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Artefice della crisi greca è una classe politica poco seria e una delle banche d’affari più famose al mondo: Goldman Sachs. Investitori e cittadini vengono frodati da chi dovrebbe proteggerli e nessuno se ne accorge perché è facile muoversi sotto il radar dei controlli finanziari.

di Loretta Napoleoni-www.caffe.ch/news/firme/47284.

Finanza ed economia sono invischiate in una singolare catena di Sant’Antonio. Percorriamola a ritroso. Questa settimana la Grecia, che da un mese é sull’orlo della bancarotta, ha chiesto aiuto al Fondo Monetario. Ha un buco finanziario di 300 miliardi di euro. Sembra una storia degli anni ‘70 quando il FMI era l’autoambulanza delle agonizzanti economie occidentali colpite dall’epilessia energetica.

Artefice della crisi greca é una classe politica poco seria e una delle banche d’affari più famose al mondo: Goldman Sachs che in cambio di lauti compensi ha manipolato i conti dello stato facendoli apparire molto più solidi di quello che erano. L’equivalente insomma del falso in bilancio di un’impresa. Eppure per decenni questa banca ha fornito al Tesoro americano spavaldi ministri delle finanze, gente che ha svolto anche e sopratutto un’attivita’ di controllo e regolamentazione del sistema finanziario.

La scorsa settimana la Sec, la Security and Exchange Commission statunitense, ha accusato Goldman Sachs di frode nei confronti di altri clienti, l’accusa e’ di essersi approffittata dei propri clienti nella formazione e vendita di un fondo di mutui spazzatura americani con la complicità di un grosso hedge fund di Wall Street.

A gennaio uno studio di avvocati di Pasadena, in California, ha citato in giudizio per frode 5 membri della Sec. Tra il 2004 ed il 2007 avrebbbero archiettato vendite di azioni fittizie utilizzando una società finanziaria canadese per un valore di quasi 3 miliardi di dollari.

Se volessimo potremmo continuare il nostro viaggio a ritroso, ma bastano questi fatti per farci capire che il problema attuale dell’economia e della finanza occidentale é il sistema di controllo. Ebbene il presidente Obama questa settimana ha presentato il tanto atteso programma di riforma finanziaria, peccato che non aiuti a riparare questa falla.

Investitori e cittadini vengono frodati da chi dovrebbe proteggerli e nessuno se ne accorge perché é facile muoversi sotto il radar dei controlli finanziario. Esistono troppi organi preposti tutti con poteri limitati, nessuno ha dunque una visione di grand’angolo e nessuno ha le risorse per fare bene il suo lavoro. Il presidente Obama vorrebbe allargare il numero dei controllori, propone addirittura di un organo gestito dai consumatori all’interno della Riserva federale con i poteri di regolarne i prestiti alle banche. Perché non razionalizzare invece l’intero sistema e creare un’unica e potentissima istituzione? Perche’ per far passare la riforma finanziaria Obama ha bisogno dell’approvazione del Congresso dove non ha una maggioranza schiacciante. E la sua riforma piace poco.

Difficle dunque mettere fuori legge la catena di Sant’Antonio della finanza globalizzata. La limitazione che il presidente vorrebbe imporre alle banche, e cioé l’obbligo di giocarsi in borsa soltanto i soldi propri o quelli dei clienti consenzienti, sarebbe auspicabile ma bisognerebbe verificare come questo consenso viene raggiunto. Anche il contenimento dell’investimento bancario negli hedge funds e nelle società di private equities necessita di un controllo statale capillare Persino che al momento non é possibile. Persino il contenimento dell’attività dei i lobbisti, i grandi burattinai di Washington, ha bisogno di un rigido sistema di controllo. Ma concepire un organo in grado di ‘spiare’ il comportamento dei membri del Congresso sarebbe inconcepibile in America. Il problema quindi persiste: chi controlla i controllori? (Beh, buona giornata).

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Freedom House: in Italia la televisione fa molto male all’informazione.

Giornalismo, rapporto Usa: solo grazie a giornali e internet in Italia informazione parzialmente libera: colpa della tv-blitzquotidiano.it

L’informazione italiana continua a essere “parzialmente libera” anche se i giornali stampati e internet sono totalmente liberi, a causa della pesante concentrazione nel campo della tv e la crescente interferenza da parte del governo nelle scelte editoriali del servizio pubblico televisivo. Lo afferma il rapporto annuale di Freedom House, un’organizzazione americana che monitora sin dal 1980 la libertà di stampa a livello mondiale.

Si tratta di un giudizio che fa della tv il centro dell’informazione di un paese e non dà il giusto peso che hanno i giornali e in misura crescente i siti internet nella informazione della opinione pubblica. I giornali in Italia sono liberi, ognuno può scrivere quello che vuole anche se nessun giornale ospiterebbe stabilmente articoli di collaboratori di tendenza contraria a quella del giornale stesso.

Questo vale per tutti i giornali, anche quelli che si sostengono unici difensori della libertà di stampa, ed è anche codificato dalla gurisprudenza e dal contratto di laovro nazionale dei giornalisti. Difficilmente un giornalista di destra potrà lavorare secondo le sue idee in un giornale di sinistra e viceversa.

Oggi comunque, grazie alla moltiplicazione delle fonti di informazione e alla caduta delle barriere d’accesso dovute a internet, è possibile formarsi una opinione abbastanza ampia su ogni evento.

Per quanto riguarda la tv, non era necessario che ce lo dicessero gli americani, perché lo sapevamo da noi, comunque, secondo il rapporto, il nostro Paese resta la nazione con il più alto tasso di concentrazione dei mezzi di comunicazione tra quelle dell’Europa occidentale e questo appunto è dovuto al fatto che una sola persona, Silvio Berlusconi, controlla direttamente, con Mediaset, tre delle dodici reti tv nazionali e, almeno temporaneamente, in quanto capo del governo, due delle tre reti e due dei tre tg della Rai.

Ancor più sbilanciata appare la situazione in campo televisivo se si considera che tra Rai e Mediaset occupano il 90% dell’audience e della pubblicità televisiva.

Come l’Italia, per quanto riguarda la libertà di stampa, in Europa, ci sono solo i paesi balcanici e quelli dell’Est, come Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bulgaria e Romania. (Beh, buona giornata).

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Perché il Primo Maggio suscita disagio, sia a Destra che a Sinistra?

Primo maggio, dov’è la festa? di ILVO DIAMANTI-repubblica.it

SI E’ APERTA una stagione senza feste civili. Dove i riti della memoria, che danno senso e identità alla nostra Repubblica, vengono guardati – e trattati – con insofferenza e indifferenza, da una parte del paese.
In particolare, dalla maggioranza politica di governo. Anzitutto il 25 Aprile, che il premier ha definito “Festa della Libertà”. Non della “Liberazione”. Quasi fosse una celebrazione del suo partito. D’altronde, ha sostenuto un amministratore del PdL, ci hanno liberato gli americani, non i partigiani, che erano comunisti.
Abbiamo motivo di credere, inoltre, che anche il prossimo 2 Giugno susciterà fastidio in alcuni settori del centrodestra, in particolare nella Lega. Che vede nel tricolore e nella nazione i simboli di un passato da superare. D’altronde, le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ormai prossime, non sembrano al centro dell’attenzione di questo governo. Anche perché parlare di Unità d’Italia, in un paese tanto diviso, appare un ossimoro.

Il Primo Maggio non si sottrae al clima del tempo. Al contrario. Non solo perché evoca le lotte del movimento operaio e sindacale. Una versione in grande della “Festa dell’Unità”, dove si canta “Bella Ciao” e sventolano le bandiere rosse. Il Primo Maggio disturba anche – e soprattutto – perché il lavoro e i lavoratori appaiono, ormai, entità inattuali. Si dovrebbe parlare, semmai, del “non lavoro”. Della disoccupazione reale e di quella implicita. Nascosta tra le pieghe dei lavoratori scoraggiati, che non risultano disoccupati solo perché, per realismo, non si “offrono” sul mercato del lavoro. E per questo non vengono calcolati nei “tassi di disoccupazione”. Ma anche dell’occupazione informale. E si dovrebbe parlare, ancora, degli imprenditori, piccoli e piccolissimi, che stentano a continuare la loro attività perché i clienti non li pagano, faticano ad accedere al credito. E non riescono a mantenere l’azienda e i dipendenti. Lavoratori e piccoli imprenditori “disperati”. Per fare parlare di sé, per essere “notiziabili”, devono darsi fuoco, sequestrare i dirigenti, appendersi alle gru. Oppure inventarsi
“l’Isola dei cassintegrati”, all’Asinara, recitando se stessi.

Lo abbiamo detto altre volte, ma vale la pena di ripetersi. C’è uno squilibrio violento fra la percezione sociale e la rappresentazione pubblica – mediatica – del lavoro e dei suoi problemi. La disoccupazione è ormai in testa alle preoccupazioni degli italiani, visto che 38% di essi la indica come l’emergenza più importante da affrontare (Rapporto “Gli Italiani e lo Stato”, Demos per Repubblica, novembre 2009). Eppure se ne parla poco, sui media. Soprattutto in tivù. Tra le notizie di prima serata del Tg1 monitorate dall’Osservatorio di Pavia (per la Fondazione Unipolis) nello scorso settembre, ai problemi legati al lavoro, alla disoccupazione, alla perdita dei risparmi era riservato il 7% sul totale delle notizie.

Per fare un confronto con le tivù pubbliche di altri paesi europei, nello stesso periodo, Ard (Germania) dedicava ai temi del lavoro e della disoccupazione il 21% delle notizie, Bbc One il 26%, France 2 il 41%. Eppure il tasso di disoccupazione in Italia continua a crescere e oggi ha raggiunto l’8,8% (dati Eurostat). Anche se il paese appare, anche in questo caso, diviso in due. Sotto il profilo territoriale: nel Sud il tasso di disoccupazione si avvicina al 20%. E sotto il profilo generazionale, visto che fra i giovani (15-24 anni) il tasso di disoccupazione sale al 28%. Il più alto d’Europa. Quasi 10 punti in più della media europea.

Ma i giovani, è noto, non esistono. Sospesi fra precarietà e dipendenza dalla famiglia. Protetti dai genitori, a cui affidano le chiavi del futuro (in cambio di quelle di casa). In modo assolutamente consapevole. Come emerge da una recente ricerca condotta da LaPolis dell’Università di Urbino per Coop Adriatica (che verrà presentata nei prossimi giorni). Una frazione minima di giovani (15-35 anni) pensa che, in futuro, riuscirà a raggiungere una posizione sociale migliore rispetto a quella dei genitori. Mentre il 56% pensa il contrario. Ancora: il 23% dei giovani è convinto che, per farsi strada nella vita, la risorsa migliore sia costituita dalla rete di relazioni e di “conoscenze familiari”. Quasi quanto l’istruzione, tradizionale fattore di mobilità sociale. E poco meno dell’esperienza di lavoro e studio in Italia e all’estero (26%). Inoltre, si sono abituati all’esperienza di lavoro temporaneo e intermittente. Ma non rassegnati. Molti di loro, anzi, inseguono il “posto fisso” (39%; ma tra i 15-17enni il 46%). Al tempo stesso si è raffreddato, fra loro, l’entusiasmo per il lavoro in proprio e la libera professione attira, oggi, il 25% di loro. Nell’insieme, il 49% dei giovani oggi si dice orientato verso un’attività autonoma o professionale. Circa 10 punti in meno di 4 anni fa.

