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Ma che cosa sta diventando la scuola pubblica in Italia?

La scuola in Italia è un peso per i conti pubblici: docenti, non docenti, studenti sono tutti un esubero. E come tutti gli esuberi, vanno allontanati, quei costi vanno tagliati. Mi dispiace, dice Gelmini, l’avatar ventriloqua del ministro dell’Economia, ci vuole meritocrazia, non so che vuol dire, perché a me non è mai successo, però mi hanno detto di dire così. Mi dispiace, dice il ministro dell’Economia in persona: certi diritti sarebbero pure giusti, però non ce li possiamo più permettere.

Così è e così è stato nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Ma, direte voi, allora vorrebbero un popolo ignorante? Sì. No. Cioè. Vogliono un popolo forgiato al comando del telecomando, quello strumento di “democrazia diretta” che permette di cambiare i programmi televisivi.

Il principio è semplice, basico, è imperativo, anzi è un imperativo categorico: nella scuola italiana si insegna che quello che dovete sapere lo sappiamo noi. Infatti, tanto per fare un esempio, l’avatar Gelmini e il ministro della Difesa La Russa hanno varato in una scuola di Adro, in provincia di Brescia (quella famosa per i simboli legisti) il programma “Allenati per la vita”: lezioni di uso delle armi, dal tiro con l’arco, all’uso della pistola (ad aria compressa). Alla Gelmini non sarebbe mai venuto in mente. A lei non viene mai in mente niente. Ma a La Russa è venuta in mente una innovazione pazzesca: “libro e moschetto, balilla perfetto”.

Tutto il resto è strumentalizzazione politica, come ha detto l’avatar Gelmini quando si è rifiutata anche solo di incontrare una delegazione in rappresentanza dei 219.000 (duecentodiciannovemila!) insegnati precari espulsi in un colpo solo dalla scuola italiana: record di licenziamenti che a pieno titolo potrebbe essere iscritti nel Guinness dei primati.

La verità è che i nemici dell’istruzione pubblica sono entrati (tanto per usare un termine militaresco), sono entrati nel perimetro del diritto all’istruzione, bene comune di una società democratica. E hanno reintrodotto gli assiomi della divisione di classe: ai ricchi scuole private, in Italia o all’estero, ai poveri una sempre più povera scuola pubblica. Basta con la storia che anche l’operaio vuole il figlio dottore. Non c’è più mobilità sociale da rendere disponibile al progresso individuale attraverso la scuola.

Però se c’è meno qualità dell’istruzione, almeno c’è più quantità di prodotti da consumare. Nei centri commerciali, negli outlet c’è tanto consumo da offrirgli. E allora, ragazzi, ma che ci andate a fare a scuola: non vi basta chattare in rete con quella roba tanto carina piena di faccette? Non vi basta partecipare al televoto, sublimazione della democrazia televisiva, che vi fa scegliere il vostro personaggio televisivo preferito? Cosa ne volete sapere voi di cultura, di sapere, di diritti e democrazia, che vi fanno venire strane idee in testa, vi rendono pensierosi, addirittura riflessivi, che poi uno diventa triste e cupo, come certi strani personaggi che hanno fatto la storia, la letteratura, la filosofia, la scienza, e che poi a uno magari gli viene voglia di cambiare le cose che non vanno.

E no, eh?! Mica ricominciamo con le rivolte studentesche, con l’idea di voler conquistare un mondo migliore. Ma non vi rendete conto di quanto siete fortunati. Qui c’è un governo del fare e una ministra avatar che sa lei quello che dovete sapere voi: glielo ha detto un giorno, a tu per tu, ad Arcore Berlusconi in persona.

E non vi azzardate neanche a immaginare di poter essere un domani i protagonisti di un ricambio generazionale dell’attuale classe dirigente. Al massimo vi si concede un provino per il Grande Fratello. Beh, buona giornata.

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Italia 2010: verso la terza Repubblica (berlusconista).

Quei cinque punti, che più che di programma sembrano punti di sutura per ricucire la lacerazione tra Berlusconi e Fini, segnano un altro passo del berlusconismo verso l’autoconservazione di se stesso.

I punti sono quelli di cui si sapeva: federalismo fiscale, fisco, Sud, giustizia e sicurezza. I contenuti più delicati: rilancio del lodo Alfano, processo breve, legge sulle intercettazioni e separazione delle carriere per i magistrati.

La novità non sta nei cinque punti, dunque, ma nel ricatto apertamente dichiarato nei confronti del Parlamento. “Senza questa maggioranza non ci sarebbe altra soluzione che nuove elezioni”, ha aggiunto Berlusconi col suo solito cipiglio da “ghe pensi mì”.

Un ricatto che, in realtà è rivolto a tutti: alleati fedeli e non, opposizione, forze sociali. Se non fate come dico io e con gli stessi voti in Parlamento io butto tutto all’aria.

Berlusconi ha parlato come se fossimo in una democrazia presidenziale, come se lui fosse già capo dello Stato oltre che capo del Governo, come se l’Italia non fosse una democrazia parlamentare, come se il Capo dello Stato non contasse niente.

In più, dopo le aspre polemiche degli ultimi giorni, nelle quali i finiani sono stati trattati come “traditori” del mandato elettorale, Berlusconi ribadisce apertamente una modifica costituzionale che non c’è mai stata: il vincolo di mandato dei deputati, che invece non solo non è previsto nel nostro ordinamento, ma addirittura chiaramente negato.

E allora ecco cosa si nascondeva sotto il fango gettato addosso agli ex alleati finiani durante tutto il mese di agosto, in cui sono volati ipotesi di terzo polo, auto-candidature, palesi o seminascoste, desideri di governi di transizione, mentre in realtà volavano ricatti, killeraggi mediatici, volava fango, e più spesso è piovuta merda: si nascondeva, ed è venuta fuori tutta intera, una gran voglia di Terza Repubblica, presidenziale e berlusconista, con a capo Berlusconi in persona.

