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«Gran parte del successo di Berlusconi nasce dalla sua abilità di leggere gli umori del Paese. Ora molti si chiedono se finalmente non abbia fatto un calcolo sbagliato e non stia spingendo troppo in là i tolleranti italiani, e se la sua reputazione di fine carriera non somigli sempre più alla decadenza imperiale del “Satyricon” di Fellini».

Berlusconi, Noemi e la stampa estera. Per il New York Times il Cavaliere è “decadente come Satyricon”. Per il Time l’Italia è il “Berlusconistan”-blitzquotidiano.it
La stampa estera torna a parlare di Berlusconi: a parlare del Presidente del Consiglio, sono questa volta due autorevoli testate americane, il New York Times e il Time. «Gran parte del successo di Berlusconi nasce dalla sua abilità di leggere gli umori del Paese. Ora molti si chiedono se finalmente non abbia fatto un calcolo sbagliato e non stia spingendo troppo in là i tolleranti italiani, e se la sua reputazione di fine carriera non somigli sempre più alla decadenza imperiale del “Satyricon” di Fellini». Questo è ciò che scrive il New York Times, al termine di una dettagliata ricostruzione su tutta la vicenda di Noemi Letizia.

Il Time, dalla penna del suo corrispondente Jeff Israely, parla dell’Italia come del «Berlusconistan», dove «il 72enne maestro dei manipolatori ha innescato un ciclo di notizie che in realtà potrebbe portare alla sua fine politica».

Anche il Christian Scence Monitor si occupa della faccenda. Il giornale americano scrive come «nel mezzo di una crisi economica, l’Italia sembra occuparsi più del presunto affaire del primo ministro con una teenager che del summit del G8 di luglio».

I giornali europei hanno pubblicato molti editoriali sul Cavaliere negli ultimi giorni. Il Guardian inglese collega la vicenda e il comportamento di Berlusconi all’ex premier inglese Tony Blair ed alla moglie Cherie scrivendo che «persino i Blair stanno prendendo le distanze da lui». Cherie parlando del viaggio col marito in Sardegna nel 2004 ospiti del Cavaliere, ha preso «in giro la bandana indossata per coprire quello che lei insiste fosse un trapianto di capelli (nonostante il suo rifiuto di ammetterlo)». (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Società e costume

“Quando, la mattina del 31 dicembre 2007, Silvio Berlusconi in persona aveva illustrato alle sue ospiti, arrivate da Roma e Milano con voli privati, quello che sarebbe stato il programma della giornata, tra le 50 ragazze presenti è partito l’applauso.”

L’harem di Berlusconi di Peter Gomez e Marco Lillo-L’espresso
Jet privati, gioielli in regalo, gettone di presenza e shopping offerto. Così 50 ragazze sono state radunate per il Capodanno di Villa Certosa. Dove il Cavaliere le ha intrattenute tra politica, canti e balli. Prima la visita guidata alle meraviglie segrete della tenuta: l’anfiteatro dei cactus, le migliaia di hibiscus, il lago delle palme, le 85 diverse erbe officinali dell’orto della Salute. Poi il pranzo in pizzeria, quella interna al parco, s’intende, allietato dalla chitarra di Apicella. Dopo il pranzo ecco il “corso di politica”,in attesa di potersi sfogare con lo shopping, a spese del padrone di casa, nei centri commerciali della costa. Quindi, a chiudere, tradizionale cenone con tanto di fuochi di artificio.

Quando, la mattina del 31 dicembre 2007, Silvio Berlusconi in persona aveva illustrato alle sue ospiti, arrivate da Roma e Milano con voli privati, quello che sarebbe stato il programma della giornata, tra le 50 ragazze presenti è partito l’applauso. Come in un sogno alla “pretty woman” l’uomo più potente e ricco d’Italia stava invitando quell’eterogeneo gruppo di veline, attricette, ragazze immagine e hostess, ad abbeverarsi alla sua scienza, a mangiare alla sua tavola e a far compere attingendo direttamente dal suo portafoglio. Cose da Mille e una notte. O se preferite da Sultano. Ecco, se si vuole davvero capire perché Veronica Lario, annunciando il suo divorzio, parlasse di “divertimento dell’imperatore”, di “vergini che si offrono al drago” e di un paese che “per una strana alchimia” permette tutto al suo capo, si può partire da qui. Dai racconti sull’ultimo dell’anno 2007 a villa La Certosa, registrati da “L’espresso” dietro garanzia di anonimato, e da quelli sulla corte di giovani donne di cui si circonda il Cavaliere.

Ragazze tra i venti e i trent’anni, in mezzo alle quali – è accaduto, cinque mesi fa, per il Capodanno 2009 – si ritrovano a volte anche minorenni, come la pupilla del premier Noemi Letizia e la sua amica del cuore, Roberta. Con loro Berlusconi dà il meglio di sé. Fa battute, si spreca in gentilezze e galanterie. A ognuna consegna un kit di doni: due braccialetti in onice a forma di tartaruga (simbolo di villa Certosa) per caviglie e braccia; un anello d’argento; il ciondolo a forma di farfalla, segno ormai nemmeno troppo segreto delle amiche del premier; un anello e un sottile braccialetto d’oro. Tutti monili estratti da un sacchetto che il Cavaliere fa tintinnare.

Lo spirito è a metà tra il goliardico e la riunione da villaggio vacanze. Le ragazze ridono e si divertono. Per parecchie di loro è un lavoro.
Tra le 50 ospiti di villa La Certosa, almeno una ventina hanno garantita una sorta di diaria da 1.500 euro al giorno. Per tutte poi, prima della notte di Capodanno, è stata organizzata una visita agli shopping center della zona dove gli uomini della sicurezza del leader del Pdl coprono le spese delle ospiti fino a 2 mila euro. Infine, una volta rientrate a Punta Lada, le ragazze si dividono a gruppi di cinque nelle varie dépendance, mentre le ospiti più vicine al premier sono alloggiate nella tenuta di Paolo Berlusconi, in quei giorni assente. Nei racconti raccolti da “L’espresso” più che i particolari sulla festa, con i bagni nella piscina riscaldata, i balli e l’ovvio trenino finale, colpisce comunque la descrizione delle ore precedenti.

Nel pomeriggio infatti, come in un’anticipazione dei corsi tenuti a Palazzo Grazioli per selezionare le candidature alle europee, Berlusconi ha illustrato per due ore alle sue ospiti i segreti della politica. Eravamo quasi alla vigilia della caduta del governo Prodi. Il Cavaliere, però, ricorda una testimone, se l’è presa anche con l’allora leader di An, Gianfranco Fini. Ma da chi era composta in quei giorni la corte del premier? Le fonti sono concordi nell’indicare tra i presenti il cantante Mariano Apicella, il produttore di fiction Guido De Angelis, l’attrice Camilla Ferranti, le gemelle Ferrera, già meteorine del tg di Emilio Fede, la numero uno del reality trash “Un, due, tre… stalla” Imma Di Ninni, una ex del “Grande Fratello” e due vincitrici del concorso di miss Albania in Italia.

A ben vedere nulla di sorprendente se si pensa che Berlusconi, prima di scendere in campo, è stato un tycoon del piccolo schermo abituato a festeggiare il Capodanno in ampia compagnia, comprese le maggiorate del “Drive In”, programma cult degli anni ’80. Solo che oggi il Cavaliere non è più un impresario tv. È un capo di governo e il fatto d’ospitare per giorni belle ventenni per allietare le sue ore da ultrasettantenne, di invitarle a cena o di frequentarle a Roma, diventa un problema politico. Di sicurezza. E organizzativo. Per accorgersene basta poco. Basta rileggere le intercettazioni del caso Saccà che raccontano come la corte del premier sia impegnata a sistemare le sue ragazze e a impedire che la cosa si sappia in giro.

Il 4 novembre 2007 il leader del Pdl affida a Guido De Angelis il compito di trovare una parte per cinque attrici a lui care. Due giorni dopo Berlusconi accompagna l’amico produttore da suo figlio Piersilvio, chiedendo di farlo lavorare con Mediaset. Piersilvio però non la prende bene. Tanto che non appena il padre e De Angelis se ne vanno, si lamenta con Valentino Valentini, deputato e segretario personale del premier. È proprio Valentini a raccontarlo a De Angelis: “L’operazione non è stata indolore, Piersilvio ha capito tutto, ovviamente. Tu sei la punta di un iceberg di una situazione molto delicata. Io gli ho spiegato: Guido è una persona giusta e corretta anche per gestire delle situazioni delicate. E per voi è in outsourcing. Ma lui (Piersilvio, ndr) ha accettato a malincuore”. Subito dopo De Angelis ne parla a Rosanna Mani, condirettore di “Sorrisi e Canzoni”, da trent’anni al fianco del Cavaliere. E lei commenta: “Valentino dice che Piersilvio è geloso perché sa che lui (Silvio, ndr) ti chiede i favori. Ma è meglio che li chiede a te, così si limitano i danni. Piuttosto che le vada a chiedere a destra e a manca facendo la figura del cretino”.

Per far numero alle feste non bastano però le aspiranti starlette della tv. A volte bisogna ricorrere alle ragazze immagine, quelle che ballano a pagamento nelle discoteche. Per il Capodanno 2008 alcune delle ospiti di Berlusconi, stando alle testimonianze, vengono contattate da Sabina Began, una bellissima modella slavo-tedesca soprannominata “l’Ape regina” nelle cronache mondane della capitale. La Began, che si è rifiutata di rispondere alle domande de “L’espresso”, è molto legata al Cavaliere.

Le pagine di un giornale vicino al centrodestra come “il Tempo” raccontano che in occasione della vittoria elettorale alle politiche 2008, la modella era tra gli ospiti di Palazzo Grazioli e che Berlusconi la teneva sulle ginocchia cantando “Malafemmina” e scherzando diceva: “Se qualcuno mi facesse ora una foto, varrebbe 100 mila euro». Un anno dopo ancora “il Tempo” scrive: “Sabina Began sfoggia un nuovo tatuaggio sulla caviglia. Una farfalla circondata dalla frase: “L’incontro che ha cambiato la mia vita: S. B.”. Che sono le sue iniziali, ma non solo». Anche Sabina fa in qualche modo parte della scuderia di De Angelis.

La Guardia di finanza durante una perquisizione negli uffici del produttore ha trovato il suo nome in un elenco di cinque attrici, tra cui le amiche del premier Elena Russo, Evelina Manna e Camilla Ferranti, segnalate a De Angelis da Mediaset. E lei, dopo aver ottenuto una parte nel film tv “Il falco e la colomba”, prodotto da De Angelis, oggi lavora con continuità. Sono lontani i tempi in cui la bella modella era costretta a vivere nella stanza di un affittacamere nei pressi di Montecitorio. Una casa dove allora abitava anche Elvira Savino, 32 anni, amica della Began e oggi neodeputata del Pdl, dopo essere stata inserita nelle liste elettorali del 2008 su indicazione diretta del Cavaliere che è stato anche suo testimone di nozze. “Non è però stata Sabina a presentarmi Berlusconi. Il fatto che vivessimo entrambe lì è solo un caso”, assicura l’onorevole Savino.

Il via vai di belle ragazze per Palazzo Grazioli e villa Certosa, comunque non è una novità: sono del 2002 le foto di Berlusconi che passeggia in Sardegna mano nella mano con la sua assistente Francesca Impiglia e di Pasqua 2008 quelle con le giovani amiche tenute per mano o sedute sulle sue ginocchia. I problemi veri sono invece quelli legati alla sicurezza. In gran parte dovuti alle pretese (economiche e di lavoro) spesso avanzate da chi è entrato in contatto con il premier: la minaccia, più o meno velata, è infatti quella di far esplodere uno scandalo. E a dirlo non sono le indiscrezioni, ma le carte processuali. “L’espresso” ha già pubblicato la telefonata intercettata dalla Procura di Napoli nel 2007 in cui Berlusconi chide con ansia al direttore di Raifiction Agostino Saccà di far lavorare l’attrice Antonella Troise perché “sta diventando pericolosa”.

