Botte da orbi fra le guardie del corpo del premier turco Recep Tayyip Erdogan e la security interna del Palazzo di Vetro di New York, sede dell’Onu. Un agente ha urtato per errore il presidente turco. E nel palazzo di vetro più famoso al mondo, la diplomazia è andata a farsi benedire: l’uomo, in un attimo, è stato assalito dalla guardia del corpo di Erdogan. La rissa è stata sedata solo quando il segretario dell’Onu in persona, Ban Ki-Moon, si è scomodato per le scuse. Almeno in questo caso, l’Onu è riuscita a intervenire tempestivamente e far fare la pace. Cosa che invece non è mai riuscita a fare in Palestina. Il riferimento non è pretestuoso: infatti, la scazzottata, già di per se fuori luogo, visto, appunto che il luogo è l’organo ufficiale che dovrebbe promuovere la pace nel mondo, è avvenuta proprio mentre parlava Abu Mazen, leader dell’Autorità Palestinese. Cose turche. Beh, buona giornata.
Categoria: democrazia
INTERNET
Bavaglio al web col ddl intercettazioni
ritorna la norma “ammazza blog”-repubblica.it
Il governo ripresenterà lo stesso disegno di legge, inclusa la disposizione che obbliga i gestori di un sito a modificare i contenuti pubblicati se oggetto di richieste di rettifica. Nessuna possibilità di replica e multe salate. In Rete riparte la mobilitazione. Di Pietro sul web: “Non staremo con le mani in mano”
Il governo torna alla carica sul ddl intercettazioni, fortemente voluto dal premier Silvio Berlusconi. Una questione su cui l’esecutivo è orientato a porre la fiducia, bloccando la via a ogni eventuale emendamento.
Ma il disegno di legge attualmente allo studio contiene ancora la norma 1 cosiddetta “Ammazza blog”, una disposizione per cui, letteralmente, ogni gestore di “sito informatico” ha l’obbligo di rettificare ogni contenuto pubblicato sulla base di una semplice richiesta di soggetti che si ritengano lesi dal contenuto in questione. Non c’è possibilità di replica, chi non rettifica paga fino a 12mila euro di multa. Una misura che metterebbe in ginocchio la libertà di espressione sulla Rete, e anche le finanze di chi rifiutasse di rettificare, senza possibilità di opposizione, ciò ha ritenuto di pubblicare. Senza contare l’accostamento di blog individuali a testate registrate, in un calderone di differenze sostanziali tra contenuti personali, opinioni ed editoria vera e propria.
Ai fini della pubblicazione della rettifica, non importa se il ricorso sia fondato: è sufficiente la richiesta perché il blog, sito, giornale online o quale che sia il soggetto “pubblicante” sia obbligato a rettificare. Ecco il testo: “Per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”.
Al di là delle diffamazioni e degli insulti, ogni contenuto sul web diventerebbe potenzialmente censurabile, con l’invio di una semplice mail. E sul ddl intercettazioni, il governo ha particolarmente fretta: il documento potrebbe passare così com’è entro pochi giorni. Un caso unico in Europa che, come in passato 2, sta già allarmando il popolo del web e mobilitando i cittadini in favore della difesa della libertà di informazione, come già accaduto ai tempi della contestata delibera AgCom. 3
Sulla sua pagina di Facebook, il presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, scrive che “Il governo prova ancora una volta a mettere il bavaglio al web. Il ddl intercettazioni, infatti, prevede anche che qualunque blog, sito, portale o social network riceva una richiesta da soggetti che si ritengano lesi da un contenuto pubblicato, sia obbligato a rettificare entro 48 ore. E’ la solita norma ‘ammazzablog’. La rete si sta già ribellando e state certi che anche noi dell’IdV non staremo con le mani in mano”. (Beh, buona giornata).
Mentre, come è giusto che sia, ci si occupa del ruolo di Al Jazira nel mondo arabo e ci interroga sui condizionamenti che gli Usa gli avrebbero imposto in questi anni, mentre tutto questo succede, dunque, bisognerebbe fare due conti con la realtà dell’informazione ai tempi della globalizzazione.
Perché se il rapporto tra stampa e potere è sempre stato problematico, in questa epoca l’informazione, soprattutto televisiva, ha assunto un ruolo sproporzionato, sempre più spesso incentrato su una funzione di supplenza della politica, per non dire di alcuni casi in cui il maistream ha letteralmente surrogato partiti, governi, cancellerie.
Se la gestione imperiale dell’Amministrazione Bush impose al modo la guerra preventiva al terrorismo, questo fu possibile per un atteggiamento “patriottico” della stampa americana, un atteggiamento che sorprese un po’ tutti. Ci si è chiesti più di una volta: ma dov’è finito lo spiritaccio indipendente del giornalismo made in Usa, quello che non guarda in faccia a nessuno, men che meno se si tratta dell’inquilino della Casa Bianca?
Negli anni dell’amministrazione Bush, la stampa americana, consapevole della ferita provocata dall’Attacco alle Torri Gemelle ha avuto una condotta, diciamo così, morbida. Cominciavano le grandi difficoltà economiche strutturali della carta stampata, il grande sorpasso informativo della tv su quella che fino allora era stata la supremazia della stampa, cioè l’approfondimento, il commento, la formazione dell’opinione, il dialogo con l’opinione pubblica. Mentre il governo Bush faceva il bello e il cattivo tempo, praticamente senza contraltare, la tv lo ha sostenuto nella sua strategia mediatica. Non dimentichiamo che proprio la tv, la Fox in particolare, ebbe un ruolo strategico per la prima elezione di Bush, ai danni dello sfidante Al Gore.
Dunque non stupisce che Rumsfeld, allora ministro della Difesa degli Usa in guerra contro il terrorismo in Afghanistan e in Iraq, cercasse di addomesticare Al Jazira, visto che c’era riuscito in patria. Né che l’attuale amministrazione Obama, attraverso il ministro degli Esteri, la signora Clinton, cerchi un megafono in Al Jazira per supportare le rivolte della così detta primavera araba.
Non stupisce neppure che l’emiro del Qatar usi Al Jazira per accreditarsi verso gli Usa. Succede regolarmente nel modo occidentale, come dimostra lo scandalo che ha coinvolto Murdoch e Camerun in Uk, perché non nei paesi arabi?
Insomma, per portare avanti i suoi piani di sviluppo, la globalizzazione usa il mainstream, e la tv in particolare, per ridefinire quegli assetti finanziari, quegli equilibri geopolitici, quegli sbocchi ai mercati, quelle politiche commerciali sovrannazionali che la politica ci metterebbe troppo tempo a mettere in atto.
E per stare al passo coi tempi scanditi dal commercio globale, dalla finanza sovrannazionale la politica deve trovare alleanze coi media globali. I quali, a loro volta, rinunciano a porzioni consistenti di indipendenza verso i loro lettori e telespettatori, a favore di un autorevolezza e un accreditamento presso i nuovi poteri forti globali.
Se questo è quanto sta succedendo, ancora più comica è la funzione della tv in Italia rispetto al morente berlusconismo. La tv italiana sembra non vedere altre prospettive che il passato politico dei Berlusconi. Uno come Minzolini, per esempio, è più vicino alla disperazione professionale di un giornalista libico che va in onda e dice che va tutto bene e che Geddafi vincerà, di quanto egli stesso non si renda conto. Se ne accorgono però i telespettatori del TgUno, che continuano a abbondare in massa la rete ammiraglia della tv pubblica italiana. Beh, buona giornata.
L’ultimo episodio di sadomasochismo si è verificato grazie una associazione dei consumatori che ha chiesto la testa della Dandini e la chiusura di Rainews24. Non si capisce il nesso. Forse si annoiavano e non avendo più l’età per andare in giro a suonare ai citofoni, hanno mandato un comunicato alle agenzie di stampa.
Non importa che Dandini lavori su Rai Tre, la stessa rete che ha inventato un famoso programma dedicato alla difesa dei consumatori, nato molto prima che prendessero forma in Italia le associazioni dei consumatori. Non importa nemmeno che Rainews24 sia una testata giornalistica: chiedere la chiusura di un giornale non è esattamente il massimo esercizio della democrazia, per cui non si capisce che vantaggio ne avrebbe chi si dichiara paladino dei diritti dei cittadini.