La situazione politica italiana è un paradosso, tipico del teatro dell’assurdo: io so che tu sai che io so che se il governo cade in Parlamento si va alle elezioni.

Però, io so che tu sai che io so che se si va alle elezioni io le vinco ancora e tu le perdi un’altra volta.

E allora? Allora ecco che io so che tu sai che non ti conviene andare al voto adesso.

Quindi: io so che tu sai che faccio finta di presentare un bel programma di legislatura, ma in realtà io non faccio mediazioni né sconti. Io non governo, io comando.

Che fai, caro Fini? La voti o non la voti la fiducia al governo Berlusconi?

Che fai, caro Bossi? Lo sai che senza di me il federalismo non lo fai.

Che fate, cari Casini, Rutelli, Montezemolo, ve la sentite di andare al voto e prendere due spiccioli di voti?

Che fai, caro Di Pietro, giochi al tanto peggio tanto meglio?

Che fai, caro Bersani, apri alla Lega e cerchi alleanze con Confindustria, ma trovi Vendola che va cercando il posto tuo, magari solo nella finzione delle primarie (che tanto lo sanno tutti, ormai, che di fronte alla possibilità di andare al governo, quelle le primarie sono semplicemente secondarie.)

Berlusconi, che ha fatto i soldi con la Prima Repubblica, che è andato al governo con la Seconda Repubblica, oggi ambisce al potere pieno, ambisce alla Terza Repubblica.

Quei cinque punti di programma che assomigliano più a cinque punti di sutura sul corpo della nostra democrazia, rischiano di lasciare per sempre il segno di una brutta cicatrice. Beh, buona giornata.

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Da Kossiga a Berluskoni, l’Italia è in mezzo al guado (o al guano?).

Addio al Picconatore, al secolo Francesco Cossiga da Sassari, un mediocre funzionario della fu DC, promosso ai ranghi più alti dello Stato, non per meriti, ma per il fatto che non c’era nessuno in quel momento disponibile ai quei ruoli, l’Italia essendo al di qua della Cortina di Ferro. La cosa deve avergli talmente urtato i nervi da renderlo ciclotimico, verboso, narciso: insomma insopportabile.

E’ stato detto che fu uomo di Stato: sì, dello status quo che si voleva imporre all’Italia, all’epoca della Prima Repubblica. La qualcosa non gli ha impedito, allora ministro degli Interni di permettere e poi giustificare l’uso della forza contro gli studenti nel ’77: Francesco Lorusso, 25 anni di Bologna e Giorgiana Masi, 19 anni di Roma furono sparati a morte durante il suo dicastero. La qualcosa non gli ha impedito di far finta di non vedere la P2 annidarsi fra i ranghi alti delle Forze dell’Ordine durante il rapimento Moro. La qualcosa non gli ha impedito neppure di vanagloriarsi dell’ esistenza di Gladio, quella organizzazione paramilitare, nome in codice“staying behind” nata, con il consenso degli Usa, per impedire l’eventualità di una vittoria elettorale del Pci.

Il suo quasi settennale al Quirinale fu caratterizzato dall’attività di “picconatore”: il capo dello Stato si toglieva “sassolini” dalle scarpe criticando aspramente lo Stato, la magistratura, il sistema politico. Fu chiesto l’impeachement. Tutto finì a tarallucci e vino. Se Andreotti fu definito Belzebù (da Indro Montanelli), a buon titolo Cossiga può essere considerato Caronte, quello che traghetta le anime morte verso l’Ade, attraversando l’Acheronte verso la sponda della Seconda Repubblica.

Il suo modo di fare, di parlare e di agire, aldilà o oltre le regole scritte e non scritte della nostra democrazia parlamentare sono state e sono il traghetto tra la prima e la seconda Repubblica. Berlusconi che le “non regole” le ha imparate a memoria (prima nel business con l’appoggio della politica e poi in politica per sostenere meglio i suoi business) è il passeggero più famoso di questo traghetto.

Da Cossiga ha imparato che si può aprire bocca e dire qualsiasi cosa: tanto c’è sempre qualcuno disposto a “interpretare” le parole, farle diventare un fatto politico, sul quale far chiacchierare a lungo commentatori e politologi.

Ma Cossiga passa a miglior vita proprio mentre la barca di Caronte si è incagliata, in mezzo all’Acheronte. E i passeggeri proprio non sanno che fare, dunque barano. Berlusconi, Bossi, Fini, Tremonti, Montezemolo, Casini, Rutelli, Bersani, Di Pietro e Vendola, tutti sulla stessa barca, che non riesce a traghettarli dall’altra sponda del fiume, ingannano il tempo giocando una partita truccata.

Mentre Berlusconi dà le carte (truccate), ogni giocatore pensa di avere un asso nella manica. E allora volano ipotesi di terzo polo, volano desideri di governi di transizione, volano ricatti, volano killeraggi mediatici, volano auto-candidature, vola fango, ma più spesso piove merda.

La situazione politica italiana in questo furioso agosto 2010 è un paradosso, tipico del teatro dell’assurdo: io so che tu sai che io so che se il governo cade in Parlamento si va alle elezioni. Però, io so che tu sai che io so che se si va alle elezioni io le vinco ancora e tu le perdi un’altra volta. E allora? Allora ecco che io so che tu sai che non ti conviene andare al voto adesso. Quindi: io so che tu sai che faccio finta di presentare un bel programma di legislatura, ma guai a chi mi tocca lo “scudo” contro la magistratura. Che fai, caro Fini? La voti o non la voti la fiducia al governo Berlusconi? Che fai, caro Bossi, lo vuoi o non lo vuoi il federalismo? Che fate, cari Casini, Rutelli, Montezemolo, ve la sentite di prendere due spiccioli di voti? Che fai, caro Di Pietro, giochi al tanto peggio tanto meglio? Che fai, caro Bersani, cerchi alleanze con Confindustria, ma trovi Vendola che va cercando il posto tuo, magari solo nella finzione delle primarie (che tanto lo sanno tutti, ormai, che di fronte alla possibilità di andare al governo, quelle le primarie sono semplicemente secondarie.) Insomma, la barca scricchiola, arenata in mezzo al guado dell’Acheronte.