E agli atti dell’indagine archiviata su Berlusconi (abuso d’ufficio) per il caso di Virginia Sanjust, una bellissima presentatrice tv legata al Cavaliere e sposata con l’agente del Sisde Federico Armati, c’è un’altra registrazione significativa. Lo 007 e la moglie discutono animatamente. Lui è stato appena espulso dai servizi segreti ed è convinto (a torto secondo i giudici) che dietro al suo licenziamento ci sia stato l’intervento di Virginia e del premier. Così le dice a brutto muso: “Racconterò tutti i fatti: (l’invito a) Palazzo Chigi, il pranzo, il braccialetto (che ti ha regalato)? come lo scartavi… Io c’ho tutte le scatole e i certificati di garanzia dei gioielli”. E poi chiede alla moglie di andare da Berlusconi e avvertirlo che, se non fosse stato reintegrato, lui avrebbe “rovinato” il Cavaliere.

Siamo alla vigilia delle elezioni del 2006, dopo pochi giorni, fatto rarissimo, Armati è ripreso nei servizi. Mentre Virginia Sanjust, tra i tanti regali ricevuti dal Cavaliere, annovera anche un bonifico di 50 mila euro, effettuato a titolo di “prestito infruttifero”, direttamente da un conto corrente del premier. Ma non basta. Perché anche il caso delle ragazze segnalate da Berlusconi al direttore di Raifiction, Agostino Saccà, può essere letto sotto la luce della possibile ricattabilità del premier. E a dirlo è proprio il procuratore aggiunto di Napoli, Paolo Mancuso che, nella lettera con cui nel luglio del 2008 ha trasmesso a Roma per competenza le carte dell’inchiesta, scrive: “Da alcune conversazioni intercettate sull’utenza di Manna Carmela (detta Evelina, ndr) sembrano emergere (e andranno valutate dalla Signoria Vostra quali) condotte riconducibili alla previsione degli articoli 110 e 629 del codice penale (concorso in estorsione, ndr) poste in essere ai danni del predetto onorevole Berlusconi e apparentemente consumate nella città di Roma”.

Mancuso cita quattro telefonate che avrebbero potuto configurare un ricatto ai danni del Cavaliere. In quei colloqui, ora tutti distrutti perché invece ritenuti irrilevanti dai giudici della capitale, l’attrice diceva infatti a Berlusconi che avrebbe fatto una piazzata sotto palazzo Grazioli. Salvo poi placarsi quando lui le garantisce un aiuto sul lavoro. Ma per i magistrati romani quello è soltanto uno sfogo, più che una minaccia. E nella loro richiesta di archiviazione, poi accolta, sostengono che non c’è reato perché le parole e i comportamenti della Manna non erano mai stati in grado di intimorire realmente un uomo come Silvio Berlusconi. L’attrice, contattata da “L’espresso”, di questa vicenda non vuole parlare.

Il 19 febbraio del 2008, del resto, anche davanti ai pm era stata piuttosto evasiva. “Conosco Berlusconi da circa un paio d’anni”, ha detto, “e gli sono legata da un rapporto di affetto e di amicizia. Per ragioni personali preferisco non indicare modalità e circostanze della mia conoscenza con lui”. Da allora Evelina Manna si è messa in stand by e dal suo nuovo appartamento di via Giulia a Roma, con vista sui tetti del centro, valuta contratti e proposte. Evelina lo ha acquistato il 24 aprile di un anno fa, dopo aver versato, qualche settimana prima, una caparra da 10 mila euro alla vecchia proprietaria.

Tutto il resto, 950 mila euro, è arrivato invece con assegni circolari appoggiati su un conto corrente della Banca Roma, filiale di Santi Apostoli. Ma se le si chiede come abbia fatto a mettere da parte quel tesoro, taglia corto: “Ora basta. Berlusconi non c’entra niente. Anch’io ho la mia vita privata”. (Beh, buona giornata).

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“Chi vuole fare del male fa il pm, il delinquente o il giornalista”. Berlusconi dixit. (Game over?)

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Attualità democrazia

Elezioni europee 2009: che succede a sinistra?

di Antonio Funiciello-Liberal

Secondo tutti sondaggi recenti, il nuovo partito della sinistra non supererà Io sbarramento. Questo metterebbe in grande difficoltà i leader

ROMA, Sinistra e libertà non ce la fa. I sondaggi sono impietosi e la danno ferma tra il 2% e il 3%: i voti in uscita dal Pd sono tutti per Di Pietro e Rifondazione, così che alla seconda versione di quello che fu l’Arcobaleno (vedi Politiche 2008) non restano che briciole. I fattori di debolezza si sommano inesorabili.

Anzitutto un leader, Nichi Vendola, che non indovina una mossa.
Prima manda a quel paese in diretta televisiva Gasparri, poi scrive una lettera a tutti i leader dell’opposizione per un fronte comune contro il rischio democratico berlusconiano e nessuno gli risponde. Tranne il capo dei comunisti Ferrero, contro cui Vendola ha perso l’ultimo congresso di
Rifondazione: una risposta che suona come una beffa. Gli altri dirigenti sinistri e liberi non si muovono meglio e vivono con inquietudine l’attesa della sconfitta. Ieri Fabio Mussi si è rivolto direttamente agli ex elettori dei Ds con un appello accorato, cercando di irretire a sé chi nel Pd non si sente a casa. I Verdi restano i più perplessi. Oltre alla infausta leadership di Pecoraro Scanio, hanno riposto in soffitta anche il loro simbolo, perdendo un richiamo identitario che forse da solo avrebbe ottenuto lo stesso risultato che farà tra due settimane Sinistra e libertà. Paolo Cento, già sottosegretario all’Economia a favore della decrescita, è tra i più perplessi della strategia elettorale del nuovo cartello, tanto che ha chiesto ufficialmente meno riunioni e più iniziative di piazza.

Meno riunioni, certo.
Perché Sinistra e libertà non riesce a darsi una guida unitaria e per ogni decisione si ritrova costretta a riunire le quattro componenti che le hanno dato vita: i mussiani ex Ds, i socialisti che furono di Boselli, i Verdi che furono di Pecoraro Scanio e i rifondaroli scissionisti. Riunioni occupate a litigare su tutto: dalle questioni macropolitiche, alle faccende di bottega come l’applicazione del manuale Cencelli su chi mandare in televisione. Una babele che si riflette sui media e nel dibattito politico e rappresenta una zavorra pesantissima da scaricare prima e dopo il voto.

Già, perché dopo il 7 giugno, che fine farà Sinistra e libertà?
Le divisioni interne di oggi attengono molto al destino che arriderà al cartello elettorale nella torrida estate che lo attende. E’ noto il teorema del vignettista Sergio Staino, in lista con Vendola ma fondatore e iscritto del Pd, per cui la propria candidatura in Sinistra e libertà servirebbe in realtà per rafforzare i democratici. A tutti è sembrata una boutade. Eppure rivela la trama su cui si giocheranno i destini della formazione dopo il mancato scavalcamento dello sbarramento del 4%, ovvero il rapporto politico col Pd.
Se è vero che la lista di Ferrero e Diliberto, comunque andrà, avrà un futuro, lo stesso non si può dire per i dirigenti di Sinistra e libertà.
Domenica scorsa Franceschini ha auspicato che coloro che, tra questi, vengono dalla vicenda dell’Ulivo rientrino presto nel Pd. In Sinistra democratica, l’anima mussiana dei fuoriusciti diessini, ci pensa ormai più d’uno. Anche perché l’idea di fare la minoranza moderata di una formazione di estrema sinistra è meno allettante di quella di fare la minoranza estrema di un partito di centrosinistra moderato. Anche i socialisti di Nencini sono su questa lunghezza d’onda. I Verdi paiono, invece, intenzionati a rilanciare il loro autonomismo con un irrigidimento ideologico del loro credo ambientalista.
Più difficile da decifrare la sorte di Vendola e dei pochi che per lui hanno lasciato Rifondazione, anche se è probabile che molti torneranno con Ferrero, lasciando Nichi a presiedere la Puglia ancora per qualche mese.
Fino a quando il Pd non gli darà il benservito, scegliendosi per il centrosinistra un altro candidato presidente per le regionali del 2010. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia Società e costume

Il caso delle dieci domande di Repubblica ha fatto il giro del mondo: “Mr. Berlusconi, why don’t you answer the press?”, scrive The Huffington Post.

Sui giornali esteri sempre spazio alle 10 domande poste da “Repubblica”.Così la stampa internazionale chiede al premier di rispondere. Stupore per la mancata solidarietà al nostro giornale di ALESSIA MANFREDI- repubblica.it

Così la stampa internazionale chiede al premier di rispondere
Il primo ad occuparsene è stato il Times londinese di Rupert Murdoch, poi il caso delle dieci domande poste da Repubblica a Silvio Berlusconi sul suo rapporto con la diciottenne Noemi Letizia, rimaste senza risposta, ha fatto il giro della stampa estera.

Dalla Gran Bretagna alla Spagna ad altri paesi, autorevoli quotidiani hanno mostrato il loro sostegno a Repubblica, dando ampio spazio all’inchiesta, sottolineando il silenzio e l’ira del premier. Altri hanno semplicemente riferito il caso. In un’intervista a Repubblica, il direttore di Die Zeit, Giovanni Di Lorenzo, ha detto che insultare un quotidiano “in Germania provocherebbe l’immediata solidarietà di tutti gli altri media, indipendentemente dal loro orientamento politico”. Alla questione sono stati dedicati diversi articoli e commenti. Ecco i principali.

“Public Duty and Private Vendetta”, The Times, 18 maggio 2009. Le lamentele di Silvio Berlusconi, che si ritiene vittima di diffamazione, non hanno alcun senso, si legge nell’editoriale non firmato del Times, che, secondo la tradizione anglosassone, riflette l’opinione della direzione del giornale. Le domande di Repubblica, continua il Times, non sono un’intrusione nella vita privata, ma sono legate al suo ruolo di politico e magnate dei media. E l’attacco di Berlusconi al giornale è un tentativo di intimidire il dissenso.

“Mr. Berlusconi, why don’t you answer the press?”, The Huffington Post, 20 maggio 2009. Il caso approda anche sull’influente sito di informazione online di Arianna Huffington.

“In praise of La Repubblica”, The Guardian, 23 maggio 2009. Anche il Guardian dedica un editoriale al caso, intitolato, semplicemente, “Elogio a La Repubblica”. “Nonostante rumori minacciosi da parte di Silvio Berlusconi, il principale quotidiano di centro-sinistra si è rifiutato di smettere di chiedere risposte alle 10 domande poste al premier circa la sua relazione con una adolescente napoletana, Noemi Letizia”, si legge nel testo, che insiste sul diritto della stampa in una società democratica a fare domande e conclude: “Repubblica sta facendo una battaglia solitaria e merita sostegno”.

“Papi, en la encrucijada”, El Pais, 20 maggio 2009. “Papi, al crocevia” titola il commento del quotidiano spagnolo, che ripercorre l’origine della crisi, dalle dichiarazioni di Veronica Lario, sottolineando l’anomalia di Berlusconi, capo del governo, “editore del maggior gruppo mediatico del Paese”, il suo controllo quasi totale della informazione televisiva, fino alle domande di Repubblica, seguite da ira e silenzio. Sarebbe salutare per la democrazia italiana, argomenta El Pais, “che Berlusconi prendesse carta e penna e spiegasse al mondo perché lo chiamano papi”.

“How one newspaper’s shameful questions have rattled Silvio Berlusconi”, The Observer, 24 maggio 2009. Il giornale inglese ripercorre in un lungo articolo l’intera vicenda Noemi, le domande “vergognose” di Repubblica che hanno innervosito il presidente del Consiglio, provocato una dura reazione da parte della stampa di destra, e innescato gli insulti del premier al cronista di Repubblica.

“Les questions sur les starlettes font enrager Silvio Berlusconi”, La Tribune de Geneve, 16 maggio 2009. E’ un Silvio Berlusconi “sull’orlo di una crisi di nervi” quello che se la prende con il principale quotidiano di Roma, secondo il quotidiano svizzero. Le domande di Repubblica, per far luce sulle molte zone d’ombra sono rimaste senza risposta perché il Cavaliere ha invocato il complotto, si legge sul quotidiano.

“L’origine des liens entre Berlusconi et la jeune Noémie”, Le soir, 24 maggio 2009. Il giornale belga riprende il caso usando un servizio della France Presse.

“L’affaire Noemi poursuit Berlusconi”, Le Figaro, 25 maggio 2009. Anche il quotidiano francese conservatore, che ieri sul caso titolava “La Repubblica mette in imbarazzo Berlusconi” continua a dare spazio alla vicenda Noemi, che “sta perseguitando il presidente del Consiglio”, dando conto della campagna di Repubblica, delle incongruità rivelate dall’inchiesta sul rapporto fra la ragazza ed il presidente del Consiglio e della richiesta di spiegazioni in Parlamento da parte dell’opposizione.