Nello stesso periodo, parallelamente, è risalito l’interesse verso la grande impresa e il pubblico impiego. In altri termini, i giovani, sono flessibili “per forza”, non rassegnati alla precarietà. Sanno che li attende un futuro difficile. E per questo fanno affidamento alla famiglia. La considerano la risorsa mezzo per farsi strada nella vita. E, prima ancora, un rifugio e una protezione. Meccanismo fondamentale del welfare all’italiana. Pressoché ignorato dal sistema pubblico.
Così è più chiaro perché il Primo Maggio susciti disagio.

Nel centrodestra, dove è percepito, da molti, una festa comunista. Ma, anche altrove. Perfino a sinistra, dove molti la considerano un rito nostalgico. Dedicato a quando il lavoro era fonte di vita, riferimento dell’identità, motivo di orgoglio. Mentre oggi l’evento sindacale più significativo e partecipato, per celebrare il Primo Maggio, non è una manifestazione rivolta ai lavoratori. Ma il tradizionale concertone rock che si svolge in Piazza San Giovanni, a Roma. Affollata da una massa enorme di giovani. Per una volta, insieme. Per una volta, visibili. Normalmente isolati, intermittenti, frantumati, custoditi, controllati. Normalmente invisibili. Come il lavoro. (Beh, buona giornata).

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Berlusconi al ministro Scajola: “vedrai che tra una settimana si sgonfierà tutto, devi solo tenere duro finché non passa l’onda. Devi difenderti in maniera più dura, con il coltello tra i denti”.

Nuove accuse per Scajola, 4 testimoni lo incastrano. Berlusconi: “Tieni duro e vai avanti”-blitzquotidiano.it

Ci sono 4 testimoni e i passaggi di denaro su alcuni conti bancari a smentire il ministro Scajola e che dimostrano invece come lui conoscesse la provenienza degli 80 assegni “neri” che servirono a pagare oltre la metà del suo appartamento romano, in zona Colosseo. ieri il ministro ha anche ricevuto la solidarietà di Berlusconi. Dimissioni, neanche a parlarne. Il premier lo ha rassicurato: “Devi difenderti con il coltello tra i denti”.

Sulla compravendita dell’appartamento i testimoni concordano nel riferire che fu Scajola stesso a consegnare gli assegni, per un totale di 900mila euro, e che gli furono messi a disposizione proprio da Anemone, l’imprenditore finito in galera per la vicenda degli appalti legati ai Grandi Eventi. Anemone infatti ha ottenuto negli anni passati il Nos, il certificato di “nulla osta di segretezza” che gli ha consentito di aggiudicarsi lavori cosiddetti “sensibili”, vale a dire la ristrutturazione o la costruzione di edifici per il ministero dell’Interno, per quello della Giustizia comprese alcune carceri, e per i servizi segreti

Le testimonianze, da come risulta dagli atti dei pm di Perugia che conducono l’indagine, concordano nel riferire che il giorno del rogito fu proprio il ministro ad avere materialmente in mano quegli assegni. E che, nonostante fosse consapevole del reale valore dell’immobile (1 milione e 710mila euro), il ministro davanti al notaio dichiarò che il costo fosse di 600mila. Secondo l’accusa la mossa di Scajola ha due spiegazioni. Da una parte nascondere al Fisco la portata reale dell’operazione e dall’altra cancellare la traccia di altre due circostanze: la consegna di 200mila euro alle due venditrici dell’appartamento al momento dell’accordo preliminare, e il legame con l’architetto Angelo Zampolini, braccio destro di Anemone oggi indagato per riciclaggio, che gli aveva consegnato gli 80 assegni.

Il racconto che fanno le sorelle Barbara e Beatrice Papa, venditrici dell’appartamento, e Zampolini, dimostra che Scajola sapesse da dove provenivano i soldi, mentre finora il ministro ha dichiarato di aver comparto la casa per un valore di 600mila euro, accendendo un mutuo presso la banca San Paolo Imi. Nel 2004, dunque, il ministro decide di acquistare casa e coinvolge Diego Anemone, imprenditore vicino al ministero dell’Interno, guidato da Scajola fino a due anni prima. Anemone passa la faccenda all’architetto Zampolini che sottopone al ministro alcune proposte: la scelta cade sull’appartamento in viadel Fagutale 2, vista Colosseo. Costo: 1milione e 710 mila euro. Poco prima del rogito le due sorelle Papa ammettono di aver ricevuto dal ministro 200mila euro, senza alcun contratto preliminare. Zampolini davanti ai magistrati sostiene che i soldi fossero del ministro ma gli inquirenti ritengono che fosse la prima “tranche” con cui Anemone comprava casa a Scajola.

Ci sono poi i 900mila euro, cambiati in 80 assegni da Zampolini presso un’agenzia della Deutsche Bank. E’ Zampolini stesso, il 6 luglio di quel 2004, ad andare in banca. 80 assegni, non un numero a caso. Ognuno dell’importo di 12mila500 euro, ossia la soglia massima prima che scatti l’obbligo da parte della banca di avvertire il circuito interbancario e la Guardia di Finanza. Ma in banca, un impiegato zelante decide comunque di fare un controllo su quella “operazione sospetta di frazionamento”, come viene chiamata in gergo. Sarà l’inizio dell’inchiesta.

Ma torniamo al giorno del rogito. Si svolge negli uffici del ministro alla presenza del notaio Gianluca Napoleone, delle due sorelle Papa e di Scajola stesso. In questa occasione le Papa ricordano che il ministro consegna loro gli 80 assegni per un valore di 900mila euro. Ma davanti al notaio il prezzo dichiarato della vendita è di 600mila: il ministro infatti ha con sè altri assegni della banca San Paolo Imi presso la quale ha acceso un mutuo. Da questa ricostruzione il notaio avrebbe quindi autenticato una compravendita non corrispondente alla realtà, ma su queso punto Napoleoni si giustifica dicendo che il passaggio degli 80 assegni non è avvenuto davanti ai suoi occhi e che comunque le leggi del 2004 non impedivano una eventuale scrittura privata tra le parti per integrare il prezzo di vendita.

Il ministro ora si difende dalle accuse e riceve l’appoggio del premier Berlusconi che ha incontrato ieri a palazzo Grazioli. Dimissioni? Neanche a parlarne. “Claudio devi andare avanti – insiste Berlusconi – anche perché, se accettassi le tue dimissioni, ne uscirebbe indebolito il governo: daremmo un’immagine di sfaldamento proprio mentre siamo sotto l’attacco di Fini. Non se ne parla”. Berlusconi, stando al racconto dei presenti, prova quindi a tranquillizzarlo: “Se la prendono con te per attaccare me, lo sai. Ma vedrai che tra una settimana si sgonfierà tutto, devi solo tenere duro finché non passa l’onda. Devi difenderti in maniera più dura, con il coltello tra i denti”.

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L’Italia dell’era Berlusconi: il 60% delle aziende italiane sono fuori legge, 2 milioni e 966 mila lavoratori sono irregolari. Lo dice il ministro del Lavoro, in audizione ufficiale davanti al Parlamento. Scusi, ma lei che ci sta a fare in quel ministero?

Irregolare la Repubblica delle imprese: sei aziende su dieci “fuori legge”-blitzquotidiano.it

Sono il nerbo del paese, la spina dorsale dell’Italia, reggono l’economia. Però si reggono spesso e volentieri sulla bugia, bugia al fisco, all’Inps, alle regole e alle leggi. Fune e colonna vertebrale che sostengono il corpo nazionale, ma anche anima furbetta e impunita. Sono le aziende italiane che vivono e praticano una legalità “altra” da quella ufficiale. Infatti più della metà risultano irregolari ai controlli di Stato peraltro non ossessivi. E, se più della metà applica una legge “altra”, qual è la vera legge, quella dei codici o quella appunto delle aziende? I conti delle aziende “fuori legge” non sono stati ostilmente redatti e tirati da sindacati o consumatori. A “denunciare”, suo malgrado è stato il ministro del lavoro Maurizio Sacconi in audizione ufficiale davanti al Parlamento.

Ispezioni fatte nel 2009: 303.691 le aziende esaminate, di queste 175.144 irregolari, vale a dire circa il 60 per cento. Insomma una Repubblica dell’impresa “fondata sull’eccezione”. Eccezione che in questo caso è la regola.

Ciliegina sulla torta, apposta dallo stesso Sacconi, “a preoccupare è il grado di pericolosità dei luoghi di lavoro, visto che “i dati evidenziano un incremento sostanziale della gravità delle irregolarità riscontrate”.

Tradotti in uomini si parla di 2 milioni e 966 mila i lavoratori irregolari. Non si pensi ad uno stuolo di extracomunitari, però: perché i residenti (italiani e stranieri) sono la componente più rilevante, mentre gli stranieri clandestini rappresentano solo una quota marginale, all’incirca il 12 per cento. (Beh, buona giornata).

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Metti un immigrato nello spot.

La Cassazione ha deciso niente adozione per quelle coppie che fanno distinzione di pelle tra i bambini. Infatti, la procura della Cassazione dice no a chi vuole essere genitore dichiarandosi indisponibile a ricevere bimbi di pelle nera o di etnia non europea.

La procura della Suprema Corte, sollecitata da un esposto dell’associazione ‘Amici dei bambini’, ha espresso questo orientamento innanzi alle Sezioni Unite che dovranno prendere posizione al più presto. Sono certo sia una decisione saggia, oltre che, evidentemente legalmente ineccepibile, essendo la Cassazione a emanarlo.

Suggestionati da bislacche tesi politiche, alla spasmodica ricerca dei piani bassi del consenso elettorale, gli italiani sembrano aver smarrito il senso del reale, non dico il senso della Storia, ma almeno quello della Geografia: siamo un Paese in mezzo al Mediterraneo, sicché ne abbiamo avuto di immigrazioni, a cominciare dai tempi della Magna Grecia.

Per non parlare delle immigrazioni indo-europee. Una volta Indro Montanelli ebbe a dire che nessuno in Lombardia potrebbe essere certo che un lanzechenecco non si sia coricato, almeno una volta, con l’antenata di una delle nostre nonne.

Ciò non di meno, a Rosarno, in Calabria, normali cittadini si sono fatti ku klux clan contro gli africani, salvo scoprire che la rivolta di gennaio era stata provocata proprio dagli schiavisti delle arance: la magistratura ha disposto una ventina di arresti tra capi clan e caporali del lavoro nero.

Ciò non di meno a Treviso, una masnada di giovinastri dell’estrema destra neo-nazi, al canto di ‘sbianchiamo Samir’ costringono una giovane fanciulla africana e i suoi amici ad abbandonare un bar del centro storico, per evitare risse. Gli avventori hanno scritto ai giornali scandalizzati, il proprietario ha fatto il vago.

Che il nostro Paese abbia bisogno di una dose forte di ragionevolezza è un fatto acclarato. Gli immigrati esistono. Essi vivono, lavorano e consumano fra noi. Essi consumano, dunque spendono. Infatti una primaria compagnia telefonica fa campagne pubblicitarie nelle loro lingue. Ho visto anche che una primaria marca italiana di merende per bambini fare campagne nelle loro lingue.