Fatto sta che l’aria che tira è scema. Il sadomasochismo dilaga. Che fa quell’igenista dentale promossa consigliera regionale per meriti non esattamente politici? Ti va in giro per il centro di Milano con su scritto sulla t- shirt: “senza sono meglio”. Proprio quello che ci vuole per dimostrare di essere un amministratore pubblico serio e competente.
Massimo D’Alema se ne esce con una castroneria sullo nozze gay, tanto per dimostrare che il Paese è pronto a essere governato da un centrosinistra moderno, all’altezza delle aspettative di Paesi evoluti come la Germania, tanto per citarne uno molto evocato in questi frangenti di crisi del debito.
A proposito di crisi, succede che qualche giorno fa il cardinale Bagnasco, quello che indossa la papalina come se fosse un elmetto, dice che è uno scandalo evadere le tasse. Apriti cielo, una bella gaffe, tanto per ricordare a tutti i privilegi fiscali regalati al Vaticano dal governo in carica.
Tra i sadomasochisti più famosi del momento, ecco il ministro Tremonti, che contro la Cina ci ha pure scritto un libro, darsi da fare per appioppare a Pechino qualche tonnellata di nostri titoli di Stato, scoprendo che a quelli importa un fico, interessano invece Eni, Enel e Finmeccanica. Con buona pace della Lega.
E poi c’è lui, il sadomasochista per antonomasia: va in Europa a spiegare una manovra finanziaria che l’Europa gli aveva dettato, parola per parola. Con un guizzo di autolesionismo politico, a Bruxelles sproloquia contro l’opposizione italiana, parlando senza traduzione simultanea: quando glielo si fa notare, dice che l’importante è che abbiano capito i giornalisti italiani presenti. Un comportamento un tantinello strambo, studiato appositamente per ottenere l’effetto contrario: cioè la conferma dell’incapacità conclamata di gestire la crisi, come sospettato da tempo dalle cancellerie, dalle banche e dai mercati finanziari.
Ma i veri, autentici e incalliti sadomasochisti sono gli italiani. Gli è arrivata addosso la peggiore, iniqua, inutile, dannosa manovra finanziaria della storia repubblicana, ma non se ne sono ancora resi conto: stanno lì che aspettano che siano i giudici a sputtanare (mai parola fu più appropriata) il capo del governo.
Come fossero semplici spettatori del B movie più noioso e ripetitivo mai realizzato, assistono passivi alla fine ignominiosa del berlusconismo come si trattasse di un reality show che non riesce ad arrivare all’ultima puntata. Beh, buona giornata.
(fonte: repubblica.it)
Un articolo nelle pagine dei commenti firmato da Frank Bruni, che anni fa fu corrispondente da Roma. Il New York Times pubblica un pezzo durissimo contro il premier italiano, dal titolo “L’agonia e il bunga a bunga”. Parla di “baccanali di Berlusconi”, di uno spettacolo da “petit guignol” che va in scena mentre l’Italia è in crisi e addirittura minaccia la stabilità finanziaria di tutta Europa. Bruni ricorda il settembre nero italiano: in cui non si sa se il Parlamento riuscirà ad approvare la manovra finanziaria, se questa sarà sufficiente e come sarà giudicata dall’Europa. Ma in questo momento drammatico – secondo il columnist del quotidiano americano – ci si domanda come il “lussurioso imperatore” del Paese vorrà festeggiare i suoi 75 anni.
Nell’articolo si ricordano il processo che il presidente del Consiglio dovrà affrontare perché accusato di aver fatto sesso con una minorenne, i bunga a bunga in cui riunisce veri e propri harem di donne, spesso travestite da infermiere. Bruni ammette: “Noi americani abbiamo trovato anche divertente tutto questo, perché è terrificante, ma anche rassicurante”. “Però – ammonisce i suoi connazionali – non dovremmo restare a bocca aperta e ridere. Perché ora l’Italia minaccia la stabilità finanziaria di tutta l’Europa”.
“Il cammino dell’Italia dalla gloria al ridicolo – continua Bruni – spianato dalle distrazioni legali e carnali del premier, non dà benefici a nessuno. L’Italia ha una storia che dovrebbe rappresentare un monito per molte democrazie occidentali che si sono fatte cullare dal comfort nella compiacenza di sè. Aver tollerato troppe buffonerie ha provocato troppi danni”. (Beh, buona giornata)
di Massimo Mucchetti- Il Corriere della Sera
L’ Economist dedica la copertina alla ricerca del lavoro che non c’è in tutto l’Occidente. Nei 34 Paesi dell’Ocse, i più avanzati del mondo, i disoccupati sono 44 milioni, più o meno gli abitanti della Spagna. Ma per calcolare quanti posti mancano davvero andrebbero considerati anche i lavoratori part-time che vogliono il tempo pieno (un posto ogni due tempi parziali), i dipendenti sottoposti a sospensioni lunghe dall’attività (un posto ogni 1.800 ore di integrazione salariale) e infine gli scoraggiati (coloro i quali non hanno più cercato lavoro negli ultimi tempi). I posti che mancano nell’area Ocse diventerebbero così 100 milioni.
Il diavolo che minaccia l’Occidente è dunque peggiore di quello dipinto dal settimanale britannico. E tuttavia, al di là dei numeri, colpisce l’enfasi dell’antica testata liberale sulla questione del lavoro mentre i governi europei e la Bce combattono il deficit dei bilanci pubblici senza troppo curarsi degli effetti collaterali che deprimono l’economia, e dunque l’occupazione. Certo, da tempo la Banca d’Italia invoca politiche per la crescita basate su riforme a costo zero come quella, peraltro inderogabile, della giustizia civile e quella, tutta da approfondire, del mercato del lavoro. Ma oggi tra la durezza della crisi e il riformismo in stile anni Novanta emerge la stessa distanza che separa i fatti dalle parole: vanno male anche i maestri di quella stagione. E allora torniamo a chiederci se ci possa essere una ripresa duratura senza invertire la ridistribuzione sempre più ineguale della ricchezza, quando sappiamo che il disastro è cominciato dall’insolvenza dei poveri fatti indebitare per farli consumare senza aumentare loro le paghe. E poi crediamo davvero che l’Italia possa basarsi soltanto sull’estero quando le imprese esportatrici, peraltro ottime, importano sempre più componenti? E l’Eurozona potrà mai riprendersi se i suoi 450 milioni di cittadini non torneranno a spendere?
Forse non è un caso se George Magnus, l’economista principe di Ubs che aveva capito la crisi dei mutui «subprime » prima della Casa Bianca, ora scrive su Bloomberg : «Date a Marx una chance di salvare l’economia mondiale». La sua è una provocazione. Ma resta il fatto che il balzo della produttività è avvenuto attraverso il taglio dei costi, il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti, gli arbitraggi fiscali e regolatori tra legislazioni e non solo attraverso il progresso tecnologico. Un processo che ha congelato i salari reali e aumentato la disoccupazione a tutto vantaggio dei profitti. Un’impresa riceverà applausi, se batte questa strada. Un Paese pure, se avrà l’accortezza di non costringere poi i clienti alla recessione, come invece sta facendo la Germania in Europa. Ma se lo fanno tutti? Se lo fanno tutti, ironizza Magnus, si entra nel paradosso marxiano della sovrapproduzione: il sistema ha fatto investimenti per sfornare una quantità di merci superiore alla sua capacità di consumo. E qualcuno deve pagare il conto.
Se non vogliono resuscitare il rivoluzionario di Treviri o, più probabilmente, esporre a tumulti nordafricani democrazie che ai giovani derubati della speranza sembreranno inutili, i governi dovrebbero porre in cima all’agenda il lavoro, non il deficit dei conti pubblici. E il lavoro si crea attivando la domanda interna. Anche a costo di un po’ di inflazione.