“L’insubmersible”, Slate.fr, 25 maggio 2009. Sul sito di informazione online diretto da Jean Marie Colombani, un lungo articolo di Marc Lazar riflette sull’enigma Berlusconi: accerchiato dai guai, dalla “strana relazione con la ragazza napoletana”, incalzato dalla stampa d’opposizione, “accusata di aver rivelato informazioni su di lui e di chiederne conto, come è normale in democrazia”, e ancora dal caso Mills e dall’economia in rosso. Eppure inaffondabile.

“Italie: la vie privée de Silvio Berlusconi continue de troubler la campagne”, Le Monde, 25 maggio 2009. Aumentano i guai per Silvio Berlusconi, si legge sul quotidiano francese. “Le spiegazioni contraddittorie date dal presidente del Consiglio” su Noemi Letizia “sono state smentite da un ex fidanzato della ragazza”.

“Sa liaison dangereuse”, La dernière heure, 25 maggio 2009. Berlusconi non ha finito di spiegare la sua relazione con un’adolescente, si legge sul quotidiano belga.

“Berlusconi e la 18enne: Cos’è successo veramente?”, Die Welt, 25 maggio 2009. Il quotidiano tedesco riprende le rivelazioni di Repubblica e rileva come la crisi “privata” in casa Berlusconi sia diventata ormai affare di stato.

Sulla stessa linea la Suddeutsche Zeitung, “Berlusconi, das model und die “lüge”, Berlusconi, la modella e la “bugia”.

E Bild:”So lernte Berlusconi die 18-Jährige wirklich kennen”, Così Berlusconi conobbe davvero la diciottenne.

“Ex Noemi klapt uit school over Berlusconi”, De Telegraaf, 25 maggio 2009. “L’ex di Noemi rivela”, si legge sul quotidiano olandese, che riprende l’intervista a Repubblica di Gino Flaminio.

Anche De Volkskrant parla delle rivelazioni dell’ex fidanzato di Noemi: “‘Berlusconi loog over relatie met minderjarige”‘, “‘Berlusconi ha mentito sulla sua relazione con la minorenne'” è il titolo del pezzo. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Spiacenti caro Pannella, non ci freghi più.

Marco Pannella rivendica giustamente il diritto a una campagna elettorale che non oscuri i radicali e tutte le forze minori in campagna elettorale. Lo fa alla sua maniera, lo sciopero della fame. Con la quale forma estrema va puntualmente in tv a dire che a lui in tv non lo invitano mai. Ormai è una rubrica, puntuale ad ogni elezione. Va bene, è giusto, dobbiamo appoggiarti.

A meno che non ci dobbiamo ricordare dei Capezzone, Vito, Taradasch, Della Vedova, Roccella, Quagliarello. A parte Rutelli, ci dimentiamo qualcun’altro uscito dalla tua scuola? Cioè: noi appoggiamo il diritto dei radicali e loro partoriscono dei mostri? Stavolta lascerei perdere: Giacinto detto Marco, stavolta saltiamo un turno. Tu fa pure lo sciopero della fame, noi lo sciopero dei rospi da mandare giù. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

L’Observer di Londra:”Per essere un uomo che controlla quasi metà delle stazioni televisive italiane, Silvio Berlusconi è diventato insolitamente preoccupato dalle attività di un singolo giornale quotidiano”.

di ENRICO FRANCESCHINI-repubblica.it
LONDRA – “Per essere un uomo che controlla quasi metà delle stazioni televisive italiane, Silvio Berlusconi è diventato insolitamente preoccupato dalle attività di un singolo giornale quotidiano”. Comincia così il lungo articolo pubblicato oggi dall’Observer, in pratica l’edizione domenicale del Guardian di Londra, sul presidente del Consiglio italiano e il suo rifiuto di rispondere alle dieci domande che gli sono state poste da “la Repubblica”. Titolo a tutta pagina: “Come le ‘vergognose domande’ di un giornale”, citazione tra virgolette del modo in cui le ha definite il premier, “hanno innervosito Berlusconi”. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

“Berlusconi mente nelle vicende private come in quelle pubbliche.”

“Berlusconi mente nelle vicende private come in quelle pubbliche. Questo non è accettabile. Decideranno
gli italiani se a loro questo comportamento piace o no. Nei paesi civili, di solito, un presidente del Consiglio che mente non piace agli elettori…”. Massimo D’Alema dixit. Beh, buona giornata.

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C’è chi paragona Berlusconi a Chavez. Ma il ddl di iniziativa popolare ha tutta l’aria di un coniglietto dal cilindro, per distogliere l’attenzione sui casi Mills e Noemi.

Berlusconi e l’appello al popolo sulla testa del parlamento. Una deriva populista, da comunista alla Chavez-blitzquotidiano.it

I siti internet di Repubblica e del Corriere della Sera hanno aperto la loro edizione domenicale con una notizia uguale: l’intervoista di Silvio Berlusconiu a una radio commerciale in cui rilancia la sua idea di una legge di iniziativa popolare che ridurre il numero dei parlamentari e aumentare i poteri del primo ministro. Un po’ è per polemica col suo vice politico Gianfranco Fini, un po’ però ci crede davvero.

Leggendo l’intervista nel contesto di una serie di altre dichiarazioni molto aggressive nei confronti di giornali e magistratura vengono i brividi e viene anche da pensare a un paese dell’America Latina dove Berlusconi potrebbe avere trovato un modello: il Venezuela di Hugo Chavez. Chavez, non dimentichiamolo, è un dittatore di matrice comunista che basa il suo potere su un rapporto diretto e quasi viscerale col popolo.

Il paragone è impressionante. (Beh, buona giornata).

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L’intervista all’ex fidanzato della fanciulla che chiama papi il premier: un colpo durissimo al consenso in vista delle elezioni.

Parla Gino, l’ex fidanzato della ragazza di Portici. La prima telefonata del Cavaliere: “Sono colpito dal tuo viso angelico”. “Così papi Berlusconi entrò nella vita di Noemi” di GIUSEPPE D’AVANZO e CONCHITA SANNINO-la Repubblica

NAPOLI – Il 14 maggio Repubblica ha rivolto al presidente del consiglio dieci domande che apparivano necessarie dinanzi alle incoerenze di un “caso politico”. Veronica Lario, infatti, ha proposto all’opinione pubblica e alle élites dirigenti del Paese due affermazioni e una domanda che hanno rimosso dal discreto perimetro privato un “affare di famiglia” per farne “affare pubblico”. Le due, allarmanti certezze della moglie del premier – lo ricordiamo – descrivono i comportamenti del presidente del Consiglio: “Mio marito frequenta minorenni”; “Mio marito non sta bene”.

Al contrario, la domanda posta dalla signora Lario – se ne può convenire – è crudamente politica e mostra le pratiche del “potere” di Silvio Berlusconi, pericolosamente degradate quando a rappresentare la sovranità popolare vengono chiamate “veline” senza altro merito che un bell’aspetto e l’amicizia con il premier, legami nati non si sa quando, non si sa come. “Ciarpame politico” dice la moglie del premier.
Silvio Berlusconi non ha ritenuto di rispondere ad alcuna delle domande di Repubblica.

E, dopo dieci giorni, Repubblica prova qui a offrire qualche traccia e testimonianza per risolvere almeno alcuni dei quesiti proposti. Per farlo bisogna raggiungere Napoli, una piccola fabbrica di corso San Giovanni e poi un appartamento, allegramente affollato di amici, nel popolare quartiere del Vasto a ridosso dei grattacieli del Centro Direzionale. Sono i luoghi di vita e di lavoro di Gino Flaminio.

Gino, 22 anni, operaio, una passione per la kickboxing, è stato per sedici mesi (dal 28 agosto del 2007 al 10 gennaio del 2009) l'”amore” di Noemi Letizia, la minorenne di cui il premier ha voluto festeggiare il diciottesimo anno in un ristorante di Casoria, il 26 aprile. Gino e Noemi si sono divisi, per quel breve, intenso, felice periodo le ore, i sogni, il fiato, le promesse. “Quando non dormivo da lei a Portici – è capitato una ventina di volte – o quando lei non dormiva qui da me, il sabato che non lavoravo mi tiravo su alle sei del mattino per portarle la colazione a letto; poi l’accompagnavo a scuola e ci tornavo poi per riportarla indietro con la mia Yamaha. Lei qualche volta veniva a prendermi in fabbrica, la sera, quando poteva”.

Gino Flaminio è in grado di dire quando e come Silvio Berlusconi è entrato nella vita di Noemi. Come quel “miracolo” (così Gino definisce l’inatteso irrompere del premier) ha cambiato – di Noemi – la vita, i desideri, le ambizioni e più tangibilmente anche il corpo, il volto, le labbra, gli zigomi; in una parola, dice Gino, “i valori”. Il ragazzo può raccontare come quell’ospite inaspettato dal nome così importante che faceva paura anche soltanto a pronunciarlo nel piccolo mondo di gente che duramente si fatica la giornata e un piatto caldo, ha deviato anche la sua di vita. Quieto come chi si è ormai pacificato con quanto è avvenuto, Gino ricorda: “Mi è stato quasi subito chiaro che tra me e la mia memi non poteva andare avanti. Era come pretendere che Britney Spears stesse con il macellaio giù all’angolo…”.

È utile ricordare, a questo punto, che il primo degli enigmi del “caso politico” è proprio questo: come Berlusconi ha conosciuto Noemi, la sua famiglia, il padre Benedetto “Elio” Letizia, la madre Anna Palumbo?
A Berlusconi è capitato di essere inequivocabile con la Stampa (4 maggio): “Io sono amico del padre, punto e basta. Lo giuro!”. Con France2 (6 maggio), il capo del governo è stato ancora più definitivo. Ricordando l’antica amicizia di natura politica con il padre Elio, Berlusconi chiarisce: “Ho avuto l’occasione di conoscere [Noemi] tramite i suoi genitori. Questo è tutto”.

Un affetto che il presidente del consiglio ha ripetuto ancor più recentemente quando ha presentato Noemi “in società”, per così dire, durante la cena che il governo ha offerto alle “grandi firme” del made in Italy a Villa Madama, il 19 novembre 2008: “È la figlia di miei cari amici di Napoli, è qui a Roma per uno stage” (Repubblica, 21 maggio). All’antico vincolo politico, accenna anche la madre di Noemi, Anna: “[Berlusconi] ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista”.

Berlusconi, qualche giorno dopo (e prima di essere smentito da Bobo Craxi), conferma. “[Elio] lo conosco da anni, è un vecchio socialista ed era l’autista di Craxi”. (Ansa, 29 aprile, ore 16,34). Più evasiva Noemi: “[Di come è nato il contatto familiare] non ricordo i particolari, queste cose ai miei genitori non le ho chieste”. (Repubblica, 29 aprile). Decisamente inafferrabile e chiuso come un riccio, il padre Elio (ha rifiutato di prendere visione di quest’ultima ricostruzione di Repubblica). Chiedono a Letizia: ci spiega come ha conosciuto Berlusconi? “Non ho alcuna intenzione di farlo” (Oggi, 13 maggio).

Gino ascolta questa noiosa tiritera con un sorriso storto sulle labbra, che non si sa se definire avvilito o sardonico. C’è un attimo di silenzio nella stanza al Vasto, un silenzio lungo, pesante come d’ovatta, rispettato dagli amici che gli stanno accanto; dalla sorella Arianna; dal padre Antonio; dalla madre Anna. È un silenzio che si fa opprimente in quella cucina, fino a un attimo prima rumorosa di risate e grida. La madre, Anna, si incarica di spezzarlo: “Quando un giorno Gino tornò a casa e mi disse che Noemi aveva conosciuto Berlusconi, lo presi in giro, non volli chiedergli nemmeno perché e per come. Mi sembrava ridicolo. Berlusconi dalle nostre parti? E che ci faceva, Berlusconi qui? Ripetevo a Gino: Berlusconi, Berlusconi! (gonfia le guance con sarcasmo). Un po’ ne ridevo, mi sembrava una buffonata di ragazzi”.

