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La crisi secondo Scalfari: “C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street.”

di EUGENIO SCALFARI- la Repubblica

LE TEMPESTE non vengono mai sole, ma una ne porta appresso un’altra. Si pensava che nella giornata finanziaria di domani il sole si sarebbe aperto un varco tra le nuvole nere dei giorni scorsi e che i mercati avrebbero respirato. Ma probabilmente non sarà così: l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il debito americano. Non era mai avvenuto e gli operatori si aspettano il peggio in tutto il mondo a cominciare dal governo cinese che ha chiesto ad Obama con toni ultimativi di prendere drastiche decisioni per ridurre il disavanzo federale americano.

Non si era mai visto prima d’ora che uno Stato estero desse ordini alla Casa Bianca. Semmai accadeva il contrario. C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street. A quell’ora Piazza degli Affari a Milano sarà già da sei ore sull’Ottovolante. Forse ci sarebbe stata in tutti i casi perché la conferenza stampa di venerdì sera a Palazzo Chigi non era stata affatto rassicurante. Se l’America ha il raffreddore – si diceva un tempo – in Europa abbiamo la polmonite. Ma se la polmonite ce l’ha l’America, che cosa può accadere qui?
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In attesa degli eventi e per capire meglio i fatti nostri bisogna rievocarla quella conferenza stampa, i suoi antecedenti e quello che dovrebbe avvenire nel nostro piccolo ma per noi essenziale cortile di casa. Non è un insulto ma una constatazione: sembravano tre zombi quei personaggi appiccicati l’uno all’altro dietro quel tavolo, con l’aria imbambolata di pugili suonati dai pugni che hanno ricevuto.

Berlusconi spiegava alla platea dei giornalisti che l’Italia, cioè lui, erano tornati al centro dell’attenzione mondiale ed enumerava le telefonate ricevute da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Cercava le parole per spiegare le decisioni prese, in totale contrasto con quelle comunicate al Parlamento appena 48 ore prima. Ma non le trovava. Si capiva soltanto che per rassicurare i mercati aveva deciso di accelerare d’un anno la manovra. Il pareggio del bilancio previsto per il 2014 sarebbe avvenuto nel 2013. Così, con un colpo di bacchetta magica. I partner europei erano stati informati e anche gli americani e tutti avevano applaudito. I mercati erano un orologio rotto ma stavano producendo un sacco di guai. “Tremonti vi spiegherà i dettagli” così aveva concluso dopo dieci minuti.

Tremonti, poveretto, era più imbarazzato e incespicante di lui. Non sembrava più quel ministro sicuro di sé, sprezzante, arrogante che conosciamo da tempo. Faceva lunghe pause, arruffava le frasi, si correggeva, tradiva continui vuoti di memoria. A un certo punto Letta l’ha interrotto. In realtà non aveva nulla da dire Gianni Letta, ma voleva comunque far sentire la sua voce affinché fosse chiaro che esisteva anche lui. Ma dopo quell’improvvida interruzione Tremonti non trovava più il filo per riprendere il discorso.

Una scena pietosa, conclusa nel modo più involontariamente comico dal presidente del Consiglio il quale, annunciando che il governo non sarebbe andato in vacanza, ha detto: “Palazzo Letta resterà aperto per tutto agosto”.

Il giorno dopo è partito per la sua villa di Porto Rotondo. Un week-end rilassante evidentemente si imponeva.

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La verità è che il governo italiano, dopo il nerissimo giovedì con Piazza Affari a meno 5,16 maglia nera delle Borse mondiali e lo “spread” a quota 389, è stato commissariato. In un paese normale il premier e il suo governo si sarebbero dimessi, ma poiché la maggioranza Scilipoti esiste ancora, la soluzione dettata dall’Europa d’intesa con la Casa Bianca è stata il commissariamento.

Abbiamo ora un governo che deve eseguire gli ordini che gli vengono dati da Berlino e da Parigi tramite Barroso da una parte e Trichet dall’altra. Soprattutto quest’ultimo perché la Bce è il solo braccio operativo che l’Europa può usare nel tentativo di raffreddare i mercati.

Del resto è ormai ufficiale che l’atto di commissariamento è stato scritto e inviato al nostro presidente del Consiglio la mattina di venerdì con una lettera di Trichet controfirmata da Draghi che sarà a novembre il suo successore. In quella lettera sono fissate le condizioni: anticipare di un anno il pareggio del bilancio, iniziare da subito gli interventi per tagliare la spesa, avviare con decorrenza immediata interventi di stimolo per la crescita del reddito e dell’economia reale.

Per questa ragione quei tre personaggi dietro quel tavolo la sera di venerdì sembravano burattini mossi da fili tenuti da altre mani; appena due giorni prima avevano esposto con sussiego una politica economica che non si spostava d’un centimetro dal rovinoso immobilismo d’una manovra che aveva rinviato tutto di quattro anni. La maggioranza parlamentare aveva punteggiato di fragorosi applausi il discorso del premier. Il ministro dell’Economia, seduto alla sua sinistra, batteva anche lui le mani, felice della ritrovata armonia con il “boss”; il ministro degli Esteri, seduto alla sua destra, sottolineava gli applausi battendo la mano sul tavolo dei ministri.

Dopo un giorno e mezzo tutto ciò è stato capovolto. “È passato un mese e il mondo è completamente cambiato” ha detto Tremonti venerdì. È vero, è passato un mese, ma lui e tutta la banda mercoledì non se n’erano ancora accorti. Meno male che – non potendo dimissionarli – li hanno almeno commissariati. Ma purtroppo non basterà, polmonite americana a parte.

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Dal balbettio di Berlusconi e di Tremonti si è capito che proporranno nei prossimi giorni alle commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge di riforma costituzionale da essi ritenuti fondamentali: la modifica dell’articolo 41 e quella dell’articolo 81.

Il primo stabilirà, una volta modificato, che i cittadini sono liberi di assumere ogni tipo di iniziativa salvo quelle vietate dalle leggi. Si tratta di una pura ovvietà ma il veleno sta nella coda: spetta agli interessati autocertificare che non vi sono leggi che vietano le iniziative intraprese. La pubblica amministrazione farà controlli ex post. Dire che si tratta d’un potente incoraggiamento all’illegalità è dir poco.

Quanto all’articolo 81, si tratta di introdurre in Costituzione il pareggio del bilancio come principio inderogabile “salvo specifiche condizioni di emergenza” (terremoti, guerre, eccetera). Non si spiega però se il pareggio riguarda il bilancio preventivo o quello consuntivo o tutti e due. Ma c’è un’altra condizione non ancora detta però ventilata: che la spesa non possa superare il 45 per cento del Pil salvo un voto parlamentare a maggioranza qualificata.

Se passasse una riforma costituzionale del genere il tetto alla spesa che Obama ha a stento superato per evitare il default sarebbe uno scherzo: scomparirebbe ogni politica economica, ogni programma di investimento, ogni politica fiscale di redistribuzione del reddito, ogni politica estera, ogni politica della difesa ed ogni autonomia locale. Il governo sarebbe affidato non al Parlamento ma alla Corte dei conti e alla Ragioneria dello Stato.
Non credo che iniziative del genere troveranno appoggio nell’opposizione e faciliteranno coesione sociale. Comunque ci vorrà un anno prima che l’iter parlamentare sia completato e ancor più se sarà necessario il referendum confermativo. Pensate che i mercati nei prossimi giorni si calmeranno per l’effetto di annuncio di questi due sgorbi di riforma costituzionale?

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Questi sono i preamboli, poi viene la sostanza: un anno di anticipo per realizzare nel 2013 l’obiettivo del pareggio del bilancio, ferma restando la manovra così come fu approvata in tre giorni un mese fa (ma forse bisognava esaminarla meglio invece di guardare soltanto l’orologio).

La manovra ammonta a 48 miliardi così distribuiti: tre miliardi nel 2011, cinque nel 2012, venti e venti nel biennio successivo. Se tutto viene anticipato d’un anno il nuovo calendario dovrebbe prevedere otto miliardi immediati in quest’esercizio, venti e venti nel biennio successivo. È realizzabile questo programma? I tre zombi venerdì non sono entrati nel dettaglio. I poteri esteri che li hanno commissariati neppure, i mercati nulla sanno e i contribuenti meno ancora, ma è evidente che nelle prossime 48 ore questi dettagli dovranno essere forniti.

La logica suggerisce che i tagli per otto miliardi del 2011 e i venti del 2012 debbano essere effettuati con un’unica visione. L’esercizio in corso è agli sgoccioli ma lo sfoltimento delle prestazioni assistenziali è già previsto nella manovra. Si tratta di renderlo operativo con l’immediata approvazione della legge delega su quei trattamenti.

Nel totale ammontano a 160 miliardi. La macelleria sociale accennata da Tremonti prevede riduzioni discrezionali del 5 per cento il primo anno e il 10 nel secondo con speciale attenzione alle pensioni di invalidità, agli accompagnamenti degli invalidi e alla reversibilità pensionistica. Il 15 per cento di 160 miliardi fa 24 miliardi. Più i ticket già operativi e le accise già in corso. Su quali ceti si scarica questo peso?

In tempi di buriana una dose di macelleria sociale è inevitabile purché sia affiancata dall’equità. È evidente che se tutto il peso è concentrato sul capitolo dell’assistenza, l’equità scompare. Dunque colpire solo l’assistenza è impensabile. Altrettanto impensabili sono le baggianate alternative di Di Pietro che pensa all’abolizione delle Province come un toccasana. Quanto a Casini, ha detto che se le proposte sono efficaci le voterà. Nei prossimi tre giorni ne conoscerà anche lui i dettagli e vedremo la sua risposta.

Ma la vera domanda è questa: si arriverà al pareggio del bilancio entro il 2013? Bisognerà affrontare la seconda “tranche” della manovra, cioè gli altri 24 miliardi. Si può mettere in esecuzione la prima tranche senza nulla sapere della seconda, basata interamente sulla riforma fiscale?

Lo chiederanno le opposizioni, le parti sociali, le Regioni e i Comuni. Ma lo chiederanno soprattutto i mercati e finché non lo sapranno è difficile sperare che si fermeranno. Sempre polmonite americana a parte.

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Torniamo ancora un poco alla polmonite americana. Riguarda la diminuzione del debito federale? Riguarda il tasso di cambio del dollaro? Riguarda gli spintoni della Cina?

Soltanto in parte. Vorrei dire in piccola parte. La polmonite americana proviene dai segnali di recessione, dalla caduta della domanda. Ma quella caduta sta avvenendo nel mondo intero e in Italia più che mai.

Per questo i mercati si sentono insicuri e picchiano sui debiti sovrani. Ma se al necessario rigore non si affianca la crescita, la polmonite non guarisce, diventa acuta, purulenta e alla fine attacca il cuore.

Infatti i nostri “lord protettori” hanno chiesto rigore e crescita. Ma la crescita ha bisogno di risorse. Si cresce alimentando il potere d’acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti. Si cresce abbassando l’Irpef dei redditi medio-bassi e l’Irap sulle imprese. Si cresce spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l’evasione, generalizzando lo scarico dell’Iva in tutti i passaggi. L’articolo 41 della Costituzione non è la madre delle liberalizzazioni ma soltanto un aborto propagandistico.

Si cresce tassando il patrimonio non con un “una tantum” ma con un sistema fiscale adeguato.
Non illudetevi che sia sufficiente l’intervento della Bce a sostegno dei titoli italiani (e spagnoli). Soltanto un altro zombi come Bossi può pensarlo.

La Bce è intervenuta nei mesi scorsi e ancora l’altro ieri acquistando titoli greci, irlandesi e portoghesi, per 74 miliardi. Equivale all’incirca al 20 per cento di quei debiti. Se dovesse applicare quella stessa percentuale per l’Italia dovrebbe acquistare titoli per 400 miliardi e arriverebbe a 700 con la Spagna. È impossibile. Equivarrebbe a europeizzare un quinto dei debiti sovrani d’Italia e di Spagna. E gli altri paesi resterebbero a guardare?
Bisogna battere la recessione e rilanciare la crescita. Il resto sono chiacchiere e non bloccano i mercati.(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Romano Prodi: “Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate.”

di ROMANO PRODI-Il Messaggero
Avevamo a lungo sperato che sagge decisioni politiche potessero presto porre fine alla crisi finanziaria mondiale. Lo avevamo sperato perché il giovane presidente aveva dato l’impressione di essere in grado di ridare energia agli Stati Uniti e farne la locomotiva del mondo. Ci siamo sbagliati perché anche la locomotiva americana non ha più un conducente capace di indirizzarla nel giusto binario. I repubblicani e i democratici hanno infatti obiettivi divergenti e il compromesso raggiunto non aiuta né l’equilibrio del bilancio né la crescita economica.

Ancora peggio sono andate le cose a Bruxelles, dove la modesta crisi greca ha travolto gli equilibri europei perché nessuno si è dimostrato in grado di prendere le necessarie decisioni. Non la Commissione Europea, ormai emarginata, non la Germania paralizzata da un’inutile e suicida rincorsa al populismo da parte del suo governo. Avevamo finalmente tirato un sospiro di sollievo quando lo scorso 21 luglio i capi di governo europei si erano messi d’accordo per intervenire in soccorso dei Paesi più minacciati dalla crisi speculativa, ma ci siamo poi accorti che queste decisioni dovevano essere sottoposte a un complesso esame tecnico e quindi ratificate da tutti i governi nazionali.

I mercati finanziari hanno perciò reagito come se queste decisioni non fossero mai state prese. La speculazione ha allargato quindi i suoi orizzonti e ha travolto in pieno anche l’Italia. I valori della borsa sono crollati e i tassi di interesse dei Buoni del Tesoro sono schizzati verso il cielo, annullando in questo modo i possibili effetti delle pur insufficienti misure appena votate dal nostro parlamento in un eccezionale sforzo di solidarietà.

Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate senza la necessità di alcuna nuova decisione. La vendita dei Buoni del Tesoro italiani è invece aumentata di intensità fino a che il tasso di interesse dei Btp non ha raggiunto il livello dei titoli spagnoli. Sotto la pressione dei mercati e la sollecitazione dei governi europei si è dovuta perciò allestire un’improvvisa conferenza stampa.