Sul Financial Times , sir Samuel Brittan critica i flirt marxisteggianti. Ma non censura i rischi della stagnazione salariale né gli auspici d’inflazione. Del resto, la Bank of England e la Federal Reserve continuano a stampare moneta, sia pur virtuale. E pur avendo conti peggiori dell’Eurozona, i debiti pubblici di Regno Unito e Usa galleggiano. La Bce non lo fa perché non ha alle spalle un governo che glielo chieda. E l’euro trema.
In queste condizioni, l’Italia non può lasciar correre il deficit né disimpegnarsi sulla riduzione del debito. Ma rischia anche la recessione se non riesce a riorientare il risparmio privato dai deludenti impieghi finanziari verso gli investimenti nell’economia reale attraverso la leva della politica industriale (che non vuol dire un’altra Finsider ma, per esempio, no ai contributi esagerati per le fonti rinnovabili e sì al risparmio energetico). E la domanda interna non parte se, in attesa di poter alzare i salari, non si usa con coraggio la leva fiscale. È possibile, a parità di gettito, trasferire almeno in parte l’Irap alle retribuzioni e al tempo stesso aumentare l’Irpef? Far pagare la sanità a tutti i cittadini secondo aliquote progressive anziché alle imprese e ai dipendenti sarebbe anche un atto di giustizia. E se si vuole fare un po’ di inflazione, a sollievo del debito pubblico, l’Italia dovrebbe convincere l’Eurozona ad aumentare l’Iva, così da spostare un po’ di peso anche sulle importazioni, avendo cura di salvaguardare i redditi bassi con ritocchi dell’Irpef. Insomma, possiamo rialzarci. Ma ci vorrebbe un governo. Capace di politica interna e di politica estera. (Beh, buona giornata).
La guerra terrorismo? L’hanno vinta i terrorizzatori.
Poiché la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, come diceva il barone Carl von Cluasewitz, se facessimo un bilancio della guerra al terrorismo scatenata dall’Amministrazione Bush, scopriremmo chi ha vinto, a dieci anni dal quel tragico 11 settembre, che ne fu la causa scatenante.
Non l’hanno vinta i terroristi islamisti, anche se gli è stata data la grande opportunità di diventare i padroni della scena mediatica, facendone nemici più pericolosi nei breaking news che nel campo di battaglia. L’ultima fiction è andata in onda con la spettacolare uccisione di bin Laden in Pakistan.
Non l’hanno vinta i marines Usa, né i soldati della coalizione alleata: in Iraq non c’è pace, in Afghanistan la guerra continua. In compenso, abbiamo riempito le tv di funerali ai caduti occidentali e staccato la diretta alle vittime civili.
Ma allora, chi ha vinto la guerra? Il grande vincitore è stato il manistream. Ha inventato scenari inesistenti, come le provette di antrace mostrate in diretta tv o il famoso show di Bush, che vestito da pilota di caccia annuncia al mondo “mission accomplished”. Hanno vinto gli inventori del water boarding, delle rendiction, del Patriot Act.
Hanno vinto i neocons che con i loro mezzi mdiatici hanno teorizzato il destino imperiale degli Usa nel mondo post bipolare, vagheggiando un ruolo storico simile a quello che fu dell’Impero Romano. Hanno vinto gli emuli, i reggicoda, i passeggeri del carro del vincitore: i nostrani Ferrara, Farina (alias Agente Betulla), Panebianco. Quest’ultimo, dalle pagine del Corsera applaudì la tortura utile a far confessare quei cittadini britannici di origine pakistana che avrebbero progettato un attentato su un aereo di linea inglese. L’inchiesta stabilì che non ci fu nessun complotto contro la democrazia, se non, appunto, teorizzazioni come quelle sostenute dall’articolo in questione.
Hanno vinto i dietrologi e teorici del complotto di ogni tara e longitudine che, nel tentativo di confutare le tesi ufficiali relative all’attentato alle Torri Gemelle si sono ostinati a guardare il dito, e perso totalmente di vista la foresta. Mentre i terrorizzatori realizzavano su scala globale quello che De Andrè descrisse come l’epoca in cui “chi non terrorizza si ammala di terrore”, la ricerca delle armi di massa divenne la più colossale arma planetaria di “distrazione di massa”: ha permesso alla globalizzazione di dilagare senza controlli democratici, ha permesso alla finanza “creativa” di impestare di titoli marci l’economia reale, ha realizzato la fine del welfare nelle democrazie occidentali.
I terrorizzatori hanno vinto perché sono riusciti a prendere tempo, prima che la catastrofe finanziaria si abbattesse sull’economia Usa; prima che la speculazione infilzasse Grecia, Spagna, Portogallo e ora l’Italia; prima che la protesta popolare spazzasse vie i governi arabi “moderati”. Il maistream si è fatto le ossa con l’Attacco alle Torri Gemelle. Oggi governa il pianeta, alleato fedele della globalizzazione selvaggia. Non sopporta intromissioni della politica, neanche dal presidente Obama. La guerra al terrorismo non è stata la continuazione della politica, ma il suo sudario. Ecco chi sono i terrorizzatori, ecco perché l’11 settembre è il loro decimo compleanno. Auguri. Beh, buona giornata.
“Siamo diventati strapuntino del’europa e del mondo, abbiamo perso colpi e posizioni in ogni campo misurabile della vita economica e civile, siamo finiti nell’epicentro della crisi. Ecco dunque le accuse che rivolgiamo al governo e alla maggioranza di Berlusconi e della lega. Non certo di aver provocato la crisi mondiale, non li accusiamo di questo, li accusiamo di aver accompagnato lo scivolamento impressionante dell’Italia sotto ogni parametro di confronto con i Paesi europei. Li accusiamo di aver mentito agli italiani occultando e ignorando la crisi e di aver aggravato la crisi con politiche dissennate. Li accusiamo di essersi occupati dei fatti loro e non dei fatti degli italiani. Li accusiamo di aver leso la coesione nazionale e sociale. Li accusiamo di aver svilito agli occhi del mondo la nazione”.Bersani dixit. Beh, buona giornata.
di BARBARA SPINELLI-la Repubblica
FORSE, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano «abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell’ inconscio», e che risollevarle era «estremamente difficile».
Non dissimile è quel che ci sta succedendo. Un capo di governo ci s’ accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo «lacrime e sangue», per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile.
Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice chei soldi li elargiscea persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell’ Utri, e parecchi altri. Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie.
Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto «complice in crudeltà», come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000 euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: «Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto». Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando.
Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera. Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va «tenuto sulla corda»; messo «con le spalle al muro»; «in ginocchio». È insultare il bisogno chiamarli bisognosi.
La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell’ ombra. Si è avuta quest’ impressione, netta, quando Dell’ Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: «Io non l’ avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui». La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: «Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe». Uno che accetta d’ esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera «di merda».
La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un’ ordinaria abitudine omertosa, e questo nell’ ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d’ Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomochiave della crisi. Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l’ arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s’ annebbia, più cresce il sospetto che anch’ egli sia ricattato da un «complice in crudeltà».
Ma c’ è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l’ odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l’ immagine s’ è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all’ oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell’ Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: «Voglio scegliere i ministri ». Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali.
Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti. Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto tornia posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d’ interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d’ interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch’ essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po’ prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l’ iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l’ opera di Visco e Prodi contro l’ evasione fiscale.
Il male di Berlusconi contagia: è «dentro di noi», come scrisse Max Picard di Hitler nel ‘ 46. Come spiegare in altro modo l’ incuria, l’ impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati? Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia,e nonè poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d’ aver acquistato a caro prezzo azioni dell’ autostrada Serravalle, quand’ era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall’ imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l’ ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano ). Prudenza avrebbe consigliato l’ allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era «l’ uomo del Nord», scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s’ espugna coni figli del berlusconismo.
Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: «Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?». Rispose: «Comincerei col fissare il senso delle parole». È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s’ imbocca quando – finite le guerre – urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d’ interesse, Chiesa compresa.
Liberare l’ Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi serviràa poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel ‘ 93-‘ 94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.(Beh, buona giornata),
di Luciano Gallino-la Repubblica.