In questa estate infernale, mentre la bara del Picconatore viene tumulala al suono della fanfara della Brigata Sassari, la democrazia italiana sta giocando la partita più pericolosa della sua storia.

Perché chiunque vinca, i giovani senza lavoro, le donne pagate meno degli uomini, i cassaintegrati da 900 euro, i pensionati da meno di 1000 euro, gli italiani che non sono andati in vacanza per pagare il mutuo, i consumatori che non hanno neanche i soldi per fare la grande spesa del sabato, perché le tariffe sono andate su senza controlli, tutti, ma proprio tutti hanno già perso la partita contro la crisi economica. Figuriamoci se, con le regole truccate dall’attuale legge elettorale, riusciranno a vincere la partita contro la crisi profonda del governo Berlusconi.

Dunque? Che la barca vada alla deriva: forse solo allora qualcuno avrà il coraggio di buttarsi, far saltare il banco e rovesciare il tavolo dei bari. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Media e tecnologia Società e costume

Fini, Berlusconi e il “muck-raking” del Giornale di Feltri.

Feltri&Fini:giornalismo d’inchiesta e i “rimestatori del fango” in Italia, di Mimmo Càndito-lastampa.it

Nella tradizione del giornalismo americano (che non è affatto perfetto ma in larga parte segue standard elevati di professionalità e di indipendenza), una categoria di riferimento è quella del “muck-raking”, che letteralmente si può tradurre come “il rimestamento del fango”. Non è difficile capire che cosa s’intenda: un giornalismo che rimesta nei rifiuti – nella merda, verrebbe da dire – per scoprire che cosa ci sia dentro. Ora, la parte più nobile di questo raking è certamente il giornalismo d’inchiesta; la parte invece più volgare è il giornalismo scandalistico. La linea di demarcazione tra i due giornalismi non è sempre netta, e però alla fine non appare difficile trovare il campo di appartenenza, pur nelle inevitabili contaminazioni.

Facciamo un esempio concreto: alcuni mesi fa “la Repubblica” condusse una dura campagna di stampa contro certe abitudini del presidente B per l’ inveterato costume di mescolare con il suo privato la sua funzione pubblica e di farsi “utilizzatore finale” di prostitute, e di signore compiacenti, in una forma spregiudicata, che inquinava pesantemente l’esercizio del suo ruolo di capo di un governo.

La campagna era partita – o aveva comunque trovato una spinta decisa – dalla denuncia che la stessa moglie (oggi separata) di B aveva fatto pubblicamente, che il marito era “fortemente malato” e si accompagnava con ragazzine. Appare evidente come in quel caso si intervenisse sulla sfera privata del presidente B, ma – appunto – poichè non del “signor Berlusconi” si trattava ma del “presidente B” , le implicazioni politiche oltre che quelle etiche generali erano fortemente significative. Ricorderete: si discusse a lungo se ci fosse violazione della privatezza, e se fosse comunque un affare soltanto personale del signor Berlusconi, o se invece il pesidente B travolto dallo scandalo (si sussurrò a lungo di scelte politiche – perfino di nomine di ministre, non solo di selezione per le candidature al Parlamento, al Parlamento europeo, o a livello locale – dettate dalle compiacenze di letto o di sotto il tavolo, stile Clinton, che il signor B aveva ricevuto nel suo ruolo, non di Dongiovanni, ma di capo di governo oltre che di potentissimo uomo di potere: la televisione etc.), si discusse se B travolto dalla scandalo non dovesse avere la decenza minima di dimettersi per salvare l’immagine fortemente compromessa di istituzioni centrali dello Stato.

Finì che B non si dimise, anzi non fu nemmeno sfiorato dall’ipotesi che l’opinione pubblica intesamente dibatteva, ma certo l’ulteriore danno all’immagine della politica fu rilevante e significativo. Il giornalismo muck-raking de “la Repubblica” aveva svolto con efficacia il proprio lavoro, ma non aveva ottenuto il risultato, altrove inevitabile, del rimestamento del fango (l’analisi delle ragioni fu ampia e partecipata, resta la realtà di quella inefficacia).

Un altro caso concreto di muck-raking è quello che sta affollando molte pagine dei quotidiani ( e molti minuti televisivi) in questi giorni: la casa di Montecarlo affittata al “cognato” di Fini e con procedure che ancora non appaiano affatto chiare. Questa volta il raking è condotto dal quotidiano “il Giornale”, ma anche dal suo parente “Libero” (oltre che dal consanguineo “il Tempo”) ,tutte testate di proprietà o di forte contiguità con B, in una intensità d’intervento che non ha nulla da invidiare alla intensità messa in campo da “la Repubblica” nel caso delle “escort” (le puttane) con cui si accompagnava il capo del nostro governo. La similitudine appare evidente: uomo pubblico nell un caso e nell’altro, faccende poco edificanti nell’un caso e nell’altro, richiesta di dimissioni nell’un caso come nell’altro, giornali con linee editoriali schierate nell’un caso e nell’altro.

Tuttavia, essendo questo blog dedicato alla riflessione sui processi della comunicazione e non all’analisi dei fatti politici, mi pare utile, oltre che necessario, tralasciare l’analisi specificamente politica e tentare soltanto la decodifica dei due “messaggi”, che si mostrano simili nella loro “apparenza” e però mostrano disssimilituini rilevanti nella loro realtà. E’ soltanto la definizione delle diversità – ammmesso che ce ne sia una, e a me pare di sì – che può smontare il meccanismo perverso delle similitudini, e consentire dunque di colloccare con maggior esattezza questa operazione di muck-raking nel campo del giornalismo d’inchiesta o, invece, in quello del giornalismo scandalistico, pur con la inevitabilità delle contaminazioni.