Una conferenza stampa nella quale sono state presentate misure aggiuntive per scongiurare che la riapertura dei mercati mettesse di nuovo l’Italia in situazione drammatica. Un solo provvedimento appare utile per contenere lo scetticismo nei confronti della politica italiana e cioè l’anticipazione di un anno del raggiungimento dell’equilibrio di bilancio.

Il fatto che il nostro governo avesse rinviato al 2014 le misure più severe aveva infatti suscitato reazioni decisamente negative. Bene quindi per questa decisione anche se non ne vengono precisati gli strumenti per metterla in atto e il peso sembrerebbe gravare in prevalenza su misure di carattere sociale, e quindi sulle categorie più modeste.

Nessun contributo positivo al superamento della nostra tragica crisi può essere invece attribuito alle proposte di modifica della Costituzione, non solo perché questa modifica richiede in ogni caso tempi lunghissimi ma perché tali proposte sono inutili o sbagliate. È inutile inserire nella nostra Carta il principio che tutto quello che non è proibito è lecito perché questa regola già esiste. Ed è sbagliato inserire l’equilibrio di bilancio come obbligo costituzionale perché le Costituzioni sono fatte per durare a lungo e vi possono essere tempi (e spero che essi arrivino anche per l’Italia) nei quali non è pericoloso ma utile per lo sviluppo del paese avere un deficit di bilancio. Così come esistono momenti nei quali è opportuno avere un attivo nelle finanze pubbliche.

Mi auguro che le decisioni prese siano utili almeno per darci un temporaneo respiro alla ripresa dei mercati. Tuttavia per ricondurre i nostri tassi di interesse a un livello compatibile col nostro debito pubblico e risanare definitivamente le finanze italiane non possiamo sfuggire a misure più organiche e severe.

Non possiamo rinviare la lotta all’evasione fiscale, rendendo obbligatoria la registrazione elettronica dei pagamenti, non possiamo non ripensare agli equilibri fra imposte sul lavoro e sui consumi, non possiamo non ripensare alla reintroduzione modulata dell’imposta sugli immobili (ovunque nel mondo imposta federale per eccellenza) e a tutte le altre misure strutturali su cui si è lungamente discusso in passato ma che il populismo, l’interesse elettorale e la demagogia hanno impedito che fossero adottate, pur sapendo benissimo che esse erano necessarie per la salvezza del nostro Paese.(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Bauman: “La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?»

“Il problema centrale di questa crisi è che c’è un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo. Non esiste un sistema politico internazionale in grado di limitarlo”. Intervista a Zygmunt Bauman di ANDREA MALAGUTI- la Stampa.

Dunque siamo destinati al collasso e alla povertà globale?
«Non lo so. So che la mia generazione di fronte alle crisi di sistema si domandava una cosa semplice: che cosa dobbiamo fare? Adesso la domanda da porsi è un’altra, e al momento non ha risposta: a chi ci dobbiamo rivolgere per fermare la macchina?».
Perché professor Bauman?
«C’erano troppe aspettative su quell’uomo. La maggior parte erano irrealizzabili».

Secondo la stampa internazionale l’abbassamento del rating è un’umiliazione senza precedenti per gli Stati Uniti.
«Obama è un uomo. E si trova a fare i conti con una vicenda che è più grande di lui. E dà le risposte di un politico classico. Da quando è stato eletto si preoccupa più dei mercati che delle persone. Come se tra le due cose ci fosse un nesso. Ma la disoccupazione aumenta. E aumentano anche i tempi d’attesa nel passaggio da un lavoro all’altro, così come crescono i senza tetto. La povertà si moltiplica. Di sicuro neppure i neri stanno meglio».

Una presidenza disastrosa?
«No. Normale. Ma se le persone non credono in se stesse e nei leader che le guidano il tracollo è inevitabile. Ho scritto un libro, due anni fa, che prevedeva quello che sarebbe successo».

Cioè?
«Obama mi ricorda gli ebrei tedeschi dopo la prima guerra mondiale. Si sentivano dei metatedeschi, più tedeschi dei tedeschi. Bramavano l’integrazione ma inconsapevolmente segnavano una diversità. Appena sono cominciati problemi li hanno isolati».

Che c’entra il Presidente americano?
«Lui ha fatto lo stesso. Si è presentato come la grande speranza, ma si è preoccupato troppo di piacere ai livelli alti. Quelli che sono decisivi per la rielezione. Poi ha perso il controllo. Perché la politica non è in grado di condizionare la Borsa e i mercati. Se li è fatti sfuggire. Ma forse era inevitabile».

Ora anche la Cina pretende spiegazioni, non solo gli americani.
«I cinesi non sono preoccupati per i soldi che hanno prestato. E’ l’idea di perdere il loro più grande mercato di riferimento che li terrorizza. Dove mettono la quantità infinita di beni che producono ogni giorno? Non avere sbocchi, questo sì che sarebbe una tragedia. Sono i danni della globalizzazione».

Che cosa non le piace della globalizzazione?
«Io mi limito a fare una fotografia. Gli Stati si sono sempre fondati su due cardini: il potere (cioè fare le cose) e la politica (cioè immaginarle e organizzarle). La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?».

Professore, l’Europa rischia di squagliarsi?
«No. L’Europa è fatta. Non si può sciogliere. Gli Stati sono troppo legati tra di loro. Non fallirà l’Italia e non finirà l’Unione. Peraltro il problema di Roma non è soltanto Berlusconi. Chiunque fosse al suo posto sarebbe nelle stesse condizioni. E’ il mondo a essere nei guai».

Come se ne esce?
«Ha letto quello che ha detto ieri Prodi?».

Il problema dell’Europa è che non si sa chi comanda.
«Condivido. Ma il punto è che la pensano così anche i leader europei. Che sono ben felici di non prendersi responsabilità in questo momento. E’ l’ora di mettersi a ripensare la società all’interno della quale ci interessa vivere. Provi a chiedere in giro se qualcuno conosce il nome del presidente dell’Unione».

Peggio oggi o nel 2007?
«E’ lo stesso scenario. La follia del credito. C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del Pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca».

L’ossessione dei consumi.
«Già. Perdoni l’esempio, ma se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito».

Per dire che cosa?
«Per capire come fare intervenire la politica. Cinque anni fa ciascuno di noi è stato inondato da lettere delle banche che invitavano le persone comuni a prendere una carta di credito. Un lavaggio del cervello generale. Le banche hanno bisogno che la gente sia indebitata. Prima ti misurano, cercano di capire quanto vali. Poi ti prestano i soldi. Fanno il contrario di quello che faceva – fa? – la mafia siciliana. Se un picciotto ti concedeva un prestito pretendeva che glielo restituissi, pena la morte. Le banche no. Le banche non vogliano che paghi. Ti offrono altre formule di indebitamente, perché più ti prestano denaro più guadagnano con gli interessi. E’ così che, ad esempio, è nata la bolla immobiliare negli Stati Uniti e in Irlanda. Solo che le bolle a un certo punto esplodono».

E’ il mondo alla fine del mondo?
«No, quello non finisce mai. Nella storia l’uomo affronta crisi cicliche. E le risolve sempre. Bisogna solo capire quanto sarà alto il prezzo da pagare stavolta. Temo molto alto. Soprattutto per le nuove generazioni». (Beh, buona giornata).

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Crisi: “si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare.”

di GUIDO ROSSI- sole24ore.com

È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.

Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.

La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.

I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.

Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.

L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.

La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.

Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.

Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.

Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.

C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.

I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.

Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.

L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.

Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.

La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).

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Crisi: downgrading politico per il governo Berlusconi.

di MARIO MONTI- corriere.it

I mercati, l’Europa. Quanti strali sono stati scagliati contro i mercati e contro l’Europa da membri del governo e della classe politica italiana! «Europeista» è un aggettivo usato sempre meno. «Mercatista», brillante neologismo, ha una connotazione spregiativa. Eppure dobbiamo ai mercati, con tutti i loro eccessi distorsivi, e soprattutto all’Europa, con tutte le sue debolezze, se il governo ha finalmente aperto gli occhi e deciso almeno alcune delle misure necessarie.
La sequenza iniziata ai primi di luglio con l’allarme delle agenzie di rating e proseguita con la manovra, il dibattito parlamentare, la riunione con le parti sociali, la reazione negativa dei mercati e infine la conferenza stampa di venerdì, deve essere stata pesante per il presidente Berlusconi e per il ministro Tremonti. Essi sono stati costretti a modificare posizioni che avevano sostenuto a lungo, in modo disinvolto l’uno e molto puntiglioso l’altro, e a prendere decisioni non scaturite dai loro convincimenti ma dettate dai mercati e dall’Europa.

Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un «governo tecnico». Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un «governo tecnico sopranazionale» e, si potrebbe aggiungere, «mercatista», con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York.

Come europeista, e dato che riconosco l’utile funzione svolta dai mercati (purché sottoposti a una rigorosa disciplina da poteri pubblici imparziali), vedo tutti i vantaggi di certi «vincoli esterni», soprattutto per un Paese che, quando si governa da sé, è poco incline a guardare all’interesse dei giovani e delle future generazioni. Ma vedo anche, in una precipitosa soluzione eterodiretta come quella dei giorni scorsi, quattro inconvenienti.

Scarsa dignità . Anche se quella del «podestà forestiero» è una tradizione che risale ai Comuni italiani del XIII secolo, dispiace che l’Italia possa essere vista come un Paese che preferisce lasciarsi imporre decisioni impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno, anziché prenderle per convinzione acquisita dopo civili dibattiti tra le parti. In questo, ci vorrebbe un po’ di «patriottismo economico», non nel fare barriera in nome dell’«interesse nazionale» contro acquisizioni dall’estero di imprese italiane anche in settori non strategici (barriere che del resto sono spesso goffe e inefficaci, una specie di colbertismo de noantri ).

Downgrading politico . Quanto è avvenuto nell’ultima settimana non contribuisce purtroppo ad accrescere la statura dell’Italia tra i protagonisti della scena europea e internazionale. Questo non è grave solo sul piano del prestigio, ma soprattutto su quello dell’efficacia. L’Unione europea e l’Eurozona si trovano in una fase critica, dovranno riconsiderare in profondità le proprie strategie. Dovranno darsi strumenti capaci di rafforzare la disciplina, giustamente voluta dalla Germania nell’interesse di tutti, e al tempo stesso di favorire la crescita, che neppure la Germania potrà avere durevolmente se non cresceranno anche gli altri. Il ruolo di un’Italia rispettata e autorevole, anziché fonte di problemi, sarebbe di grande aiuto all’Europa.

Tempo perduto . Nella diagnosi sull’economia italiana e nelle terapie, ciò che l’Europa e i mercati hanno imposto non comprende nulla che non fosse già stato proposto da tempo dal dibattito politico, dalle parti sociali, dalla Banca d’Italia, da molti economisti. La perseveranza con la quale si è preferito ascoltare solo poche voci, rassicuranti sulla solidità della nostra economia e anzi su una certa superiorità del modello italiano, è stata una delle cause del molto tempo perduto e dei conseguenti maggiori costi per la nostra economia e società, dei quali lo spread sui tassi è visibile manifestazione.

Crescita penalizzata . Nelle decisioni imposte dai mercati e dall’Europa, tendono a prevalere le ragioni della stabilità rispetto a quelle della crescita. Gli investitori, i governi degli altri Paesi, le autorità monetarie sono più preoccupati per i rischi di insolvenza sui titoli italiani, per il possibile contagio dell’instabilità finanziaria, per l’eventuale indebolimento dell’euro, di quanto lo siano per l’insufficiente crescita dell’economia italiana (anche se, per la prima volta, perfino le agenzie di rating hanno individuato proprio nella mancanza di crescita un fattore di non sostenibilità della finanza pubblica italiana, malgrado i miglioramenti di questi anni). L’incapacità di prendere serie decisioni per rimuovere i vincoli strutturali alla crescita e l’essersi ridotti a dover accettare misure dettate dall’imperativo della stabilità richiederanno ora un impegno forte e concentrato, dall’interno dell’Italia, sulla crescita. (Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Franco Piperno: “Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici”.

Primissime note sulla Cosa Multimediale e sulla sua natura premoderna di “Regulae at directionem Ingenii”(seconda e ultima parte), di FRANCO PIPERNO (PIPERNO@FIS.UNICAL.IT)

IX)
Per noi, non si tratta solo di dare il benvenuto alla crisi, ma di trasformarci in suoi complici. Ci proponiamo d’aiutarla a scavare fino in fondo. E questo vuol dire, portare la crisi a livello delle categorie concettuali del senso comune: l’amore, le relazioni di solidarietà e di reciprocità, l’amicizia, la morte, l’economia, il progresso e così via. Quello che puntiamo a conseguire è di porre una serie di domande di senso comune alle quali riuscire a dare risposte comunemente intellegibili e tecnicamente perfette.
Altrimenti detto, la nostra è una politica che privilegia lo sguardo, piuttosto che l’universo linguistico. Contrapponiamo, così, all’individuo medio che sa ma non vede, l’individuo sociale che, come il bambino, vede ma non sa. Spogliata delle forme accademiche o paludate, la domanda del filosofo è sempre infantile, giacché colui che interroga senza alcuna necessità è il bambino. Per dirla con Valery “vision an avant, aveglue quant aux mots”.