Se diventano legge, le modifiche all´art. 8 del decreto sulla manovra economica avranno effetti ancor più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali di quanto non promettesse la prima versione. I ritocchi al comma 1 rendono più evidente la possibilità che sindacati costituiti su base territoriale – si suppone regionale o provinciale, e perché no, comunale – possano realizzare con le aziende intese che, in forza del successivo comma 2, riguardano la totalità delle materie inerenti all´organizzazione del lavoro e della produzione. Da un lato si apre la strada a una tale frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali da rendere in pratica insignificante la presenza a livello nazionale dei sindacati confederali; un esito che la maggioranza di governo punta da anni a realizzare.
Dall´altro lato la combinazione dei commi 1 e 2 darebbe origine a veri mostri giuridici. Il comma 2 stabilisce infatti che le intese sottoscritte da associazioni dei lavoratori più rappresentative anche sul piano territoriale valgono per la trasformazione dei contratti di lavoro e per le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro. Come dire che se il sindacato locale accetta che uno possa venir licenziato con tre mesi di salario come indennità e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale clausola. C´è dell´altro. Le eventuali intese tra sindacati e aziende riguardano anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese – si noti bene – le collaborazioni coordinate o a progetto e le partite Iva. Il che significa che il sindacato potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedono l´impiego di lavoratori autonomi, quali sono formalmente i collaboratori e le partite Iva, come lavoratori dipendenti. Finora, se qualcuno cercava di realizzare simile aberrazione, finiva dritto in tribunale. L´art. 8 del decreto trasforma l´aberrazione in legge.
Quanto al nuovo comma 2-bis, esso abolisce di fatto non solo l´art. 18, bensì l´intero Statuto dei lavoratori. E con esso un numero imprecisato di disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2, visto che nell´insieme essi abbracciano ogni aspetto immaginabile dei rapporti di lavoro. Ciò è reso possibile dalla esplicita indicazione che le intese di cui al primo comma operano anche in deroga alle suddette disposizioni ed alle regole contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. A ben vedere, il legislatore poteva condensare l´intero articolo 8 in una sola riga che dicesse “i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro”.
Per quanto attiene alla tutela della parte più debole del contratto di lavoro, sarebbe quindi un eufemismo definire scandaloso il complesso del nuovo articolo 8 del decreto. Ma è giocoforza aggiungere che esso è anche penosamente miope per quanto riguarda il contributo che una riforma delle condizioni di lavoro potrebbe dare ad una ipotetica ripresa dell´economia. Il nostro Paese avrebbe bisogno, per menzionare un solo problema, di cospicui interventi nel settore della formazione continua delle sue forze di lavoro, di ogni fascia di età. È un settore in cui siamo indietro rispetto ai maggiori paesiUe. Questo decreto che punta in modo così smaccato a dividere le forze di lavoro per governarle meglio li rende impossibili. Naturalmente, c´è di peggio: esso rende anche impossibile un significativo recupero mediante la contrattazione collettiva della quota salari sul Pil, la cui caduta – almento 10 punti in vent´anni – è una delle maggiori cause della crisi.
(Beh, buona giornata).
La Commissione Bilancio del Senato, su proposta del governo, ha modificato il testo là dove prevede la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi su internet da parte dei Comuni: si farà, ma senza nomi e cognomi dei contribuenti: compariranno solamente per aggregati e categorie. A che serve? Boh! Beh, buona giornata.
(fonte: ilmessaggero.it)
La negoziazione sulle misure della manovra trasmette un messaggio confuso ai mercati, in un momento in cui l’Italia necessità di una coerente politica economica. È quanto scrive il Financial Times, che oggi dedica a Roma un articolo in prima pagina.
«La decisione di Silvio Berlusconi di rinunciare all’austerity d’emergenza e smantellare il contributo di solidarietà ha suscitato l’indignazione popolare e allo stesso tempo c’è il rischio di confusione sui mercati e di un nuovo confronto con la Banca centrale europea», scrive il quotidiano londinese. E, ricordando che l’Eurotower vorrà che la portata complessiva delle misure di austerità non cambi e che si arrivi al pareggio di bilancio nel 2013, aggiunge: «Non è chiaro come la Bce reagirà alla modifiche apportate alla manovra». Inoltre, il quotidiano economico della City riflette sul ruolo del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti: «Se Silvio Berlusconi è il vincitore dell’ultima rivisitazione dei tagli per l’austerità, presentando se stesso come il protettore degli italiani, con l’accantonamento della proposta del contributo di solidarietà, il perdente – sottolinea in Financial Times – è il suo ministro dell’Economia Giulio Tremonti». Infatti, il titolare di via Venti Settembre, spiega il quotidiano, è «rimasto isolato sulla manovra “lacrime e sangue”» e «sta affrontando un crollo di consenso all’interno del governo da quanto ha messo la firma sull’originale pacchetto da 45,5 miliardi di euro».
L’Italia alla prova dei mercati «si scopre con i giorni contati»: i miglioramenti che sono arrivati grazie all’intervento della Banca centrale europea che ha acquistato titoli di stato devono essere confermati dai giudizi degli investitori, afferma il Wall Street Journal. «Oggi, grazie sopratutto all’aiuto della Banca centrale europea, i rendimenti sui titoli decennali italiani e spagnoli sono scesi» spiega il Wsj. Ma, aggiunge, «secondo gli analisti il felice stato delle cose potrebbe non durare». Secondo il quotidiano «il continuo coinvolgimento della Bce potrebbe essere ostacolato», vista la sua avversione all’intervento e, poi, sottolinea, c’è «la questione che riguarda il piano di austerità voluto dall’Eurotower in cambio del suo supporto». Il Wsj scrive sull’Italia in un pezzo con un titolo che gioca sul doppio significato della parola «borrowed», ovvero “preso a prestito” ma – nell’accezione “borrowed time” – con l’espressione «vivere con i giorni contati». (Beh, buona giornata).
“Se si votasse in questo momento, il Pdl non prenderebbe più del 22-25%, mentre la Lega si attesta tra il 7% e il 9%. I partiti di opposizione tengono perché guardano ai propri serbatoi di consensi e anche perché perdura la chiave anti-berlusconiana (punto sul quale Bossi ci sta mettendo del suo). Il Partito democratico si attesta attorno al 25% e molto probabilmente sarebbe la prima forza in caso di elezioni.” Roberto Weber, Swg, dixit. Beh, buona giornata.
I SEGNI DEL DECLINO, di PIERO OTTONE-la Repubblica
Viviamo tempi duri (i tempi facili sono sempre stati brevi ed effimeri). Per chiarire le idee propongo un breve glossario.
Declino americano. Vediamo ogni giorno i segni del declino americano. È passeggero, di corta durata? Difficile fare previsioni a breve.
Ma a lungo termine è probabile che il declino americano di cui vediamo i sintomi sia irreversibile. Gli americani sono infatti gli esponenti di punta della civiltà occidentale, e la civiltà occidentale è al tramonto.
Perché meravigliarsi? Tutte le grandi civiltà del passato si sono spente: si spegnerà anche la nostra. Numerosi i segni della decadenza: il debito pubblico di cui si parla in questi giorni è solo il più epidermico. La prova irrefutabile del declino è un’altra: la bassa natalità.
E gli europei? La civiltà americana non è isolata: è giusto parlare di civiltà euro-americana. Ma gli europei non stanno meglio degli americani: anzi, stanno un po’ peggio.