E allora, facciamo una cosa utile alla convivenza civile e magari anche al business dei nostri clienti: essi esistono, lavorano, portano i bimbi a scuola, vanno nei negozi. È giunto il momento che ‘essi’ vengano presi in considerazione anche nei ‘casting’ degli spot pubblicitari.

Noi italiani siamo multietnici dalla nascita, di che cosa abbiamo paura? Nelle scuole, nei mezzi pubblici, nelle nostre case, nei supermercati ‘essi vivono’, spendono, consumano, comprano.

Bisogna rappresentarli, magari quei coglioni di razzisti, quelli ‘che io non sono razzista, però…’ guardando lo spot, l’annuncio, l’affissione si rendono conto che quelli strani non sono ‘essi’, ma loro stessi. Beh, buona giornata.

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Stefania Craxi, vuoi star zitta, per favore?

Monumento ai “profeti” della P2, veri “padri della patria”. E “pentitevi di Piazzale Loreto”-blitzquotidiano.it

Chiamasi “Seconda Repubblica” quella che venne quasi per sbaglio e poi comodamente e di fatto si installò in Italia nella seconda metà degli anni novanta. Quella Repubblica nata dal crollo dei “vecchi” partiti, disprezzati più che odiati dalla pubblica opinione. Quella della politica “nuova”, degli uomini nuovi e del “nuovismo” come canone e metro di giudizio. Quella del “territorio” come fonte prima se non unica della sovranità, quella degli “elettori hanno sempre ragione”, un po’ come i clienti a bottega. Quella del leader della coalizione con il nome scritto sulla scheda elettorale. Quella dei frizzanti talk-show politici in tv al posto delle noiose Tribune politiche. Insomma la Repubblica della “gente”, gente che prendeva il ruolo di quello che era stato il “popolo”. Quella del berlusconismo, della caduta del comunismo per manifesto fallimento, quella del “meno male che Silvio c’è”, della sinistra “alternativa”, tanto alternativa da dire no a tutto, anche alla costruzione di una strada. Quella del partito di Berlusconi che cambia nomi ma è sempre lo stesso e quella del partito della sinistra riformista che cambia nomi e non si sa mai che partito è.

Pare, dicono stia finendo il tempo anche della “Seconda Repubblica”. Tra federalismo che darà alle Regioni poteri grossi e grassi e riforma del potere che sta a Roma che dovrebbe dare “all’eletto” tutti i poteri residui, si marcia verso la “Terza Repubblica”. E’ un film che presto vedremo, per ora sono in circolazione e programmazione nella “Sala Italia” ancora immagini e scene della “Seconda”. Una colpisce per la sua insolente sfrontatezza: da giovedì 29 aprile alla Galleria Michel Rain di Parigi è esposta una reverente lapide commemorativa. Vi si legge: “Nell’anno XVI della Seconda Repubblica/ A ricordo dei suoi figli migliori fondatori della patria/ L’Italia dedica per il loro impegno e sacrificio/ Questa lapide a futura memoria”. Seguono i nomi, i cognomi e il numero di tessera d’iscrizione di tutti coloro, almeno i più noti, che a suo tempo aderirono e militarono nella Loggia P2, quella di Licio Gelli. E’ un gioco insolente e sfrontato di artista, tal Luca Vitone, che in 30 metri quadrati fa il verso ai monumenti che le “patrie” dedicano ai loro profeti, figli illustri e precursori.

Ma è anche un “gioco di realtà”. Il caso, sfrontato e insolente anche lui, spalleggia la “provocazione d’artista”. Il Caso e solo il bizzarro e capriccioso Caso vuole che il programma della P2, ciò che la Loggia voleva l’Italia diventasse, sia molto simile a ciò che l’Italia è diventata. La P2 voleva un Parlamento “pennacchio”, un Parlamento e una Repubblica parlamentare senza prestigio e senza potere. Fatto. Fatto per Caso, ma fatto. La P2 voleva un leader eletto per via plebiscitaria. Ci stiamo lavorando, per Caso. La P2 voleva una tv pubblica sostanzialmente inguardabile. Fatto. Una magistratura ancella della politica. E’ in cantiere. La P2 voleva partiti trasformati in comitati elettorali. Fatto. La P2 voleva che tra chi ha in mano la Cosa Pubblica e la gente votante non ci fossero di mezzo istituzioni e poteri “terzi”, men che mai neutri. Manca davvero poco. Per Caso, solo per mano del Caso la scena del presente vissuto dalla Seconda Repubblica ha più o meno gli stessi connotati e sequenze del paradosso di una sua commemorazione ante litteram: erano quelli della P2 i veri “padri della nuova patria” dice per fare scandalo l’iscrizione in mostra a Parigi. Eppure tanto scandalo non fa, fa constatazione di come nella realtà lavora quel gran burlone che è il Caso.
stefania craxi

Altro giro, altra scena da “Seconda Repubblica”. La figlia di Bettino Craxi, quella Stefania che scelse di far politica in nome del padre, per rendergli omaggio e giustizia e che scelse per questa “mission” Berlusconi e Forza Italia, invoca oggi con orgoglio e decisione un “pentimento” pubblico e di Stato su Piazzale Loreto, cioè sull’esecuzione e la mostra in piazza del cadavere di Benito Mussolini. Dice Stefania Craxi che è giunto il tempo di avere “il coraggio civile e l’onestà intellettuale” di dichiarare Piazzale Loreto e quel che significa un errore e un orrore. Sempre per Caso, Stefania Craxi non colloca questa sua nuova etica sensibilità in un’Italia qualsiasi. Mettiamo: un’Italia di popolo e di Stato, di sindaci e giornali, di parlamentari e giornalisti-storici che riconosce ai Partigiani e alla Resistenza di aver versato il sangue contro la peggior dittatura, alleata del peggior sterminatore di umani. E di averlo versato per dare alla democrazia e alla libertà la possibilità di nascere. Un’Italia che apprezza e si tiene care la Costituzione, lo Stato unitario e la democrazia parlamentare. In un’Italia così cercar di portare umana pietà anche sulla pagina dell’esecuzione del Duce-dittatore può avere un senso.

Ma l’Italia che c’è pullula di sindaci che espellono per sospetta indegnità i Partigiani dalla storia nobile. Di giornali, parlamentari e giornalisti-storici che si commuovono alle sofferenze dei militi di Salò che combattevano al fianco delle SS naziste. Un’Italia indifferente se non ostile alla sua storia unitaria, ai suoi nomi e ai suoi simboli, dal tricolore a Garibaldi. In un’Italia così chiedere la condanna dell’errore e dell’orrore di Piazzale Loreto non è avere pietà dei “vinti”, è proclamare giunto il tempo della rivincita dei vinti. Non è dire che esporre cadaveri è crudeltà, è sostenere che errore fu sparare ai fascisti. Stefania Craxi, lo sappia o no, se ne renda conto o meno, non esige la fatica della pacificazione benedetta dalla storia che è passata, pretende l’abiura se non l’umiliazione di chi nella storia passata combatté e morì dalla parte giusta. Deve essere per Caso che anche questo, perfino questo appaia nella Seconda Repubblica più o meno normale.

(Beh, buona giornata).

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Sergio Zavoli: “Per tirar fuori la politica dalla Rai – s’intende dall’occupazione dell’azienda – occorre cominciare da una Rai che voglia tirarsi fuori da una sua ormai insostenibile, paradossale contraddizione.”

Zavoli: “La credibilità è crollata non si rispettano autonomia e qualità”
Il presidente della Vigilanza traccia un quadro dai contorni drammatici. Con la gestione dell’attuale centrodestra, la tv di Stato non rispetta più niente. “Ormai non hanno spazio neppure i vecchi prudenti linguaggi”
di GOFFREDO DE MARCHIS-repubblica.it

Il caso Ruffini è solo la punta dell’iceberg. La Rai è ormai “una pulzella promessa” che dice sì “alle pretese di tutti i pretendenti”. La commissione di Vigilanza vede “distorti” da Viale Mazzini i suoi atti di indirizzo e viene da chiedersi se “la sua autorevolezza possa risolversi in un rito esortativo”. Il quadro descritto da Sergio Zavoli, popolarissimo giornalista tv, senatore del Pd e presidente della commissione parlamentare che vigila sulla Rai, ha contorni drammatici. Con la gestione dell’attuale centrodestra, la tv di Stato non rispetta più niente: la sua autonomia, la sua capacità di critica, “neppure i vecchi, prudenti linguaggi”.

Una delibera del cda disattesa, una soluzione che non accontenta nessuno. E Ruffini dice: contro di me c’è una discriminazione politica. È così?
“In Rai c’era e c’è un problema di fondo: l’assenza, o l’imperfezione, o il rifiuto della regola. La quale viene prima del consenso. Ne consegue che il pacta sunt servanda, così spesso trasgredito, rischia d’essere una citazione sapienziale ormai a buon mercato. Ma nel caso nostro va anche detto che quando i patti non sono rispettati la prima causa cui doversi richiamare non è tanto la regola quanto l’idea che un “servizio pubblico” – ignorando la doverosità, la puntualità e la funzionalità del suo compito – possa impunemente tradursi in un grave danno inferto alla credibilità dell’istituzione”.

Ruffini ha avuto una collocazione adeguata?
“La sua è una vicenda che nessuna grande organizzazione imprenditoriale può permettersi: ciò che è successo si sottrae a valutazioni di principio, men che meno manageriali. È la licenza di un’azienda che sta smarrendo una sua autonoma facoltà critica”.

Sia lei sia Paolo Garimberti, presidenti di garanzia, avete molte difficoltà ad esercitare le vostre funzioni. Quale ruolo può avere la minoranza schiacciata dalla logica dei numeri?
“Poter esercitare un legittimo potere con la forza dei numeri non esclude affatto il coinvolgimento dell’opposizione. Non ricorro all’abusato argomento della dittatura delle maggioranze: mi limito a dire che rinunciare all’allargamento del consenso è una pregiudiziale abdicazione a un ulteriore tasso di democrazia, che conferirebbe un’aria di vaga infondatezza al proposito di coinvolgere l’opposizione nelle riforme”.

Basterebbe una riforma della Rai per tirar fuori la politica da Viale Mazzini?
“Per tirar fuori la politica dalla Rai – s’intende dall’occupazione dell’azienda – occorre cominciare da una Rai che voglia tirarsi fuori da una sua ormai insostenibile, paradossale contraddizione. Questa è radicata nella più comoda e reciproca delle garanzie: il compromesso – poco nobile intellettualmente, culturalmente, aziendalmente – rinnovabile a ogni cambio di governo attraverso il citatissimo spoil system, ma soprattutto quella ingegneria combinatoria che si chiama “lottizzazione”, la più pigra e matematica delle soluzioni adottate con il consenso dell’azienda. Il pluralismo non è una somma di “legittime faziosità”. Perciò la storia e il prestigio della Rai meritano un colpo d’ala anche al suo interno. Comunque, il primo passo spetta alla politica. Dovrà opporsi all’idea ormai invalsa di un’azienda che non rispecchi i principi dell’autonomia e della responsabilità, della competenza e della qualità”.