Gino la guarda, l’ascolta paziente e finalmente si decide a raccontare:
“I genitori di Noemi non c’entrano niente. Il legame era proprio con lei. È nato tra Berlusconi e Noemi. Mai Noemi mi ha detto che lui, papi Silvio parlava di politica con suo padre, Elio. Non mi risulta proprio. Mai, assolutamente. Vi dico come è cominciata questa storia e dovete sapere che almeno per l’inizio – perché poi quattro, cinque volte ho ascoltato anch’io le telefonate – vi dirò quel che mi ha raccontato Noemi. Il rapporto tra Noemi e il presidente comincia più o meno intorno all’ottobre 2008. Noemi mi ha raccontato di aver fatto alcune foto per un “book” di moda. Lo aveva consegnato a un’agenzia romana, importante – no, il nome non me lo ricordo – di quelle che fanno lavorare le modelle, le ballerine, insomma le agenzie a cui si devono rivolgere le ragazze che vogliono fare spettacolo. Noemi mi dice che, in quell’agenzia di Roma, va Emilio Fede e si porta via questi “book”, mica soltanto quello di Noemi. Non lo so, forse gli servono per i casting delle meteorine. Il fatto è – ripeto, è quello che mi dice Noemi – che, proprio quel giorno, Emilio Fede è a pranzo o a cena – non me lo ricordo – da Berlusconi. Finisce che Fede dimentica quelle foto sul tavolo del presidente. È così che Berlusconi chiama Noemi. Quattro, cinque mesi dopo che il “book” era nelle mani dell’agenzia, dice Noemi. È stato un miracolo, dico sempre. Dunque, dice Noemi che Berlusconi la chiama al telefono. Proprio lui, direttamente. Nessuna segretaria. Nessun centralino. Lui, direttamente. Era pomeriggio, le cinque o le sei del pomeriggio, Noemi stava studiando. Berlusconi le dice che ha visto le foto; le dice che è stato colpito dal suo “viso angelico”, dalla sua “purezza”; le dice che deve conservarsi così com’è, “pura”. Questa fu la prima telefonata, io non c’ero e vi sto dicendo quel che poi mi riferì Noemi, ma le credo. Le cose andarono così perché in altre occasioni io c’ero e Noemi, così per gioco o per convincermi che davvero parlava con Berlusconi, m’allungava il cellulare all’orecchio e anch’io sentii dalla sua voce quella cosa della “purezza”, della “faccia d’angelo”. E poi, una volta, ha aggiunto un’altra cosa del tipo: “Sei una ragazza divina”. Berlusconi, all’inizio, non ha detto a Noemi chi era. In quella prima telefonata, le ha fatto tante domande: quanti anni hai, cosa ti piacerebbe fare, che cosa fanno tua madre e tuo padre? Studi? Che scuola fai? Una lunga telefonata. Ma normale, tranquilla. E poi, quando Noemi si è decisa a chiedergli: “Scusi, ma con tutte queste domande, lei chi è?”, lui prima le ha risposto: “Se te lo dico, non ci credi”. E poi: “Ma non si sente chi sono?”. Quando Noemi me lo raccontò, vi dico la verità, io non ci credevo. Poi, quando ho sentito le altre telefonate e ho potuto ascoltare la sua voce, proprio la sua, di Berlusconi, come potevo non crederci? Noemi mi diceva che era sempre il presidente a chiamarla. Poi, non so se chiamava anche di suo, non me lo diceva e io non lo so. Lei al telefono lo chiamava papi tranquillamente. Anche davanti a me. Magari stavamo insieme, Noemi rispondeva, diceva papi e io capivo che si trattava del presidente. Quando ho assistito ad alcune telefonate tra Berlusconi e Noemi, ho pensato che fosse un rapporto come tra padre e figlia. Una sera, Emilio Fede e Berlusconi – insieme – hanno chiamato Noemi. Lo so perché ero accanto a lei, in auto. Ora non saprei dire perché il presidente le ha passato Emilio Fede, non lo so. Pensai che Fede dovesse preparare dei “provini” per le meteorine, quelle robe lì”. (Ieri, a tarda sera, durante Studio Aperto, Fede ha affermato di aver conosciuto la nonna di Noemi. Repubblica ha chiesto a Gino se, in qualche occasione, Noemi avesse fatto cenno a questa circostanza. “Mai, assolutamente”, è stata la risposta del ragazzo).

“Comunque, quella sera, sentii prima la voce del presidente e poi quella di Emilio Fede – continua Gino – Non voglio essere frainteso o creare confusione in questa tarantella, da cui voglio star lontano. Nelle telefonate che ho sentito io, Berlusconi aveva con Noemi un atteggiamento paterno. Le chiedeva come era andata a scuola, se studiava con impegno, questa roba qui. Io però ho cominciato a fuggire da questa situazione. Non mi piaceva. Non mi piaceva più tutto l’andazzo. Non vedevo più le cose alla luce del giorno, come piacevano a me. Mi sentivo il macellaio giù all’angolo che si era fidanzato con Britney Spears. Come potevo pensare di farcela? Gliel’ho detto a Noemi: questo mondo non mi piace, non credo che da quelle parti ci sia una grande pulizia o rispetto. Mi dispiaceva dirglielo perché io so che Noemi è una ragazza sana, ancora infantile che non si separa mai dal suo orsacchiotto, piccolo, blu, con una croce al collo, “il suo teddy”. Una ragazza tranquilla, semplice, con dei valori. Con i miei stessi valori, almeno fino a un certo punto della nostra storia”.

Intorno a Gino, questo racconto devono averlo già sentito più d’una volta perché ora che il ragazzo ha deciso di raccontare a degli estranei la storia, la tensione è caduta come se la famiglia, i vicini di casa, gli amici già l’avessero sentita in altre occasioni o magari a spizzichi e bocconi. C’è chi si distrae, chi parlotta d’altro, chi parla al telefono, chi si prepara a uscire per il venerdì notte. Gino sembra non accorgersene. Non perde il filo e a tratti pare ricordare, ancora una volta, a se stesso come sono andate le cose.

“Ho cominciato a distaccarmi da Noemi già a dicembre. Però la cosa che proprio non ho mandato giù è stata la lunga vacanza di Capodanno in Sardegna, nella villa di lui. Noemi me lo disse a dicembre che papi l’aveva invitata là. Mi disse: “Posso portare un’amica, un’amica qualunque, non gli importa. Ci saranno altre ragazze”. E lei si è portata Roberta. E poi è rimasta con Roberta per tutto il periodo. Io le ho fatto capire che non mi faceva piacere, ma lei da quell’orecchio non ci sentiva. Così è partita verso il 26-27 dicembre ed è ritornata verso il 4-5 gennaio. Quando è tornata mi ha raccontato tante cose. Che Berlusconi l’aveva trattata bene, a lei e alle amiche. Hanno scherzato, hanno riso… C’erano tante ragazze. Tra trenta e quaranta. Le ragazze alloggiavano in questi bungalow che stavano nel parco. E nel bungalow di Noemi erano in quattro: oltre a lei e a Roberta, c’erano le “gemelline”, ma voi sapete chi sono queste “gemelline”? Penso anche che lei mi abbia detto tante bugie. Lei dice che Berlusconi era stato con loro solo la notte di Capodanno. Vi dico la verità, io non ci credo. Sono successe cose troppo strane. Io chiamavo Noemi sul cellulare e non mi rispondeva mai. Provavo e riprovavo, poi alla fine mi arrendevo e chiamavo Roberta, la sua amica, e diventavo pazzo quando Roberta mi diceva: no, non te la posso passare, è di là – di là dove? – o sta mangiando: e allora?, dicevo io, ma non c’era risposta. Per quella vacanza di fine anno, i genitori accompagnarono Noemi a Roma. Noemi e Roberta si fermarono prima in una villa lì, come mi dissero poi, e fecero in tempo a vedere davanti a quella villa tanta gente – giornalisti, fotografi? – , poi le misero sull’aereo privato del presidente insieme alle altre ragazze, per quello che mi ha detto Noemi… Al ritorno, Noemi non è stata più la mia Noemi, la mia alicella (acciuga, ndr), la ragazza semplice che amavo, la ragazza che non si vergognava di venirmi a prendere alla sera al capannone. A gennaio ci siamo lasciati. Eravamo andati insieme, prima di Natale, a prenotare per la sua festa di compleanno il ristorante “Villa Santa Chiara” a Casoria, la “sala Miami” – lo avevo suggerito io – e già ci si aspettava una “sorpresa” di Berlusconi, ma nessuno credeva che la sorpresa fosse proprio lui, Berlusconi in carne e ossa. Ci siamo lasciati a gennaio e alla festa non ci sono andato. L’ho incontrata qualche altra volta, per riprendermi un oggetto di poco prezzo ma, per me, di gran valore che era rimasto nelle sue mani. Abbiamo avuto il tempo, un’altra volta, di avere un colloquio un po’ brusco. Le ho restituito quasi tutte le lettere e le foto. Le ho restituito tutto – ho conservato poche cose, questa lettera che mi scrisse prima di Natale, qualche foto – perché non volevo che lei e la sua famiglia pensassero che, diventata Noemi Sophia Loren, io potessi sputtanarla. Oggi ho la mia vita, la mia Manuela, il mio lavoro, mille euro al mese e va bene così ché non mi manca niente. Certo, leggo di questo nuovo fidanzato di Noemi, come si chiama?, che non s’era mai visto da nessuna parte anche se dice di conoscerla da due anni e penso che Noemi stia dicendo un sacco di bugie. Quante bugie mi avrà detto sui viaggi. A me diceva che andava a Roma sempre con la madre. Per dire, per quella cena del 19 novembre 2008 a Villa Madama mi raccontò: “Siamo stati a cena con il presidente, io, papà e mamma allo stesso tavolo”. Non c’erano i genitori seduti a quel tavolo? Allora mi ha detto un’altra balla. Quella sera le sono stati regalati una collana e un bracciale, ma non di grosso valore. E il presidente ha fatto un regalo anche a sua madre. Sento tante bugie, sì, e comunque sono fatti di Noemi, dei suoi genitori, di Berlusconi, io che c’entro?”.

Le parole di Gino Flaminio appaiono genuine, confortate dalle foto, dalla memoria degli amici (che hanno le immagini di Noemi e Gino sui loro computer), da qualche lettera, dai ricordi dei vicini e dei genitori, ma soprattutto dall’ostinazione con cui il ragazzo per settimane si è nascosto diventando una presenza invisibile nella vita di Noemi. Repubblica lo ha rintracciato con fatica, molta pazienza e tanta fortuna nella fabbrica di corso San Giovanni dove tutti i suoi compagni di lavoro conoscono Noemi, la storia dell’amore perduto di Gino. Compagni di lavoro che – fino alla fine – hanno provato a proteggerlo: “Gino? E chi è ‘sto Gino Flaminio?” e Gino se ne stava nascosto dietro un muro.

La testimonianza del ragazzo consente di liquidare almeno cinque domande dalla lista di dieci che abbiamo proposto al capo del governo. La ricostruzione di Gino permette di giungere a un primo esito: Silvio Berlusconi ha mentito all’opinione pubblica in ogni passaggio delle sue interviste. Nei giorni scorsi, come quando disse a France2 di aver “avuto l’occasione di conoscere [Noemi] tramite i suoi genitori”. O ancora ieri a Radio Montecarlo dove ha sostenuto di essersi addirittura “divertito a dire alla famiglia, di cui sono amico da molti anni, che non desse risposte su quella che è stata la nostra frequentazione in questi anni”. Come di cartapesta è la scena – del tutto artefatta – disegnata dalle testate (Chi) della berlusconiana Mondadori.

Il fatto è che Berlusconi non ha mai conosciuto Elio Letizia né negli “anni passati”, né negli “ambienti socialisti”. Mai Berlusconi ha discusso con Elio Letizia di politica e tantomeno delle candidature delle Europee (Porta a porta, 5 maggio). Berlusconi ha conosciuto Noemi. Le ha telefonato direttamente, dopo averne ammirato le foto e aver letto il numero di cellulare su un “book” lasciatogli da Emilio Fede. Poi, nel corso del tempo, l’ha invitata a Roma, in Sardegna, a Milano.
Le evidenti falsità, diffuse dal premier, gli sarebbero costate nel mondo anglosassone, se non una richiesta di impeachment, concrete difficoltà politiche e istituzionali. Nell’Italia assuefatta di oggi, quella menzogna gli vale un’altra domanda: perché è stato costretto a mentire? Che cosa lo costringe a negare ciò che è evidente? È vero, come sostiene Noemi, che Berlusconi ha promesso o le ha lasciato credere di poter favorire la sua carriera nello spettacolo o, in alternativa, l’accesso alla scena politica (Corriere del Mezzogiorno, 28 aprile)? Dieci giorni dopo, ci sono altre ragionevoli certezze. È confermato quel che Veronica Lario ha rivelato a Repubblica (3 maggio): il premier “frequenta minorenni”. Noemi, nell’ottobre del 2008, quando riceve la prima, improvvisa telefonata di Berlusconi ha diciassette anni, come Roberta, l’amica che l’ha accompagnata a Villa Certosa. La circostanza rinnova l’ultima domanda: quali sono le condizioni di salute del presidente del Consiglio? (Beh, buona giornata).