X).
Occorre, quindi, ai i redattori stessi di questa cosa, praticare una saggezza rischiosa che nel mettere in questione l’ordine delle cose non evita nel contempo d’interrogare l’ordine del pensare — suscitando così stupore e sconcerto insieme. Giacché tutto parte da un interruzione, affinché il percorso abbia inizio: oggi il ritardo è il segno della perfezione. Potremmo riassumere così le considerazioni oscure che siamo andati via via snocciolando, dicendo che la nostra cosa parte con un intento di diseducazione o meglio malaeducazione linguistica: per ritrovare quel reale che le parole occultano.
Facciamo qualche esempio: il tema delle libertà comunali affiora nei movimenti che si svolgono attorno la questione antica dell’abitare. Movimenti che esistono, anche quando i giornali non ne parlano, magari nella dimensione del fiume carsico che si inabissa alla vista continuando a scorrere. Qui la politica dello sguardo vuol dire vedere il grado zero dell’abitare, il suo estremo; ovvero, rivelare, a coloro che sono senza casa, la condizione di possibilità di un altro modo dell’abitare che sottragga la città al suo destino, iper-moderno, di nodo di flussi di merci e di capitali; e la riconduca alla sua natura di luogo della buona vita. In atri termini la complessità, anche tecnicamente filosofica, del tema dell’abitare trova nell’estremo il punto di possibilità di un riappropriarsi della città, vivere il legame urbano come bene comune — riportare la città alla sua origine. E’ qui evidente la qualità di questa prassi dove il fine e il mezzo coincidono, condizione che è la prova evidente del carattere autentico. Qui si vede come un dato volgare, un bisogno nudo, arcaico, pressoché sub-umano, si riscatti come punto di vista, sguardo dal quale si vede la degradazione della vita politica che attanaglia le nostre città — dove l’architettura, soprattutto quella d’avanguardia, non fa che tradurre visivamente la rottura di relazioni di reciprocità e solidarietà che sono alla base del vivere urbano. E’ un’architettura che non solo non entra in contatto con quello che sopravvive del genius loci, ma semplicemente, non si pone più il problema, lo ignora; e.g. l’Ara Pacis, rivisitata da Veltroni, risulta priva di ogni aura; il che mostra, senza ombra di dubbio, che poteva essere costruita a Tokyo come a Parigi, a Pechino come a Berlino–perchè così stravolta è divenuta un non-luogo.
Analoga considerazione vale per i movimenti che, specie nel Sud, si strutturano attorno alla richiesta del reddito di cittadinanza. Anche qui l’aspetto volgare, la richiesta di soldi che appare come un precipitare estremo nel mondo delle merci si risolve, nella forma del reddito erogato dai comuni, in una formidabile acquisizione cognitiva sulla potenza della cooperazione sociale; e in una conseguente liberazione d’energia e di passioni in grado di far emergere dalla vita quotidiana un altro universo di consuetudini e consumi..

XI)
La nostra cosa tenta, paradossalmente, di usare il mezzo elettronico contro il mondo virtuale e la comunicazione in assenza; noi ci ripromettiamo di adoperare il colore ed il suono nonché la subitanea sensazione della contemporaneità — essere in presenza– che essi, ingannandoci, suscitano; tutto questo, contro le parole esauste e le macchinose teorie; per ritrovare il reale occorre portare a termine una diseducazione linguistica che mira a riscattare il mondo umano dalle parole che lo incorniciano e lo diminuiscono.

Avendo letto più di dieci libri, sappiamo che un’opera, che si presenti come gravida di una teoria completa e coerente, è una falsificazione del mondo.

Proviamo a riassumere: la crisi comporta un’interruzione tanto nella vita quotidiana, quanto nel pensare quotidiano; lo sguardo sceglie di posarsi sul fondo volgare- il reddito monetario, la malattia, la casa-tana, la caduta, la morte- perché solo su questo sfondo fragile e comune possono risaltare le idee autentiche, i pensieri singolari, in grado di creare comunità. Il comune pensare non è il pensiero che abbiamo tutti, ma il pensiero che istituisce relazioni di solidarietà e di reciprocità, cioè propriamente comunitarie.
Non si tratta quindi di uno sguardo contemplativo, né di uno sguardo trasformativo di quello che c’è, piuttosto è un modo di porsi eccedente che rinnova le relazioni tra l’essere umano ed il mondo; senza peraltro aggiungere nulla di nuovo, poiché l’azione autentica non lascia traccia.
E’ quindi uno sguardo che comporta una sorta di cattiveria sognante, in grado di vedere ciò che l’opinione pubblica nasconde. Non bisogna fare null’altro se non rifare le stesse osservazioni possibili a tutti. Riprendere in proprio, come se mai fosse stata pensata, l’osservazione che tutti hanno già fatto. Il futuro rientra nel presente come se resuscitasse; mentre il passato, lungi dal ritornare appare per quello che è : il presente che rientra nel suo medesimo e lo rende così eterno.
Si tratta, in buona sostanza, di coniugare al perfetto, nel senso del compiuto, attraverso quel modo del tempo oggi più pertinente al perfetto, quello del ritardo. E non tanto per contrastare con la lentezza il tempo del “prestissimo” in cui siamo tutti immersi, ma perché guardare è un’attività che comporta il rifarsi, rifare se stessi– affinché la buona vita, che è un processo e non uno stato, si compia e la morte stessa funzioni come un suggello di questa perfezione.
Come canta il poeta, bisogna essere perfetti, non c’è più da esitare.

XII).
La nostra cosa è quindi una sosta nella smaniosa abitudine a comprendersi nel mondo lungo la via razionale-riduttiva del linguistico; e si offre per noi stessi come occasione per conoscersi e conoscere il mondo fuori dai concetti-sentimenti della riproduzione seriale. Solo introducendo nella temporalità stereotipata l’interruzione, ed il ritardo che ne consegue, ogni vita, nel tempo mortale che le è dato, può realizzare il suo autoperfezionamento– non quindi una vita esatta e certa, ma incerta e precaria.
La cosa che proponiamo cerca di utilizzare il virtuale per afferrare il reale, come si fa quando uno osserva la volta celeste dopo aver visitato il planetario del luogo. L’idea-forza è la costruzione della cassetta di attrezzi che servano a far precipitare la coscienza dei luoghi- coscienza che non è mai svanita anche quando è tenuta a vile e rattrappita. Il riferimento premoderno di quello che vogliamo fare è il breviario o il “libro a ore” dove, appunto, è dispiegata la temporalità del luogo, le ore come scansione qualitativa del tempo e non il loro supposto scorrere uniforme, come tutte uguali.
Naturalmente la sequenza sopra delineata nella pratica si rovescia: la nostra avventura riuscirà nel suo scopo se i luoghi ritroveranno le loro temporalità autentiche, le cento città italiane avranno cento tempi diversi. Qui è evidente come il ritardo sia un segno di perfezione si pensi alle città rurali del meridione. Per chiudere senza concludere, la cosa che cerchiamo di costruire è una sorta di ”General Intellect” dei luoghi che ha lo scopo, perfettamente provvisorio, di facilitare l’emersione del “genius loci”, gettando alla critica roditrice dei topi tutti quei concetti della modernità che hanno ridotto i luoghi a non luoghi; e fornendo, per quanto ci è possibile, quelle arti, quei saperi, quelle tecniche accademiche e non, volte a permettere di curare tutta la ricchezza di relazioni che c’è già nel mondo che ci è dato. Va da se che nel nostro caso i luoghi sono rappresentati da comunità locali individuate per una prassi concreta, già esistente, sulle tematiche sopraccennate. In barba a tutti i facitori di costituzioni noi pensiamo all’Italia come una nazione in grado di superare se stessa, divenendo ciò che già è : una confederazione di cento, e non più di cento,libere città.

Le cose ed i cosi della Cosa Multimediale di Cosenza.
-Fine della seconda e ultima parte-
(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Franco Piperno: “da alcune generazioni, l’abbiamo aspettata; e ora siamo contenti di darle il benvenuto”.

Primissime note sulla Cosa Multimediale e sulla sua natura premoderna di “Regulae at directionem Ingenii”(prima parte), di FRANCO PIPERNO (PIPERNO@FIS.UNICAL.IT)

Premessa

Queste note, non delineano la Cosa che ci proponiamo di realizzare giacché quella cosa lì è solo marginalmente linguistica: puntiamo a qualcosa che sia, prima di tutto, suono ed immagine — per criticare l’universo asfittico delle parole. Così ad esempio, la parte linguistica-discorsiva, che pure deve apparire nella nostra Cosa, ha sempre un fondo musicale appropriato; ancora, l’uso ossessivo della satira è un modo di tradurre la capacità espressiva di un’allegra cattiveria nei riguardi della rappresentazione del reale che si fonda sulla sua mutilazione- come accade per la tematica della rappresentanza nella vita civile del paese. Va da sé che la vera difficoltà è redigere un numero zero e non discettare su come redigerlo. Nel seguito quindi noi, come tutti gli altri coautori, cercheremo di approntare a titolo d’esempio un numero zero.

I).
La crisi, come attesta la filologia della parola, la vera crisi s’intende, è quella attuale ha tutta l’aria di esserlo, è prima di tutto “giudizio”, “decisione”; in altri termini la crisi è tale perché costringe a decidere. Non ci si può sottrarre al giudizio. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante e per il quale noi, da alcune generazioni, l’abbiamo aspettata; e ora siamo contenti di darle il benvenuto.
La crisi a cui guardiamo è quella che, distruggendo ad un ritmo esponenziale la stessa ricchezza che con quello stesso ritmo aveva creato, opera per modificare concetti e sentimenti comuni in maniera ben più micidiale di quanto possano mai fare milioni di libri sovversivi, migliaia di scioperi, centinaia di rivolte. La crisi compie il suo lavoro con un automatismo pressoché perfetto. Per questo ci sembra di poter dire: “ scitate Catarì ca l’aria è doce”.

II).
La crisi sconvolge l’ordine delle cose presenti, strutturato come proiezione valorizzante dell’homo laborans– il nostro compito è rovesciare anche l’ordine delle idee presenti, che incorniciano la realtà e la riconducono all’economia.
Nella crisi emergono altre anime collettive che spesso sono proprio le stesse o fortemente analoghe a quelle che abitavano il mondo prescientifico, quello che si svolgeva prima della modernità.
Il giornale è il luogo dove questa emersione viene registrata e le si conferisce consapevolezza.
Un giornale dei luoghi, dove nella parola luogo è presente il tempo del luogo.
Esso si configura come un esodo linguistico dalla semantica dominante, come abbandono e distruzione delle parole chiave dell’opinione pubblica, dei moderni luoghi comuni; e la coniazione collettiva di altre parole, di nuovi-antichi luoghi comuni.
Così il lavoro viene ricondotto alla sua vera natura di lavoro salariato: attraverso la trappola dei posti di lavoro sacralizza l’iniziativa del capitale, facendola apparire come bisogno universalmente umano di progresso e benessere- bisogno definitivamente indotto, dal momento che nell’uomo è l’attività che ha una base istintuale e non il lavoro salariato.

III).
Non informazione, quindi, per uniformizzare il mondo, bensì comunicazione volta ad esaltare le differenze; non un universo attorno al valore crescente delle merci, ma un pluriverso strutturato sulle passioni collettive e la determinazione a soddisfarle- oltre la semplice ripetizione sinonimica.
La politica riportata alla sua origine: l’autogoverno della città- non gestione dell’economia, né per la sopravvivenza e nemmeno per il benessere; bensì la libera vita comunale: a ciascuno il suo, ad ognuno la sua buona vita.

IV).
Il nostro interlocutore non è quindi l’individuo generico, quello descritto dalle statistiche attraverso grandezze quantitative come il reddito, la speranza di vita, insomma l’italiano medio, elettore-consumatore, etc.- giacché l’individuo medio è una cattiva astrazione, una vuota convenzione linguistica che riduce l’essere umano ad un inutile ripetizione, un semplice uno in più, mediante la cui esistenza non viene acquisito niente, non viene aumentato nient’altro che un numero, e il cui senso è solo un inutile aggravio di entropia.

V ).
L’esodo, l’uscire dalla ripetizione sinonimica vuol dire porsi domande diverse da quelle che appassionano l’opinione pubblica, che è solo l’opinione dominante.
Così il dibattito sulla degradazione ambientale assume la forma di mobilitazione generale proprio perché occulta il processo di riconversione energetica- uno degli enormi affari attorno a cui l’occidente capitalistico tenta di riorganizzare il processo produttivo per competere con i così detti paesi emergenti. Laddove il problema non è quello di riconvertire, ma di ridurre drasticamente l’inutile dissipazione d’energia, il gigantesco aumento d’entropia che deriva dalla logica stessa del progresso industriale.

VI ).
Ancora un esempio: nell’opinione pubblica prevale un’attitudine sacrale verso la scienza interpretata come innovazione di prodotto. Laddove è proprio la tecno-scienza, a svalorizzare ciò che già abbiamo, a lasciar fuggire il presente, ad inventare continuamente nuovi bisogni creando nuove merci che ormai invadono anche la sfera propriamente biologica dell’uomo e moltiplicano a dismisura le relazioni mercantili tra gli esseri umani. Sicché il malaugurato progetto di riorganizzare gli studi universitari attorno alle necessità d’innovazione dell’impresa si presenta come la minaccia più seria all’autonomia del sapere, alla comune libertà di creazione simbolica, una delle facoltà tra le più singolari della specie “homo sapiens”; e va combattuta come se si fosse in presenza dell’origine stessa del male. Infatti, l’innovazione più radicale, quella che rompe fin nelle radici con la tradizione è quella che cessa di innovare e brevettare, perché il nuovo è solo la tradizione del moderno.

VII ).
Infine, a proposito di fabbricazione dell’opinione pubblica, si pensi nel dibattito sui grandi media, a come è stata affrontata la questione della morte: la morte, grazie alla tecno-scienza, è sentita come scandalo della vita e non come suo compimento. La morte conferisce perfezione alla vita, non è il contrario della vita, è solo il contrario della nascita. E’ singolare l’alleanza fra la tradizione cattolica e la tecnoscienza nel tentare di allungare senza limite la vita biologica -testimonia quale profonda degradazione del mondo naturale si sia realizzata nelle società a tardo capitalismo; dov’è andata la virtù d’accettare la morte? Dove è finito quel gesto tragico dell’intelletto, quello scarto eccedente di coscienza rispetto al nostro fratello lupo, alla nostra sorella tigre, all’impersonalità dello sguardo della pecora? Come scrive il poeta “un bel morire tutta la vita onora”.

VIII ).
Il nostro interlocutore è certo l’individuo ma quello sociale: l’individuo consapevole di possedere una coscienza enorme, potenzialmente all’altezza del genere. L’individuo medio ignora ciò che non ha nome; per la maggior parte crede solo all’esistenza di tutto ciò che ha un nome; e quanto alle parole, alcune fanno sì che ciò che non esiste esista, altre che non esista ciò che esiste.
Sicché, risulta più facile cambiare le nostre idee sul mondo piuttosto che il mondo. Su una moltitudine di milioni d’individui generici, solo un esiguo numero sente e guarda la vita come potenza, avventura. Il resto la subisce senza pensarci, come un ciclo da cui sono posseduti inconsapevolmente. (Beh, buona giornata)
-Fine della prima parte-.