Tante sono le analogie con una civiltà antica, anch’essa bicipite come la nostra: la civiltà greco-romana. I greci erano raffinati e colti, come in seguito gli europei; e i romani erano la grande potenza militare, come gli americani del nostro tempo. Un’analogia fra le tante: anche le città greche volevano unirsi l’una con l’altra, e dare vita a un’unica grande potenza. Come le nazioni europee del nostro tempo. Non ci sono mai riuscite. E i cinesi? I cinesi moderni appartengono a quello che chiamiamo, genericamente, il “terzo mondo” (espressione impropria, nata ai tempi della guerra fredda). Non c’è alcuna continuità, né alcuna comunanza, fra i cinesi moderni e l’antica civiltà cinese, che è stata, non meno di quella occidentale, una grande civiltà. Ogni grande civiltà è un’isola fortunata in mezzo a popoli che di quella civiltà non fanno parte, e che possiamo chiamare (senza offesa) “i barbari”, “il terzo mondo,” o in tanti altri modi. I “barbari” talvolta stanno tranquilli nelle loro terre. Altre volte diventano aggressivi. Ma in questi ultimi anni è avvenuto un fatto clamoroso, senza precedenti nella storia: i cinesi, i coreani, gli indiani, tutti barbari secondo la nostra terminologia, invece di attaccare la nostra civiltà hanno deciso di copiarla (ci è andata bene). Impossibile prevedere se i “barbari” del nostro tempo continueranno a convivere pacificamente con noi (e coi nostri discendenti), sicuri che comunque prevarranno perché sono più numerosi, più prolifici, più pazienti, o se diventeranno ostili (la Cina sta rafforzandosi militarmente).
Scontro di civiltà.È sbagliato parlare di scontro di civiltà per definire gli eventi contemporanei. Per scontrarsi, le civiltà devono essere almeno due. Nel nostro tempo c’è invece una sola civiltà, sia pure maturae decadente: la nostra. Gli altri popoli, quelli del Terzo Mondo, cinesi, indiani e così via, non sono i portatori di una nuova civiltà, e non riesumano quelle antiche. Sono semplicemente imitatori della nostra.
E la tecnica? L’affermazione secondo cui la civiltà occidentale è in declino, e si trova nella fase finale, sembra contraddetta dai recenti progressi della tecnologia. Ma lo sviluppo della tecnica è tipico delle fase finale di una grande civiltà. È probabile che abbiamo raggiunto il culmine del progresso tecnico nell’ambito della civiltà occidentale. In questi giorni si parla per esempio della rinuncia alla conquista dello spazio con mezzi di trasporto extra-terrestri. Morte di una civiltà. Che cosa succede quando una grande civiltà muore? Si spegne la sua capacità creativa, nella vita dello spirito (le arti, la filosofia, la letteratura, la religione)e nella vita politica (l’articolazione in classi sociali, la volontà di conquista). Ma le istituzioni create quando la civiltà è vitale, se nessuno le distrugge, sussistono. Per molti secoli la Cina ha continuato a vivere tranquillamente dietro la Grande Muraglia, usufruendo delle istituzioni create dalla civiltà cinese quando era vitale.I cinesi dell’epoca post-civile, quando la loro grande civiltà era ormai spenta, credevano pur sempre di essere al centro del mondo. Altre grandi civiltà, invece, sono morte di morte violenta: è il caso della civiltà pre-colombiana quando arrivarono gli spagnoli.
Ne nasceranno altre? Nessuno lo sa: la nascita delle grandi civiltà nel corso della storia è misteriosa. Tipicamente ottocentesca la visione di un miracoloso filo conduttore che segna, attraverso popoli diversi e in diverse regioni, un progresso costante del genere umano. Oggi ci si crede un po’ meno. La grande civiltà egizia e quella cinese per esempio, non avevano rapporti l’una con l’altra. Ciascuna è nata per conto suo.
Sa il cielo se nascerà una nuova civiltà in avvenire. (Beh, buona giornata).
Questo articolo è uscito su “La Repubblica”, (dal blog di GAD LERNER).
E’ impazzito il plurimiliardario Warren Buffett, re degli speculatori, che spiattella sui giornali gli scandalosi benefici fiscali di cui gode negli Usa? Soffrono forse di masochismo, qui in Italia, un finanziere come Pietro Modiano e gli imprenditori Carlo De Benedetti (azionista di questo giornale), Luca Cordero di Montezemolo, Anna Maria Artoni, favorevoli alla promulgazione di un’imposta sui grandi patrimoni di cui sono detentori? Perché mai, di fronte al concreto rischio di collasso del sistema, non viene richiesta dai politici di sinistra una vera tassa sulla ricchezza, nell’interesse delle classi subalterne che dovrebbero rappresentare?
E’ davvero singolare questo mondo alla rovescia in cui sembrerebbe toccare ai “ricconi” occidentali illuminati pure il privilegio di indicare la retta via della perduta giustizia sociale. Non bastasse il loro dominio sull’economia, possibile che abbiano sequestrato pure la leadership dell’analisi sull’iniqua distribuzione delle risorse cui la politica sarebbe chiamata a porre rimedio?
Nessuno come loro è consapevole della sproporzionata ricchezza accumulata da pochi, nei decenni in cui la finanza ha assoggettato l’economia reale. Se dunque auspicano un inasprimento del prelievo fiscale sui detentori di grandi patrimoni, è innanzitutto per un motivo –diciamo così- pratico: l’aumento delle tasse negli Usa, o il pagamento di una cospicua “una tantum” in Italia, non inciderebbero significativamente sul loro tenore di vita, sui loro consumi, e neanche sulle loro attività imprenditoriali.
Suppongo poi che i “ricconi illuminati” favorevoli all’imposta patrimoniale traggano dalla personale autocoscienza di cui ci rendono compartecipi altri motivi di riflessione: uno morale e uno esistenziale.
Sul piano morale, credo siano ben consci di avere goduto di un boom tutt’altro che armonico, caratterizzato dal patologico acuirsi delle disuguaglianze di reddito. Se in passato potevano illudersi che la ricchezza crescesse anche intorno a loro, se non grazie a loro, oggi è evidente il contrario.
Sul piano esistenziale, mi spiego il favore manifestato da finanzieri e capitalisti illuminati per un’imposta patrimoniale come estrema forma di attaccamento al sistema che li ha generati prima di degenerare. Nessuno come loro, che ne sono gli emblemi, desidera il suo salvataggio.
Sconcerta la modesta attenzione prestata in Italia, dove lo scandalo dell’evasione fiscale rende ancora più evidente l’ingiustizia, e il debito pubblico rende più stringente la necessità, ai buoni argomenti della patrimoniale. Quasi nessuno ha riflettuto sui calcoli esposti l’8 luglio scorso, in una lettera al “Corriere della Sera”, dal finanziere Pietro Modiano (che pure si autocandidava a “vittima” della medesima imposta).
Un prelievo del 10% sui patrimoni (escluse le case e i titoli di Stato) degli italiani più ricchi, il 20% della popolazione, fornirebbe un gettito di circa 200 miliardi. Quasi cinque volte la manovra biennale del governo. Riporterebbe il debito in rapporto al Pil vicino al 100%, conseguendo un obiettivo irraggiungibile da molteplici leggi finanziarie. Gli interessi sul debito godrebbero di una riduzione di 8 miliardi l’anno. E gli italiani ricchi chiamati a sopportare questo sacrificio –non tale da intaccare il loro benessere- potrebbero essere ricompensati con detrazioni fiscali negli anni successivi.
Fantaeconomia? Ma non è forse già un’apocalittica sequenza di fantaeconomia quella che stiamo vivendo dall’estate del 2008?
Resta da capire come mai tale istanza di drastica redistribuzione degli oneri fra la minoranza dei ricchi e la maggioranza dei meno abbienti, non stia in cima ai programmi della sinistra. E’ vero che ora il Partito democratico propone un supplemento di tassazione sui capitali scudati da Tremonti a quote di mero realizzo. Ma, a parte la dubbia costituzionalità di un tale provvedimento, esso continua a rivolgersi solo agli esportatori della ricchezza, non al suo complesso.
Parrebbe che un leader progressista, sia pure il presidente degli Stati Uniti, figuriamoci il segretario di un partito della sinistra italiana, si senta condannato a escludere come temerario ciò che invece ha osato sbattergli in faccia Warren Buffett. Hanno paura di passare per socialisti (o comunisti). Si illudono che la loro autorevolezza derivi ancora dalla sottomissione alle regole di un sistema giunto allo sfascio, solo perché i rapporti di forza sono tuttora dominati dagli hedge funds e dalle banche d’affari che hanno contribuito a salvare. Restano al di fuori della loro immaginazione soluzioni radicali prospettate invece da chi in passato ha saputo approfittare della fragilità della politica.