La commissione non ha gli strumenti per intervenire?
“Le giro io un’altra domanda: è ragionevole credere che la Commissione possa fare un “miracolo” al giorno (tranne quando la disputa partitica obbedisce a specialissimi input, come è successo di recente nella controversia sui talk show) se, non avendo poteri vincolanti, il suo indirizzo può essere disatteso dall’azienda, oppure distorto, vanificando così ogni effetto riparatore della commissione? Noi abbiamo fatto dei seminari e caveremo dei materiali per rispondere ai problemi della qualità e del pluralismo. Ma si pone un legittimo interrogativo sull’autorevolezza di un organismo parlamentare, per giunta bicamerale, che non può certo risolvere il suo ruolo in un rito esortativo”.

Al Tg1 i giornalisti sono sul piede di guerra contro Minzolini, le intercettazioni di Trani dimostrano le pressioni del Cavaliere sulla Rai. È la notte della tv di Stato?
“Andiamo con ordine. La più grande testata italiana, sottoposta a varie scosse telluriche, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha visto trasformare, insieme con la sua identità, una parte dell’ascolto tradizionale. Intercettazioni: voglio credere che il ministro Alfano sia disposto a ripensare le norme del suo disegno di legge, in discussione al Senato, lesive della libertà di cronaca e del diritto-dovere di informare. Trani: quelle telefonate si commentano da sole, non occorre che aggiunga altro, se non una personale amarezza”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

Partigiani dei lavoratori.

di Marco Ferri – da 3D n. 12 del 24 aprile 2010. (pubblicato anche da megachipdue.info).

I lavoratori di Eutelia hanno ottenuto, da un tribunale, che l’azienda vada in amministrazione controllata. Per vie legali. Questo vuol dire che potrebbero accedere alla cassa integrazione. C’è chi parla di vittoria. Va bene. Ma va davvero bene? No.

Se i diritti dei lavoratori di questo nostro Paese sono legati alle tecnicalità delle leggi amministrative, è difficile pensare a un traguardo, figuriamoci a una vittoria politica e sindacale. È, invece, la misura, per altro colma, di come venga trattato il lavoro salariato nell’Era del berlusconismo, che altro non è che la faccia grottesca del neo liberismo in economia, politica, relazioni industriali.

Tuttavia si deve gioire per il destino dei lavoratori di Eutelia, non per convinzione, ma per obbligo. Ma è anche un obbligo ricordare che questo Paese deve molto ai lavoratori. La classe operaia ha decisamente contribuito alla nascita della nostra democrazia. Lo sciopero nelle fabbriche del nord Italia nel marzo del 1943 aprì la strada alla Resistenza. Gli operai furono attivi protagonisti della lotta partigiana fino a salvare le fabbriche, impedendo che fossero distrutte durante la ritirata degli occupanti nel ‘45. La nostra Costituzione dà un riconoscimento formale e sostanziale al ruolo dei lavoratori: è nell’art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul Lavoro”.

Nel dopoguerra, la classe operaia italiana ha partecipato alla ricostruzione, ha dato impulso alla democrazia, ha abbattuto le gabbie salariali, cioè la divisione dei salari per aree geografiche. La classe operaia in Italia ha fatto da barriera invalicabile contro tutti i tentativi golpisti degli anni ‘70. Ha ottenuto lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori. La classe operaia ha favorito l’integrazione delle grandi emigrazione dal sud, ha gestito la grande incazzatura degli studenti del ‘68, le rivendicazioni femministe, e, più recentemente, le istanze degli immigrati di prima e seconda generazione. La classe operaia in Italia è stata capace di far volare fino al cielo della politica la Sinistra, per poi punirla e appoggiare la Lega al nord: una ricerca della Fiom di Brescia ha svelato che la maggioranza dei suoi tesserati è anche iscritta alla Lega Nord di Bossi.

Gli echi del 25 Aprile, festa della Liberazione, suonano così, quest’anno. Non si può dimenticare il contributo dei lavoratori alla nascita della democrazia. Ma non si deve dimenticare che il progressivo disinteresse alla condizione materiale del Lavoro è in Italia il maggior alleato “oggettivo” alla Vandea berlusconista.

È in questo contesto che la lotta dei lavoratori di Eutelia va valutata. Non sottovalutata.
(Beh, buona giornata).

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democrazia

Il 25 Aprile, Festa della Liberazione nelle parole di Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica italiana.