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Crisi irreversibile della Seconda Repubblica: mentre implode il berlusconismo e va in crisi la rappresentanza politica, l’alternativa è nelle mani dell’autonomia dei cittadini.

di ILVO DIAMANTI-la Repubblica

LA SECONDA Repubblica è ormai alla fine. Vent’anni dopo l’avvio, arranca faticosamente. Insieme agli attori che hanno contribuito a fondarla e a plasmarla. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, per primi. In particolare, appare logoro il modello berlusconiano, imperniato sulla personalizzazione iperbolica del partito e del governo. Enfatizzata dall’uso dei media.

La Seconda Repubblica: ruota intorno al partito di Berlusconi. “Personale” e non personalizzato. Perché, a differenza di quel che avviene nelle altre democrazie occidentali, il partito non agisce come una macchina per selezionare e sostenere il leader. Viceversa, è il leader a creare il partito. A fornirgli regole e valori. Identità e organizzazione. Un “partito personale”, riassunto nel corpo del Capo (come ha precisato Mauro Calise nella nuova edizione del suo saggio, edito da Laterza nel 2010).

Ne asseconda le scelte e gli interessi. Ne riflette il destino. Un modello vincente, riprodotto da tutti. In base alla diversa disponibilità di risorse – simboliche, mediali e, naturalmente, economiche e finanziarie. Per prima la Lega, l’altra “madre” della Seconda Repubblica. Partito dei ceti medi privati, della provincia produttiva del Nord. Anticentralista e antiromano. Ha ereditato il retroterra elettorale della Dc, assumendo una forma organizzativa simile al vecchio Pci.

Un partito carismatico e personale a basi di massa. Che ha bisogno di Bossi per “stare insieme”. Perché Bossi ne incarna l’identità e la storia, l’immagine e il linguaggio. Anche dopo la malattia. Tanto più dopo la malattia. Bossi ha portato con sé la sofferenza fisica e l’ha esibita come un simbolo. L’icona della Padania promessa (per citare Biorcio).

La Seconda Repubblica fondata da – e su – Berlusconi, nel vuoto politico prodotto da Tangentopoli, è cresciuta a immagine e somiglianza del Cavaliere. Oggi, se ci guardiamo intorno, vediamo solamente imitazioni. Partiti personali, più o meno riusciti. Più o meno realizzati. Non solo la Lega di Bossi. Ma anche l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, cofondatore della Seconda Repubblica, in quanto figura simbolo di Mani Pulite. E Sel. Cosa era e cosa sarebbe senza l’affermazione di Nichi Vendola? D’altronde, la Federazione della Sinistra, la stessa Rc, dopo il “ritiro” di Bertinotti, sono divenute invisibili. Scivolando verso il Terzo Polo: come scindere l’Udc da Casini? Tanto meno l’Api da Rutelli, anche perché è rimasto ormai quasi solo (Tabacci fa storia a sé. Figura di valore, all’inseguimento ostinato della Prima Repubblica proporzionale). Anche Fli: è la Lista Fini. I Radicali, d’altra parte, per primi, hanno importato il modello americano, presentandosi negli anni Ottanta come lista personale, incarnata da Pannella e, poi, dalla Bonino.

Resta il Partito democratico, ultima stazione del viaggio del centrosinistra all’inseguimento di Berlusconi. Condotto, prima, attraverso l’Ulivo di Prodi e Parisi, sostenitori dell’Unione tra diverse culture politiche. Una sorta di Nuova Dc spostata a sinistra. Fino al Pd di Veltroni. Partito “esclusivo” e maggioritario. Fondato sulle primarie, usate non solo per selezionare i candidati alle cariche istituzionali – nazionali e locali. Ma per eleggere le cariche del partito. Una sorta di riproduzione dei vecchi congressi. Necessaria a regalare un’investitura popolare e di massa a “un” leader.

Ebbene, tutti questi esperimenti, realizzati con maggiore o minore successo, oggi appaiono gusci svuotati di senso e consistenza. Per la de-composizione del modello, che segue la crisi del fondatore. D’altronde, se l’identità e la coerenza del partito dipendono dalla figura e dal “corpo” del Capo, come pensare che il partito possa sopravvivere al suo declino? Ciò appare evidente nel caso del Pdl, un non-partito-personale. La scomparsa di Berlusconi – praticamente introvabile da settimane, mentre infuria la crisi interna e globale – ha s-travolto il Pdl. Non basterà l’investitura di Angelino Alfano a salvarlo. Perché è impensabile un partito personale senza l’unica persona che gli dia senso e risorse.

Diverso il discorso della Lega, che dispone di un’organizzazione diffusa sul territorio e di una classe politica sperimentata, a livello centrale e locale. Tuttavia, è attraversata da differenze interne profonde. A livello territoriale, ma anche di identità e cultura. E ancora: personali. È, probabilmente, questo il principale motivo per cui la leadership di Bossi – per quanto vissuta con crescente insofferenza all’interno – non viene ancora contestata apertamente e in modo diretto. Per timore del big bang. Tuttavia, se Berlusconi uscisse di scena, anche Bossi ne seguirebbe la sorte. Non solo, ma in questo caso, l’intero sistema dei partiti personali verrebbe centrifugato. Perderebbe il baricentro.

In fondo, è per questa ragione che il Pd ha dimostrato capacità di ripresa e di reazione, negli ultimi mesi. Perché resta un partito incompiuto e im-personale. Privo di un’organizzazione solida – leggera o pesante, non importa – e di una leadership condivisa. Semmai, divisa. Un partito in-definito, anche dal punto di vista della prospettiva. I recenti scandali, peraltro, ne hanno logorato la legittimazione morale. La pretesa “diversità”, rivendicata, trent’anni fa da Berlinguer, come ha rammentato nei giorni scorsi Eugenio Scalfari.

Da ciò la crisi profonda che scuote e disorienta il sistema politico e le istituzioni di questa Repubblica, modellata da Silvio Berlusconi a propria immagine e somiglianza. Ora che il motore è inceppato, l’intero universo appare disassato. Perché il declino dei leader avviene dopo che la personalizzazione ha logorato i partiti. Così ci avviamo a un futuro-prossimo-già-iniziato: senza leader e senza partiti. Ciò spiega il ruolo assunto dal presidente Napolitano. L’unico leader che goda di fiducia – in questo sistema privo di leader e di partiti. Per propri meriti “personali”, ma anche perché non ha partito.

Da ciò il paradosso della nostra Repubblica – fondata dai partiti e ridisegnata dai partiti “personali”. Oggi è divenuta una Repubblica presidenziale. Di fatto.

Non dobbiamo pensare, tuttavia, a una deriva inevitabile. La crisi dei partiti personali ha, infatti, sollecitato la reazione di molte “persone”, che agiscono nella società civile e sul territorio, ma anche alla periferia dei partiti. Ne abbiamo avuto esempio in occasione delle amministrative e dei referendum. Da ciò la speranza – e qualcosa di più. Che le persone di buona volontà e i mille segmenti del movimento invisibile cresciuto in questi mesi non si rassegnino.(Beh, buona giornata).  

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Proteste e movimenti in tutta Europa:”è indispensabile comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi.”

di ALAIN TOURAINE (traduzione di Elisabetta Horvat) -la Repubblica.

TRA i movimenti sorti in vari Paesi europei, il più importante è quello degli indignados, dal titolo del pamphlet di Stephane Hessel, pubblicato in Francia con un successo eccezionale, che si misura in milioni di copie. La loro protesta non è rivolta contro la politica di un governo, ma contro i sistemi politici in quanto tali. I giovani che manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che ai loro occhi non rappresentano più l’ opinione pubblica, e quindi svuotano la democrazia di ogni suo significato.

In questo grande movimento per una risurrezione democratica alcuni gruppi mettono addirittura in discussione la stessa democrazia, come sempre avviene nelle frange più radicali dei movimenti che si oppongono alle istituzioni politiche. Ma finoraè preminente la volontà di dar vita a una democrazia diretta, assembleare, all’ insegna delle assemblee generali delle università francesi nel maggio 1968. In Spagna questo movimento ha provocato la massiccia sconfitta dei socialisti alle elezioni, soprattutto in Catalogna.

In Grecia l’ opposizione nazionalista ha contestato con più forza gli accordi proposti dall’ Europa e dall’ Fmi per scongiurare il fallimento del Paese. Alla fine però questi accordi sono stati approvati, evitando alla Grecia una situazione catastrofica, che avrebbe messoa repentaglio l’ esistenza stessa dell’ euro. Se è vero che l’ opinione pubblica è stata largamente informata della loro esistenza, di fatto questi movimenti, sorti innanzitutto grazie alla comunicazione diretta attraverso le reti sociali quali Facebook o Twitter, non sono stati definiti con sufficiente chiarezza dai media, e in particolare dalla televisione.

È indispensabile invece comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi. Ciò che mettono in discussione è innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri termini, respingono l’ idea, insita nella rappresentazione classica della vita politica in Europa, che le rivendicazionie le proteste sociali e culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’ espressione più o meno completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo dei partiti politici.

Ecco perché dobbiamo porre la domanda più generale sollevata da questi movimenti: quale può essere oggi la base di legittimità dell’ azione politica? La sola formulazione di questa domanda ci getta nella confusione e nell’ inquietudine, anche perché tutti riconoscono che i partiti, i sindacati e le altre organizzazioni politiche hanno perduto gran parte della loro legittimità. La situazione è particolarmente inquietante in un Paese come la Spagna, entrato nella vita democratica solo dopo la morte di Franco, nel 1975 – anche se qui i timori non sono del tipo classico, dato che nessuno immagina la preparazione di un colpo di stato militare o di qualche altra azione antidemocratica.

Si può incominciare a comprendere meglio la natura e l’ importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una gioventù che si sente privata della propria qualità di cittadini ad opera dei politici, in particolare di sinistra – i quali a loro volta si considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto globale. Si spiega così la forza della carica emotiva di questi movimenti, e dell’ impegno dei partecipanti, che solo in misura minore fa riferimento al conflitto di interessi aperto tra i cittadini e una logica economica che rifiuta qualsiasi intervento degli attori, accusandoli di essere impotenti a livello mondiale. Per gli ideologi della globalizzazione tutto-e in modo particolare la vita politica – deve assoggettarsi alla logica del progetto economico mondiale.

Nel riconoscere la propria impotenza, i partiti tradiscono gli interessi, e soprattutto le esigenze e i progetti di chi ha perso ogni fiducia in loro, e nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Il razionalismo politico che animava le idee e le prassi della democrazia rappresentativa è al tracollo; i giovani non credono ormai più nella capacità d’ azione delle istituzioni politiche. È qualcosa di più di una crisi economica e persino politica. Siamo in presenza di una crisi più generale, di perdita di senso, non di una politica, ma della politica stessa.

Questa crisi della politica mette in discussione più particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’ intendono come i difensori dei diritti e delle libertà della popolazione. Al di là del problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile, non siamo più nell’ ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità del sistema sociale.

Nel caso italiano, la lotta si concentra innanzitutto su Silvio Berlusconi, sia come individuo che come capo del governo; e ciò spiega il suo carattere meno radicale,a confronto col livello raggiunto in breve tempo dal movimento spagnolo. Ma in Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori, delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un potere autoritario. Non ho parlato di movimenti rivoluzionari: ho forse sbagliato?

Sappiamo che una crisi politica può diventare rivoluzionaria se si verifica un incidente, una scintilla, come nei casi dei manifestanti uccisi dalle forze armate o dalla polizia, o di chi si è immolato per rovesciare il potere costituito con le sue insopportabili imposizioni. Di fatto però, i movimenti attuali sono lontani dall’ essere rivoluzionari, data l’ estrema distanza tra le motivazioni dei partecipanti e le categorie delle azioni politiche possibili. Ma andiamo oltre: i movimenti attuali possono avere in sé alcuni elementi di debolezza, se non addirittura di autodistruzione, dato che il rifiuto dell’ azione dei partiti può ridurli a trovare il proprio dinamismo soltanto nel timore della repressione e delle lotte interne. L’ azione fondata sulla paura può indurre i movimenti ad anteporre la propria unità a qualunque altro obiettivo. Con come conseguenza il rischio di scissionia catena,o al contrario quello di un nuovo orientamento in senso autoritario. La primavera araba potrà far rinascere in quei Paesi la capacità d’ azione politica solo se ad animarla non sarà la paura del nemico, ma la volontà di affermare i diritti di tutti, al disopra di qualunque obiettivo propriamente politico.

In generale, le rivoluzioni conducono in brevissimo tempo a nuovi regimi autoritari, imposti con la forza. Una soluzione democratica non può venire che da una separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le ricostituite forze politiche. Quanto più un movimento è forza di liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità di far rinascere una democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto.

Se i Paesi occidentali sognano di istituire nel mondo arabo democrazie di tipo occidentale, assegnando la priorità ai partiti politici, non faranno che contribuire alla decomposizione dei movimenti. Al contrario, solo proteggendo i movimenti da tutti gli attacchi, e in particolare da quelli provenienti dai regimi autoritari, si potranno rafforzare le opportunità della democrazia; in altri termini, qui la priorità va data ai movimenti, a fronte di ogni tentativo di ricostruzione di attori propriamente politici.

Se anche in futuro il movimento sarà animato dalla volontà di far riconoscere le libertà politiche, vedrà rafforzate le sue opportunità di democratizzazione, mentre al contrario, quanto più la sua lotta tenderà a politicizzarsi, o addirittura a militarizzarsi, tanto più il suo futuro sarà incerto e minacciato. In Libia l’ iniziativa europea (e in misura minore quella americana) è stata indispensabile per fermare la controffensiva di Gheddafi con le sue prevedibili, brutali conseguenze; ma è urgente che essa si autoimponga dei limiti, per non condurre un movimento di liberazione a trasformarsi in guerra ideologica, e a farsi strumento di un nuovo potere autoritario.

Lo stesso ragionamento porta ad auspicare il rafforzamento del movimento degli indignados in Spagna e in Italia, e la sua trasformazione in Grecia, come forza di difesa dell’ opinione pubblica e non come forza propriamente politica. Sembra che i greci l’ abbiano compreso, dato che il loro parlamento ha finito per decidere di non lanciarsi in un’ azione di rottura col sistema europeo. (Beh, buona giornata).

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Riuscirà l’intrattenimento a distrarre milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece una spinta dal basso, attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti?