Lo scetticismo con cui i mercati hanno accolto la manovra economica italiana, ma soprattutto i conflitti sociali che scaturiranno dalla crisi dell’economia reale, ben presto si incaricheranno, ahimè, di spazzare queste cautele. (Beh, buona giornata).
di MARIAROSA SCIGLITANO-il Manifesto (via dirittiglobali.it)-
Nata nel 1929, la filosofa ungherese Ágnes Heller è una delle principali protagoniste del dibattito sulla complessità filosofica e storica della modernità. Sfuggita negli anni dell’adolescenza all’Olocausto, diventa allieva del filosofo György Lukács, del quale condivide il difficile rapporto con il partito comunista. Diviene docente alla New School di New York negli anni ’70 e tra le opere che contribuiscono alla diffusione del suo pensiero in Occidente vi è La teoria dei bisogni in Marx. Interprete autorevole del dibattito etico-politico contemporaneo, la Heller osserva criticamente le dinamiche politico-sociali che caratterizzano l’Ungheria di oggi e l’operato dell’attuale governo conservatore ungherese guidato da Viktor Orbán. Le abbiamo rivolto alcune domande, incontrandola nella sua casa di Budapest.
Abbiamo la sensazione che questo, per l’Ungheria, sia tra i periodi più difficili se non il più difficile dalla caduta del regime. Concorda?
Dipende da cosa significa difficile. Perché per la popolazione ungherese il cambiamento di sistema è stato un periodo difficile ma non in tutto, visto che all’epoca la gente ha cominciato a conoscere la libertà. D’altra parte, come dicevo, è stato difficile in quanto caratterizzato dalla chiusura di tantissime fabbriche con conseguente perdita di numerosi posti di lavoro. Se non consideriamo quel periodo, dobbiamo dire che senza dubbio quello attuale è il più difficile, perché si sono verificate contemporaneamente due cose: una è la limitazione del diritto alla libertà, soprattutto quella di stampa, l’altra è la soppressione di contrappesi, cioè di istituzioni opposte al governo oppure l’inserimento di persone fedeli al Fidesz in quelle istituzioni. Insomma, tutte cose che, secondo me, rientrano in un sistema di potere bonapartista che elimina il pluralismo. Il governo Orbán tende a sopprimere i diritti, per esempio quello alla pensione anticipata di poliziotti, pompieri o conducenti di autobus e tenta di abolire o diminuire le pensioni di invalidità in modo che nessuno possa andare in pensione prima del limite d’età, provvedimento che colpisce un gran numero di persone, questo sistema di cose causerà guai gravissimi.
Anche la scuola risente di questa situazione.
Certamente. La decisione di assegnare allo Stato il controllo delle scuole gestite finora dai governi locali corrisponde a un nuovo processo di statalizzazione che prevede di decidere cosa insegnare e cosa non, soprattutto per quel che riguarda la storia. Alcuni temono che le scuole passeranno sotto il controllo di istituzioni religiose, cosa che potrebbe in qualche modo eliminare la divisione tra stato e chiesa che è uno dei principi sui quali si basa la democrazia. A parte questo non so fino a che punto sia realistica la scuola dell’obbligo fino a 15 anni. Chi lascia la scuola a quell’età dove va? Potrebbe mai inserirsi nel mondo del lavoro in un paese con un alto tasso di disoccupazione? Lo stesso si può dire di coloro che hanno diritto alla pensione di invalidità: dove potranno andare queste persone? Tali misure colpiscono i più poveri. Consideri che a complicare le cose contribuisce il fatto che è stata introdotta in maniera dogmatica l’aliquota del 16% che facilita la vita ai più ricchi e aggrava la situazione degli indigenti. Questa non è politica sociale. Non dico che quella del governo precedente fosse particolarmente valida, se non altro, però, cercava di garantire ai più poveri una forma di sicurezza sociale. Le conseguenze della politica attuale ridurranno la popolarità del governo che, peraltro, è già diminuita in modo significativo e diminuirà ancora. Il problema, però, è che manca un’alternativa mentre aumentano l’astensionismo alle urne e l’apatia. Ci vorrebbe un’opposizione rappresentata non dai vecchi politici che hanno perso consenso, ma da volti nuovi.
Una situazione molto grave, insomma, e la cosa salta agli occhi a maggior ragione se si pensa alle buone valutazioni date gli anni scorsi all’Ungheria dalla Commissione europea.
Ma sa, nemmeno ora l’opinione è negativa, l’Ue è felice solo di apprendere che in Ungheria, a differenza di Grecia, Spagna e Portogallo, non aumenta il debito pubblico. Sembra che le cose stiano proprio così, ma sono state organizzate con una soppressione della certezza del diritto. Ostacolare la crescita del debito pubblico non garantisce prospettive per il futuro. Se non c’è certezza del diritto non ci sono investimenti e senza di essi il futuro non è roseo. Per l’Ue è più importante che si crei l’immagine di uno stato partner affidabile e che i conti siano a posto, la situazione della libertà e dei diritti passa in secondo piano.
Vorrei tornare alla definizione di bonapartismo che lei ha dato del governo Orbán.
Mi riferisco all’opera di Karl Marx Eighteenth Brumaire of Louis Bonaparte (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte). L’elezione di Luigi Bonaparte a presidente avvenne con i due terzi dei voti popolari – una situazione analoga alla nostra -, poi Bonaparte centralizzò i poteri e sciolse il Parlamento. Questo, Orbán, non può farlo, ma adotta la stessa tecnica: concentra tutto il potere, lo centralizza. Dicono che il nostro premier sia populista: no, la sua retorica è populista ma non lui. Il suo governo non avvia trattative con i sindacati, non tratta con i lavoratori, non fa da tramite tra datori di lavoro e sindacati. Quello che è fondamentale per un potere populista è assente nel governo Orbán. Quindi non confondiamo la retorica con la politica de facto.
In che modo la nuova Costituzione cambierà la vita della popolazione?
Alla maggior parte degli ungheresi non interessa la Costituzione. In quanti la conoscono? Secondo me nemmeno quelli che l’hanno votata. Io l’ho letta, l’ho criticata, ma è molto difficile leggerla. La definizione migliore l’ha data l’ex presidente della Repubblica, László Solyom, che l’ha descritta come il nuovo Teatro Nazionale fatto costruire dal vecchio Fidesz: brutto, kitsch e antiquato, ma ci si può recitare. Da gennaio scopriremo a quali scenari darà luogo, per il momento è ancora valida la vecchia Costituzione che continua ad essere modificata fino a divenire quasi irriconoscibile, sarà così fino alla fine dell’anno. Poi c’è la legge sui media che limita fortemente la libertà di stampa, perché in sostanza crea un centro di censura che valuterà il contenuto delle informazioni diffuse da radio, tv, carta stampata e giornali online per verificare se sia conforme o meno alle nuove leggi. In più quest’organo sarà composto esclusivamente da membri eletti dall’attuale governo. Ecco, anche qui viene escluso il pluralismo.
A cosa attribuisce il successo ottenuto l’anno scorso dai partiti di destra?
Esso è dovuto in primo luogo alla perdita di fiducia della gente nei riguardi dei partiti tradizionali: questa è la cosa fondamentale. Nell’Ungheria orientale una parte degli elettori socialisti ha votato Fidesz. Quelli che si ribellano alla politica attuale sono finiti nell’estrema destra che convoglia l’insoddisfazione popolare. La questione fondamentale è il razzismo: questo distingue Jobbik dal Fidesz. Il Fidesz non è un partito razzista, è pieno di razzisti, ma la politica del partito non è razzista. Quella di Jobbik, invece, lo è, in primo luogo nei riguardi dei Rom. I membri di questo partito diffondono slogan anti-Rom e lo fanno soprattutto nei piccoli centri in cui vivono cospicue comunità Rom e si verificano spesso conflitti tra le persone un pochino più agiate e quelle povere. Chi vive in miseria e non ha da mangiare ruba. Gli altri cercano di difendere la loro piccola proprietà privata e odiano gli indigenti. Questo conflitto c’è e viene cavalcato dagli estremisti non solo a parole: vengono, infatti, create delle formazioni paramilitari che evocano brutti ricordi, sono state proprio organizzazioni del genere a occuparsi delle deportazioni in Ungheria. Ora il Fidesz sta cercando di scoraggiare il fenomeno con una legge contraria alle attività di questi gruppi.