Intervento del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
al 65° anniversario della Liberazione
Milano, 24 aprile 2010
Signora Sindaco, Signor Presidente della Provincia, Signor Presidente della Regione, Signori rappresentanti del Comitato Antifascista e di tutte le associazioni partigiane e combattentistiche, Signor Presidente del Consiglio, Onorevoli parlamentari, Autorità, cittadini di Milano,
si può facilmente comprendere con quale animo io abbia accolto l’invito a celebrare a Milano il 65° anniversario della Liberazione. Con animo grato, per la speciale occasione che mi veniva offerta, con viva emozione e con grande rispetto per quel che Milano ha rappresentato in una stagione drammatica, in una fase cruciale della storia d’Italia. E tanto più forte è l’emozione nel rivolgere questo mio discorso al paese dal palcoscenico del glorioso Teatro La Scala, che seppe risollevarsi dai colpi distruttivi della guerra per divenire
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espressione e simbolo, nel mondo intero, della grande tradizione musicale e culturale italiana.
Si, viva e sincera è la mia emozione perché fu Milano che assunse la guida politica e militare della Resistenza. Nel gennaio del 1944, il Comitato di Liberazione Nazionale lombardo venne investito dal CLN di Roma – nella prospettiva di una non lontana liberazione della capitale, e di una separazione dell’Italia settentrionale dal resto d’Italia – dei poteri di “governo straordinario del Nord”. Esso si trasformò così in Comitato Nazionale di Liberazione per l’Alta Italia e si mise all’opera per assicurare la massima unitarietà di orientamenti e di direttive al movimento di liberazione. Più avanti – superata la crisi dell’inverno 1944 e avvicinandosi la fase conclusiva della lotta – si costituirà, per assicurare anche sul piano militare la necessaria unitarietà di direzione, il Comando generale del Corpo Volontari della Libertà : lo guiderà il generale Raffaele Cadorna. Seguono ben presto i piani pre-insurrezionali, che vedono al primo posto il cruciale obbiettivo della difesa degli impianti dalle minacce di distruzione tedesche, e infine i piani operativi per l’insurrezione, soprattutto nelle tre città-chiave della Resistenza nel Nord, Torino, Milano, Genova.
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Nel piano di Milano, di lì irradiandosi le direttive per tutta la periferia, è previsto l’impiego di 32 mila partigiani. L’insurrezione si prepara come sbocco, sempre più maturo, dello sviluppo – con l’approssimarsi della primavera, e al prezzo di duri sforzi e sacrifici – delle azioni partigiane (2 mila nell’area di Milano tra febbraio e aprile) ; essa non è dunque la fiammata di un giorno glorioso, ma il frutto di una lunga, eroica semina e di una sapiente organizzazione finale.
Genova è la prima ad insorgere, per decisione presa dal CLN già la sera del 23 aprile ; il piano si snoda attraverso momenti drammatici e prove magnifiche da parte delle squadre partigiane, e si conclude la sera del 25 con la firma, da parte del generale Meinhold, dell’atto di resa delle forze armate germaniche alle Forze Armate del Corpo Volontari della Liguria e, per esse, al Presidente del CLN di Genova. Ne dà l’annuncio alla radio Paolo Emilio Taviani, tra i protagonisti dell’insurrezione, con le solenni parole : “Per la prima volta nella storia di questa guerra un corpo d’Esercito si è arreso dinanzi alle forze spontanee di popolo”.
A Milano, la decisione viene presa, l’ordine viene impartito, per il 25 aprile – in rapporto con le notizie provenienti da Genova – dal Comitato insurrezionale :
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Sandro Pertini, Emilio Sereni, Leo Valiani. Cade, già nel pomeriggio del 24, prima vittima, Gina Galeotti Bianchi, dirigente dei Gruppi di difesa delle donne, la partigiana Lia, ricordata e onorata proprio giorni fa alla Camera dei Deputati. La mattina del 25 Sandro Pertini, già impegnatosi in audaci azioni di attacco, accorre alla fabbrica CGE, dinanzi ai cui cancelli due operai, precedentemente rinchiusi a San Vittore, sono stati trascinati e brutalmente uccisi anche per intimorire le maestranze : Pertini parla ai lavoratori nel piazzale portando l’appello del Comitato insurrezionale. La sera del 26 Milano è praticamente liberata. Gli ultimi reparti tedeschi capitoleranno all’arrivo in città delle divisioni partigiane dell’Oltrepo pavese.
In quei tesissimi giorni, si consumeranno a Milano anche gli ultimi tentativi di impossibili trattative cui si erano mostrati ambiguamente disponibili i capi fascisti. E a Milano si compì poi il tragico epilogo dell’avventura mussoliniana, in uno scenario di orrore che replicò altri orrori inscenati nello stesso luogo di Piazzale Loreto. La guerra era finita, con la vittoria delle forze alleate ; e insieme era finita, con la sconfitta del fascismo repubblichino, anche la guerra civile fatalmente intrecciatasi con la Resistenza.
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Nel Campo della gloria al Cimitero maggiore verranno raccolti i resti mortali, verranno scolpiti i nomi, di 4.134 cittadine e cittadini milanesi caduti per la libertà tra l’8 settembre 1943 e la primavera del ’45, di 2.351 partigiani del Corpo Volontari della Libertà.
Ho voluto partire da un sommario richiamo a drammatici eventi, a memorabili momenti della storia della Resistenza – per quanto più volte e più puntualmente ripercorsi nelle celebrazioni del 25 aprile – perché mai in queste celebrazioni, e dunque nemmeno in quella di oggi, si può smarrire il riferimento ai fatti, al vissuto, a quel che fu un viluppo di circostanze concrete, di dilemmi, di scelte difficili, di decisioni coraggiose e costose, di sconfitte e di successi ; non si può mai smarrire il riferimento a tutto ciò, rinunciare a ricostruire e tramandare costantemente quelle esperienze reali, se non si vuole ridurre il movimento di Liberazione a immagine sbiadita o ad oggetto di dispute astratte.
Nella mia rapida rievocazione del ruolo di Milano in quegli eventi, è risuonato il nome di Sandro Pertini. E non c’è migliore occasione di questa per ricordarlo a vent’anni dalla scomparsa. Perché il suo nome spicca in tutto il percorso della Resistenza, tra quelli che da Milano la guidarono, come protagonisti del Comitato di
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Liberazione Alta Italia, del Comando del Corpo Volontari della Libertà, del Comitato insurrezionale.
Fu combattente instancabile, senza eguali per slancio, audacia, generosità, a cominciare dalla partecipazione – all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre – al disperato tentativo di resistere ai tedeschi nel cuore di Roma, a Porta San Paolo, dopo che il Re è fuggito a Pescara e la capitale è stata militarmente abbandonata. Pertini è lì, reduce da lunghi anni di carcere, di confino e di esilio ; è lì anche da vecchio combattente, medaglia d’argento, della prima guerra mondiale. Ne uscirà capo dell’organizzazione militare del Partito socialista per l’Italia centrale occupata.
Ma già il 15 ottobre viene arrestato, insieme con Giuseppe Saragat e altri socialisti, invano interrogato per due giorni e due notti in Questura, rinchiuso a Regina Coeli (inizialmente nel braccio tedesco), fino a quando tutto il gruppo dei sette socialisti poté evaderne grazie a un piano ingegnoso che ebbe tra i suoi registi un grande patriota, poi eminente giurista e uomo pubblico, Giuliano Vassalli.
Pertini riprese così il suo posto nella lotta contro l’occupazione tedesca, cui si dedicò, da Roma, in tutti i primi mesi del ’44 : il 3 aprile Vassalli fu trascinato
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nella famigerata via Tasso e sottoposto ad ogni violenza dalle SS. Nel mese successivo si avviano colloqui al più alto livello in Vaticano con il comandante delle SS in Italia per evitare la distruzione della capitale (e da quei contatti scaturì anche la liberazione di Vassalli). Il progetto dell’insurrezione a Roma viene accantonato ; Pertini sceglie allora, a metà maggio, di partire per Milano, perché “lassù” – disse – “c’era tanto da fare e da combattere”. E da Milano si muoverà per portare il suo contributo e il suo impulso in tutto il Nord.
A luglio è chiamato a Roma per consultazioni politiche : ma si ferma a Firenze per partecipare all’insurrezione fino a liberare la città dai tedeschi. Giunto a Roma, freme per tornare al più presto a Milano: e per raggiungere quella meta compie un viaggio quanto mai avventuroso, in aereo fino a Digione in Francia, e poi valicando con una guida il Monte Bianco. Di lì a Cogne e a Torino, e finalmente a Milano, in tempo per contribuire a organizzare e guidare la fase finale della guerra di Liberazione.
L’immagine conclusiva del suo impegno – come poi dirà la motivazione della medaglia d’oro al valor militare – di “prezioso e insostituibile animatore e combattente” della Resistenza, è rimasta consegnata alla fotografia che
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lo ritrae mentre tiene il suo primo discorso, dopo decenni di privazione della libertà, il 26 aprile 1945 a Piazza del Duomo.
E’ stato – dobbiamo dirlo – un onore per l’Italia, un onore per la Repubblica, avere tra i suoi Presidenti Sandro Pertini.
L’omaggio che oggi gli rendo, anche con forte sentimento personale per il rapporto che ci fu tra noi, vorrei fosse però incitamento ed auspicio per un nuovo, deciso impegno istituzionale, politico, culturale, educativo diretto a far conoscere e meditare vicende collettive ed esempi personali che danno senso e dignità al nostro essere italiani come eredi di ispirazioni nobilissime, di insegnamenti altissimi, più forti delle meschinità e delle degenerazioni da cui abbiamo dovuto risollevarci. Un impegno siffatto è mancato, o è sempre rimasto molto al di sotto del necessario. Abbiamo esitato, esitiamo a presentare in tutte le sue luci il patrimonio che ci ha garantito un posto più che degno nel mondo : esitiamo per eccessiva ritrosia, per timore, oltre ogni limite, della retorica e dei miti, o per sostanziale incomprensione del dovere di affermare, senza iattanza ma senza autolesionismi, quel che di meglio abbiamo storicamente espresso e rappresentiamo.
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E questo amaro discorso vale per le grandi pagine e le grandi figure del processo che condusse, 150 anni fa, all’Unità d’Italia ; così come per le più luminose pagine e figure dell’antifascismo e della Resistenza. Perfino a Sandro Pertini, che pure è stato Presidente amato e popolare, non abbiamo – al di là di quel che con affetto lo ricorda nella sua terra natale – saputo dedicare un memorial, un luogo di memorie, come quelli che in grandi paesi democratici (si pensi agli Stati Uniti d’America) onorano e fanno vivere le figure dei maggiori rappresentanti della storia, per quanto travagliata, della nazione.
Eppure, l’identità, la consapevolezza storica, l’orgoglio nazionale di un paese traggono forza dalla coltivazione e valorizzazione di fatti, di figure, di simboli, in cui il popolo, in cui i cittadini possano riconoscersi traendone motivi di fierezza e di fiducia.
Naturalmente, l’impegno che sollecito, riferito alla Resistenza, esige – per dispiegarsi pienamente, per ottenere riscontri positivi e suscitare il più largo consenso – la massima attenzione nel declinare correttamente il significato e l’eredità della Resistenza, in termini condivisibili, non restrittivi e settari, non condizionati da esclusivismi faziosi.
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Guardiamo, per intenderci, a quel che si legge nel Diario di Benedetto Croce, alla data del 26 aprile 1945 :
“Grande sollievo per la rapida liberazione dell’alta Italia dai tedeschi senza le minacciate e temute distruzioni, e per opera dei patrioti e partigiani, che è gran beneficio, anche morale, per l’Italia”.
Poche essenziali parole, con le quali il grande uomo di pensiero e di cultura liberale scolpì il valore della conclusione vittoriosa della Resistenza. Valore nazionale, per il “gran beneficio anche morale” assicurato all’Italia restituendole piena dignità di paese libero, liberatosi con le sue forze, di concerto con la determinante avanzata degli eserciti alleati ma senza restare inerte ad attenderne il trionfo. Chi può negare che l’apporto delle forze angloamericane fu decisivo per schiacciare la macchina militare tedesca, per scacciarne le truppe dal territorio italiano che occupavano e opprimevano? Certamente nessuno, ma è egualmente indubbio che il generoso contributo italiano, contro ogni comodo e calcolato attendismo, ci procurò un prezioso riconoscimento e rispetto.
E ho citato Benedetto Croce perché le parole, prive di ogni ombra di retorica ma così significative e lineari, di un’eminente figura dell’Italia prefascista, lontanissima
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dalle correnti ideali e politiche che attraversarono più ampiamente il moto resistenziale e che sarebbero risultate maggioritarie al momento della nascita della Repubblica, danno il segno di un’obbiettiva definizione del 25 aprile come storica giornata di riscatto nazionale, al di là di ogni caratterizzazione di parte.
Che cosa era in effetti accaduto in quei venti mesi tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945? Che cosa era accaduto a partire dal momento della presa d’atto – con l’armistizio – della disfatta in cui era culminata la disastrosa guerra voluta da Mussolini al fianco della Germania hitleriana? Che cosa era accaduto da quello che fu il momento del collasso dello Stato sabaudo fascistizzato e di un generale, pauroso sbandamento del paese, ma anche il momento dei primi segni di una nuova volontà di resistenza al sopruso e all’oppressione, di ritrovamento della propria fierezza e identità di italiani?
Era accaduto che nell’esperienza della partecipazione alla Resistenza, in tutte le sue forme ed espressioni, si era riscoperto, recuperato, rinnovato, un sentimento, un fondamentale riferimento emotivo e ideale che sembrava essersi dissolto. Praticamente dissolto, come aveva detto – già mesi prima della caduta del fascismo – lo stesso
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Benedetto Croce, in uno scritto che circolò clandestinamente :
“Risuona oggi, alta su tutto, la parola libertà ; ma non un’altra che un tempo andava a questa strettamente congiunta : la patria, l’amore della patria, l’amore, per noi italiani, dell’Italia.
Perché?
Perché … la ripugnanza sempre crescente contro il nazionalismo si è tirata dietro una sorta di esitazione e di ritrosia a parlare di ‘patria’ e di ‘amor di patria’.
Ma se ne deve riparlare, e l’amor della patria deve tornare in onore appunto contro il cinico e stolido nazionalismo, perché esso non è affine al nazionalismo, ma il suo contrario.”
Ebbene, con la Resistenza, di fronte alla brutalità offensiva e feroce dell’occupazione nazista, rinacque proprio l’amore, il senso della patria, il più antico e genuino sentimento nazionale. “Le parole ‘patria’ e ‘Italia’” – scrisse poi una sensibilissima scrittrice, Natalia Ginzburg – che erano divenute “gonfie di vuoto”, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta.” E Carlo Azeglio Ciampi ha richiamato autobiograficamente il momento del “collasso dello
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Stato” nel settembre ’43, quando lui e tanti altri “trovarono nelle loro coscienze l’orientamento”, perché in esse “vibrava profondo il senso della Patria”.
Personalmente, ho più volte ribadito come non ci si debba chiudere in rappresentazioni idilliache e mitiche della Resistenza e in particolare del movimento partigiano, come non se ne debbano tacere i limiti e le ombre, come se ne possano mettere a confronto diverse letture e interpretazioni : senza che ciò conduca, sia chiaro, a sommarie svalutazioni e inaccettabili denigrazioni. E’ comunque un fatto che anche studiosi attenti a cogliere le molteplici dimensioni del fenomeno della Resistenza, compresa quella di “guerra civile”, non ne abbiano certo negato o sminuito quella di “guerra patriottica”.
D’altronde, le “lettere dei condannati a morte della Resistenza” restano la più ricca, drammatica testimonianza delle motivazioni patriottiche dell’impegno e del sacrificio di tanti partigiani, soprattutto giovani partigiani.
E quando parlo di tutte le forme e le espressioni di partecipazione alla Resistenza, attraverso le quali si è compiuta una vera e propria riscoperta del senso della patria e della nazione, mi riferisco in special modo alla
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rilevantissima componente costituita dal concorso dei militari al moto di liberazione, di riconquista della libertà e dell’indipendenza del paese : dai contingenti militari regolari chiamati a durissime prove all’indomani dell’armistizio – a Cefalonia, per non ricordare che un luogo-simbolo di quelle manifestazioni di eroico senso dell’onore e coraggio – agli ufficiali e ai soldati che si unirono alle formazioni partigiane, alle centinaia di migliaia di internati in Germania in campi di concentramento, alle nuove forze armate che si raccolsero nel Corpo Italiano di Liberazione. A queste ultime ho dedicato lo scorso anno la cerimonia del 25 aprile a Mignano Montelungo, che fu teatro, nel dicembre 1943, di un’aspra battaglia e costituì “il battesimo di sangue del rinato Esercito italiano”. Quell’azione dei nostri soldati fu esaltata dal Generale Clark, Comandante della V Armata americana, come esempio di determinazione per liberare il proprio paese dalla dominazione tedesca : “un esempio – egli disse – per i popoli oppressi d’Europa”.
Naturali portatori, nella Resistenza, del senso della patria e della nazione furono i militari, e tra essi quelli che si unirono alle formazioni partigiane, che si collocarono nelle strutture clandestine del movimento di
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Liberazione. Ne furono portatori anche in termini di continuità, sia pure nel travaglio della partecipazione a una guerra antitetica a quella precedentemente combattuta. Un travaglio che si coglie nella lettera indirizzata alla moglie dal generale Giuseppe Perotti all’indomani della condanna a morte decretata dal Tribunale Speciale, e alla vigilia della fucilazione al Martinetto in Torino : egli scrive di un esito tragico, che “non so come classificare”, di un “destino imperscrutabile” che comunque lo conduce a morire in guerra. In quegli stessi giorni, il più giovane capitano Franco Balbis, arrestato e fucilato, il 5 aprile 1944, insieme col generale Perotti e con altri, tutti membri del Comitato Militare Regionale Piemontese, scrive alla madre di offrire la sua vita “per ricostruire l’unità italiana” dopo aver servito la Patria “sui campi d’Africa”, e chiede che si celebrino “in una chiesa delle colline torinesi due messe”, nell’anniversario della battaglia di Ain El Gazala e di quella di El Alamein, nelle quali aveva valorosamente combattuto.
Emerge in effetti da tante di quelle estreme motivazioni del proprio impegno e del proprio sacrificio, come nella scelta di schierarsi fino in fondo con la Resistenza avessero finito per confluire ideali di
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liberazione sociale, visioni universalistiche, aspirazioni a “un mondo migliore”, consapevolezza antifascista, sete di libertà, e amore per l’Italia. E l’elemento unificante non poteva che essere questo, l’attaccamento alla propria terra, alla Patria, la volontà di liberarla. Ritorno sulle parole del capitano Balbis : “ricostruire l’unità italiana”, come supremo obbiettivo per cui sacrificare la vita.
Si, vedete, amici, il 25 aprile è non solo Festa della Liberazione : è Festa della riunificazione d’Italia. Dopo essere stata per 20 mesi tagliata in due, l’Italia si riunifica, nella libertà e nell’indipendenza. Se ciò non fosse accaduto, la nostra nazione sarebbe scomparsa dalla scena della storia, su cui si era finalmente affacciata come moderno Stato unitario nel 1861, con il compimento del moto risorgimentale.
Gli storici hanno analizzato anche l’aspetto del ricollegarsi della Resistenza al Risorgimento, ne hanno con misura pesato i molti segni, nella pubblicistica politica, nelle dichiarazioni programmatiche, negli stessi nomi delle formazioni partigiane, nello spirito che animava i militari deportati e internati in Germania. E se hanno poi potuto apparire abusate certe formule, e poco fondate le facili generalizzazioni, resta il fatto che la memoria del Risorgimento, il richiamo a quell’eredità –
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per quanto venisse assunto ambiguamente anche dall’altra parte – fu componente importante della piattaforma ideale della Resistenza.
Si trattò di un decisivo arricchimento di quella che era e rimase la matrice antifascista della guerra di Liberazione : nel più ampio e condiviso sentimento della Nazione, nel grande alveo della guerra patriottica si raccolsero forze che non erano state partecipi dell’antifascismo militante e fresche energie rappresentative di nuove, giovanissime generazioni. E questa caratterizzazione più ricca, e sempre meno di parte, della Resistenza si rispecchiò più tardi nel confronto costituente, nel disegno e nei principi della Costituzione repubblicana.
Se nella Costituzione possono ben riconoscersi – come dissi celebrando il 25 aprile due anno orsono a Genova, e come voglio ripetere – anche quanti vissero diversamente dai combattenti della libertà i drammatici anni 1943-45, “anche quanti ne hanno una diversa memoria per esperienza personale o per giudizi condivisi”, è perché la Carta approvata nel ’47 sancì – dandovi solide basi democratiche – una rinnovata identità e unità della nazionale italiana.
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Mi auguro che in questo spirito si celebri il 65° anniversario della Liberazione e Riunificazione d’Italia. “Il nostro paese ha un debito inestinguibile” – da detto un anno fa in un impegnativo discorso a Onna in Abruzzo il Presidente del Consiglio – “verso quei tanti giovani che sacrificarono la vita per riscattare l’onore della patria………..”: ricordando con rispetto “tutti i caduti”, senza che “questo significhi neutralità o indifferenza”. Si tratta in effetti di celebrare il 25 aprile nel suo profondo significato nazionale ; ed è così che si stabilisce un ponte ideale con il prossimo centocinquantenario della nascita dello Stato unitario.
Mi si permetterà, credo, di ignorare qualche battuta sgangherata, che qua e là si legge, sulla ricorrenza del prossimo anno. Siamo chiari. Se noi tutti, Nord e Sud, tra l’800 e il 900, entrammo nella modernità, fu perché l’Italia si unì facendosi Stato ; se, 150 anni dopo, siamo un paese democratico profondamente trasformatosi, tra i più avanzati in quell’Europa integrata che abbiamo concorso a fondare, è perché superammo i traumi del fascismo e della guerra, recuperando libertà e indipendenza, ritrovando la nostra unità.
Quella unità rappresenta oggi, guardando al futuro, una conquista e un ancoraggio irrinunciabili. Non può
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formare oggetto di irrisione, né considerarsi un mito obsoleto, un residuo del passato. Solo se ci si pone fuori della storia e della realtà si possono evocare con nostalgia, o tornare a immaginare, più entità statuali separate nella nostra penisola. Come bene intesero tutte le correnti e le figure di spicco del Risorgimento, l’Italia è chiamata a vivere come nazione e come Stato nell’unità del suo territorio, della sua lingua, della sua storia. Se non si consolidasse questa unità, finiremmo ai margini del processo di globalizzazione – che vede emergere nuovi giganti nazionali in impetuosa crescita – e anche ai margini del processo di integrazione europeo.
Un’Europa sempre più integrata e assertiva sulla base di istituzioni comuni è la sola dimensione entro la quale gli stessi Stati nazionali più forti del nostro continente potranno far valere insieme il loro patrimonio storico, la loro capacità di contribuire allo sviluppo di un più giusto e bilanciato sviluppo globale il cui baricentro si sta assestando lontano da noi. Ma non c’è nessuna contraddizione tra l’imperativo dell’integrazione, la salvaguardia della diversità delle tradizioni e delle culture nazionali, il rafforzamento della coesione e dell’unità nazionale di ciascuno Stato membro dell’Unione.
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Per contare in Europa e per contare nel mondo di oggi e di domani, la nostra unità nazionale resta punto di forza e leva essenziale. Unità nazionale che non contrasta ma si consolida e arricchisce con il pieno riconoscimento e la concreta promozione delle autonomie, come d’altronde vuole la Costituzione repubblicana : quelle autonomie regionali e locali, di cui si sta rinnovando e accrescendo il ruolo secondo un’ispirazione federalistica.
Questa è la strada per far crescere di più e meglio tutto il nostro paese, in vista di obbiettivi che mai come ora ci appaiono critici e vitali per garantire innanzitutto il diritto al lavoro e prospettive di futuro per le giovani generazioni.
La complessità dei problemi che si sono venuti accumulando nei decenni dell’Italia repubblicana – talvolta per eredità di un più lontano passato – esige un grande sforzo collettivo, una comune assunzione di responsabilità. Questa esigenza non può essere respinta, quello sforzo non può essere rifiutato, come se si trattasse di rimuovere ogni conflitto sociale e politico, di mortificare una naturale dialettica, in particolare, tra forze di maggioranza e forze di opposizione. Si tratta invece di uscire da una spirale di contrapposizioni
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indiscriminate, che blocca il riconoscimento di temi e impegni di più alto interesse nazionale, tali da richiedere una limpida e mirata convergenza tra forze destinate a restare distinte in una democrazia dell’alternanza.
All’auspicabile crearsi di questo nuovo clima, può contribuire non poco il diffondersi tra gli italiani di un più forte senso dell’identità e unità nazionale. Così ritengo giusto che si concepisca anche la celebrazione di anniversari come quello della Liberazione, al di là, dunque, degli steccati e delle quotidiane polemiche che segnano il terreno della politica. Le condizioni sono ormai mature per sbarazzare il campo dalle divisioni e incomprensioni a lungo protrattesi sulla scelta e sul valore della Resistenza, per ritrovarci in una comune consapevolezza storica della sua eredità più condivisa e duratura. Vedo in ciò una premessa importante di quel libero, lungimirante confronto e di quello sforzo di raccoglimento unitario, di cui ha bisogno oggi il paese, di cui ha bisogno oggi l’Italia. (Beh buona giornata).