Avevamo intuito che il Teatro Valle occupato sarebbe potuto presto diventare una piccola fucina incandescente di idee. In effetti, le assemblee e i dibattiti sembrerebbero contribuire a una sorta di consapevolezza, una specie di senso di appartenenza alla classe dei lavoratori cognitivi. E come tali, col tempo sentire di essere al centro di un attacco sociale strategico per la sopravvivenza della casta dei capitalisti finanziari europei, che, per difendere i loro interessi, hanno scatenato una guerra civile senza esclusione di colpi contro la cultura, l’istruzione e la scuola pubblica, l’università e la ricerca, il cinema e il teatro d’autore costringendo milioni di persone, nel miglior periodo della loro stessa vita alla schiavitù del precariato.

L’obiettivo è pagare le idee creative il meno possibile, spingere i talenti verso forme di intrattenimento, utili a generare profitti per i grandi media. L’intrattenimento è il nuovo oppio dei popoli. È stato giustamente definito la più potente arma di distrazione di massa: dopo la catastrofe finanziaria globale del 2008 e la immediata ripercussione sull’economie locali, la crisi economica pesta duro le classi sociali più deboli, e premia e arricchisce e fa sempre più proterve le classi dominanti e i sodali dei poteri forti.
Lo stato sociale è ridotto a un colabrodo dalle pervicaci politiche neoliberiste, la sinistra, geneticamente modificata nel centrosinistra si è indebolita, nello spirito e nel corpo elettorale, dunque non assolve più la funzione di spingere verso la redistribuzione controllata della ricchezza prodotta.

È vero, come sostiene qualcuno, che in Europa e in Nord Africa sta prendendo forma la coscienza collettiva di dover essere autonomi dalle istituzioni e dai partiti. È vero che le grandi proteste di massa che hanno attraversato il Vecchio Continente sono i prolegomeni di una insurrezione di massa contro le misure economiche imposte dagli organismi europei ai governi nazionali. Esse risultano sempre più inadeguate alla difesa dei redditi più bassi, mentre appare come una intollerabile provocazione di classe il fatto che sia cominciata la ripresa economica, mentre i salari continuano a scendere e la disoccupazione a salire.

Riuscirà l’intrattenimento a distrarre i milioni di persone e a tenerle buone e docili comparse del mercato o invece, in barba al televoto, una spinta dal basso, autonoma e organizzata attraverso i social network manderà all’aria lo stato delle cose economiche esistenti, per dare vita a un nuovo ordine, a una nuova società europea, a nuovi principi economici e finalità produttive? Si riuscirà a combinare correttamente la produzione autonoma di energie rinnovabili con la produzione di nuove e promettenti idee di socialità e produzione di ricchezza?

Riusciranno la cultura, il sapere, le arti, la ricerca, la creatività a diventare il propellente di un potente motore di cambiamento, capace di spingere l’Europa a superare il Capitalismo? In Europa il capitalismo è nato, e dunque giusto sarebbe che qui se ne celebrasse il funerale.
(Beh, buona giornata).

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Appello di Giorgio Cremaschi e altri: 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.

Dobbiamo fermarli
5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.
Ci incontriamo il 1° ottobre a Roma

E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.

A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.

Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.
Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile.

La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.

Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale.

L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati.

L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.

Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.

La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.

Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.

Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.

Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.

Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:
1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.
2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.
3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.
4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.
5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.

Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.

Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.
Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.

Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.

Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.

Vincenzo Achille (studente AteneinRivolta Bari)
Claudio Amato (segr. Gen. Fiom Roma Nord)
Adriano Alessandria (rsu Fiom Lear Grugliasco)
Fausto Angelini (lavoratore Comune di Torino)
Davide Banti (Cobas lavoro privato settore igiene urbana)
Imma Barbarossa (femminista, docente di liceo in pensione)
Giovanni Barozzino (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Giovanna Bastione (disoccupata)
Alessandro Bernardi (comitato acqua, Bologna)
Sergio Bellavita (segr. naz. Fiom)
Sandro Bianchi (ex dirigente Fiom)
Ugo Bolognesi (Fiom Torino)
Salvatore Bonavoglia (Rsu Cobas scuola normale superiore Pisa)
Laura Bottai (impiegata, Filt-Cgil Arezzo)
Massimo Braschi (rsu Filctem TERNA)
Paolo Brini (Comitato Centrale Fiom)
Stefano Brunelli (rsu IRIDE Servizi)
Fabrizio Burattini (direttivo naz. Cgil)
Sergio Cararo (direttore rivista Contropiano)
Carlo Carelli (rsu Unilever, direttivo naz. Filctem Cgil)
Massimo Cappellini (Rsu Fiom Piaggio)
Francesco Carbonara (Rsu Fiom Om Bari)
Paola Cassino (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Stefano Castigliego (Rsu Fiom Fincantieri Marghera – Venezia)
Francesco Chiuchiolo (rsa ARES)
Eliana Como (Fiom Bergamo)
Danilo Corradi (dottorando Università “Sapienza” – Roma)
Gigliola Corradi (Fisac Verona)
Giuseppe Corrado (Direttivo Fiom Toscana)
Giorgio Cremaschi (pres. Comitato centrale Fiom)
Dante De Angelis (ferroviere Orsa)
Riccardo De Angelis (rsu Telecom Italia coord. lav. autoconvocati Roma)
Paolo De Luca (FP Cgil Comune di Torino)
Daniele Debetto (Pirelli Settimo Torinese)
Emanuele De Nicola (segr. Gen. Fiom Basilicata)
Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani)
Francesco Doro (Rsu OM Carraro Padova, CC Fiom)
Valerio Evangelisti (scrittore)
Marco Filippetti (Comitato Romano Acqua Pubblica)
Andrea Fioretti (rsa Flmu Cub Sirti coord. lav. autoconvocati Roma)
Roberto Firenze (rsu Usb Comune di Milano)
Eleonora Forenza (ricercatrice universitaria)
Delia Fratucelli (direttivo naz. Slc Cgil)
Ezio Gallori (macchinista in pensione, fondatore del Comu)
Evrin Galesso (studente AteneinRivolta Padova)
Giuliano Garavini (ricercatore universitario)
Michele Giacché (Fincantieri, Comitato Centrale Fiom)
Walter Giordano (rsu Filctem AEM distribuzione Torino)
Federico Giusti (Rsu Cobas comune di Pisa)
Paolo Grassi (Nidil)
Simone Grisa (segr. Fiom Bergamo)
Franco Grisolia (CdGN Cgil),
Mario Iavazzi (direttivo nazionale Funzione Pubblica Cgil)
Tony Inserra (Rsu Iveco, Comitato Centrale Fiom)
Antonio La Morte (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Massimo Lettieri (segr. Flmu Cub Milano)
Francesco Locantore (direttivo Flc Cgil Roma e Lazio)
Domenico Loffredo (delegato Fiom Pomigliano)
Pasquale Loiacono (rsu Fiom Fiat Mirafiori)
Francesco Lovascio (sindacalista Usb Livorno)
Mario Maddaloni (rsu Napoletanagas, direttivo naz. Filctem Cgil)
Eva Mamini (direttivo naz. Cgil)
Anton Giulio Mannoni (segr. Camera del lavoro di Genova)
Maurizio Marcelli (Fiom nazionale)
Gianfranco Mascia (giornalista)
Armando Morgia (Roma Bene Comune)
Antonio Moscato (storico)
Massimiliano Murgo (Flmu Cub Marcegaglia Buildtech, coord. lav. uniti contro la crisi Milano)
Alessandro Mustillo (studente universitario, Roma)
Stefano Napoletano (rsu Fiom Powertrain Torino)
Antonio Paderno (rsu Fiom Same Bergamo)
Alfonsina Palumbo (dir. Fisac Campania)
Alberto Pantaloni (rsu Slc Cgil Comdata, assemblea lav. autoconvocati Torino)
Marcello Pantani (Cobas lavoro privato Pisa)
Massimo Paparella (segreteria Fiom Bari)
Emidia Papi (esecutivo naz. Usb)
Pietro Passarino (segr. Cgil Piemonte)
Matteo Parlati (Rsu Fiom Cgil Ferrari)
Angelo Pedrini (sindacalista Usb Milano)
Licia Pera (sindacalista Usb Sanità)
Alessandro Perrone (Fiom-Cgil, coord. cassintegrati Eaton Monfalcone)
Marco Pignatelli (lavoratore Fiom licenziato Fiat Sata Melfi)
Antonio Piro (rsu Cobas Provincia di Pisa)
Ciro Pisacane (ambientalista)
Rossella Porticati (Rsu Fiom Piaggio)
Pierpaolo Pullini (Rsu Fiom Fincantieri Ancona)
Mariano Pusceddu (rsu Alenia Caselle-Torino, direttivo Fiom Piemonte)
Stefano Quitadamo (Flmu Cub Coordinamento cassintegrati Maflow di Trezzano S/N – Milano)
Margherita Recaldini (rsu Usb Comune di Brescia)
Giuliana Righi (segr. Fiom Emilia Romagna)
Bruno Rossi (portuale, in pensione, Spi-Cgil)
Franco Russo (forum “diritti e lavoro”)
Michele Salvi (rsu Usb Regione Lombardia)
Antonio Saulle (segreteria Camera del Lavoro Trieste)
Marco Santopadre (Radio Città Aperta)
Antonio Santorelli (Fiom Napoli)
Luca Scacchi (ricercatore università, segreteria FLC Valle d’Aosta, direttivo reg. Cgil VdA)
Massimo Schincaglia (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Yari Selvatella (giornalista)
Giorgio Sestili (studente AteneinRivolta Roma)
Giuseppe Severgnini (Fiom Bergamo)
Nando Simeone (coord. lav. autoconvocati, direttivo Filcams Cgil Lazio)
Luigi Sorge (Usb Fiat Cassino)
Francesco Staccioli (cassintegrato Alitalia, esecutivo Usb Lazio)
Enrico Stagni (direttivo Cgil Friuli Venezia Giulia)
Antonio Stefanini (direttivo FP Cgil Livorno)
Alessia Stelitano (studente AteneinRivolta Reggio Calabria)
Alioscia Stramazzo (rsa Azienda Gruppo Generali)
Antonello Tiddia (minatore Sulcis Filctem-Cgil)
Fabrizio Tomaselli (esecutivo naz. Usb)
Luca Tomassini (ricercatore precario Cpu Roma)
Laura Tonoli (segreteria Filctem-Cgil Brescia)
Cleofe Tolotta (Rsa Usb Alitalia)
Franca Treccarichi (direttivo FP Cgil Piemonte)
Arianna Ussi (coordinamento precari scuola Napoli)
Luciano Vasapollo (docente università La Sapienza)
Paolo Ventrice (rsu IRIDE Servizi)
Antonella Visintin (ambientalista)
Emiliano Viti (attivista Coord. No Inceneritore Albano – RM)
Antonella Clare Vitiello (studente Ateneinrivolta Roma)
Nico Vox (Rsu Fp-Cgil Don Gnocchi, Milano)
Pasquale Voza (docente Università di Bari)
Anna Maria Zavaglia (insegnante, direttivo nazionale Cgil)
Riccardo Zolia (Rsu Fiom Fincantieri Trieste)
Massimo Zucchetti (professore Politecnico Torino)

Per adesioni mail a:
– g.cremaschi@fiom.cgil.it
– burattini@lazio.cgil.it
– marco.santopadre1@tim.it

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Cresce il dibattito al Teatro Valle occupato. Ecco l’intervento di BIFO.

Far saltare il dispositivo Maastricht e poi? di Franco Berardi (BIFO)-teatrovalleoccupato.it

Rivolte nelle strade di Londra di Roma e di Atene, occupazione di centinaia di piazze nelle città spagnole. Quel che è accaduto tra l’autunno 2010 e la primavera 2011 non è stata un’improvvisa effimera esplosione di rabbia ma l’inizio di un processo che continuerà per anni e crescerà raccogliendo forza e visione strategica.

Un processo simile è iniziato nelle città arabe. Quella che vediamo là non è una rivoluzione per la democrazia, come dicono gli ipocriti occidentali. Non è in vista nessuna democrazia nei paesi arabi, né alcun segnale di una stabilizzazione post-rivoluzionaria. Quel che vediamo in Nord Africa come nel Medio Oriente è l’emergenza di una nuova composizione sociale fondata sul lavoro precario cognitivo, sull’intelligenza sociale collettiva che è sottoposta al dominio dell’ignoranza religiosa e della privatizzazione economica e della corruzione. L’inizio di una rivolta destinata a convergere con quella europea.

Dieci anni fa, in seguito al dotcom crash che segnò la crisi della new economy, il semiocapitalismo finanziario iniziò lo smantellamento della forza politica dell’intelletto generale.

La privatizzazione delle risorse comuni della conoscenza e della tecnologia, la precarizzazione e lo sfruttamento crescente del lavoro cognitivo avanzarono insieme. Ora, in seguito al collasso finanziario del settembre 2008 il capitalismo finanziario ha lanciato l’aggressione finale. La spesa sociale viene tagliata, la scuola pubblica e l’università vengono distrutte, la ricerca è sottoposta a strategie di profitto di breve termine. L’insieme della società viene aggredita, impoverita, minacciata e umiliata, per imporle di pagare il debito accumulato dalla classe finanziaria.

Nei prossimi mesi le lotte sono destinate a proliferare radicalizzarsi. Questo è inevitabile, perché è la sola alternativa alla miseria e alla depressione generale.

Combatteremo uniti. Ma non basterà. Il problema che dobbiamo affrontare adesso è un problema d’immaginazione, non di forza. Cosa verrà fuori dalla insurrezione che si prepara in Europa?

Tutti vediamo il pericolo del crollo d’Europa: il ritorno dei peggiori incubi è già percepibile nell’espansione del nazionalismo del populismo mediatico e del razzismo nella psiche sociale.

L’assassino nazista di Oslo e i figuri leghisti che si riuniscono a Monza per celebrare i loro riti razzisti fanno parte dello stesso processo: la frustrazione ignorante e il fanatismo si saldano in una miscela tremenda di tipo nazista che è già forza di governo in paesi come l’Ungheria.

L’Unione Europea, che nel dopoguerra ha rappresentato una speranza di solidarietà sociale, negli anni della svolta neoliberista venne riprogrammata come congegno di governance monetarista, con una fissazione centrale: ridurre il costo del lavoro, ridurre la quota di reddito che va ai lavoratori.

In ossequio al nuovo dogma liberista e monetarista, nel 1993 venne costruito un dispositivo politico-finanziario che prese nome di Trattato di Maastricht.

