedito Enzo Bianco nell’infermeria del Senato per farsi medicare alcune escoriazioni al labbro e una contusione allo zigomo. Il senatore, in stato di agitazione, si sarebbe sottoposto anche ad un elettrocardiogramma in via precauzionale. ”E’ sotto choc” riferisce la senatrice Silvia Dalla Monica, che ha accompagnato Bianco dal medico. I tafferugli non sono comunque terminati con l’aggressione a Bianco, continuando davanti all’infermeria tra un folto gruppo di senatori.
Ma il presidente della commissione Giustizia, Filippo Berselli, nega ogni incidente: ”Bianco e’ un provocatore e non ha ricevuto alcun pugno”.
Schifani commenta l’accaduro: “Si tratta di un incidente di percorso, forse vogliono imitare in piccolo quello che succede fuori”. L’episodio è stato definito “gravissimo” dal senatore Giuseppe Lumia, mentre arriva solidarietà a Bianco dal presidente dei senatori Udc, Gianpiero D’Alia, che chiede l’immediato accertamento delle responsabilità di quanto accaduto al Senato. “La Commissione Giustizia – ha detto D’Alia – non può essere trasformata in un ring da picchiatori fascisti”. (Beh, buona giornata).