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Attualità democrazia Media e tecnologia Società e costume

Signore e signori, trasmettiamo ora il “partito dell’amore, contro l’odio e l’invidia”: http://tv.repubblica.it/dossier/direzione-pdl-fini-berlusconi/berlusconi-vs-fini-il-remix-su-youtube/46053?video=&pagefrom=1

http://tv.repubblica.it/dossier/direzione-pdl-fini-berlusconi/berlusconi-vs-fini-il-remix-su-youtube/46053?video=&pagefrom=

(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Fini voleva la corrente, Berlusconi è andato in corto-circuito.

A carte scoperte di Gianpasquale Santomassimo-il Manifesto
La direzione del Pdl è stata organizzata come una cerimonia di umiliazione pubblica per il Presidente della Camera, affiancato a Rotondi e Giovanardi (e altri sette politici di cui molti ignoravano l’esistenza) come cofondatore del partito, in una assise volta ufficialmente a celebrare la vittoria elettorale e i successi del governo.
Nel suo intervento Fini ha rivolto critiche esplicite a Berlusconi, di fronte a una platea di dipendenti non abituati ad ascoltare critiche pubbliche al padrone da cui – qualunque sia loro provenienza – dipendono interamente carriere presenti e prospettive future.

Sono confluite nel discorso di Fini idee antiche e tradizionali, unità nazionale, coesione del paese, senso dello stato e della legalità, e quest’ultimo è fra tutti il vero nervo scoperto del berlusconismo, come si è visto dalle reazioni del personaggio, mai così teso e insofferente in pubblico. Ma si sono innestate, nel discorso di Fini, anche le questioni nuove che da qualche anno sostanziano le sue prese di posizione pubbliche: diritti individuali e civili, laicità delle istituzioni, costruzione di un percorso inclusivo di cittadinanza per gli immigrati.

Tutto quello che, attraverso l’ultimo Fini e il lavoro della sua Fondazione Farefuturo, dovrebbe costruire il volto di una destra italiana moderna e di tipo europeo, che entra in rotta di collisione inevitabile con ideologia e pulsioni della Lega, ma anche con sostanza e identità profonda della destra reale in Italia.
Perché Fini sia uscito allo scoperto proprio ora e nelle condizioni per lui peggiori è facilmente intuibile: di fronte a progetti di riforma istituzionale decisi nelle cene di Arcore con Calderoli, Bossi, e il figlio di Bossi, non reagire avrebbe significato condannarsi a una irrilevanza politica sempre più evidente, mentre la campagna acquisti dei suoi ex colonnelli da parte di Berlusconi è virtualmente conclusa, e resa esplicita dalla conta impietosa di questi giorni.

Il destino di Fini, ormai sessantenne, non è più certamente quello di un delfino che può attendere l’uscita di scena del leader indiscusso: se ci sarà un successore di Berlusconi non sarà lui. A Fini resta un notevole capitale di stima e di consenso, rilevato dai sondaggi, ma che difficilmente può tradursi in voti fuori della gabbia di questa destra.
Certamente non accetterà senza reagire lo sfratto dalla Presidenza della Camera intimatogli da Berlusconi, ma la prospettiva di una corrente organizzata in un partito di questo tipo (“carismatico” è la definizione ufficiale) è affidata a un esile filo di probabilità, e non è neppure detto che questa libertà di manovra gli venga concessa.

Si apre un periodo di inevitabile assestamento e riposizionamento, e la prospettiva, del tutto inedita, di una rottura dell’unanimismo forzato all’interno della destra italiana. Nell’incontro con Berlusconi all’origine dello strappo, veniva attribuita a Fini la dichiarazione per cui la propaganda da sola non può bastare, e la politica non può venire sostituita dalla propaganda stessa. Pensiero giudizioso, che in ogni paese occidentale apparirebbe scontato. Ma molto meno scontato nell’Italia modellata da Berlusconi a sua immagine e somiglianza, con questa legge elettorale. Questo sistema può durare ancora a lungo, in una decadenza avvilente e rovinosa.
(Beh, buona giornata).

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Alla fine Fini è diventato doroteo. Berlusconi può dormire sonni tranquilli. E D’Alema (e Casini, e Rutelli e Bersani) ancora con un palmo di naso.