Questo dispositivo comporta alcuni criteri che debbono essere rispettati dagli stati non vogliano essere espulsi dall’UE. I criteri fondamentali sono questi:

Il rapporto tra deficit pubblico e PIL non deve essere superiore al 3%.
Il rapporto tra debito pubblico e PIL non deve essere superiore al 60% .
Il tasso d’inflazione non deve superare l’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
Il tasso d’inflazione a lungo termine non deve essere superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.

L’ordine monetario dell’unione europea viene sottoposto alla supervisione della Banca Centrale Europea, il cui statuto prevede una completa autonomia rispetto alle decisioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, e stabilisce una finalità primaria dichiarata, che è quella di contenere l’inflazione.
Questo ferreo dispositivo giuridico-finanziario sul quale si fonda l’Unione Europea funziona come un automatismo che governa i processi di decisione politica e in ultima analisi costituisce un limite per le possibilità di immaginazione della società europea. Funziona in modo tale da costringere i paesi dell’Unione a ridurre il costo del lavoro, a ridurre la massa di risorse investite nel benessere della società, per contenere l’inflazione, per ridurre il deficit pubblico e per aumentare il profitto finanziario.

Naturalmente quegli stessi obiettivi si potrebbero perseguire adottando strategie differenti, come quella di tassare le transazioni finanziarie e di tassare i grandi patrimoni. Ma nel dispositivo neoliberista queste misure sono interdette, impronunciabili. Di conseguenza l’applicazione dei criteri di Maastricht ha prodotto negli ultimi due decenni uno spostamento gigantesco di risorse dal lavoro verso il capitale e dalla società verso la rendita finanziaria.

L’Europa è un continente ricco, ricchissimo. Milioni di tecnici, ingegneri, medici, progettisti, architetti, poeti, artigiani, biologi, insegnanti, donne e uomini di ingegno e cultura raffinata hanno reso questo continente agiato, comodo, piacevole. Da cinque secoli la borghesia, classe laboriosa e disciplinata ha progettato le città, le fabbriche, le strutture della vita civile. Una classe operaia vastissima, addestrata, qualificata e costretta alla disciplina ha innalzato ponti e grattacieli, prodotto milioni di macchine e macchinette.

Con la lotta sindacale e politica la classe operaia ha imposto alla borghesia di condividere parte della ricchezza prodotta, così che una parte vastissima, maggioritaria della società europea ha potuto godere dei prodotti del lavoro industriale, e ha potuto avere accesso ai servizi che rendono la vita tollerabile, talvolta perfino piacevole.

Poi è arrivata la deregulation, la competizione internazionale si è fatta sempre più feroce, e la borghesia industriale ha dovuto cedere il posto di comando a una classe eterogenea, più spregiudicata e poliglotta, spesso arricchita grazie ad affari criminali, che detiene e maneggia un capitale immateriale, puramente semiotico: la classe detentrice del capitale finanziario.
Si tratta di una classe de territorializzata che possiamo definire come classe virtuale, in quanto essa sfugge all’identificazione fisica, territoriale, mentre pure i suoi movimenti e le sue scelte producono effetti visibilissimi nel corpo vivente della società. La classe finanziaria ha carattere virtuale perché essa non si presenta con un volto riconoscibile, ma piuttosto agisce come pulviscolo di innumerevoli scelte compiute da agenzie impersonali, come sciame guidato da una volontà inconsapevole.

Per quanto non identificabile e pulviscolare la classe de territorializzata della finanza sta imponendo all’Unione Europea il dogma secondo cui la società europea deve diventare povera, miserabile, infernale per essere competitivi sui mercati internazionali.

Il dispositivo Maastricht ha cominciato a funzionare come un sistema di automatismi tecno-finanziari il cui effetto è il contenimento e la riduzione della spesa sociale e l’aumento della rendita finanziaria.
Questi criteri non sono affatto naturali né inevitabili, ma neppure sono il risultato lineare di scelte politiche individuabili. Essi si impongono con la forza dell’automatismo. Possiamo definirli come dispositivo, cioè un prodotto dell’azione umana che si sottrae alla volontà e si sovrappone all’azione umana come un automatismo che pre-dispone l’azione umana a ripetersi. Dopo il 2008, dopo la crisi dei mutui immobiliari americani e il successivo sconquasso della finanza occidentale, la rigidità dei criteri di Maastricht ha impedito qualsiasi flessibilità della decisione politica.

Il dispositivo Maastricht ha fatto fallimento. La crisi greca e tutto quel che segue é dimostrazione del fatto che questi criteri non hanno prodotto dei buoni risultati. Andrebbero rivisti, in modo da rilassare un po’ il respiro degli europei, in modo da restituire risorse alla società.
Ma l’autorità europea (che è un’autorità unicamente finanziaria, dal momento che l’autorità politica non conta niente) applica questi criteri in maniera tanto più fanatica quanto più fallimentare.

A partire dalla crisi greca della primavera 2010 l’effetto del dogmatismo neoliberista e monetarista è visibile: peggioramento delle condizioni di vita della società, aumento della disoccupazione, smantellamento delle strutture della vita civile e dei servizi sociali, insomma impoverimento generalizzato.

La classe finanziaria (le banche, le assicurazioni, il mercato borsistico), che pure hanno lucrato sul rischio (ad esempio imponendo alti interessi sui Credit Default Swaps) ora rifiutano di assumersi le conseguenze di quel rischio, e vogliono scaricarlo sulla società.
Per pagare il debito accumulato negli ultimi decenni dalla classe finanziaria, la società europea viene sottoposta a un dissanguamento generalizzato:
il sistema educativo, che costituisce il pilastro fondamentale per lo sviluppo civile, viene de finanziato, ridimensionato, impoverito, privatizzato in parte.
Il sistema sanitario viene definanziato e tendenzialmente privatizzato.
Le strutture di trasporto e di approvvigionamento energetico vengono privatizzate e quindi sottoposte a logiche economiche del tutto estranee ai bisogni della collettività e funzionali soltanto agli interessi del ceto finanziario, e agli obiettivi strategici della Banca centrale.

Insomma, la società europea viene drasticamente impoverita, tendenzialmente devastata e imbarbarita, pur di non scalfire il castello d’acciaio della cosiddetta stabilità finanziaria.
Se questo è il prezzo dell’adesione all’Unione Europea, presto nessuno vorrà più pagarlo, e allora si rischia il crollo dell’Unione, la cui conseguenza può essere la moltiplicazione dei populismi territorialisti e mediatici, il diffondersi della peste fascista e razzista ai quattro angoli del continente. l’Italia ha anticipato questa tendenza, con il lungo predominio del partito mafioso di Berlusconi e del partito razzista di Bossi.

L’insurrezione europea è nell’ordine dell’inevitabile. Il problema non è organizzarla, armarla. Essa si organizza da sé. Il problema è immaginarne l’esito, costruire le istituzioni che rendano possibile l’autonomia della società dalla catastrofe inarrestabile dell’economia capitalista.
(Beh, buona giornata).

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Cinema democrazia Finanza - Economia - Lavoro Teatro

Le ragioni del Teatro Valle sono a monte.

Succede di aver talmente ragione da capitombolare dalla parte del torto. E’ successo a Goffredo Fofi che sulle pagine de l’Unità ha accusato gli occupanti del teatro Valle di Roma di essere nostalgici dell’assistenzialismo culturale. A quelli non è andata giù, e a ragione.

Perché i motivi dell’occupazione del teatro sono più grandi delle clientele, mafiette e greppie che hanno caratterizzato la produzione cinematografica e teatrale italiana, col risultato di dare vita a sprechi di danaro pubblico e a insulse e dimenticabili opere artistiche. Sono anche più grandi del conformismo di sempre della sinistra parlamentare, ma anche del suo rinato attivismo di questi giorni, tutto imperniato a far sopravvivere il teatro Valle, col coinvolgimento finanziario degli enti locali. Guardano l’albero, ma non vedono la foresta.

Il fatto è che i tagli alla cultura operati nell’ultima manovra finanziaria del governo altro non sono che tagli della parte residua dei tagli precedenti. Il che autorizza a pensare e dunque a dire con chiarezza che chiudere i rubinetti alla cultura italiana è una strategia, prima ancora che una necessità di bilancio. La qual cosa è straordinariamente in sincronia con i tagli di bilancio al finanziamento della scuola, dell’università e della ricerca.

Questa strategia è stata annunciata dal ministro dell’Economia, l’uomo delle forbici, circa un anno fa. “Certi diritti non possiamo più permetterceli”, ebbe a dire Tremonti, molto prima dell’emergenza speculativa internazionale che si è abbattuta sul Paese, proprio grazie alle politiche del governo Berlusconi, cosa, sia detto per inciso, che non è una tesi del dibattito, ma è un fatto accertato e certificato dai mercati internazionali.

Sostenere che l’attuale governo non si può permettere di finanziare certi diritti è la confessione sincera di colpevolezza, al di la di ogni ragionevole dubbio. Perché i diritti non sono merci che a un certo punto esauriscono sullo scaffale del supermarket. La Costituzione non è un menù sul quale un asterisco ci avverte che questo o quel diritto potrebbe essere congelato.

Da questo punto di vista, contrariamente a quanto dice Fofi, si ha l’impressione che gli occupanti del Valle abbiamo le idee chiare. Tanto che la risonanza che sta avendo l’occupazione è un motore mentale che è in grado di produrre idee nuove , quelle stesse di cui Fofi lamenta la mancanza. La verità è che la lotta è una eccellente palestra di ingegni, e il Valle sembra un piccola, ma incandescente fucina. Fosse solo per questo, l’occupazione del Valle andrebbe difesa, propagandata, aiutata con tutti i mezzi.

La piattaforma di lotta non è così chiara come la vorrebbe qualcuno? Sempre succede che chi comincia ha ragioni che le parole ancora non sanno spiegare. Cionondimeno, dall’occupazione del Valle di Roma arriva, sottoforma di metalinguaggio, forte e chiaro un bel messaggio: l’Italia non solo bisogno di una alternativa di governo, l’Italia ha forte consapevolezza di un’alternativa politica, economica, sociale e culturale. L’occupazione del teatro Valle, nella sua specificità, che sembrerebbe riguardare attori, autori, registi e maestranze è in realtà un tassello di un mosaico che rappresenta il cambiamento in atto, tassello che va a collocarsi accanto alle novità espresse dalle amministrative di Milano e Napoli, accanto allo straordinario pronunciamento di massa su i referendum, accanto alla protesta No tav.

Al Valle c’è entusiasmo collettivo, proprio quello che servirebbe per contagiare di nuovo il Paese intero. C’è anche forte il senso di una consapevole autonomia dalle politiche culturali del centrosinistra, contro le quali le parole di Fofi sono sacrosante. Ma il bello delle lotte è che, qualunque risultato immediato ottengano, esse fanno bene alla salute democratica di un Paese.

Per l’attuale ministro della Cultura, che viene dal management di Publitalia,e che ha detto che per quanto allegra l’occupazione del Valle è pur sempre abusiva, evidentemente gli attori servono solo a fare i testimonial pubblicitari. Se da protagonisti delle fiction diventano attori della realtà, bisogna mandargli la polizia? Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Ancora a proposito dei simili destini dello Squalo e del Caimano.

Intercettazioni illegali. “Tramonti incrociati” dello Squalo Murdoch e del Sultano Berlusconi, di Gianni Rossi-articolo21.com

Entrambi sono tra gli uomini più ricchi al mondo, anche se la classifica della rivista americana Forbes li inserisce al 118° e al 122° posto per quest’anno. E comunque Berlusconi e Murdoch hanno molte cose in comune. Sposati più volte, amanti delle belle donne possibilmente giovani, con una nidiata di figli e problemi di successione alla guida dei rispettivi imperi, il Sultano di Arcore viaggia tra i 9 e i 7,8 miliardi di dollari come ricchezza personale, mentre lo Squalo australo-americano si aggira tra i 6,3 e i 7,6 miliardi di dollari. Anche se, sempre secondo Forbes, Murdoch (13° posto) è ritenuto più potente di Berlusconi (14° posto) nel ranking speciale sulle capacità di influenzare il mondo degli affari e quello della politica. Le altre similitudini non finiscono qui: entrambi sono feroci populisti, neo-conservatori, operano spregiudicatamente con i media, influenzano i mercati e la politica. Non amano essere contraddetti, non si scusano mai (la colpa è sempre degli altri, dei loro collaboratori e, comunque, loro non sapevano né erano stati messi a conoscenza dei fatti, tutt’al più non ricordano), si ritengono immortali e non delegano in realtà il proprio potere aziendale. Qui finiscono le somiglianze e si entra nel paludoso terreno dei conflitti di interessi. Meno apparenti per lo Squalo, macroscopici per il Sultano!

Murdoch appartiene alla “scuola anglosassone”, per la quale chi sceglie la strada di fare l’imprenditore non può diventare un politico di professione, ma certo può influenzare prepotentemente l’azione dei politici con finanziamenti più o meno occulti, ne determina ascese e cadute con le campagne mediatiche e anche con “armi sporche”, tipo intercettazioni, dossier e corruzione di agenti speciali della polizia, come sta uscendo fuori dalle inchieste giudiziarie sul gruppo News Corporation in Gran Bretagna (ma anche negli Stati Uniti e ora in Australia).

Murdoch, il più potente uomo sulla terra nel campo dei media ora dovrà rispondere delle azioni dei suoi più stretti collaboratori in giro per tre continenti, sottoporsi alla “gogna mediatica”, con le riprese TV delle sue audizioni, come è successo a Londra davanti ai parlamentari della Commissione Interni della Camera dei Comuni. Lo Squalo è stato “denudato”, i suoi balbettii infiorettati di “non so, non mi ricordo” hanno rivelato l’altra faccia dello strapotere di colui che, da oltre 30 anni, ha condizionato le elezioni dei premier britannici, dalla conservatrice Thatcher al neo-laburista Blair, al neo-conservatore Cameron; ma ha anche influito sulle sorti dei governi in Australia e negli Stati Uniti.