Qual è la dissimilitudine più rilevante? Che nel caso 1 si trattava di realtà denunciate e sostenute da prove inattaccabili,oggettive, documentali, mentre nel caso 2 ci troviamo di fronte a ipotesi ancora non confermate e anzi, in alcuni episodi, addirittura inquietanti per l’a’mbiguità o, peggio, la scorrettezza nell’uso delel “fonti” (penso al dipendente del mobilificio romano che se ne va via dal lavoro e – subito dopo! – spiffera a “il Giornale” che Fini ha comprato i mobili “per Montecarlo” mentre altri quotidiani intervistano il titolare del mobilificio che assicura che mai si è detto di spedire quei mobili a Montecarlo:uso scorretto, o poco professionale, delle fonti; e penso a questa dichiarazione di ieri, di un testimone che “Fini andò a visitare la casa di Montecarlo”, dichiarazione che poi il testimone smentisce con controreplica parziale de “il Giornale” e con accertamenti presso la nostra ambasciata che, anche loro, smentiscono la denuncia de “il Giornale”: e anche qui, lavoro assai poco professionale dell’inchiestista, che non incrocia mai le “fonti”, unico metodo invece per garantirsi l’attendibilità delle testimonianze, come ben sanno tutti gli studenti di giornalismo prima ancora di diventare giornalisti ).

Nel caso 1 come nel caso 2 ci troviamo di fronte a un’aspra lotta politica, ma l’evidenza delle prove del caso 1 non si manifesta nel caso 2 e, anzi, solleva molte perplessità per le forme e i tempi dell’attacco de “il Giornale”, forme e tempi assai simili a quelli del “caso Boffo” (il direttore de “l’Avvenire” costretto alle dimissioni) quando alla fine venne dimostrato che la campagna de “il Giornale” era stata basata su documenti palesemente falsi e usati strumentalmente come mezzi di denigrazione di un direttore, Boffo, che stava manifestando critiche severe ai comportamenti pubblici/privati di B. Anche qui – cioè nel caso 2 – ci troviamo di fronte a forme e tempi che si mostrano rigidamente legati al ruolo critico che Fini si è scelto nei confronti di B, e “il Giornale” appare dunque come uno strumento servile, più che della denuncia e della ricerca della verità, di un attacco spregiudicato contro chi “ha osato” attaccare il presidente B.

Qual è il punto di rottura della spregiudicatezza? Quando il muck-raking abbandona il campo del giornalismo d’inchiesta e si sposta nel terreno del giornalismo scandalistico o, peggio ancora, del giornalismo servile? E’ possibile immaginare una indagine dell’Ordine dei giornalisti che definisca con autorevolezza se vengano rispettati i principi ai quali l’Ordine lega la’ttività giornalistica?
Sono domande complessse, e anzi, meglio ancora, sono domande cui appare molto difficile dare risposte chiare e univoche, proprio per quella ambiguità delle “contaminazioni” tra le due identità del muck-raking. Lascio a voi l’invito a discuterne, con una notazione che è utile fare, perchè attiene direttamente all’anslisi dei processi della comunicazione: la teoria dell'”effetto consumato”, che sostiene che, un a volta emesso il messaggio, questo consuma il suo risultato, e questo risultato non sarà più cancellato (o comunque sarà cancellato solo in minima parte) anche qaundo il messaggio venga successivamente smentito. In aggiunta: chi ricorda più le ragioni – la difesa della legalità nell’azione politica – che hanno mosso Fini alla sua denuncia critica? chi le ricorda più, dopo la campagna de “il Giornale”?

Una sola osservazione finale: se il potere politico può usare con tanta spregiudicatezza al proprio servizio il giornalismo, allora davvero questi si vanno facendo tempi bui assai, non solo per il giornalismo ma anche per il ruolo di una opinione pubblica che è tale – come insegnava Pulitzer – soltanto quando è informata correttamente. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Lavoro Popoli e politiche

Ferragosto a Magic Italia.

di Marco Ferri-3DNews, inserto del quotidiano Terra

In un Paese in cui, secondo stime recenti, 6 italiani su 10 quest’anno non andranno in vacanza, per via della crisi economica, le migliori ferie di agostane le faranno i tre operai della Fiat licenziati a Melfi il 14 luglio scorso. Reintegrati dal giudice del lavoro, si presenteranno in fabbrica il 23 agosto, alla riapertura degli stabilimenti.

Quella volpe di Marchionne, amministratore delegato della Fiat, gli ha regalato la bellezza di quaranta giorni di vacanze pagate. Non se lo sarebbero mai sognato. Beati loro.

Vacanze sul filo, invece per Presidente della Repubblica che da Stromboli si dice preoccupato per il “bailamme” della politica italiana, dopo lo strappo tra Berlusconi e Fini che ha aperto di fatto la crisi di governo, con tanto di scontro istituzionale tra il capo del governo e il presidente della Camera, la terza carica dello Stato.

Vacanze avvelenate per Fini ad Ansedonia, messo in mezzo dalla “tribù dei Tulliani”, sottoposto, all’olio di ricino mediatico (potenza della legge del contrappasso per un ex fascista), somministrato dal Giornale di Feltri, per via della casa di Montecarlo.

Vacanze livide e rancorose di Berlusconi, che, asserragliato nel castello di Tor Crescenza, pilucca dossier freschi di stagione per”polverizzare” i suoi ex alleati di governo e costringerli alla resa incondizionata. Che siccome le crisi di governo si sa come cominciano, ma non si può mai dire come finiscono (Andreotti docet), Berlusconi ha una gran paura di non arrivare in sella alla sentenza della Consulta che potrebbe cancellare lodi, scudi e salvacondotti: e allora sì che sarebbero dolori per lui e i suoi guai giudiziari.