Roma, 20 apr. (Adnkronos/Ign) – “Ho posto questioni di tipo politico, non sull’organigramma interno” né “per gelosia”, e “non ho intenzione di togliere il disturbo e di stare zitto”. Così il presidente della Camera Gianfranco Fini durante la riunione con i parlamentari ex An che si è svolta oggi nella sala Tatarella di Montecitorio.

“Non credo di attentare al governo e al partito se dico che c’è distacco con la nostra gente – ha detto Fini -. Il dissenso è legittimo o siamo il partito del predellino in cui bisogna dire che le cose vanno bene?”. Arriva un momento in cui “ci si deve guardare allo specchio”. “Se non si è disposti a rischiare per le proprie idee o non valgono le idee o non vale chi le esprime”. Il presidente della Camera ha però criticato “chi ha cercato di interpretare il pensiero di Fini, incendiando il dibattito politico”.

“Il progetto – ha proseguito Fini parlando del Pdl – non è in sintonia con quanto stabilito all’inizio. C’è una scarsa attenzione alla coesione sociale, alla coesione nazionale, il Sud è scomparso dal dibattito politico, sono temi che una grande forza deve trattare, per garantire i suoi valori strategici”. Non si tratta, ha precisato, di “una riproposizione degli attriti con Tremonti, che ha fatto un ottimo lavoro, anzi senza Tremonti saremmo come la Grecia”.

Quanto alla Lega, “è un alleato strategico importantissimo e leale, ma in questo momento sta dimostrando di essere il dominus”.

Per quanto riguarda gli equilibri interni tra le due anime del Pdl, “si apre una nuova fase, anche per quanto riguarda la ripartizione 70-30, chi ha più filo da tessere, tesserà”. Fini ha quindi espresso “soddisfazione perché per la prima volta è stata convocata la direzione del partito”. Inoltre, “pare che si vada verso un congresso e questo è positivo”.

Gli ex di An hanno ascoltato la relazione del presidente della Camera e hanno firmato un ordine del giorno per assicurare il loro sostegno a Gianfranco Fini e per dire no a scissioni e al voto ancipato. Il documento è stato firmato da 50 parlamentari, 36 deputati e 14 senatori. Lo si apprende dagli uomini più vicini al presidente della Camera secondo le quali ”altri parlamentari, oggi assenti per vari motivi, non hanno potuto firmare il documento, ma hanno dato il loro assenso”.

Ora è il momento di ”riportare il confronto su un piano costruttivo – si legge – isolando quanti più o meno consapevolmente stanno in queste ore lavorando per destabilizzare il rapporto tra i cofondatori del Pdl. Per questi motivi confermiamo la fiducia al presidente Fini a rappresentare tali istanze”. ”In merito alle polemiche che l’incontro Fini-Berlusconi ha suscitato nei media e nell’opinione pubblica – scrivono gli ex di An – riteniamo necessario esprimere soldiarietà a Fini contro il quale sono stati espressi giudici ingenerosi con toni a volte astiosi. Per parte nostra, riteniamo che le questioni poste da Fini meritino un approfondimento e una discussione attenta nelle competenti sedi di partito”. ”Nel corso della Direzione di giovedì prossimo – sottolineano – sarà lo stesso presidente della Camera a chiarire le sue proposte, aprendo un dibattito che ci consentirà di articolare e aggiornare un progetto di rilancio del Pdl, aperto alla partecipazione di tutte le componenti del partito”. ”La prospettiva di una escalation e anche il solo parlare di scissioni ed elezioni anticipate risultano incomprensibili per noi e per l’opinione pubblica che invece si aspetta una fase più incisiva dell’azione del nostro governo. Bisogna, quindi, riportare il confronto su un piano costruttivo”.

A stretto giro la replica di 75 ex parlamentari di Alleanza nazionale non di ‘osservanza finiana’ che hanno firmato un documento in cui si definisce il Pdl una scelta ”giusta e irreversibile”. Pur senza sottovalutare i problemi ”politici e organizzativi” che il partito deve affrontare”. Le stesse posizioni espresse da Fini dovranno trovare nei luoghi di discussione del partito la possibilità di essere discusse. Nel Pdl deve esserci un ”costante, libero, proficuo confronto di idee”, garantendo al massimo ”la democrazia interna”. Tra le firme, quelle degli ex colonnelli Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Alterno Matteoli, più il ministro Giorgia Meloni, a lungo a capo dell’organizzazione giovanile di An.

Nel testo si afferma, tra l’altro, che occorre superare “definitivamente” le “quote di provenienza” tra gli ex di An e di Forza Italia attraverso “la convocazione di un nuovo congresso nazionale del Pdl da celebrare nei tempi più rapidi possibili”. Per i firmatari del testo, inoltre, ”deve essere difeso il sistema bipolare, aprendo la stagione delle riforme istituzionali per il rafforzamento della democrazia diretta”. In particolare, scrivono i parlamentari non finiani, ”è necessario attuare, insieme al presidenzialismo, il federalismo fiscale in modo efficace e solidale”. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Se Berlusconi si incazza, fa fuori tutti gli uomini di Fini. Fini lo sa, ma soprattutto lo sanno i suoi.

(fonte: dagospia.com)
Se il presidente della Camera non torna sui suoi passi, Berlusconi taglierà la testa del ministro Andrea Ronchi, del vice ministro alle Attività Produttive Adolfo Urso e del sottosegretario all’Ambiente Roberto Menia.

Ai loro posti resterannno rimarranno invece La Russa e Matteoli (ormai berluscones a tutti i difetti) e Giorgia Meloni, molto vicina alle posizioni di Alemanno.

Al vertice dei gruppi parlamentari tremano Italo Bocchino, presidente vicario dei deputati, e Carmelo Briguglio, vice presidente dei deputati Pdl. Discorso a parte per le due presidenze forti di commissione a Montecitorio che fanno a capo a due fedelissimi finiani, come Giulia Bongiorno (Giustizia) e Silvano Moffa (Lavoro). Per sollevarli dai loro incarichi, ci vuole un voto di sfiducia in commissione.

Linea dura anche verso il “Secolo d’Italia”, diretto dalla Fini-girl Flavia Perrina, giornale che gode dei contributi pubblici in quanto organo del Pdl. Il quotidiano tornerebbe a Fini mentre il Cavaliere potrebbe far diventare organo del partito, con relativi fondi, l'”Opinione” di Arturo Diaconale.

Nelle poltrone pubbliche gli unici finiani doc sono Luigi Scibetta, che non verrebbe più riconfermato consigliere del CdA Eni, e Ferruccio Ferranti, amministratore delegato del Poligrafico dello Stato, a cui Tremonti ha già limate le deleghe. Scibetta e Ferranti sono due persone chiave della fondazione Fare Futuro, agit-prop del pensiero finiano. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

I tre di Emergency sono liberi. Rimane il fatto che il Governo italiano si è comportato come se fossero stati sequestrati. Se fossero, invece, stati legalmente arrestati la magistratura afghana, non la diplomazia li avrebbe liberati. O l’Afghanistan non è uno stato di diritto, oppure i servizi di sicurezza afghani si sono comportati come sequestratori Talebani. Ultima domanda: è questa la democrazia che stiamo “esportando”?

(Fonte: AGI)
“Il governo ha operato con discrezione e collaborazione tra Farnesina e intelligence, con determinazione ma senza raccogliere polemiche interne”. E’ quanto ha sottolineato Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel corso della conferenza stampa a palazzo Chigi, insieme a Franco Frattini, Ministro degli esteri per esprimere soddisfazione per la liberazione degli operatori Emergency.

(Fonte: Agenzia ANSA):
Sono stati rilasciati dopo otto giorni di detenzione i tre cooperanti di Emergency, l’infermiere Matteo Dell’Aira, il chirurgo Marco Garatti e il logista Matteo Pagani, arrestati sabato 10 aprile dalle autorità afghane a Lashkar-gah. Ecco in sintesi le tappe della vicenda:

10 APRILE – Con un blitz nell’ospedale di Emergency di Lashkar-gah nella provincia di Helmand, i servizi di sicurezza afghani (Nsd) arrestano i tre italiani, insieme ad altri sei cooperanti afghani, con l’accusa di preparare un attentato kamikaze contro il governatore della provincia, Gulab Manga. In una stanza della struttura ospedaliera vengono trovati giubbotti esplosivi, bombe a mano e armi. Il fondatore dell’Ong, Gino Strada, definisce “ridicole” le accuse e chiede al governo italiano di intervenire. In una nota la Farnesina ribadisce “la linea di assoluto rigore contro qualsiasi attività di sostegno diretto o indiretto al terrorismo” e allo stesso tempo riconferma “il più alto riconoscimento al personale civile e militare impegnato in Afghanistan per le attività di pace”.

11 APRILE – L’ambasciatore italiano a Kabul, Claudio Glaentzer, incontra i tre fermati in una struttura dei servizi di sicurezza afghani, trovandoli “in buone condizione”. Il giornale britannico Times diffonde la notizia secondo cui i tre italiani avrebbero “confessato” il proprio ruolo nel complotto per uccidere il governatore, citando il suo portavoce, Daoud Ahmadi, mentre secondo la Cnn sarebbero accusati anche dell’uccisione dell’interprete di Daniele Mastrogiacomo, l’inviato di Repubblica sequestrato nel 2007. Gino Strada accusa il governo Karzai di aver “sequestrato” i tre italiani e parla di “una guerra preventiva per togliere di mezzo un testimone scomodo prima di dare il via ad un’offensiva militare in quelle regioni”.

12 APRILE – Per il ministro degli Esteri Franco Frattini parlare di sequestro è “una polemica politica che non aiuta i nostri connazionali”. I tre, aggiunge, “non sono stati abbandonati” dal governo italiano. Frattini annuncia inoltre che inizialmente erano stati “trattenuti” anche altri cinque operatori dell’Ong, tra cui quattro italiane, poi lasciati andare. Nessuna accusa ufficiale viene ancora formulata nei confronti dei cooperanti di Emergency, mentre il portavoce del governatore di Helmand smentisce di aver parlato di confessione e che i tre avessero legami con al Qaida.

13 APRILE – Frattini annuncia una lettera al presidente afghano Karzai per chiedere di accelerare le indagini, mentre la procura di Roma apre un fascicolo senza ipotesi di reato né indagati.

14 APRILE – In un’audizione al Parlamento, Frattini si dice “insoddisfatto” delle risposte finora avute dal governo afghano e spiega che in una lettera a Karzai il premier Silvio Berlusconi chiederà “risposte concrete”. Il titolare della Farnesina annuncia anche che uno dei tre “potrebbe essere presto liberato”.

15 APRILE – Dell’Aira, Garatti e Pagani vengono trasferiti dall’Helmand a Kabul. Continua la polemica tra Gino Strada e la Farnesina. Emergency designa l’avvocato Afzal Nooristani, come difensore dei tre italiani, ma al legale non viene consentito di incontrarli.

16 APRILE – L’ambasciatore Glaentzer, insieme all’inviato di Frattini in Afghanistan Massimo Iannucci, ottiene il permesso di incontrare, uno alla volta, i tre cooperanti italiani detenuti in una struttura dell’Nsd nei pressi di Kabul, trovandoli in buone condizioni di salute e di detenzione. Intanto Gino Strada non esclude un ruolo dei militari britannici nell’arresto dei tre operatori, ma un portavoce del Foreing Office precisa: le truppe britanniche sono entrate nell’ospedale di Emergency solo in un secondo momento, su richiesta delle forze afghane, per renderlo sicuro. L’ospedale viene chiuso e i pazienti più gravi trasferiti in quello governativo di Bost.