Un “imperatore” senza confini che ha fomentato le velleità bellicose di potenti dell’Occidente contro “la civiltà islamica”, portandoci a distruggere città, società, culture ed esseri umani ovunque ci fossero “tesori energetici” da riportare sotto il controllo di alcune multinazionali. Uno Squalo che è riuscito a condizionare i mercati finanziari americani ed europei, contrastando con tutte le sua potenza di fuoco informativa la nascita e l’affermarsi dell’Euro, determinando l’opinione pubblica inglese a schierarsi contro l’ingresso di Londra nell’Eurozona, agitando le peggiori menzogne nei confronti del presidente degli Stati Uniti Obama, fino a spingere i Repubblicani più oltranzisti dei “Tea Party” a contrastarlo sul piano del risanamento del debito pubblico, rischiando così il fallimento di Washington.

Da una parte il suo dogma dell’ Euroscetticismo, che si va estendendo come un virus nei paesi del Nord e dell’Est Europa, dove ha messo radici con i suoi media; dall’altro la sua doppia morale capitalistica, con la difesa ad oltranza delle regole neo-liberismo monetarista, ma furbescamente facendone carta straccia utilizzando sotterfugi illegalità. Ora ci si attende che la giustizia inglese arrivi presto alla scoperta delle responsabilità dirette dei vertici di News Corporation, dopo gli arresti dei big e le dimissioni dei responsabili di Scotland Yard. Soprattutto, però, dovrebbero battere un colpo le Autorità di garanzia europee e le istituzioni dell’Unione Europea contro l’uso distorto dei media.

Una lezione viene comunque da Londra. Una lezione di civiltà, di senso delle responsabilità e di garantismo. I sospettati dello scandalo si sono dimessi dai loro incarichi e sono stati arrestati, poi rilasciati su cauzione, non hanno aspettato di essere rinviati a giudizio. Un capo del governo ha dovuto sostenere un duro confronto alla Camera dei Comuni con l’opposizione, senza sottrarsi alle accuse più dirette. La sua poltrona ora traballa, ma l’opinione pubblica britannica è giudice degli eventi grazie ad una “copertura mediatica”, ad una stampa libera che non strilla e starnazza come accade in Italia contro la “giustizia politica…sommaria…a tempo”, contro “il tintinnare di manette” o “le toghe rosse” che vorrebbero rovesciare la volontà popolare espressa con il voto. Non si attendono, insomma, che le sentenze arrivino in giudicato, per poter esprimere giudizi etici sui comportamenti degli uomini e delle donne “del potere”. Ma è proprio così che si difendono le regole della democrazia!

E’ una lezione che la sinistra dovrebbe prendere ad esempio, quando si affrontano casi inquietanti come le varie cricche, da quella del G8 alla P3 e alla P4, che da decenni all’ombra del regime berlusconiano stanno spolpando lo Stato e imponendo la propria “politica amorale”. Altro che leggi bavaglio contro le intercettazioni, che invece hanno aiutato a scoprire il marciume di questo regime (da ultimo quelle relative al caso di “Annozero”, che è costata a Berlusconi l’iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Roma per abuso d’ufficio). Quelle dei giornali di Murdoch erano, va ricordato, intercettazioni illegali, pagate dalla casa editrice e operate da detective privati, con la probabile collaborazione di forze di polizia. Nessun magistrato le aveva autorizzate.

Cosa succederebbe in Italia se si seguissero le procedure inglesi ed americane? Tutti gli esponenti indagati per gli ultimi scandali si sarebbero dovuti dimettere dai rispettivi incarichi parlamentari, di governo o aziendali. Subito si sarebbero dovute tenere dei confronti parlamentari tra il capo del governo, così come una Commissione parlamentare avrebbe dovuto aprire un’inchiesta parallela a quella della magistratura. Ecco, mentre nella patria di “Alice nel Paese delle meraviglie” le reincarnazioni de lo Stregatto e del Cappellaio Matto vengono inseguite e portate davanti alla giustizia, nel paese dove regnano “pizza, pasta e quacquaraquà”, guai a mettere in dubbio, anche in Parlamento, che Ruby Rubacuori non sia stata la nipote dell’ex-presidente egiziano Mubarak, come stragiurato dal Sultano di Arcore!

Sta qui, purtroppo, tutta la differenza tra società di “Serie A”, come Gran Bretagna e Stati Uniti, e un paese come il nostro, che è al 167° posto su 170 nella speciale e degradante classifica sull’evasione fiscale e, per l’autorevole Freedom House, al 75° posto per la libertà di stampa (Gran Bretagna al 29° e Stati Uniti al 22°). (Beh, buona giornata).

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democrazia Natura Popoli e politiche

A dieci anni dal G8 di Genova, a un mese dai referendum, a una settimana dagli scontri con i No Tav in Val di Susa.

Questa intervista con Vittorio Agnoletto è apparsa oggi 10 luglio su 3Dnews, inserto culturale della domenica del quotidiano Terra.

Vittorio Agnoletto, all’epoca dei fatti portavoce del Genoa social forum, e Lorenzo Guadagnucci, giornalista che si trovava nella scuola Diaz al momento del sanguinoso blitz della polizia, hanno scritto un libro sulle tragiche giornate del luglio 2001 a Genova, dove il movimento “no global” si era dato appuntamento per protestare contro il G8. Il libro si intitola “L’eclissi della democrazia” ed è edito da Feltrinelli.

Agnoletto, sono passati dieci anni dai fatti del G8 di Genova ed ecco puntuale un libro su quegli episodi. Non c’è il rischio che tutto sappia un poco di commemorazione?

No. Perché non è un libro rivolto al passato. Ma al futuro. Raccontiamo non solo quello che successe davvero a Genova, dalla morte di Carlo Giuliani a piazza Alimonda, all’assalto alla scuola Diaz, alla “macelleria messicana” così come fu definito da un funzionario di polizia quello che successe nella caserma Bolzaneto. Ma soprattutto, raccontiamo come si è tentato in tutti i modi di nascondere la verità, di bloccare i processi, di ostacolare il lavoro dei magistrati.

Con il dovuto rispetto, Agnoletto mi lasci dire che non è una novità che in Italia la verità sui fatti politici si perda nel “Porto delle nebbie”. Fin dai tempi di piazza Fontana….

Sì, ma qui c’è un fatto inedito. I magistrati di Genova non solo sono riusciti a non far fallire le inchieste, ma addirittura per la prima volta nella storia repubblicana le inchieste della magistratura hanno portato alla condanna in secondo grado di decine di agenti, funzionari e dirigenti delle forze dell’ordine, inclusi i massimi vertici della polizia di stato e dei servizi segreti. Un esito giudiziario clamoroso, senza precedenti.

Giustizia è stata fatta?

No. Tutti i condannati, anche se svergognati da ricostruzioni dei fatti rigorose, sono rimasti al loro posto, con l’avallo dell’intero arco politico parlamentare.

Non si è mai voluta istituire la commissione parlamentare di inchiesta sui fatti di Genova. Quando lei dice “l’intero arco politico parlamentare” dice che anche i partiti di centrosinistra non hanno voluto che si andasse fino in fondo.

E’ vero. Quando Prodi tornò a Palazzo Chigi,la commissione parlamentare rimase lettera morta.

Rimane comunque il fatto che la feroce repressione annichilì il movimento No Global. Aldilà delle sia pur gravissime violazioni della legalità, possiamo dire che, parafrasando il titolo del libro, l’eclissi della democrazia ha funzionato?

Il movimento seppe resistere ancora qualche mese, fino alla grande manifestazione di Firenze contro la guerra. Poi, è vero: il tessuto sociale si sfilacciò, molte delle componenti del movimento tornarono nei loro territori, nelle loro realtà.

Fenomeno che in Italia abbiamo già vissuto nei decenni passati. Una parte entra nella spirale repressione – lotta alla repressione; le altre componenti si disperdono nelle rispettive realtà. Ciò che però è insopportabile in questa coazione a ripetere è il ruolo della sinistra parlamentare.

Beh, bisogna essere consapevoli che, per esempio al Pd il movimento No Global non è mai piaciuto. La critica puntuale contro il neoliberismo è una contraddizione che il Pd fatica molto a risolvere anche oggigiorno, nonostante che alla crisi energetica e a quella ambientale si sia aggiunto lo tsunami della crisi finanziaria che ben presto è sfociata nella gravissima crisi economica che attualmente sta sconvolgendo tutto il mondo occidentale.

Poi però succede che quel movimento che ha prodotto un nuova visione del mondo sembra oggi aver germogliato: l’idea della difesa dei beni comuni ha prodotto recentemente lo straordinario risultato della schiacciante vittoria dei Sì ai referendum dello scorso giugno.

Sì. Fu a Porto Alegre che, per esempio affrontammo il tema dei beni comuni. Esso è diventato programma di governo in alcuni paesi dell’America latina, ma ha lavorato, lavorato molto fino a diventare un tema importante anche nel Vecchio Continente, anche in Italia. Credo che anche il movimento No Tav abbia qualcosa che fa pensare che il filo intessuto dal movimento No Global non si sia mai del tutto spezzato.

In Val di Susa sembra però che la luna di miele tra l’opposizione parlamentare e i movimenti sia finito. Insomma, il vento sta cambiando, ma non a tutti fa piacere.

Gli argomento dei No Tav sono chiari, sono ragionamenti maturi, concreti. Gli abitanti della Val di Susa sanno che chi difende il progetto non riesce a più a nascondere che gli unici beneficiari sarebbero solo i costruttori.

Come per il famoso ponte sullo Stretto di Messina o per l’ormai defunto piano di costruzione delle centrali nucleari in Italia.

Esatto. La gente non crede più alle favole. E credo neanche al tentativo di raccontarle meglio da parte di alcuni esponenti del centrosinistra. Comunque, leggere “L’eclissi della democrazia” è utile anche per capire come il governo intende muoversi, per esempio in Val di Susa.

Agnoletto, si riferisce alla improvvisa ricomparsa sulla scenadei famigerati Black Block?

In effetti questa ricomparsa mediatica dei black block è un segnale preciso: si vuole far credere che la questione è semplicemente di ordine pubblico, che il problema è la violenza politica di “frange estremiste”. Insomma, ancora lo stesso schema: deviare il dibattito dalla sostanza della protesta alle forme della protesta è un espediente che serve nascondere la vera natura dell’Alta Velocità in Val di Susa, che serve a ostacolare il dibattito tra gli abitanti su temi importanti, squisitamente politici, che pongono sul tappeto domande precise: che uso del territorio, che tipo infrastrutture, per quale tipo di produzione di merci da trasportare, che rapporto con le risorse energetiche, che dialettica con l’ambiente, che tipo di benessere, quale qualità dei consumi?

Se il movimento No Tav è ricco, mi pare che finora le risposte sono state molto povere e tanto rabbiose.

Il che non è un bel segnale. Si rischia di spianare la strada alla repressione. Come è successo a Genova nel 2001.
(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

“Dove finisce Berlusconi comincia una nuova politica.”

di EZIO MAURO-la Repubblica

IL FLAUTO magico si è spezzato, gli italiani dopo vent’anni rifiutano di seguire la musica di Berlusconi. Quattro leggi volute dal premier – una addirittura costruita con le sue mani per procurarsi uno scudo che lo riparasse dai processi in corso – sono state bocciate da una valanga di “sì” nei referendum abrogativi che hanno portato quasi 27 milioni di italiani alle urne. E la partecipazione è il vero risultato politico di questo voto. Berlusconi, come Craxi, aveva invitato gli italiani a non votare, andando al mare, e gli italiani gli hanno risposto con una giornata di disobbedienza nazionale scegliendo in massa le urne, dopo quindici anni in cui i referendum non avevano mai raggiunto il quorum. Una ribellione diffusa e consapevole, che dopo la sconfitta della destra nelle grandi città accelera la fine del berlusconismo, ormai arenato e svuotato di ogni energia politica, e soprattutto cambia la forma della politica nel nostro Paese.

L’uomo che evocava il popolo contro le istituzioni, contro gli organismi di garanzia, contro la magistratura, è stato bocciato dal popolo nella forma più evidente e clamorosa, dopo aver provato a mandare a vuoto proprio la pronuncia popolare degli elettori, di cui aveva paura, cercando di far saltare il quorum fissato dalla legge.

Così facendo il premier non si è reso conto di denunciare tutta la sua angoscia per le libere scelte dei cittadini e la sua incapacità ogni giorno più evidente di indirizzare queste scelte politicamente,
orientandole verso il “sì” o il “no”. Legittimo formalmente, l’invito a non votare è in questa fase del berlusconismo una conferma di debolezza, quasi una dichiarazione di resa, soprattutto una prova politica d’impotenza, senza futuro.

Temeva le emozioni, il presidente del Consiglio, dopo il disastro di Fukushima: come se le emozioni non facessero parte semplicemente della vita, e come se lui stesso non fosse anche in politica un imprenditore di emozioni oltre che di risentimenti. Ma i risultati dimostrano che gli italiani non hanno votato per paura, bensì per una libera scelta, con serenità e coscienza, perfettamente consapevoli del merito dei singoli quesiti referendari – con l’abrogazione del legittimo impedimento che ha avuto praticamente gli stessi voti dei no al nucleare o alla privatizzazione dell’acqua – ma anche della portata politica generale di questo appuntamento elettorale.

Dunque la sconfitta è doppia, per il capo del governo. Nel merito di leggi che ha voluto e ha varato, e che (il nucleare) ha anche cercato di manipolare per ingannare gli elettori, scavallare il referendum e tornare a proporre le centrali subito dopo. Nel significato politico, perché il voto è anche contro il governo, contro Berlusconi e contro il proseguimento di un’avventura ormai completamente esaurita e rifiutata dagli italiani. E qui c’è la sconfitta più grande: il plebiscito dei cittadini che vanno a votare (anche quelli che scelgono il no) con percentuali sconosciute da decenni, nonostante il governo abbia deportato il referendum nel weekend più estivo possibile, lontanissimo dalle normali stagioni elettorali. È Berlusconi che non sa più parlare agli italiani, così come non li sa ascoltare, perché non li capisce più. E gli italiani gli hanno voltato le spalle.

Qui conviene fermarsi a riflettere, perché dove finisce Berlusconi comincia una nuova politica. Anzi, Berlusconi finisce proprio perché è nata una domanda di nuova politica, che sta cercandosi le risposte da sola, e in parte le ha già trovate.

Se mettiamo in sequenza i tre voti ravvicinati del primo turno amministrativo, del ballottaggio e del referendum, troviamo una chiarissima affermazione di autonomia dei cittadini. Questo è il dato più importante. Il voto al referendum e il voto nelle città sono infatti prima di tutto disobbedienza al pensiero dominante. Di più: sono il rifiuto di una concezione verticale della politica, con il leader indiscusso ed eterno che parla al Paese indicando l’avvenire mentre il partito e il popolo possono solo seguire il carisma, che soffia dove il Capo vuole.