In questa estate pazza, che puzza di complotti di Stato e di congiure di Palazzo, c’è il lato comico, quello più divertente perché involontario. Infatti, all’inizio di luglio il ministero del Turismo, quello diretto da Michela Vittoria Brambilla, ha messo in onda uno spot pubblicitario per promuovere il turismo in Italia. La voce narrante era di un testimonial d’eccezione: Silvio Berlusconi. Il quale, fuori campo, invitata gli italiani a visitare la “nostra magic Italia”.

Fatto sta che l’appello a passare le vacanze in Italia non è stato ascoltato dallo stesso ministro del Turismo, committente dello spot. Michela Vittoria Brambilla, infatti, le sue vacanze le ha passate in Francia, a Menton, in Provenza. Beccata in flagrante ha detto di essere in “missione”. Che missione? Non si è capito. Anche se il sindaco di Siena, imbizzarrito come un cavallo selvaggio per le dichiarazione della Brambilla contro il Palio ha minacciato vie legali per il danno di immagine alla città e al suo turismo.

Mentre, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, in una pepata dichiarazione pubblicata sul suo profilo Facebook, prima definisce la Brambilla “ministro animalista che fa ridere i polli”, poi aggiunge: “Dopo lo spot con la voce del premier un’altra ideona: abolire il Palio. Ma c’e’ un Paese straniero che la paga?”.

Insomma, quello di “Magic Italia” è stato un successone. Certificato, tra l’altro dal ministro della Difesa Ignazio La Russa, che siccome è fermamente convinto di essere anche il ministro dell’Interno, ha denunciato la ripresa massiccia degli sbarchi clandestini sulle coste siciliane. Il che è senza dubbio la prova provata di un grande successo di marketing turistico, suggestionato proprio dallo spot del duo Berlusconi&Brambilla. Sei italiani su dieci a “Magic Italia” non ci credono. Ma i migranti sì. E allora: welcome to magic Italy. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“La Sinistra, invece di occuparsi della nuova aspra dialettica dello scontro Capitale-Lavoro, perde tempo all’inseguimento di governi di transizione, abbandonando a loro stessi i lavoratori.”

di Marco Ferri- 3DNews

Omar Thomas, un nero di 34 anni assunto da poco come autista dalla Hartford Distributors di Manchester, in Connecticut (USA), è entrato nello stabilimento in cui lavorava e ha ammazzato a rivoltellate otto persone, poi si è tolto la vita. Lo ha fatto perché temeva di essere licenziato.

Qualche giorno prima, Paolo Iacconi, un italiano di 51 anni, rappresentante di commercio presso la Gifas-Electric di Massarosa, in provincia di Lucca (Italia) è tornato in azienda e ha ucciso a colpi di pistola l’amministratore delegato e il responsabile delle vendite, poi si è sparato, togliendosi la vita. Era stato licenziato sei mesi fa. Era il 23 luglio di quest’anno.

Il giorno dopo, nei dintorni di Roma, un assicuratore ammazza a bastonate il suo datore di lavoro. Tornavano in macchina dopo aver visitato alcuni clienti. E’ nato un diverbio. Alla minaccia del licenziamento, è scattata la furia omicida. L’uomo è stato arrestato.

Cosa lega tra loro questi fatti? Una semplice, quanto terribile coincidenza: lo spettro della perdita del lavoro, la disoccupazione. Cosa stride tra la verità narrata dal mainstrem e la realtà delle cose? Un semplice, quanto lampante dato di fatto: governi e finanzieri parlano di segnali di ripresa dell’economia.

Una buona notizia? “Io considero fin troppo probabile che tra due anni la disoccupazione sarà ancora estremamente alta, se possibile addirittura più alta di adesso. Invece di assumersi la responsabilità di porre rimedio a questa situazione, i politici e i funzionari della Fed dichiareranno in uno stesso modo che un’ alta disoccupazione è strutturale, al di là del loro controllo.” Lo ha detto Paul Krugman, economista americano, Nobel 2008, in un articolo pubblicato su Repubblica (c .2010 New York Times News Service, traduzione di Anna Bissanti).

Allora le cose stanno così: la crisi economica globale ha distrutto i risparmi, la ripresa economica sta distruggendo il lavoro. Il Capitale vince due a zero. Se guardiamo le cose di casa nostra, possiamo vedere crescere la disoccupazione , siamo vicini a quota 9 per cento, in linea con quello che succede in Europa. Però, svettiamo a oltre il 29 per cento di disoccupazione giovanile, un gran bel record mondiale.

Senza contare, che sono stati annunciati circa tremila nuovi esuberi da Telecom Italia. Mentre Unicredit, una banca italiana tra le prime in Europa, augura buone vacanze estive 2010 agli italiani, annunciando 4.700 licenziamenti. Un sindacalista della Cisl ha detto che i licenziamenti della banca sono concepiti sul modello di pensiero di Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat: taglio posti di lavoro, porto fuori la produzione, chiudo stabilimenti, rompo le relazioni sindacali, mando all’aria i contratti collettivi di lavoro.

Il Lavoro perde due a zero. Perché il Sindacato tarda a comprendere il cambio di passo nelle relazioni industriali. Perché la Sinistra, invece di occuparsi della nuova aspra dialettica dello scontro Capitale-Lavoro, perde tempo all’inseguimento di governi di transizione, abbandonando a loro stessi i lavoratori. Che ogni tanto, come le formiche nel loro piccolo, si incazzano. (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto Natura Popoli e politiche

Un milione e 400 mila firme contro la privatizzazione dell’acqua. Ecco come si fa l’Opposizione.

La politica del bene comune, di CARLO PETRINI-Repubblica.