17 APRILE – A Roma manifestazione di sostegno ai tre arrestati. In piazza San Giovanni sono 50mila i partecipanti secondo Emergency. Intanto a Kabul Iannucci incontra Karzai che assicura un’inchiesta “chiara e trasparente”. L’inviato di Frattini annuncia in serata di aver trasmesso alle autorità afghane una proposta del ministro che possa portare a “una rapida soluzione” della vicenda.

18 APRILE – Per tutto il giorno si rincorrono voci di un imminente rilascio dei tre. Intorno alle 16.00 la notizia della liberazione data dal ministro degli Esteri Franco Frattini. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

“Striscia la notizia”, il Comune di Latina e la Polverini (nella parte di Alice nel Paese delle faide).

‘Striscia la notizia’ programma di Canale 5 spara in onda la guerra fratricida tra ex An ed ex Fi nel feudo Pdl di Latina.

Che si vede, ma soprattutto che si sente (una vera e propria intercettazione)? La neo-governatrice del Lazio Renata Polverini, festeggiata nel capoluogo pontino dal sindaco post-missino Vincenzo Zaccheo, a sua volta legato da cordiale inimicizia al senatore Claudio Fazzone, “colonnello” locale degli ex Forza Italia.

Ecco cosa si sono detti. «Ciao Vincè, mi raccomando, hai portato 4 voti, hai portato!». Zaccheo: «Ti voglio bene, guarda ci ho creduto. Ti devo dire una cosa: complimenti! Hai dimostrato di essere come me (!?): una donna tenace. Io ho lottato, guarda, io sono andato a nuoto per te. Sono andato a Ponza, a Ventotene. (…) Poi ho fatto… non ti dimenticare delle mie figlie!». Dice Polverini: «No, ma stai scherzando? Domani mi faccio il calendario, mi faccio un giro». Ed è qui che scatta l’altolà del sindaco: «Soprattutto ti prego: non appaltare più a Fazzone». E l’ altra: «No, no. Stai tranquillo». Zaccheo: «Ha perso 15mila voti». E Renata: «Ah bello!», urla, poi si accorge delle telecamere e si accuccia sull’interlocutore: «Non è che non ho chiare le cose come stanno».

Siccome a Latina e dintorni guardano ‘Striscia la notizia’ ecco che scoppia il caso: si dimettono tutti i consiglieri della maggioranza (Pdl), e pure quelli di minoranza (Pd e lista civica). Tutti a casa, la giunta non c’è più. Risultato: il Comune di Latina è stato commissariato dal Prefetto. Verranno convocate elezioni anticipate. Insomma, il sindaco Zaccheo è stato clamorosamente sfiduciato dai suoi amici-coltelli. La Polverini, no: come Alice nel Paese delle faide, pare abbia fatto finta di niente.

Vi ricordate ‘Quarto potere’, il primo lungometraggio diretto da Orson Welles? No? Fa niente. La notizia è che la tv in Italia scala la graduatoria, e diventa il primo potere: quello politico. C’è da star contenti. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Io ti do una cosa a te, tu mi dai una cosa a me: Zaia era ministro diventa Governatore, Galan era Governatore diventa Ministro. Ogni culo ha la sua poltrona. Tutto a posto, niente in ordine nel Governo Berlusconi.

Cerimonia di giuramento questa mattina al Quirinale per il nuovo ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, Giancarlo Galan, che prende il posto di Luca Zaia, eletto alla presidenza della Regione Veneto. Poco prima il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha ricevuto il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Napolitano ha quindi firmato il decreto con il quale sono state accettate le dimissioni di Zaia ed è stato nominato ministro dell’Agricoltura l’ex governatore della giunta regionale di Venezia. Dopo la cerimonia Berlusconi e il nuovo ministro sono andati a palazzo Chigi per la riunione del Consiglio dei ministri.
Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia

La tv in Italia da quarto a primo potere: “Striscia la notizia” scioglie il comune di Latina (Lazio).

Dopo la messa in onda del video, trasmesso dal programma tv “Striscia la notizia” (Canale 5) nel quale si vede e si sente il dialogo tra Renata Polverini, neo presidente della Regione Lazio e il sindaco di Latina, i consiglieri di maggioranza (ex An ed ex Forza Italia) si sono dimessi. Lo stesso hanno fatto i consiglieri di minoranza. Il Comune di Latina verrà commissariato in attesa di nuove elezioni. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Fini e l’attacco “Arcore” della maggioranza.

PDL: BERLUSCONI INCONTRA COORDINATORI, NESSUNO SEGUIRA’ FINI.
(AGI) – Roma, 15 apr. – E’ gia’ partita la ‘caccia all’uomo’.
Secondo quanto si apprende da fonti parlamentari del Pdl, Silvio Berlusconi avrebbe incaricato i vertici del partito di contattare tutti i deputati legati in qualche modo al presidente della Camera per far capire che dar vita a un gruppo autonomo “e’ un’iniziativa suicida”. Nel comunicato, redatto al termine dell’incontro a Palazzo Grazioli, si parla di stupore e di atteggiamento incomprensibile da parte della terza carica dello Stato. Espressioni e stati d’animo che il premier ha rimarcato piu’ volte durante l’incontro. “Non credo – ha osservato il premier secondo quanto viene riferito – ci sara’ qualcuno disposto a seguire Fini”. Dalle parti della presidenza della Camera si ritiene che siano piu’ di 70 tra deputati e senatori pronti a sottoscrivere un nuovo patto. Il premier con i vertici avrebbe fatto ‘la conta’. “In tutto non sono neanche venti”, questa e’ la considerazione del premier sempre secondo quanto viene riferito. (Beh, buona giornata).
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Partito democratico: Romano Prodi giubila Luigi Bersani.

di Romano Prodi-ilmessaggero.it
I lettori mi perdoneranno se, di fronte all’ennesima discussione sulla riforma del Partito democratico, mi permetto di riprendere, con solo qualche aggiornamento, le proposte che, meno di un anno fa, ho fatto sulle colonne di questo stesso giornale. Il rumoroso dibattito post-elettorale sul ruolo dei partiti politici e sul loro rapporto con i cittadini mi riporta infatti indietro di qualche decennio quando, di fronte all’irreversibile crisi della Democrazia cristiana, proposi di costruire il partito su base strettamente regionale ma con un forte patto federativo nazionale. In poche parole si sarebbe dovuto dare vita al Partito popolare lombardo, emiliano, laziale o siciliano ma tutti questi partiti sarebbero stati obbligatoriamente federati alla Democrazia cristiana italiana. Non se ne fece nulla perché gli avvenimenti presero la mano prima ancora che il dibattito potesse essere nemmeno iniziato. E forse non sarebbe comunque iniziato.

Mi sembra oggi utile per il Partito democratico dare spazio a questo dibattito che si è finalmente riaperto. Il risultato delle elezioni è stato infatti inferiore alle attese e la comune interpretazione di questo risultato è che la struttura del partito stesso sia diventata fortemente autoreferenziale, con rapporti troppo deboli con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani, messi in secondo piano dai ristretti obiettivi dei dirigenti e delle correnti.

Per questo motivo sento che sia opportuno ritornare su quella vecchia idea. Gli iscritti al Partito democratico di ogni regione italiana dovrebbero cioè eleggere, naturalmente tramite le primarie, il proprio segretario regionale. L’esecutivo nazionale dovrebbe essere semplicemente formato dai venti segretari regionali, avendo il coraggio di cancellare gli organi nazionali che si sono dimostrati inefficaci. A questi venti “uomini forti” dovrebbe essere demandato il compito di eleggere il segretario nazionale, di decidere sulle grandi strategie politiche del partito e, naturalmente insieme agli organi regionali, le candidature per le rappresentanze parlamentari. La forza dei segretari regionali dovrebbe essere ponderata non in base agli iscritti ma in base ai voti riportati alle elezioni politiche, perché il raccolto di un partito non si basa sulle tessere ma sui voti.

Penso quindi a un esecutivo del partito formato esclusivamente dai segretari regionali, senza le infinite code di benemeriti e aventi diritto, compresi gli ex segretari del partito e gli ex presidenti del Consiglio. La politica del partito deve essere infatti esclusivamente decisa da coloro che, essendo scelti tramite elezione, rispondono direttamente alla base del partito.

È evidente che tutto questo corrisponde alla necessità di un serio federalismo nel quale Nord e Sud siano correttamente rappresentati e in cui si discuta in modo chiaro e definitivo la linea da seguire oggi in Parlamento e, domani, al governo.

Se si pensa in modo coerente ad un’Italia federale, questo federalismo deve infatti partire dai partiti che, nonostante la generale crisi in cui versano, sono anche oggi l’insostituibile fondamento di ogni sistema democratico.

Questa riflessione sul federalismo non vale naturalmente solo per il Partito democratico: ritengo infatti che nessuna grande decisione sul futuro del Paese possa essere presa senza che ad essa partecipino in modo determinante i rappresentanti di tutte le regioni italiane. Ritengo però che sia ancora più necessaria per il Partito democratico che, per completare le fusione delle radici storiche che lo compongono, ha più degli altri bisogno di rinnovare i modelli di reclutamento della sua classe dirigente e di costruire un luogo in cui le decisioni prese non possano più essere messe in discussione. Non si può infatti continuare con dibattiti senza fine nei quali si ritorna sempre al punto di partenza e ogni decisione viene sentita come provvisoria, per cui, ad esempio, dopo avere optato per il cancellierato si ritorna al presidenzialismo e dal presidenzialismo si finisce con la scelta di non cambiare nulla, senza che si capisca come e da chi tutto questo venga deciso. La trasparenza esige che ci sia una sede in cui si discuta in modo aperto e si decida la linea del partito senza che essa possa essere messa in discussione da interviste o dichiarazioni di leader o di notabili.

Certamente questo implica un cambiamento radicale della vita del partito e della formazione della sua classe dirigente e accentra sui venti segretari regionali poteri e responsabilità alle quali il Partito democratico non è familiare. Questo mi sembra tuttavia l’unica soluzione per fare funzionare un partito in modo trasparente ed efficiente in un momento in cui tutti dicono di volere il federalismo ma in cui nessuno lo vuole costruire in modo democratico e rispettoso delle esigenze di tutto il Paese.

Naturalmente tutto questo può funzionare solo se si impongono durissime regole di pulizia e di trasparenza nelle procedure di tesseramento. Tutto questo potrebbe sembrare una banalità ma, a oltre 60 anni dall’approvazione della Costituzione non si è ancora dato concreta realizzazione all’art. 49, che dice con estrema chiarezza che i cittadini hanno diritto di associarsi in partiti per concorrere “con metodo democratico” a determinare la politica nazionale. Cominci quindi il Partito democratico a volere l’attuazione di questo articolo, se non altro perché i suoi elettori sono più vigili di tutti gli altri quando si tratta di trasparenza e di democrazia. Questo non è un vizio ma una virtù.

Mi accorgo che queste osservazioni sono guidate dall’astrattezza di chi è ormai fuori dalla politica. Esse mi sembrano tuttavia utili per spingere all’approfondimento di un indispensabile dibattito. (Beh, buona giornata).

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