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La crisi economica, il convitato di pietra delle elezioni europee.

DOVE MORDE LA CRISI IN EUROPA di Jean Pisani-Ferry -lavoce.info
Col passare dei mesi la crisi nata negli Stati Uniti è diventata sempre più europea. Basta guardare i dati. Eppure, le risposte sono scarse, come se si faticasse a prendere coscienza dell’enormità del disastro. Gli Stati Uniti hanno intrapreso un programma di rilancio dell’economia che per ampiezza supera di gran lunga i piani europei. In gioco c’è la credibilità dell’Unione Europea. Le elezioni per il Parlamento europeo avrebbero potuto essere la buona occasione per un dibattito approfondito su molti temi cruciali. Peccato non sia stata colta in nessun paese.

Diciotto mesi fa, la crisi nata dai mutui subprime sembrava essere solo americana e si discuteva degli effetti che avrebbe avuto sul resto del mondo. Ma, col passare dei mesi, è divenuta sempre più europea. Basta osservare alcuni dati.

UN CONFRONTO DI DATI

1. La produzione industriale è diminuita, rispetto ai massimi livelli raggiunti, del 18 per cento nella zona euro contro il 13 per cento negli Usa. Nell’aprile 2008, il Fmi prevedeva, per il 2009, un tasso di crescita dello 0,6 negli Stati Uniti e dell’1,2 nella zona euro. Oggi, prevede un calo del Pil del 2,8 negli Usa e del 4,2 in Europa. Altre previsioni sono dello stesso tenore. Anche se gli indicatori avanzati suggeriscono che la ripresa è prossima in Francia, in Italia e nel Regno Unito, la recessione rischia di essere più forte in Europa.

2. Nell’ambito della zona euro, Spagna e Irlanda sono alle prese con una depressione immobiliare che, nel caso dell’Irlanda, è ulteriormente aggravata dal tracollo bancario. L’anno prossimo il tasso di disoccupazione spagnolo toccherà il 20 per cento. I tassi di interesse sui titoli di Stato, che fino all’anno scorso erano ovunque quasi gli stessi, sono ora molto diversi gli uni dagli altri. La Grecia, conosciuta per la sua negligenza in fatto di finanze pubbliche, e l’Irlanda, il cui debito pubblico triplicherà in tre anni, chiedono prestiti a due punti percentuali di tasso di interesse in più rispetto alla Germania.In queste condizioni, non c’è più solo da chiedersi se possa avvenire una crisi finanziaria in uno Stato della zona euro, ma di chi – tra Fmi e i suoi partner – potrà soccorrerlo al bisogno

3. L’Europa centrale e orientale vive una violenta crisi, probabilmente della stessa portata di quella asiatica del 1998. A parte la Polonia, che probabilmente soffrirà solo di una moderata recessione, gli altri Stati della regione, la cui crescita si basava principalmente sul risparmio straniero, sono colpiti in pieno dal mancato afflusso di capitali esteri. I paesi baltici, quest’anno, vedranno una caduta della produzione del 10 per cento, l’Ungheria e la Romania del 5 per cento. La Lettonia, seguendo il programma del Fmi, si è impegnata a ridurre i salari e la spesa pubblica, con intervento rispetto al quale la politica deflazionistica di Laval – nella Francia degli anni Trenta – era all’acqua di ros

4. Il Fmi ha appeno rivisto le sue stime sulle perdite delle banche e sulla necessità di capitali freschi. Stima che, nel periodo 2007-2010, le banche europee (zona euro e Gran Bretagna) subiranno perdite per 1.200 miliardi di dollari dei loro attivi, contro i 1.050 negli Stati Uniti. Ma soprattuto, rispetto a questo ammontare, le banche europee hanno accertato a oggi perdite per 260 miliardi di dollari (meno di un quarto) contro i 510 miliardi degli Stati Uniti. Le banche europee, dunque, dovrebbero ricapitalizzare per 500 miliardi di dollari, quelle statunitensi per 275 miliardi. In poche parole, le banche europeee hanno ancora due terzi del cammino di fronte a loro, mentre quelle americane sono sono già a metà strada. Alcuni ministeri del Tesoro europei contestano tali cifre, ma non hanno finora saputo darne altre. Del resto quello che le valutazioni dell’Fmi sottolineano è proprio la totale assenza di valutazioni comuni sulla situazione, da parte degli europei. I mercati finanziari ne hanno ovviamente tratto le conseguenze: i titoli delle banche europee sono scesi in borsa molto più di quelli delle banche americane.

Tutti questi fattori sono, del resto, interdipendenti. Se l’Europa va peggio degli Stati Uniti, ciò dipende sia dal fatto di essere maggiormente esposta al commercio mondiale, sia dal fatto che alla crisi mondiale si aggiungono le sue crisi interne, sia infine dalla brutta situazione delle sue banche. Se l’Europa dell’Est è in crisi è perché i suoi sbocchi europei si sono chiusi e le banche occidentali non le fanno più credito. Se l’Austria è in allarme per le sue banche, dipende dalla sua forte esposizione in Europa centrale. E così via. La difficoltà consiste non nello sbrogliare la matassa delle cause, cosa in fondo facile, bensì nel trovare risposte e soluzioni.

MANCANO LE RISPOSTE

Tuttavia, le risposte europee sono scarse, come se si faticasse a prendere coscienza dell’enormità del disastro. Gli Stati Uniti hanno intrapreso un programma di rilancio dell’economia su due anni, la cui ampiezza supera di gran lunga i piani europei, anche tenendo conto della differenza di misura dei sistemi pubblici e dei loro effetti di stabizzazione automatica. La Federal Reserve americana, da parte sua, ha azzerato i tassi di interesse e si è lanciata in un programma d’acquisto di attivi finanziari pubblici e privati. In Europa, ci si muove con maggiore cautela e in maniera esitante, sia da parte degli Stati, sia da parte della Bce, che ha abbassato i suoi tassi col contagocce ed è solo parzialmente impegnata nelle operazioni di “alleggerimento quantitativo”. Persino nel settore in cui la sua politica è meno convincente, vale a dire quello della crisi bancaria, Barack Obama ha perlomeno sottoposto tutte le grandi banche al medesimo stress test. In Europa, ogni paese si affanna a dichiarare che le proprie banche sono in condizioni migliori di quelle degli Stati vicini.

Difficile spiegare questa differenza di atteggiamento. Infatti, non solo in Europa la congiuntura è più negativa e il bisogno di capitali da parte delle banche più forte, ma l’economia è assai più dipendente dal settore bancario. Per ogni dieci euro di indebitamento delle aziende non-finanziarie, nove euro sono rappresentati da prestiti bancari nella zona euro, contro i sette del Regno Unito e i sei degli Stati Uniti. In altri termini, molte aziende americane riescono ad aggirare un sistema bancario deficitario, emettendo titoli di debito sul mercato dei capitali (anche a costo che sia la Fed stessa ad acquistare quei titoli), mentre in Europa, soprattutto nella zona euro, ciò è permesso solo alle grandi aziende.

UNA SFIDA ESISTENZIALE

Sostanzialmente, l’Unione Europea è sottoposta a una sfida esistenziale, sfida che invece non si pone per gli Stati Uniti. Sono in gioco infatti sia la sua credibilità in quanto istituzione sia quella coesione costruita con un faticoso processo di integrazione.

È in gioco la sua credibilità, perché è proprio in situazioni come queste che i cittadini valutano la qualità di un sistema politico. Gli europei si ricorderanno sicuramente, per decenni, ciò che avranno appreso durante questa crisi acuta e il loro atteggiamento futuro nei confronti dell’istituzione dipenderà da come essa ha reagito. Ora, se è vero che nell’ottobre 2008, di fronte al rischio di crollo del sistema finanziario, i paesi della zona euro e la Gran Bretagna si sono coordinatiper fornire una risposta comune e che qualche settimana più tardi, con il pericolo incombente della recessione, hanno convenuto di lanciare programmi comuni di risanamento finanziario, è anche vero che l’attuazione dei programmi è stata a dir poco disomogenea. In generale, resta il dubbio se un sistema edificato per tempi “di pace”sia altrettanto valido per quelli “di guerra”. Come è chiaro dal Patto di Stabilità stesso, il sistema di governo europeo si basa proprio sull’idea che una politica comune prudente serva a evitare le crisi, ma non prevede una capacità istituzionale di gestirle, qualora sopravvengano.

Persino due pilastri dell’integrazione europea, quali il mercato unico e l’allargamento ad altri Stati membri, ne risultano scossi. Come ha detto Charles Goodhart, sappiamo adesso che le banche “vivono globali, ma muoiono nazionali”, perché solo gli Stati-nazione possiedono i mezzi per intervenire, onde evitare il loro fallimento. E quando gli Stati forniscono il loro appoggio alle banche, si aspettano in contropartita che esse concedano crediti alle famiglie e alle aziende nazionali, non a quelle dei paesi vicini. Ciò mina le fondamenta di un mercato unico costruito sull’ipotesi che le banche del futuro ignorino le frontiere. Per quanto riguarda l’allargamento dell’Unione, se ne rimette in questione l’opportunità per via della battuta d’arresto di un modello di crescita che, in molti paesi dell’Est, si basava sulla domanda di capitali esteri per finanziare gli investimenti. Ma la richiesta di sicurezza che oggigiorno si è impossessata dei mercati internazionali dei capitali minaccia la stabilità dei nuovi paesi membri e fa dubitare che, in un prossimo futuro, possano convergere ai livelli di benessere dei paesi occidentali. Come risposta, l’Unione ha incrementato le risorse disponibili per il sostegno finanziario dell’Europa centro-orientale, ma è contraria a intraprendere strategie regionali ed esita sull’allargamento della zona euro.

La posta in gioco è quindi altissima. Tuttavia, con una presidenza attualmente tenuta da un paese in cui è caduto il governo e una Commissione che presa tra i due fuochi del Trattato attuale e quello in corso di ratifica, termina il suo mandato senza sapere quando sarà sostituita, la guida dell’Unione Europea è semi-vacante.Quanto alle elezioni per il Parlamento europeo, che avrebbero potuto essere la buona occasione per dibattere su tutti questi problemi, si presentano come un avvenimento di debole intensità politica. È un vero peccato. Il 2009 passerà alla storia come l’anno delle occasioni perdute? (Beh, buona giornata).

Traduzione dal francese di Daniela Crocco

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Telos.

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Le 10 domande di Repubblica:”Nessun altro leader democratico avrebbe potuto ignorare i quesiti su questa amicizia nel modo in cui lo ha fatto Berlusconi”, scrive The Guardian.

“In praise of La Repubblica” (A elogio de la Repubblica) è l’editoriale pubblicato da The Guardian. Ecco il testo.

“Nonostante rumori minacciosi da parte di Silvio Berlusconi, il principale quotidiano italiano di centro-sinistra si è rifiutato di smettere di chiedere risposte alle 10 domande poste al premier circa la sua relazione con una adolescente napoletana, Noemi Letizia. Nessun altro leader democratico avrebbe potuto ignorare i quesiti su questa amicizia nel modo in cui lo ha fatto Berlusconi. La sua spiegazione di come ha conosciuto la famiglia Letizia non regge. Egli non ha spiegato l’affermazione della sua giovane amica sul fatto che il premier le avrebbe aperto la strada in politica o nello show business. Né ci sono state spiegazioni sulle nuove rivelazioni secondo cui la 18enne signorina Letizia è proprietaria di quattro case. Questa è molto più che curiosità della stampa. Sua moglie ha detto che non può più stare con un uomo che “frequenta minorenni” e che egli “non sta bene”. Repubblica ha fatto notare che le dichiarazioni della signorina Letizia sui regali di compleanno ricevuti dall’uomo che lei chiama ‘papi’ lasciano intendere che erano amici da quando lei aveva 15 anni. La stampa rimane una delle poche forze critiche in una società in cui quasi tutti i canali televisivi rispondono a Mr. Berlusconi. Finora, il suo solo gesto per dare spiegazioni è stato di apparire in un talk show il cui ossequioso presentatore gli ha lasciato pronunciare un monologo autogiustificativo. Ma quando un giornalista di Repubblica ha provato a fargli una domanda questa settimana, Mr. Berlusconi ha perso le staffe. “Che diritto ha di fare domande?”, ha gridato. La risposta, in una società democratica, deve essere: “Tutti i diritti del mondo”. Repubblica sta combattendo una battaglia solitaria e merita sostegno”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto

“Le motivazioni della sentenza che ha condannato David Mills ci raccontano il coinvolgimento diretto e personale di Silvio Berlusconi nella creazione e nella gestione di 64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest”.