Un milione e 400 mila firme contro la privatizzazione dell’acqua. Raccolte in circa tre mesi. Un record, ma la notizia è che la società civile non è morta, che si può provare a sopraffarla finché si vuole, ma c’è sempre un limite. Il retro della medaglia è l’immagine di una classe politica che di fronte alla rete che si è formata per raccogliere le firme dovrebbe impallidire, farsi piccola, capire quant’è inadeguata, vuota e fuori dal mondo. C’è chi non è in grado di raccogliere le firme necessarie a presentare una lista elettorale e mette nei guai a posteriori il recente governatore del Piemonte.

C’è chi caverebbe soldi anche da una rapa, se fosse possibile, e fa decreti per privatizzare i nostri beni comuni o condonare qualsiasi cosa, dall’acqua alle spiagge passando per l’archeologia e i mostri edilizi. C’è chi si distingue per intrallazzare fino all’inverosimile pur di coprire pulciosi interessi economici e personali e chi, bontà sua, non riesce proprio a opporsi e cade in tutti i tranelli possibili di un ménage politico stantio, autoreferenziale, basato solo su un apparire sempre più elemosinato al Cesare, sui personalismi ma con sempre meno personalità.

Un milione e 400 mila firme per dire che l’acqua non si può privatizzare sono molto di più della sacrosanta difesa del bene comune per eccellenza, sono un urlo urlato con dignità e buon senso, il frutto di un’indignazione seria e civile, una lezione per chiunque voglia fare politica in Italia. I tre quesiti referendari hanno senso, sono ben congegnati per bloccare giusto in tempo la strada di una privatizzazione generalizzata entro il 2011, da cui sarebbe difficilissimo, o costosissimo, tornare indietro. Invece ora ce la si può fare: se l’iter verrà rispettato, se la volontà di quel milione e mezzo di italiani non sarà calpestata per l’ennesima volta, nella primavera del prossimo anno la lezione data alla politica nostrana sarà completa.

La rete del Forum dei movimenti per l’acqua, che è nata e si è propagata con una naturalezza disarmante per chiunque faccia il raccattatore di voti di professione, è una speranza per la democrazia nel nostro Paese. I banchetti volanti al Giro d’Italia, quelli nei mercati (li ho visti, sempre con la gente in educata fila), ai concerti, dove si fanno gli aperitivi tanto di moda, nelle piazze e vie di fronte agli strusci consumistici: mai un simbolo di partito, chi si è messo a disposizione l’ha fatto per l’acqua perché di fronte all’acqua sparisce qualsiasi colore, qualsiasi ideologia, qualsiasi altro interesse. Non è un caso che chi abbia tentato di cavalcare l’onda pro domo sua abbia fallito miseramente.

Il cibo, l’acqua, la nostra terra, il bello e il buono che non si devono necessariamente comprare: forse c’è la speranza che non si portino via tutto. Sono le cose che stanno più a cuore alle persone umili che cercano di vivere bene la propria vita in un mare di difficoltà che non si sono per niente cercate: è la dimostrazione che i temi della politica dovrebbero essere altri, se la politica fosse nobile, se la politica sapesse. (Beh, buona gionata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La Seconda Repubblica è finita: “Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente.”

CETI ABBIENTI E SENSO DELLO STATO. Tra ricchezza e indifferenza, di Ernesto Galli Della Loggia-corriere.it
I dati sono ampiamente noti. Ma voglio ricordarli per l’ennesima volta riprendendoli da un recente articolo pubblicato sul Corriere da Sergio Rizzo. Ogni anno, in Italia, sfuggono completamente al fisco redditi per circa 300 miliardi di euro, con una perdita di entrate per le casse pubbliche pari a un dipresso a 100 miliardi di euro.

Venendo al dettaglio una cifra simile vuol dire che dovremmo credere all’incredibile: ad esempio che nel 2007 (ultime cifre disponibili) gli italiani con un reddito superiore a 200 mila euro sarebbero stati meno di 76 mila. Non solo, ma poiché solamente il 20 per cento di questi erano lavoratori autonomi (l’altro 80 per cento essendo dipendenti o addirittura pensionati), dovremmo pure credere che in tutta la Penisola, dalle Alpi al Lilibeo, non ci fossero allora più di 15 mila lavoratori autonomi che avessero un reddito di almeno 18 mila euro al mese. E dovremmo altresì credere—sempre stando a ciò che risultava al fisco — che in quello stesso anno soltanto 6.253 (dicesi 6.253) «percettori di reddito da imprese» avrebbero guadagnato più di 200 mila euro annui. Così come dovremmo convincerci che proprio in quelli che sono stati i 12 mesi precedenti la crisi ben il 45 per cento, vale a dire circa la metà delle società, avessero davvero, secondo quanto denunciato, un bilancio in perdita. Ma chi può credere a questa realtà di favola? Nessuno. Così come nessuno può credere che le tasse verrebbero pagate se solo fossero più basse (una favola che fa esattamente il paio con quella per cui se tutti pagassero le tasse queste diminuirebbero). Così come d’altra parte nessuno può credere ormai che faccia una differenza se al governo c’è la destra o la sinistra: la quale, anzi, ha dimostrato di non riuscire a dare alcuna concretezza alla sua astratta furia ideologica redistributiva.

E allora non resta che prendere atto di una diversa realtà, quella vera. E cioè che in Italia l’evasione fiscale, per la sua mole, la sua capillarità e la sua continuità nel tempo, è qualcosa di ben altro, e che va ben oltre una pur grave dimensione economica. Essa evoca piuttosto una fondamentale questione nazionale. Vale a dire qualcosa che rimanda immediatamente all’esistenza e alla consistenza stessa delle basi dello Stato nazionale, del nostro stare insieme. Infatti, se in una misura che non ha eguali in alcun altro Paese civilizzato la ricchezza, i ricchi, si sottraggono all’imposta, ciò vuol dire che di fatto, e nei fatti, essi mostrano di non riconoscersi in un’ appartenenza comune. Che una parte della popolazione— e proprio quella più produttiva — non intende sottostare a quel vincolo sociale che è tale appunto perché obbliga a comportamenti che non corrispondono al proprio personale e immediato interesse.