Vince una politica reticolare, a movimento, incentrata sui cittadini più che sulla adulazione del popolo. Cittadini consapevoli che aggirano l’invasione mediatica del Cavaliere sulle televisioni di Stato, mandano a vuoto l’informazione addomesticata dei telegiornali, si organizzano sulla rete, prendono dai giornali i contenuti che servono di volta in volta, fanno viaggiare in rete Benigni, Altan e l’Economist a una velocità e un’intensità che le veline del potere non riescono a raggiungere. Cittadini giovani, che fanno naturalmente rete e movimento, e in un sovvertimento generazionale e di abitudini diventano opinion leader nelle loro famiglie, portando genitori e amici a votare, chiarendo i quesiti, parlando dell’acqua e del nucleare, spiegando come il “legittimo” impedimento aggiri l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Dentro questo movimento orizzontale la leadership a bassa intensità (ma a forte convinzione) del Pd galleggia sorprendentemente meglio del Pdl, una specie di fortezza Bastiani che vede nemici dovunque, dipinge il Paese con colori cupi, nell’egotismo autosufficiente e chiuso in sé del suo leader è incapace di strategie, alleanze o anche soltanto di un normale scambio di relazioni politiche: che Bersani intesse invece ogni giorno alla luce del sole, con Vendola e di Pietro ma anche con Casini e Fini.

Questo spiega in buona parte perché i cittadini decidono oggi di indirizzare a sinistra la nuova domanda di autonomia politica: perché qui i partiti stanno imparando a stare dentro il movimento, giocando di volta in volta la parte della guida o della struttura di sostegno, al servizio di un obiettivo più grande. Ma c’è qualcosa di più. È la fine di un’egemonia culturale, perché come dice Giuseppe De Rita a Ida Dominijanni del Manifesto un ciclo finisce quando esplode la stanchezza per i suoi valori portanti: oggi si comincia a percepire “che la solitudine e l’individualismo non sono un’avventura di potenza ma di depressione e la sregolatezza personale è un prodotto dell’egocentrismo, in una fase in cui i riconoscimenti sociali scarseggiano, perché non fai più carriera, non riesci a fare impresa, non ti puoi gratificare con una vacanza”. È il ciclo della “soggettività” che si spezza, anche per l’inconcludenza della politica che lo sostiene e ne ha beneficiato per anni. Torna, come ci avverte Ilvo Diamanti, il bisogno di aggregazione, di solidarietà, di regole, di normalità.

È un cambio di linguaggio, dopo vent’anni. Le manifestazioni delle donne, i post-it contro la legge bavaglio, il boom per Fazio e Saviano, l’allegria della piazza di Pisapia e Vecchioni a Milano contrapposta alla paura e alla cupezza stanno cambiando la cultura quotidiana dell’Italia, il modo di comunicare, l’immaginario che nasce finalmente fuori dalla televisione, la domanda stessa della politica. Davanti a questo cambio, le miserie dei burocrati spaventati che reggono la Rai per conto di Berlusconi sembrano ormai tardive e inutili: chiudono la stalla di viale Mazzini con l’unica preoccupazione di lasciar fuori Saviano e Santoro, per autolesionismo bulgaro, e non si accorgono che gli spettatori sono intanto scappati altrove.

Faceva impressione, ieri pomeriggio, vedere tanti politici e giornalisti pronti a celebrare il funerale politico di Berlusconi dopo che per anni si erano rifiutati di diagnosticare la malattia di questa destra, la sua anomalia. Stesso strabismo dei “nextisti” che invitano a preparare il domani pur di saltare il giudizio sull’oggi, il giudizio ineludibile – proprio per evitare opacità e confusione – sulla natura del berlusconismo. Questo spiega lo stupore italiano davanti ai giornali europei di establishment, che rivelano quella natura e denunciano quelle anomalie – come Repubblica fa da anni – giudicandole semplicemente estranee ad un normale canone europeo e occidentale. Ci voleva molto? Bisognava aspettare l’Economist? L’Italia della cultura, dei giornali, dell’establishment si è rifiutata di vedere e di capire, finché gli italiani non hanno visto e capito anche per lei. A quel punto, come sempre, si è adeguata in gran fretta.

Adesso, Berlusconi proseguirà con gli esorcismi e le sedute spiritiche cui lo consigliano i suoi fedeli, incapaci di imboccare la strada di un tea party italiano che ricrei un movimento anche a destra, riprenda la leggenda della “rivoluzione” conservatrice delle origini e spari su un quartier generale arroccato e spaventato, preoccupato solo di difendere rendite di posizione in conflitto tra loro. Sullo sfondo, Bossi continua a ballare da solo sulla musica di Berlusconi che il Paese non ascolta più, e intanto perde contatto con la sua gente, scopre che il Nord è autonomo anche dalla Lega, decide per sé e va a votare con percentuali dal 91 al 96 per cento, disubbidendo dalla Liguria al Trentino. Ancora una volta, come nel ’94, la sovrapposizione con Berlusconi soffoca la Lega: che alla fine staccherà la spina, portando anche il Parlamento – in ritardo – a sanzionare quel cambio di stagione che ieri hanno deciso i cittadini. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia

Berlusconi travolto dai referendum.

di Enrico Franceschini-la Repubblica.

La sconfitta di Silvio Berlusconi nei referendum finisce in prima pagina sui più importanti giornali del mondo, che concordano nel ritenerla un altro “duro colpo” alla capacità di sopravvivenza politica del premier italiano. “Una bruciante sconfitta politica”, la definisce il New York Times. “E’ probabile che non provocherà l’immediata caduta del governo”, scrive Rachel Donadio, corrispondente da Roma del più autorevole quotidiano americano, “ma facendo seguito alle sconfitte sofferte dai candidati di Berlusconi nelle elezioni amministrative, dove ha perso la corsa per il sindaco a Milano e Napoli, la seconda e la terza maggiore città italiana, i risultati del referendum indicano una nuova realtà: l’uomo che un tempo sentiva il polso dell’Italia ha perso contatto, non ha più il suo tocco magico”.

“Un colpo a Berlusconi”, è il titolo che apre la prima pagina del Wall Street Journal. Il quotidiano finanziario Usa, soprannominato “la bibbia del capitalismo”, giudica il risultato dei referendum “un segno di scontento popolare” nei confronti del primo ministro italiano, il quale “conserva la maggioranza in parlamento ma vede ormai scendere da mesi il consenso nel paese”. Il Journal sottolinea che la Lega Nord, più importante alleato di Berlusconi in parlamento, “sembra averne abbastanza” di ricevere sberle in faccia, citando le parole del ministro Calderoli.

Prima pagina per Berlusconi, sotto il titolo “Roman defeat” (Sconfitta romana) e una foto del premier per una volta non sorridente scattata ieri a Villa Madama, anche sul Financial Times. Il quotidiano della City parla di una “grave sconfitta” per il premier, “un altro duro colpo alla sua credibilità”, predicendo che i referendum aumenteranno le divisioni in seno all’alleanza di governo e scateneranno la lotta per una successione a Berlusconi all’interno del centro-destra, rendendo nel frattempo il premier “sempre più un ostaggio” della Lega Nord in parlamento.

Anche il resto della stampa britannica dedica ampio spazio all’esito dei referendum. “Berlusconi va verso un divorzio dall’Italia” è l’ironico titolo del Daily Telegraph, principale quotidiano conservatore, che definisce il risultato come “un’umiliante sconfitta” per il premier. L’altro grande quotidiano conservatore del Regno Unito, il Times, usa quasi le stesse parole: “Un passo falso umiliante, dal punto di vista personale e politico, per Berlusconi”, afferma l’articolo, descrivendo il primo ministro come un uomo “schiacciato dagli elettori”, nonostante il suo appello a boicottare le urne. Quanto ai giornali progressisti, il Guardian parla di una “schiacciante sconfitta” per Berlusconi e di una importante vittoria per il movimento anti-nucleare e per l’opposizione, segnalando che, dopo avere perso le amministrative poche settimane prima, ormai molti sostenitori chiedono a questo punto ai loro leader di “liberarsi di Berlusconi”. E il quotidiano Independent intervista un politologo dell’American University di Roma, il professor James Walston, secondo cui il voto nei referendum dimostra che Berlusconi è ora politicamente “impotente”.

Titoli analoghi sulla Bbc, sulla rete televisiva araba al Jazeera – che si chiede “quanto a lungo Berlusconi riuscirà a mantenere la sua fama di sopravvissuto” – e sulla stampa francese. Il moderato Figaro parla di una “umiliazione” per Berlusconi, Le Monde di “schiaffo bruciante”, Sud-Ouest di “disfatta”, Ouest-France di “sconfessione”. (Beh, buona giornata).

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Berlusconi sa che i quorum sono stati raggiunti.

«Non cambia nulla anche se ci sarà il quorum. Si tratta di referendum su argomenti precisi, non sul governo. Per quello dovranno aspettare ancora un paio d’anni», Berlusconi dixit (tornando dal mare). Beh, buona giornata.

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Berlusconi e Bossi già sconfitti ai referendum.

Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, che invitavano a non andare a votare i referendum sono stati ampiamente contraddetti dai risultati della prima giornata di votazioni: alle 22 di domenica la percentuale ufficiale di affluenza si è attestata su 41,1%.

Se è un dato che avvicina di molto l’obiettivo di raggiungere il quorum su tutti e quattro i quesiti referendari, è anche la conferma della perdita secca della capacità di interpretare gli umori degli elettori da parte del capo del Governo e del leader della Lega, fedele alleato nella coalizione di maggioranza.

A quindici giorni dalla cocente sconfitta nelle elezioni amministrative, i due leader hanno imposto ai rispettivi partiti di governo una linea politica perdente anche nella tornata elettorale dei referendum.

Un numero altissimo di elettori ha voltato le spalle ai candidati del centrodestra nelle recenti elezioni amministrative. Un numero ancora più altro di elettori ha ignorato i consigli dei leader del centrodestra sui referendum.

A questo punto è il governo Berlusconi appeso al quorum del 50 per cento più uno: se alle 15 di oggi i quattro referendum superano il quorum e i Sì dovessero prevalere, vorrà dire che gli italiani respingono le leggi che il governo ha imposto al Parlamento a colpi di voto di fiducia.

Vorrà dire che il governo ha perso la maggioranza degli elettori. Vorrà dire la fine nei fatti del governo Berlusconi e dei suoi alleati. Beh, buona giornata.

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Berlusconi col quorum in gola.

Berlusconi, “l’uomo che ha fottuto un intero paese”, come titola la copertina de L’Economist di questa settimana, aspetta questa tornata elettorale col “quorum” in gola. Se, dopo la cocente sconfitta alle scorse elezioni amministrative, dopo la “sleppa” presa in piena faccia a Milano, dovesse verificarsi la vittoria del Sì a questi referendum, la carriera politica del cavaliere sarebbe finita.

Lui lo sa che il “mantra” che abbiamo sentito ripetere centinaia di migliaia di volte secondo cui l’eletto dal popolo era intoccabile si impappinerebbe nelle labbra dei suoi seguaci, provocando una smorfia di dolore e di terrore di chi vede appalesarsi tutta intera la sconfitta. E’ singolare come il terrore di perdere abbia annichilito le armate mediatiche del cavaliere: qualcuno ha visto i comitati per il no? Qualcuno ha visto impegno contro i referendum, se non un debole invito a non andare a votare?

Qualcuno ha visto il Berlusconi battagliero, quello che in difficoltà dava il meglio di sé? Straordinari i lapsus freudiani delle due reti televisiva pubbliche: il TgUno e il TgDue, dopo aver ignorato i referendum, ne hanno poi parlato sbagliando entrambi almeno una volta ciascuno la data delle elezioni.

Neppure il tentativo di sottovalutare preventivamente il significato del voto referendario è apparso convincente nei pochi spazi che le tv hanno dedicato ai referendum. Quando si è detto che i referendum erano inutili perché già superati da leggi volute dal governo si è data una fantastica motivazione per andare a votarli da parte di quell’elettorato disilluso e scontento: se non cambia niente, allora posso tranquillamente votare per dare un segnale o magari una bella lezione al governo che ha tradito le mie aspettative. O semplicemente, vado a votare perché se no questi con la scusa del nucleare mi aumentano la bolletta della luce, e con la scusa della migliore gestione dell’acquedotto mi aumentano la bolletta dell’acqua.

La sciatteria con cui si è affrontato il dibattito sui quesiti referendari da parte dei politici del centrodestra e della stampa fiancheggiatrice ha fatto pensare che se anche ci poteva essere il dubbio che gli argomenti dei referendari non fossero del tutto corretti, una materia molto delicata come il nucleare, molto complicata come la gestione delle risorse idriche, molto controversa come la posizione di fronte alla legge delle cariche del governo, e beh no, questa volta proprio no, queste cose non si può lasciarle in mano loro: certe cose sono troppo serie e importanti per lasciarle fare a gente così.

Dunque, andare a votare e magari votare Sì appare come una forma di autotutela collettiva dalla pericolosa mediocrità politica dell’attuale classe dirigente.

Emblematico, poi, il caso del “convitato di pietra” di questa tornata elettorale: il quesito sul cosiddetto legittimo impedimento. Nessuno ne ha parlato: i referendari per non dare adito a tentativi di eccessiva politicizzazione del pronunciamento referendario, i berlusconisti e soci per non rifare l’errore fatto attaccando la magistratura durante la precedente campagna elettorale. E così sono sembrati come
quegli animali che girando la testa da un’altra parte pensano che il pericolo non ci sia. Risultato? Che votare Sì contro il legittimo impedimento sembra semplicemente pacifico, non fosse altro per punire chi fa politica coi trucchetti mediatici.

Berlusconi, “l’uomo che ha fottuto un intero paese”, come titola la copertina de L’Economist di questa settimana, sa bene che se si raggiunge il quorum vuol dire che più di venticinque milioni di italiani hanno deciso che adesso basta . A di là delle perversioni della attuale legge elettorale, un numero così alto di elettori lui non l’ha mai avuto a favore : c’è proprio da aver paura a sentirseli tutti contro. Ecco un ottimo motivo per andare a votare quattro Sì. O no? Beh, buona giornata.

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