Un leader in fuga dalla verità di GIUSEPPE D’AVANZO-repubblica.it

È giusto ricordare che, se Silvio Berlusconi non si fosse fabbricato l’immunità con la “legge Alfano”, sarebbe stato condannato come corruttore di un testimone che ha protetto dinanzi ai giudici le illegalità del patron della Fininvest. Condizione non nuova per Berlusconi, salvato in altre occasioni da norme che egli stesso si è fatto approvare da un parlamento gregario.

Le leggi ad personam, è vero, sono un lacerto dell’anomalia italiana che trova il suo perno nel conflitto di interessi, ma la legislazione immunitaria del premier è soltanto un segmento della questione che oggi l’Italia e l’Europa hanno davanti agli occhi. Le ragioni della condanna di David Mills (il testimone corrotto dal capo del governo) chiamano in causa anche altro, come ha sempre avuto chiaro anche il presidente del consiglio. Nel corso del tempo, il premier ha affrontato il caso “All Iberian/Mills” con parole definitive, con impegni che, se fosse coerente, oggi appaiono temerari: “Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conoscevo neppure l’esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario” (Ansa, 23 novembre 1999, ore 15,17). Nove anni dopo, Berlusconi è a Bruxelles, al vertice europeo dei capi di Stato e di governo. Ripete: “Non conoscevo Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l’Italia” (Il sole24ore. com; Ansa, 20 giugno 2008, ore 15,47). È stato lo stesso Berlusconi a intrecciare consapevolmente in un unico destino il suo futuro di leader politico, “responsabile di fronte agli elettori”, e il suo passato di imprenditore di successo. Quindi, ancora una volta, creando un confine indefinibile tra pubblico e privato. Se ne comprende il motivo perché, nell’ideologia del premier, il suo successo personale è insieme la promessa di sviluppo del Paese. I suoi soldi sono la garanzia della sua politica; sono il canone ineliminabile della “società dell’incanto” che lo beatifica; quasi la condizione necessaria della continua performance spettacolare che sovrappone ricchezza e infallibilità.

Otto anni fa questo giornale, dando conto di un documento di una società internazionale di revisione contabile (Kpmg) che svelava l’esistenza di un “comparto estero riservato della Fininvest”, chiedeva al premier di rispondere a qualche domanda “non giudiziaria, tanto meno penale, neppure contabile: soltanto di buon senso. Perché questi segreti, e questi misteri? Perché questo traffico riservato e nascosto? Perché questo muoversi nell’ombra? Il vero nucleo politico, ma prima ancora culturale, della questione sta qui perché l’imprenditorialità, l’efficienza, l’homo faber, la costruzione dell’impero ? in una parola, i soldi ? sono il corpo mistico dell’ideologia berlusconiana” (Repubblica, 11 aprile 2001). Berlusconi se la cavò come sempre dandosi alla fuga. Andò a farsi intervistare senza contraddittorio a Porta a porta per dire: “All Iberian? Galassia off-shore della Fininvest? Assolute falsità”.

La scena oggi è mutata in modo radicale. Se il processo “All Iberian” (condanna e poi prescrizione) aveva concluso in Cassazione che “non emerge negli atti processuali l’estraneità dell’imputato”, le motivazioni della sentenza che ha condannato David Mills ci raccontano il coinvolgimento “diretto e personale” di Silvio Berlusconi nella creazione e nella gestione di “64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest”. Le creò David Mills per conto e nell’interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle “fiamme gialle” corrotte), Mills mentì in aula per tener lontano Berlusconi dai guai, da quella galassia di cui l’avvocato inglese si attribuì la paternità ricevendone in cambio “enormi somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali”, come si legge nella sentenza.

È la conclusione che ha reso necessaria l’immunità. Berlusconi temeva questo esito perché, una volta dimostrato il suo governo personale sulle 64 società off-shore, si può oggi dare risposta alle domande di otto anni fa, luce a quasi tutti i misteri della sua avventura imprenditoriale. Si può comprendere come è nato l’impero del Biscione e con quali pratiche. Lungo i sentieri del “group B very discreet della Fininvest” sono transitati quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come “i politici costano molto? ed è in discussione la legge Mammì”). E ancora, il finanziamento estero su estero a favore di Giulio Malgara, presidente dell’Upa (l’associazione che raccoglie gli inserzionisti pubblicitari) e dell’Auditel (la società che rileva gli ascolti televisivi); la proprietà abusiva di Tele+ (violava le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le “fiamme gialle”); il controllo illegale dell’86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l’acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; la risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. Sono le connessioni e la memoria che sbriciolano il “corpo mistico” dell’ideologia berlusconiana: al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c’è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

Questo è il quadro che dovrebbe convincere Berlusconi ad affrontare con coraggio, in pubblico e in parlamento, la sua crisi di credibilità, la decadenza anche internazionale della sua reputazione. Magari con un colpo d’ala rinunciando all’impunità e accettando un processo rapido. Non accadrà. Il premier non sembra comprendere una necessità che interpella il suo privato e il suo ufficio pubblico, l’immagine stessa del Paese dinanzi al mondo. Prigioniero di un ostinato narcisismo e convinto della sua invincibilità, pensa che un bluff o qualche favola o una nuova nebbia mediatica possano salvarlo ancora una volta. Dice che non si farà processare da questi giudici e sa che non saranno “questi giudici” a processarlo. Sa che non ci sarà, per lui, alcun processo perché l’immunità lo protegge. Come sa che, se la Corte Costituzionale dovesse cancellare per incostituzionalità lo scudo immunitario, le norme sulla prescrizione che si è approvato uccideranno nella culla il processo. Promette che in parlamento “dirà finalmente quel che pensa di certa magistratura”, come se non conoscessimo la litania da quindici anni. Finge di non sapere che ci si attende da lui non uno “spettacolo”, ma una risposta per le sue manovre corruttive, i metodi delle sue imprese, i sistemi del suo governo autoreferenziale e privatistico. S’aggrappa al solito refrain, “gli italiani sono con me”, come se il consenso lo liberasse da ogni vincolo, da ogni dovere, da ogni onere. Soltanto un potere che si ritiene “irresponsabile” può continuare a tacere. Quel che si scorge in Italia oggi ? e non soltanto in Italia ? è un leader in fuga dalla sua storia, dal suo presente, dalle sue responsabilità. Un leader che non vuole rispondere perché, semplicemente, non può farlo.

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democrazia Leggi e diritto

“La pubblicazione delle motivazioni della sentenza di condanna dell’avvocato Mills, nel processo per corruzione in atti giudiziari che vede implicato anche il presidente del Consiglio, sarebbe il “de profundis” per qualunque uomo politico, in qualunque paese normale. Non così in Italia.”

Il Cavaliere impunito di MASSIMO GIANNINI-repubblica.it

Come il morto che afferra il vivo, il fantasma della giustizia trascina ancora una volta Silvio Berlusconi nell’abisso. La pubblicazione delle motivazioni della sentenza di condanna dell’avvocato Mills, nel processo per corruzione in atti giudiziari che vede implicato anche il presidente del Consiglio, sarebbe il “de profundis” per qualunque uomo politico, in qualunque paese normale. Non così in Italia. Questo è un Paese dove un’osservazione così banale diventa paradossalmente impronunciabile in Transatlantico o sui media (persino per l’afona opposizione di centrosinistra) pena la squalifica nei gironi infernali dell'”antiberlusconismo” o del “giustizialismo”.

Questo è un Paese dove il premier ha risolto tanta parte dei suoi antichi guai giudiziari con leggi ad personam che gli hanno consentito proscioglimenti a colpi di prescrizione, e che si è protetto dall’ultima pendenza grazie allo scudo del Lodo Alfano, imposto a maggioranza poco meno di un anno fa, quasi come “atto fondativo” della nuova legislatura.

Ora, di quell’ennesimo colpo di spugna preventivo si comprende appieno la ragion d’essere. Secondo i giudici milanesi, l’avvocato inglese incassò 600 mila dollari dal gruppo Fininvest per testimoniare il falso nei processi per le tangenti alla Guardia di Finanza e All Iberian. “Mentì per consentire a Berlusconi l’impunità”, recita un passaggio delle 400 pagine delle motivazioni. Un’accusa gravissima. Una prova schiacciante. Dalla quale il Cavaliere, guardandosi bene dal difendersi nel processo, ha preferito svicolare grazie al salvacondotto di un’altra legge ritagliata su misura, e ora sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale. Perché dietro la formula enfatica che dà il titolo al Lodo Alfano (cioè la “sospensione dei processi per le Alte Cariche dello Stato”) è chiaro a tutti che l’unica carica da salvare era ed è la sua. “Riferirò in Parlamento”, annuncia ora Berlusconi. Bontà sua. Pronuncerà l’ennesima, violenta invettiva contro le toghe rosse e la magistratura comunista, “cancro da estirpare” nell’Impero delle Libertà. E invece basterebbe pronunciare una sola parola, quella che non ascolteremo mai: dimissioni.

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democrazia Media e tecnologia

Il Times di Londra: “le domande poste da la Repubblica – sul coinvolgimento del signor Berlusconi nella selezione delle candidate, e sul fatto se egli abbia promesso di aiutare la signorina Letizia a perseguire una carriera in politica o nello spettacolo – non sono intrusioni nella vita privata.”

Il Times dalla parte di Repubblica “Berlusconi vuole intimidire il dissenso”-da repubblica.it

Il Times di Londra dedica oggi un editoriale non firmato, come è tradizione della stampa anglosassone quando l’articolo riflette l’opinione della direzione del giornale, sulla questione delle dieci domande poste da “Repubblica” a Silvio Berlusconi.

L’editoriale del giornale, di cui è proprietario Rupert Murdoch, è intitolato “Public Duty and Private Vendetta” (Dovere pubblico e vendetta privata”), con questo sommario: “L’attacco di Silvio Berlusconi contro un giornale italiano è una campagna per intimidire il dissenso”. Ecco il testo dell’editoriale:

“Silvio Berlusconi, il primo ministro italiano, si lamenta di essere vittima di una diffamazione. Egli ha attaccato la Repubblica dopo che il giornale lo ha sfidato a spiegare la sua relazione con un’aspirante modella di 18 anni, Noemi Letizia, che si rivolge a lui chiamandolo ‘Papi’. Secondo il signor Berlusconi, questo è un complotto della sinistra per minare la sua autorità. La lamentela del signor Berlusconi è sfrontatamente insensata. Egli ha invitato a deriderlo promuovendo come candidati per le elezioni europee delle giovani donne il cui glamour personale supera la conoscenza politica. Questa ultima impresa ha spinto sua moglie, che soffre da lungo tempo, a chiedere il divorzio.

Le domande poste da la Repubblica – sul coinvolgimento del signor Berlusconi nella selezione delle candidate, e sul fatto se egli abbia promesso di aiutare la signorina Letizia a perseguire una carriera in politica o nello spettacolo – non sono intrusioni nella vita privata. Esse si collegano al ruolo pubblico del signor Berlusconi come uomo politico e come magnate dei media. I contorti affari politici del signor Berlusconi sono ulteriormente confusi dal suo dominio dei media. Egli controlla tre canali televisivi nazionali.

La sua campagna contro la Repubblica sembra un sinistro tentativo di intimidire il dissenso per proteggere una reputazione privata. E’ particolarmente di cattivo gusto che egli abbia usato la propria posizione nei media per criticare la propria moglie, insinuando che ella è mentalmente instabile. Queste sono le azioni di un uomo ricco e potente che tratta la politica e i media come feudi. Il signor Berlusconi ha apparentemente scarsa comprensione delle divisioni tra interesse privato e dovere pubblico. Il giornale che lo critica sta facendo un’opera di pubblico servizio per una popolazione malamente governata”. (Beh, buona giornata).