Si parla di una ripresa dell’antisemitismo in Ungheria. Ritiene che sia un problema reale?
Non dico che Orbán sia razzista, ma forse tollera cose che non dovrebbero essere tollerate, le tollera fino a quando non disturbano la sua politica. In Ungheria il problema del razzismo non riguarda solo i partiti, ma anche la popolazione. Qui la gente non respinge il razzismo, non lo fa neanche se non lo condivide, non ha un minimo di coraggio civile. Qui non è d’abitudine obiettare, piuttosto si resta in silenzio. Non solo i partiti ma anche la popolazione dovrebbe essere educata a un diverso comportamento. Certo, i partiti non hanno dato il buon esempio, non perché fossero propensi a emarginare etnie e strati sociali, ma forse perché non hanno coinvolto i cittadini in un processo che li portasse ad apprendere il rispetto dei valori della convivenza e dell’indignazione civile contro l’intolleranza.
Allo stato dei fatti che futuro immagina per l’Ungheria?
Il filosofo non è un indovino, inoltre in politica il caso gioca un ruolo di estrema importanza. Guardi i successi e il declino di certe personalità della politica. Senza Berlusconi l’Italia sarebbe diversa, senza Viktor Orbán l’Ungheria sarebbe diversa. (Beh, buona giornata).
di ANDREA TARQUINI-la Repubblica (via dirittiglobali.it)
Budapest, estate 2011: ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in uno Stato membro dell´Ue. La grande purga non risparmia nessuno. Ai posti di comando solo uomini fedeli al premier Orban. E un´unica newsroom centrale distribuisce notizie ai media pubblici. La paura di perdere il lavoro perché sospettati di idee critiche la cogli in ogni ambiente. Nuove proposte di legge prospettano campi d´ospitalità per disoccupati o elementi asociali
Budapest. I giornalisti della radio pubblica l´hanno appreso come in un campo di concentramento: improvviso appello del mattino per tutti nel grande cortile della sede centrale, poi l´ordine di dividersi in scaglioni di 50 e presentarsi un gruppo dopo l´altro a commissioni speciali: quelle hanno detto loro chi restava e chi veniva licenziato.
Gli epurati, in radio e tv di Stato, sono stati finora 525, molti tra i migliori, fior di giornalisti, premi Pulitzer. Altri 450 licenziamenti arriveranno prima di fine anno: la grande purga eliminerà così mille su tremila persone, un terzo del totale. Una sola newsroom centrale, in mano alle penne della destra, distribuisce notizie ai media pubblici.
Nella pubblica amministrazione, è ancora peggio, e il governo ha facile gioco a difendersi: niente statistiche pubbliche sul totale dei posti soppressi e delle persone sostituite.
Nei teatri e nelle Università, nella magistratura e alla Corte dei Conti, ai posti di comando sono solo uomini fedeli alla Fidesz del premier Viktor Orban, il partito al potere. In provincia, si comincia con metodi di segno ancor più chiaro.
Come a Gyoengyoespata, governata dai neonazisti di Jobbik: ogni mattino alle sette i disoccupati, tutti Rom, devono presentarsi con una maglietta arancione che ricorda le uniformi dei detenuti di Guantanamo: chilometri a piedi sotto il sole, con zappe, rastrelli e pesanti secchi d´acqua per dissetarsi, e poi ore di duro lavoro manuale.
“Koezmunka”, lavoro socialmente utile, si chiama la misura che evoca un po´ lo Arbeitsfront nazista e altre misure del Terzo Reich, e presto potrebbe coinvolgere fino a 300mila persone. Ungheria, estate 2011: ecco quasi una cronaca dal fascismo in diretta, ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in un paese membro dell´Unione europea.
«È troppo facile, e sbagliato, paragonare Orban a Berlusconi, in confronto al premier ungherese Berlusconi è un democratico», mi dice Karoly Voeroes, ex direttore del quotidiano Népszabadsàg, uno dei più autorevoli giornalisti magiari, protagonista della protesta contro la legge-bavaglio. Aggiunge: «La situazione è peggiorata. Mesi fa ritenevamo impossibili nuove strette, e invece eccole. Governano usando l´odio, l´invidia, la paura». Non sono bastati i limiti draconiani alla libertà mediatica, né l´istituzione della Nmhh, l´autorità-Grande fratello fedelissima al potere, che veglia su ogni testata e punisce con multe che portano sul lastrico. Adesso i media pubblici hanno un´unica newsroom, «è la fine del giornalismo come ricerca critica», nota Voeroes.
«La nazione ora è unita», gridano in strada manifesti governativi esaltando la maggioranza più che assoluta, oltre due terzi dei legislatori. Foto: una bionda famiglia sorridente. Il capo esecutivo della newsroom unica è Daniel Papp, 32 anni, cofondatore di Jobbik, il partito della Guardia magiara che sfila con le uniformi nere degli alleati di Hitler e correi dell´Olocausto. Ha fatto carriera manipolando un´intervista a Daniel Cohn-Bendit: in onda la domanda sulle vecchie, assurde accuse di passata pedofilia al leader dei verdi europei, ma non la risposta di smentita. Capo supremo della newsroom è Csaba Belenyesi, promosso nell´agenzia di stampa nazionale per volere della Fidesz. Con un gioco di parole amaro, il settimanale tedesco Der Spiegel parla di “Arcipelago Gulash”: dal tollerante, morbido “socialismo del gulash” della guerra fredda la cara, bella, vivace Ungheria diventa un paese che, da destra, evoca l´Arcipelago Gulag narrato da Solgenitsyn.
L´epurazione continua, e fa paura a tutti, giornalisti, dipendenti pubblici e semplici cittadini. Non risparmia nemmeno i più illustri. L´Arcipelago Gulash ha licenziato premi Pulitzer, da Laszlo Benda all´intera redazione del programma giornalistico critico La sera, con cui Antonia Mészaros e il suo team facevano reportage d´alto livello. È finita per la trasmissione culturale di Sandor Szenési, troppo critica e aperta al mondo.
Parlava anche delle infami indagini contro Agnes Heller, Mihaly Vajda, Sandor Radnoti e gli altri grandi filosofi della Scuola di Budapest, quegli epigoni di Gyorgy Lukacs accusati di “malversazione di pubblico denaro” per spese documentate di ricerca scientifica e letteraria. La newsroom unica funziona a meraviglia: in radio e tv, notano diplomatici europei, Orban ha 35 volte più spazio rispetto all´opposizione. Si tace persino delle critiche ordinate da Hillary Clinton alla scelta di cambiare nome alla centralissima Piazza Roosevelt, dedicata dal dopoguerra al presidente americano che sconfisse l´Asse. Il cinema ungherese, che fu tra i più illustri dell´Impero comunista, ora è in mano a un magnate di Hollywood amico di Orban, Andy Vajna: vuole telenovelas da cassetta, addio alla qualità di Miklos Jancsò e degli altri grandi di ieri.
Appena celata dalla gentilezza d´animo e dalla vivacità di questo adorabile popolo nel cuore dell´Europa, la paura di perdere il lavoro perché sospetti di idee critiche la cogli in ogni ambiente, la leggi su tanti volti, e per chi visita spesso l´Ungheria fin dai Settanta è uno shock triste. Il ricordo del misto allegro e cinico di umor nero, ironia e disprezzo con cui i magiari vivevano nella “migliore baracca dell´Impero del Male” si allontana.
Diffamano anche Pal Lendvai, principe dell´emigrazione anticomunista e grande firma del Financial Times: lo accusano contro ogni prova di spionaggio per la vecchia dittatura. Liberal, cosmopolita, amico degli stranieri ostili alla patria, amico del grande capitale internazionale – ricalcano i sinonimi con cui Goebbels parlava degli ebrei – qui sono termini entrati nel nuovo salotto buono della newsroom unica. La paura blocca i Rom, le prime vittime del lavoro utile obbligatorio: se rifiutano la vita da forzati, addio ai miseri sussidi-povertà. Nuove proposte di legge prospettano “campi d´ospitalità” per disoccupati non collocabili o “elementi asociali”. In altri ghetti, squallidi prefabbricati come quelli dei terremotati italiani, sono finiti, come nella cittadina di Ocsa, gli ungheresi impoveriti dalla crisi, che hanno perso la casa comprata con mutui (oltre trecentomila, tanti in un paese di 10 milioni scarsi di abitanti) ormai troppo cari in franchi svizzeri.