Tra questo interesse e quello generale la stragrande maggioranza degli italiani ricchi invece non ha dubbi: sceglie senza esitare il primo e manda al diavolo il secondo. Questa indomabile asocialità dei ricchi ha almeno due gravi conseguenze oltre quelle ovvie di carattere economico. La prima è la grandissima difficoltà che ha incontrato e che incontra da sempre in Italia la formazione di una vera classe dirigente. Infatti quell’asocialità non può che dare luogo anche ad una tendenziale astatualità, cioè ad una sostanziale indifferenza per le sorti dello Stato. Come si vede benissimo nel fondo di grottesco anarchismo protestatario che si annida così spesso nei ricchi italiani, e che fa sì che essi, quindi, possano identificarsi assai difficilmente con gli interessi collettivi del Paese come invece dovrebbe fare una classe dirigente.

La seconda conseguenza è di ordine politico. Come accade normalmente in tutti i Paesi anche da noi, in linea di massima, la ricchezza preferisce, non da oggi, farsi rappresentare politicamente dalla destra. Non c’è niente di male. Se non fosse però che una ricchezza asociale e antistatuale, come quella descritta, ha finito inevitabilmente per trasmettere questi suoi caratteri alla parte politica verso cui perlopiù convoglia il suo voto, condizionandone pesantemente il profilo ideologico e i comportamenti. Per non perdere tale voto, infatti, la destra politica italiana è stata spinta, lo volesse o no, ad assecondare regolarmente le pulsioni antisociali ed antistatali di quella parte così importante del proprio elettorato di riferimento. Ed è questo elemento che insieme ad altri ha impedito e impedisce alla destra italiana di incarnare il senso delle istituzioni e dello Stato così come di dare voce alta e forte alla dimensione degli interessi nazionali, secondo quanto avviene, invece, quasi dovunque altrove.

Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente. Tale problema riguarda principalmente la destra. La quale si è accontentata finora di seguirne pedissequamente i desiderata, senza neppure cercare di dare loro una prospettiva diversa da quella egoistica da essi naturalmente espressa. Con ciò però condannandosi ad una funzione politicamente subalterna e troppo spesso, se è permesso dirlo, eticamente alquanto penosa. (Beh, buona giornata).

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La Seconda Repubblica è finita. Tremonti lo dice, ma non lo ammette.

Tremonti: No a governi tecnici di MASSIMO GIANNINI-repubbica.it

«IL GOVERNO Berlusconi è forte,e non esistono alternative credibili. Né governi tecnici, né larghe intese. Sono fuori dalla storia, e l’ Europa non approverebbe». Giulio Tremonti non ha dubbi. A dispetto degli scandali della P3e dei conflitti sulla manovra, vede un’ Italia solida e coesa,e un governo in pieno «controllo», da qui alla fine della legislatura. Il ministro dell’ Economia nega conflitti e dimissioni. «Mai minacciato nulla. Tutt’ al più ho detto qualche volta “non firmo”».

Difende il Cavaliere su tutta la linea. Dalla P3, «al massimo una cassetta di mele marce», alle intercettazioni, «tutt’ al più una legge-bavaglino». E sbarra la strada a qualunque ipotesi di governo tecnico alla Draghi, o di larghe intese senza Berlusconi. «Governo tecnico? Governo di unità nazionale? Sono figure che sembrano stagionalmente incastrarsi nella forma di una geometria variabile che ricorda un vecchio caleidoscopio. Avrei preferito proseguire il discorso che abbiamo iniziato come discorso sulla “democrazia dei contemporanei”…».

D’ accordo, allora, partiamo pure dalla “democrazia dei contemporanei”. Cosa intende dire?

«La democrazia dei contemporanei è diversa da quella “classica”, e questa a sua volta era diversa dalla democrazia della agorà. E pure sempre è necessaria, la democrazia. Ed è ancora senza alternative- la democrazia- pur dentro la intensissima “mutatio rerum” che viviamo e vediamo. Intensa nel presente come mai nel passato, dalla tecnologia alla geografia.

La scienza muta l’ esistenza. La “medicina”, la “ars longa” sempre più estende il suo campo, non più solo sulla conoscenza del corpo umano, ma essa stessa ormai capace di ricrearlo per parti. L’ iPad muta le facoltà mentali, crea nuovi palinsesti, produce in un istante qualcosa di simile a quello che per farsi ci ha messo tre secoli, nel passaggio dal libro a stampa alla luce elettrica. Per suo conto, Google vale e conta strategicamente ormai comee forse più di uno Stato G7.

E poi è cambiata di colpo la geografia economica e politica. Di colpo, perché i venti anni che passano dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono un tempo minimo, un tempo non sviluppato sull’ asse della lunga durata tipica delle altre rivoluzioni della storia».
Dove porta questo ragionamento sul cambiamento della democrazia?
«Se cambia la geografia, la politica non può restare uguale. La politica come è stata finora è stata costruita sulla base territoriale chiusa tipica dello Stato-nazione, su confini impermeabili che concentravano nello Stato il monopolio della forza.E la politica era la forma di esercizioe di controllo della forza. La stessa democrazia era rapporto tra rappresentanza e potere.

Ora non è più così. L’ asse si sta inclinando, la rappresentanza cresce, il potere decresce, erosoe diluito dallo spazio globale. E la crisi radicalizza questa asimmetria. La crisi genera domande crescenti d’ intervento. I popoli chiedono interventi sempre più forti, a governi sempre più deboli».


Giusto, basta guardare alla debolezza del governo Berlusconi..
.