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democrazia

La solitudine del “papi”.

Dietro gli attacchi alla stampa c’è la solitudine del premier di Stefano Folli-sole24ore.com

Le ultime settimane hanno messo in luce una parziale novità: la solitudine di Silvio Berlusconi. Una solitudine politica che nessun sondaggio d’opinione, per quanto confortante, riesce a lenire. L’aspetto curioso è che questa condizione si è delineata all’indomani di un momento trionfale, come è stato il congresso da cui è nato il Popolo della Libertà. Senza contare le giornate drammatiche del terremoto dell’Aquila, quando l’impegno del presidente del Consiglio e dei suoi collaboratori ha spinto in alto tutti gli indici di gradimento.

Poi qualcosa si è incrinato. Lo riconosce persino un giornale amico, ma non privo di senso critico, come Il Foglio: «La luna di miele tra Silvio Berlusconi e il paese è finita» scriveva ieri. Pur aggiungendo: «In compenso, l’opposizione non sembra arrivata nemmeno al primo appuntamento». Ma questa mancanza di alternativa, dovuta alla debolezza e peggio alla confusione in cui arranca il Pd, non cancella l’impressione che qualcosa è cambiato nel rapporto di tipo carismatico fra Berlusconi e gli italiani.

Può darsi, anzi è probabile, che i risvolti pratici siano per ora irrisori. Le elezioni europee e amministrative si annunciano come un buon successo, forse ottimo, per le liste di centro-destra. Tuttavia il leader appare nervoso e inquieto come mai in passato. Soprattutto appare solo. Il modo in cui ha replicato a Repubblica è emblematico.
Il giornale, come è noto, ha riassunto in dieci domande gli interrogativi che molti si sono posti intorno al «caso Letizia», la famiglia di Casoria presso cui il premier si è recato a festeggiare il compleanno della diciottenne Noemi, figlia di un uomo del posto che gli è amico da lunga data.

I quesiti sono insidiosi, ma rientrano nella prassi della libertà di stampa e nei doveri di un giornale che non intende fare sconti al politico più potente del paese. Logica voleva che Berlusconi rispondesse con stile. Magari eludendo con astuzia i punti scomodi, ma accettando la sfida della trasparenza cui era chiamato da uno dei più autorevoli quotidiani nazionali. Viceversa il premier ha diffuso a caldo un comunicato stizzito in cui si parlava di «odio» e di «invidia» nei suoi confronti. Ieri, in una conferenza stampa dedicata ad altri temi, ha rifiutato di rispondere ai giornalisti che lo sollecitavano. Purtroppo non si tratta di una prova di forza, ma di debolezza. Per meglio dire, si tratta di un errore che rischia di avere conseguenze imprevedibili. Perché non è normale che un presidente del Consiglio in carica attacchi i giornali sgraditi e rifiuti di chiarire una vicenda controversa che lo riguarda.

Anche questo dà l’idea di un personaggio solo e irrequieto. Poche voci si sono levate in sua difesa dopo il «caso Letizia» e la crisi matrimoniale che ne è seguita. L’ambiguità alimentata fin dall’inizio (affare privato, affare pubblico?) non ha fatto che peggiorare la situazione e anche sul piano politico Berlusconi ha raccolto scarsa o nulla solidarietà dai suoi alleati. Bossi lo ha criticato subito, molti altri hanno taciuto. Nel frattempo l’orologio della politica ha scandito altri passaggi: la vittoria della Lega sull’immigrazione, i pesanti rilievi del capo dello Stato sui rischi di xenofobia, le critiche dell’Onu, i problemi della ricostruzione in Abruzzo. E adesso i dati del Pil in caduta verticale. A Palazzo Grazioli il premier si consola con i sondaggi elettorali. Ma è il primo a sapere che occorre un colpo d’ala, pena il declino. (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

Mentre alle critiche dell’Onu sui respingimenti il governo risponde con un fascistissimo “me ne frego”, degli immigrati gli italiani se ne fregano davvero.

Immigrati urla e silenzi di BARBARA SPINELLI-La Stampa

Nel dichiarare guerra agli immigrati clandestini e alla tratta di esseri umani, il governo è sicuro di una cosa: dalla sua parte ha un gran numero di italiani, almeno due su tre. Ne è sicura la Lega, assai presente nel territorio. Ne è sicuro Berlusconi, che scruta in quotidiani sondaggi l’umore degli elettori. Non ci sono solo i sondaggi, d’altronde: indagini e libri (per esempio quello di Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Mulino 2008) confermano che la paura – in particolare la paura della crescente criminalità tra gli immigrati – è oggi un sentimento diffuso, che il politico non può ignorare. A questo sentimento possente tuttavia i governanti non solo si adeguano: lo dilatano, l’infiammano con informazioni monche, infine lo usano. È quello che Ilvo Diamanti chiama la metamorfosi della realtà in iperrealtà.

Negli ultimi vent’anni l’iperrealismo ha caratterizzato tre guerre, fondate tutte sulla paura: la guerra al terrorismo mondiale, alla droga e alla tratta di esseri umani. Le ultime due son condotte contro mafie internazionali e italiane (la tratta di migranti procura ormai più guadagni del commercio d’armi) i cui rapporti col terrorismo non sono da escludere. Sono lotte necessarie, ma non sempre il modo è adeguato: contro il terrorismo e i cartelli della droga, la guerra non ha avuto i risultati promessi.

George Lakoff, professore di linguistica, disse nel 2004 che la parola guerra – contro il terrore – era «usata non per ridurre la paura ma per crearla». La guerra alla tratta di uomini rischia insuccessi simili. Le tre guerre in corso sono spesso usate dal potere politico, che nutrendosene le rinfocola.

Roberto Saviano lo spiega da anni, con inchieste circostanziate: ci sono forme di lotta alla clandestinità votate alla sconfitta, perché trascurano la malavita italiana che di tale traffico vive. Ed è il silenzio di politici e dei giornali sulle nostre mafie a trasformare l’immigrato in falso bersaglio, oltre che in capro espiatorio. Lo scrittore lo ha ripetuto in occasione dei respingimenti in mare di fuggitivi. Le paure hanno motivo d’esistere, ma per combatterle occorrerebbe andare alle radici del male, denunciare i rapporti tra mafie straniere e italiane: le prime non esisterebbero senza le seconde, e comunque la malavita viaggia poco sui barconi. Saviano dice un’altra verità: se ci mettessimo a osservare le condotte dei migranti, la paura si complicherebbe, verrebbe controbilanciata da analisi e sentimenti diversi. Una paura che si complica è già meno infiammabile, strumentalizzabile.

Saviano elenca precise azioni di immigrati nel Sud Italia. Negli ultimi anni, alcune insurrezioni contro camorra e ’ndrangheta sono venute non dagli italiani, ormai rassegnati, ma da loro. È successo a Castelvolturno il 19 settembre 2008, dopo la strage di sei immigrati africani da parte della camorra. È successo a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dopo l’uccisione di lavoratori ivoriani uccisi perché ribelli alla ’ndrangheta, il 12 dicembre 2008. Ma esistono altri casi, memorabili. Il 28 agosto 2006, all’Argentario, una ragazza dell’Honduras, Iris Palacios Cruz, annega nel salvare una bambina italiana che custodiva. L’11 agosto 2007 un muratore bosniaco, Dragan Cigan, annega nel mare di Cortellazzo dopo aver salvato due bambini (i genitori dei bambini lasciano la spiaggia senza aspettare che il suo corpo sia ritrovato). Il 10 marzo 2008 una clandestina moldava, Victoria Gojan, salva la vita a un’anziana cui badava. Lunedì scorso, due anziani coniugi sono massacrati a martellate alla stazione di Palermo, nessun passante reagisce tranne due nigeriani, Kennedy Anetor e John Paul, che acciuffano il colpevole: erano giunti poche settimane fa con un barcone a Lampedusa. Può accadere che l’immigrato inoculi nella nostra cultura un’umanità e un senso di rivolta che negli italiani sono al momento attutiti (Saviano, la Repubblica 13 maggio 2009).

Questo significa che in ogni immigrato ci sono più anime: la peggiore e la migliore. Proprio come negli italiani: siamo ospitali e xenofobi, aperti al diverso e al tempo stesso ancestralmente chiusi. Sono anni che gli italiani ammirano simultaneamente persone diverse come Berlusconi e Ciampi. Oggi ammirano Napolitano; anche quando critica il «diffondersi di una retorica pubblica che non esita, anche in Italia, ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Son rari i popoli che hanno di se stessi un’opinione così beffarda come gli italiani, ma son rari anche i popoli che raccontano, su di sé, favole così imbellite e ignare della propria storia. L’uso che viene fatto della loro paura consolida queste favole. Nel nostro Dna c’è la cultura dell’inclusione, dicono i giornali; non c’è xenofobia né razzismo. Gli italiani non si credono capaci dei vizi che possiedono: il nemico è sempre fuori. Non vivono propriamente nella menzogna ma in una specie di bolla: in un’illusione che consola, tranquillizza, e non per forza nasce da mala fede. Nasce per celare insicurezze, debolezze. Nasce soprattutto perché il cittadino è molto male informato, e la mala informazione è una delle principali sciagure italiane. È vero, la criminalità tra gli immigrati cresce, ma cresce in un clima di legalità debole, di mafie dominanti, di degrado urbano. Un clima che esisteva prima che l’immigrazione s’estendesse, spiega Barbagli. Se la malavita italiana svanisse, quella dei clandestini diminuirebbe.

La menzogna viene piuttosto dai governanti, e in genere dalla classe dirigente: che non è fatta solo di politici ma di chiunque influenzi la popolazione, giornalisti in prima linea. Tutti hanno contribuito alla bolla d’illusioni, al sentire della gente di cui parla Bossi. Tutti son responsabili di una realtà davanti alla quale ora ci si inchina: che vien considerata irrefutabile, immutabile, come se essa non fosse fatta delle idee soggettive che vi abbiamo messo dentro, oltre che di oggettività. I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela. La realtà dei fatti è che ogni mafia, le nostre e le straniere, si ciba di morte, di illegalità, di clandestinità. La realtà è un’Italia multietnica da anni. Il pericolo non è solo l’iperrealtà: è la manipolazione e la mala informazione.

Per questo è un po’ incongruo accusare di snobismo o elitismo chi denuncia le attuali politiche anti-immigrazione. Quando si vive in una realtà manipolata, chi si oppone non dice semplicemente no: si esercita ed esercita a vedere i fatti da più lati, non solo da uno. Rifiuta di considerare, hegelianamente, che «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Che ciò che è popolare è giusto, e ciò che è impopolare ingiusto o cervellotico. Bucare la bolla vuol dire fare emergere il reale, cercare le verità cui gli italiani aspirano anche quando s’impaurano rintanandosi. Accettare le loro illusioni aiuta poco: esalta la loro parte rinunciataria, lusinga le loro risposte provvisorie, non li spinge a interrogarsi e interrogare.

Lo sguardo straniero sull’Italia è prezioso, in tempi di bolle: ogni articolo che viene da fuori erode la mala informazione. Non che gli altri europei siano migliori: nelle periferie francesi e inglesi l’esclusione è semmai più feroce. Ma ci sono parole che lo straniero dice con meno rassegnazione, meno cinismo. Ci sono domande e moniti che tengono svegli. Per esempio quando Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci chiede come mai accettiamo tante cose, dette da Berlusconi, manifestamente false. O quando Perry Anderson chiede come mai l’auto-ironia italiana non abbia prodotto una discussione sul passato vasta come in Germania (London Review of Books, 12-3-09). O quando l’Onu ci rammenta le leggi internazionali che stiamo violando. (beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Nel nome del Papi Re.

«Mi chiedono perché non reagiamo» di Susanna Turco-l’Unità

«L’effetto Berlusconi all’estero? Dico solo che ormai chiamano “papi” anche me. A New York, come a Londra». Carlo Segni, trader alla Banca Mondiale di Washington, 41 anni, da 15 negli Stati Uniti, spinta a tornare in Italia scarsina, ma soprattutto – quando capita l’argomento – decisamente poco incline a parlare delle avventure del governo e del suo premier con amici, colleghi e conoscenti non italiani.