«Non è finita, aspettiamo i prossimi passi, la fascistizzazione strisciante verrà», dicono i colleghi del Népszabadsàg: il governo prepara leggi che vorrebbero autorizzare il licenziamento immediato anche di malati o donne incinte, imporre ai lavoratori di andare in ferie soprattutto quando lo dice il padrone, esautorare i sindacati. Nell´Arcipelago Gulash, mi dicono amici preferendo l´anonimato, incontri professori che hanno paura di chiedere all´antennista di sintonizzare la tv su canali critici.
O vedi un razzismo da banalità del male. Come l´altro giorno in un paesino, a una festa per i bambini. Il clown scritturato dal sindaco a un certo punto ha teso la mano ai bimbi per avviare un girotondo. A tutti, fuorché a due piccoli visibilmente Rom di cinque e tre anni, rimasti là soli senza che nessuno volesse giocare con loro. Nemmeno sembravano sorpresi: emarginazione naturale fin da piccoli, evoca quel sentimento dei bambini ebrei in guerra che Gyorgy Konrad descrisse: «A cinque anni sapevamo che prima o poi Hitler ci avrebbe uccisi». L´Arcipelago Gulash è così, l´Unione europea tace e stronca le speranze. Il dolore per l´Ungheria te lo allevia l´Airbus della Lufthansa quando, ai comandi d´una giovane pilota, stacca le ruote rombando dalla pista di Budapest e punta verso la Germania: a bordo vien quasi voglia di applaudire, come usava sotto Breznev decollando da Mosca. (Beh, buona giornata).
Commenti
Nella seconda perte, l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana c’e scritto: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
In realtà gli ostacoli di ordine economico non solo non sono stati rimossi, ma, almeno dal 1985, addirittura sono stati innalzati, diventando una vera e propria barriera di classe.
Il divario tra ricchi e poveri è sempre più marcato in Italia: stando ai dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) il nostro è uno dei Paesi industrializzati con la maggiore disparità dei redditi, al quinto posto tra i 17 che hanno segnato un ampliamento del gap tra il 1985 e il 2008, davanti a Messico, Stati Uniti, Israele e Regno Unito.
In questo contesto, arriva un’ulteriore spinta alle disuguaglianze e all’iniquità, attraverso la manovra economina varata dal governo, che sta andando in discussione nei due rami del Parlamento. Beh, buona giornata.
di NADIA URBINATI – la Repubblica
La sudditanza della politica ai mercati: le opinioni sembrano convergere su questa diagnosi al di là degli schieramenti partitici in questi giorni di angoscia per temuti default e manovre finanziarie “lacrime e sangue”.
Il mercato finanziario, non il mercato semplicemente, sembra essere la nuova sorgente di sovranità, una sorgente che per di piú è insindacabile anche perché impossibile da localizzare, impersonale e soggetta a leggi che vengono concepite e applicate come se fossero naturali.
Di fronte a questa quasi divinità o naturalità la decisione politica sembra impotente: incapace di imporre le sue ragioni che dovrebbero essere quelle di una vita decente e liberamente progettata da parte degli uomini e delle donne che vivono in società. Eppure la politica non è un terreno neutro e, diciamo pure, non è incolore rispetto al sovrano mercato.
Evidentemente esiste una politica organica o funzionale a questa fase del dominio dei mercati finanziari che è disposta a ordinare le scelte secondo la logica della rendita.
La politica neoliberale (ciò che da noi si chiama liberismo) è l´ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi – con più o meno resistenza – ne sono il segno. La lotta negli Stati Uniti tra due modelli di intervento statale sono il segno forse più esplicito che non è la politica in sé a soccombere ma una visione dello Stato e quindi dell´economica: o come scienza che si dovrebbe occupare del benessere della società o al contrario come una tecnica di rastrellamento delle fonti di rendita finanziaria.
Il dominio del denaro, più che il dominio del mercato, è il centro del problema, e la trasformazione della scienza economica in scienza del business e applicazione del calcolo matematico ai fattori numerici dei movimenti di borsa ne è il segno distintivo.
È sufficiente affacciarsi alla porta dei dipartimenti di economia di tutte le università del pianeta per comprendere la dimensione di questa trasformazione; la trasformazione di questa scienza da scienza umana a scienza matematica è il riflesso del potere insindacabile del mercato finanziario sulla società.
E la politica, una parte di essa, si sente a suo agio con questa trasformazione. Si tratta di quella particolare coniugazione del liberalismo che, soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, ha creato il “fatto semplice” dell´interesse individuale (self-interest), facendone un attributo che appartiene a ciascuno di noi come una qualità sostanziale che determina la nostra razionalità e il calcolo dei costi e dei benefici che in ogni momento della giornata guida le nostre azioni, siano esse di tipo sentimentale o economico appunto.
La concezione dottrinaria dell´interesse sulla quale il pensiero neo-liberale (in gergo liberista) si è posizionato nel corso dei decenni ha avuto di mira un obiettivo centrale: quello di tenere la legge fuori dalla sfera dei beni e la formazione della ricchezza. La legge, ovvero lo Stato, è chiamato a intervenire quando l´irrazionalità delle passioni o dell´errore di conoscenza interrompono il fluire delle scelte: quindi Stato gendarme e regolatore delle relazioni sociali per contenere i conflitti e sostenere al massimo chi è sconfitto nella lotta per la vita.
Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi (anni) è più o meno la vittoria di questo paradigma, una vittoria che è andata insieme alla sconfitta di altri modelli di ordine sociale e che ha stravinto su tutti i potenziali rivali. È questa la fine della storia di cui ha scritto Francis Fukuyama.
È la fine, ovviamente, non della storia ma certo della storia della lotta contro un modello economico, quello per difendere il quale oggi le nostre società democratiche stanno soccombendo.
Il liberalismo conservatore del nostro tempo è nato all´interno della società democratica come una gemmazione del liberalismo economico; si è manifestato come una reazione a ogni forma di società che vuole programmare le sue scelte economiche per poter distribuire oneri e beni più equamente; non è un caso se insieme alla stretta sulla spesa dello Stato i mercati finanziari chiedano di lasciare a loro tutti i servizi che in questi ultimi sessant´anni sono stati finanziati, regolati e gestiti dai governi. Il neo-liberalismo è la politica di oggi.
Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato – se necessario anche la coercizione (in alcuni stati degli Stati Uniti anche i servizi carcerari sono gestiti da società private).
Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l´uso della violenza.
Come aveva ben visto Norberto Bobbio, la sfera del diritto penale si espanderà in proporzione diretta al restringimento delle politiche sociali. È lo stato minimo del quale parlavano liberali antichi come Herbert Spencer o il Barone von Hayek; uno Stato al servizio di una società che è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere coercitivo, ma il cui potere coercitivo è ben funzionate e arcigno e duro se necessario. (Beh, buona giornata).
“Il downgrading non è un giudizio sulla nostra economia ma sul nostro sistema politico, è necessario ritrovare lo spirito di unità nazionale di una volta”, Barak Obama dixit. Il che e’ esattamente il problema dell’Europa, problema che ha in Italia la piu’ penosa rappresentazione, dove, come ha scritto Mario Monti e’ scattato il downgrading politico da parte di Francia e Germania sulle capacita’ del governo italiano di affrontare la crisi. Dunque, parafrasando Obama, i timori della Bce non riguardano l’economia del nostro Paese, riguardano il sistema politico italiano. Se il governo non governa la crisi, e’ la crisi a governare il Paese. Il che e’ esattamente quello che sta succedendo. La politica e’ troppo importante per lasciarla fare a questo sistema politico. O la riprendono in mano i cittadini o restera’ in balia dei poteri finanziari. Beh, buona giornata.