«Mi sento molto in imbarazzo, un imbarazzo al limite della vergogna», spiega. «È una continua presa in giro, uno scherzare su quello che è visto come un uomo ridicolo, un joker internazionale. In generale diamo l’impressione di un Paese in discesa, dal sistema non credibile. E la cosa più sconvolgente è che la caratterizzazione di Berlusconi come personaggio grottesco è arrivata fino al governatore della Banca centrale del Kirghizistan. Anche lui ne parla così». Veline, certo, ma non solo.

«Dopo quel che è successo sul fronte della sicurezza e dell’immigrazione negli Stati Uniti ci danno degli xenofobi, dei razzisti. D’altra parte, se la critica arriva da un organismo internazionale come l’Onu, non c’è spiegazione di primo ministro che tenga: il messaggio che passa all’estero è quello». Particolarmente penoso il capitolo delle domande.

«Mi chiedono per esempio come fa a non apparirci medievale il no all’Italia multietnica. Oppure, più spesso, domandano come facciano gli italiani a votare ancora il Cavaliere. Rispondo che evidentemente l’Italia vuole le veline. Ma ancora peggio è quando vogliono sapere come mai, nonostante i dati sul debito, o i casi come quello di Alitalia, che non si reagisca. Abbozzo dei ragionamenti, la verità è che non riesco a capirlo neanch’io». (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Società e costume

Sindrome borderline: ogni riferimento a fatti o persone attualmente esistenti è puramente casuale. O forse no.

(fonte: AGI)
Molti imperatori romani -come Caligola o Nerone, ma anche Giulio Cesare- soffrivano della sindrome borderline, un disturbo della personalita’ caratterizzata da un’instabilita’ pervasiva dello stato d’animo, delle relazioni interpersonali, dell’immagine di se’ e del comportamento; e proprio questa patologia spiegherebbe il comportamento stravagante e a tratti anche folle di molti ‘cesari’.

Ne e’ convinto un psicologo emozionale docente all’Universita’ di Gotinga, Borwin Bandelow, autore di un articolo che la rivista scientifica tedesca “P.M.Perspective” pubblicera’ sul suo prossimo numero. Secondo lo studioso, la cosiddetta “pazzia dei cesari” non era una conseguenza del potere raggiunto, “bensi’ la condizione per raggiungerlo”. I dittatori romani erano emozionalmente instabili e proprio per questo motivo -sostiene l’esperto- riuscivano a raggiungere l’apice della piramide del potere, a Roma.

Alla ricerca di continue conferme, gli imperatori romani avevano comportamenti autodistruttivi e distruttivi degli altri; e sebbene spesso arrivassero da famiglia sconquassate, in realta’ l’origine reale della loro pazzia e’ da rintracciare in un’alterazione congenita ed ereditaria del sistema neurotrasmettitore.

“Tra i narcisisti, ma ancora di piu’ tra i pazienti con la sindrome borderline, il sistema di ricompensa nel cervello non funziona corerttamente”. “Per questo e’ necessario stimolare con forza i recettori delle endorfine per provocare nuovi sentimenti”, ma alcuni imperatori romani raggiungevano questo obbiettivo solo con eccessi di violenza e comportamenti senza freni ed esagerati. (Beh, buona giornata).

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democrazia Lavoro Popoli e politiche

Libertà, giustizia, uguaglianza: “Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato.”

di Eric Hobsbawm – «The Guardian»- megachip.info

Qualunque logotipo ideologico adottiamo, lo spostamento dal mercato libero all’azione pubblica dovrà essere molto maggiore di quanto i politici immaginano.

Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato. Non dovrebbe essere così difficile come sembra, dato che l’idea fondamentale che ha dominato l’economia e la politica nel secolo scorso è scomparsa, chiaramente, nel tubo di scarico della storia. Avevamo un modo di pensare le moderne economie industriali -in realtà tutte le economie-, in termini di due opposti che si escludevano reciprocamente: capitalismo o socialismo.

Abbiamo vissuto due tentativi pratici di realizzare entrambi i sistemi nella loro forma pura: da un lato le economie a pianificazione statale, centralizzate, di tipo sovietico; dall’altro l’economia capitalista a mercato libero esente da qualsiasi restrizione e controllo. Le prime sono crollate negli anni ’80, e con loro i sistemi politici comunisti europei; la seconda si sta decomponendo davanti ai nostri occhi nella più grande crisi del capitalismo globale dagli anni ’30 ad oggi. Per certi versi è una crisi più profonda di quella, nella misura in cui la globalizzazione dell’economia non era a quei tempi così sviluppata come oggi e la crisi non colpì l’economia pianificata dell’Unione Sovietica. Ancora non conosciamo la gravità e la durata della crisi attuale, ma non c’è dubbio che vada a segnare la fine di quel tipo di capitalismo a mercato libero che si è imposto nel mondo e nei suoi governi nell’epoca iniziata con Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

L’impotenza, quindi, minaccia sia coloro che credono in un capitalismo di mercato, puro e destatalizzato, una specie di anarchismo borghese; sia coloro che credono in un socialismo pianificato incontaminato dalla ricerca del profitto. Entrambi sono in bancarotta. Il futuro, come il presente e il passato, appartiene alle economie miste dove il pubblico e il privato siano reciprocamente vincolati in un modo o nell’altro. Ma come? Questo è il primo problema che si pone oggi a noi tutti, e in particolare a quelli di sinistra.

Nessuno pensa seriamente di ritornare ai sistemi socialisti di tipo sovietico, non solo per le loro carenze politiche ma anche per la crescente indolenza e inefficienza delle loro economie, anche se questo non deve portarci a sottovalutare le loro impressionanti conquiste sociali ed educative. D’altro canto, finché il mercato libero globale non è esploso l’anno scorso, anche i partiti socialdemocratici e moderati di sinistra dei Paesi del capitalismo del Nord e dell’Australasia si erano impegnati sempre di più nel successo del capitalismo a mercato libero. Effettivamente, dal momento del crollo dell’URSS ad oggi non ricordo nessun partito o leader che denunciasse il capitalismo come una cosa inaccettabile. E nessuno era così legato alle sue sorti come il New Labour, il nuovo laburismo britannico. Nella sua politica economica, tanto Tony Blair che Gordon Brown (e questo fino all’ottobre del 2008) potevano essere definiti senza alcuna esagerazione come dei Thatcher in pantaloni. E lo stesso vale per il Partito Democratico degli Stati Uniti.

L’idea fondamentale del nuovo Labour, a partire dal 1950, era che il socialismo non fosse necessario, e che si poteva aver fiducia che il sistema capitalista facesse fiorire e generare più ricchezza di qualsiasi altro sistema. I socialisti non dovevano fare altro che garantire una distribuzione egualitaria. Ma a partire dal 1970 la crescita accelerata della globalizzazione creò sempre più difficoltà e sgretolò fatalmente la base tradizionale del Partito Laburista britannico, e per la verità alle politiche di aiuto e sostegno di qualsiasi partito socialdemocratico. Molte persone, negli anni ‘80, pensarono che se la nave del laburismo non voleva colare a picco, cosa che era una possibilità reale, dovesse mettersi al passo con i tempi.

Ma non fu così. Sotto l’impatto di quello che vedeva come la rivitalizzazione economica thatcherista, il New Labour, a partire dal 1997, si bevve tutta l’ideologia, o piuttosto la teologia, del fondamentalismo del mercato libero globale. Il Regno Unito deregolamentò i suoi mercati, vendette le sue industrie al miglior offerente, smise di fabbricare beni per l’esportazione (a differenza di Germania, Francia e Svizzera) e puntò tutto sulla sua trasformazione in centro mondiale dei servizi finanziari, e di conseguenza in paradiso dei riciclatori multimilionari di denaro. Così l’impatto attuale della crisi mondiale sulla sterlina e l’economia britannica sarà probabilmente più catastrofico di quello su ogni altra economia occidentale e questo renderà la guarigione più difficile.

E’ possibile affermare che ormai tutto questo è acqua passata. Che siamo liberi di tornare all’economia mista e che la vecchia scatola degli attrezzi laburista è qui a nostra disposizione -compresa la nazionalizzazione-, così che non dobbiamo far altro che utilizzare di nuovo questi attrezzi che il New Labour non avrebbe mai dovuto smettere di usare. Comunque questa idea fa pensare che sappiamo come usare questi attrezzi. Non è così.

Da un lato non sappiamo come superare l’attuale crisi. Non c’è nessuno, né i governi, né le banche centrali, né le istituzioni finanziarie mondiali, che lo sappia: tutti questi sono come un cieco che cercasse di uscire da un labirinto dando colpi alle pareti con bastoni di ogni tipo nella speranza di trovare la via d’uscita.

Dall’altro lato sottovalutiamo il persistente grado di dipendenza dei governi e dei responsabili delle politiche dai dogmi del libero mercato, che tanto piacere gli hanno regalato per decenni. Si sono forse liberati del principio fondamentale per cui l’impresa privata orientata al profitto è sempre il mezzo migliore e più efficace di fare le cose? O che l’organizzazione e la contabilità imprenditoriali dovrebbero essere i modelli anche per la funzione pubblica, l’educazione e la ricerca? O che il crescente abisso tra i multimilionari e il resto della gente non sia tanto importante, dopotutto, sempre che tutti gli altri -eccetto una minoranza di poveri- stiano un po’ meglio? O che quello di cui ha bisogno un Paese, in qualsiasi caso, è il massimo di crescita economica e di competitività commerciale? Non credo che abbiano superato tutto questo.

Comunque una politica progressista richiede qualcosa in più di una rottura più netta con i principi economici e morali degli ultimi 30 anni. Richiede un ritorno alla convinzione che la crescita economica e l’abbondanza che comporta siano un mezzo, non un fine. Il fine sono gli effetti che ha sulle vite, le possibilità vitali e le aspettative delle persone.

Prendiamo il caso di Londra. E’ evidente che a tutti noi importa che l’economia di Londra fiorisca. Ma la prova del fuoco dell’enorme ricchezza generata in qualche parte della capitale non è il fatto di aver contribuito al 20 o 30% del PIL britannico, ma come questo ha influito sulle vite dei milioni di persone che vivono e lavorano lì. A che tipo di vita hanno diritto? Possono permettersi di vivere lì? Se non possono, non è per niente una compensazione il fatto che Londra sia un paradiso dei super-ricchi. Possono ottenere posti di lavoro pagati decentemente, o nella realtà un lavoro qualsiasi? Se non possono, a che serve tutto questo affannarsi per avere ristoranti da tre stelle Michelin, con chef diventati essi stessi stelle. Possono mandare i loro figli a scuola? La mancanza di scuole adeguate non si compensa con il fatto che le Università di Londra possano allestire una squadra di calcio fatta di vincitori di premi Nobel.

La prova di una politica progressista non è privata ma pubblica, non solo importa l’aumento del reddito e del consumo dei privati ma l’ampliamento delle opportunità e, come le chiama Amartya Sen, delle capabilities -capacità- di tutti per mezzo dell’azione collettiva. Ma questo significa -deve significare- iniziativa pubblica senza fini di profitto, neanche se fosse solo per redistribuire l’accumulazione privata. Decisioni pubbliche dirette a conseguire un miglioramento sociale collettivo dal quale tutti ne guadagnerebbero. Questa è la base di una politica progressista, non la massimizzazione della crescita economica e del reddito personale.

In nessun ambito questo sarà più importante che nella lotta contro il problema più grande che ci troviamo ad affrontare in questo secolo: la crisi dell’ambiente. Qualsiasi logotipo ideologico adottiamo, ciò significherà uno spostamento di grandi dimensioni dal libero mercato all’azione pubblica, un cambiamento più grande di quello proposto dal governo britannico.

E, tenuto conto della gravità della crisi economica, dovrebbe essere uno spostamento rapido. Il tempo non è dalla nostra parte. (Beh, buona giornata).

Tradotto per Senzasoste da Andrea Grillo

Eric Hobsbawm (1917), storico e accademico britannico. È presidente del Birbeck College dell’Università di Londra, e autore di numerose opere di storia contemporanea, la prima delle quali è stata Primitive Rebels: studies in archaic forms of social movement in the 19th and 20th centuries (1962). E, tra le altre,The Age of Revolution: Europe 1789-1848, The Age of Capital: 1848-1875, The age of extremes 1914-1991, etc. La sua pubblicazione più recente è On Empire: America, War, and Global Supremacy (2008). [da «MicroMega»].

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