«Non è così. Il mio ragionamento vale per tutti i governi. La formula di soluzione e reazione politica non può essere più solo nazionale, ma internazionale. Ed è questo il senso politico della “poliarchia” disegnata nell’ enciclica “Caritas in veritate”.

È proprio questo quello che si sta facendo in Europa in questi mesi, in questi giorni, costruendo sopra gli Stati una nuova “architettura politica”».


Ministro, per favore, passiamo dalla filosofia alla cronaca di questi giorni. Parliamo delle difficoltà dell’ Italia e del suo governo. Qui si parla di crisi, di elezioni anticipate, di governi di transizione…

«In Italia la formula di soluzione non può essere quella del governo tecnico. Per due ragioni. Primo, perché non c’ è una “melior pars” fatta di ottimati, di tecnici, di illuminati, capaci di governare la complessità. Li vedo, certo, ma non li vedo capaci di governare. Secondo, perché un governo di questo tipo, non basato sul voto popolare, non avrebbe chance di prendere posto al tavolo dell’ Europa».

Cioè? Lei sta dicendo che l’ Europa avrebbe il potere di dire no a un governo tecnico in Italia?

«È così. E non solo perché l’ Europa è costruita sul canone della democrazia, ma soprattutto perché l’ Europa, avviata a prendere la forma di un comune destino politico, presuppone e chiede comunque una base di stabilità e di forza. Questa derivante solo dalla politica e dalla democrazia. Tipico il caso della Grecia: la fiducia europea è stata indirizzata verso il governo greco legittimamente eletto. La negatività, verso un ruolo esclusivo del Fondo monetario internazionale, era basata sulla diffidenza verso una formula che sarebbe stata più debole, proprio perché solo tecnica. La tecnica può essere solo complementare alla politica, e non sostitutiva».


Ma chi si potrebbe opporre, invece, a un governo politico di larghe intese, di cui parlano in molti, nel Pd e nell’ Udc?

«La casistica delle larghe intese si presenta solo in due scenari. Dopo elezioni che evidenziano la bilaterale insufficienza delle forze in campo, o per effetto di un trauma. Francamente, nel presente dell’ Italia non vedo un trauma tanto forte da spingere verso questa ipotesi di soluzione. Non un trauma “economico”, non un trauma “esterno”, non un trauma “giudiziario”».

Sull’ economia, in realtà, il trauma lo abbiamo rischiato di brutto con l’ attacco dei mercati, e forse continueremo a rischiarlo oggi e nei prossimi mesi. Non è così?

«Il trauma economico è stato ipotizzato subito, appena dopo la costituzione di questo governo, a fronte della crisi che arrivava. L’ ipotesi non si è verificata. Era un’ ipotesi basata tanto su di una insufficiente e solo parziale analisi della realtà, quanto sulla sottovalutazione della forza del governo. 2008, 2009, 2010. Siamo ormai verso il terzo autunno, e puntualmente per ogni autunno si prevedeva e ora si prevede la crisi. Una crisi esterna, causata dallo scatenarsi della speculazione finanziaria sul nostro debito pubblico. Una crisi interna, con la rottura dell’ ordine e della coesione sociale. In questi anni la sinistra ha puntato sulla paura, come se questa fosse un’ ideologia congiunturale sostitutiva. Non è stato così, non è così, non sarà così».

Ma è stato lei a dire che senza la manovra rischiamo la fine della Grecia…

«Appunto, senza la manovra. In realtà nel 2008 siamo partiti con la legge finanziaria triennale e siamo andati avanti sulla stessa linea.I numeri dell’ Italia sono ormai allineati nella norma e nella media europea. Avrebbe potuto essere diverso, e non è stato. E questo è stato certo per la forza propria e sottovalutata dell’ Italia. Ma anche, si vorrà ammettere, per la visione e per la forza nell’ azione di governo».

Eppure, basta parlare con un po’ di ambasciatori per sapere che i nostri partner occidentali temono per la tenuta politica del governo Berlusconi. Lo può negare?

«Sarebbe questo il secondo trauma, quello “esterno”. Una volta si diceva “tintinnare di sciabole”. Ora, in un’ età più pacifica, si parla di “voci di Cancelleria”. Francamente non mi pare che si tratti di dati rilevanti. Per due ragioni. Perché la crisi postula la stabilità come valore superiore. E poi perché non pare che tanti altri governi siano in condizioni di forza superiore a quella dell’ Italia. Per essere chiari, in giro per l’ Europa non vedo governi tanto forti e tanto determinati e determinanti. Ma, all’ opposto, tutti impegnati nella gestione delle proprie crisi interne. Gestione che, in giro per l’ Europa, non mi sembra più forte della nostra, ma spesso anche contraddittoria, incerta e contestata. In realtà, siamo tutti impegnati in Europa nella costruzione di una architettura nuova di comune e superiore interesse. Il ruolo dell’ Italia nello scenario europeo è forte, richiesto e reputato. Il ruolo di Silvio Berlusconi è forte. E, nel mio piccolo, per esempio martedì sono invitato in Germania a Friburgo per la “Lezione europea”. E non come professore di università, ma come ministro della Repubblica italiana».

Eppure la vostra maggioranza rischia ogni giorno l’ implosione interna. Che mi dice delle inchieste, dei ministri che si dimettono, dello scandalo della P3?

«Per scelta politica, tendo sempre ad analisi di sistema. È certo che non si tratta solo di una mela marcia. C’ è qualcosa di più. Forse, e anzi senza forse, è venuta fuori una cassetta di mele marce. Ma l’ albero non è marcio, e il frutteto non è marcio. La combinazione perversa è tra le condotte personali e la crisi generale. La crisi postula la salita, e non la discesa nella scala dell’ etica, e se vuole anche dell’ estetica».

Quindi anche lei, come il premier, pensa che questi siano solo polveroni?

«La politica deve sempre distinguere tra ciò che è “reato” e ciò che è “peccato”, e non confondere l’ uno con l’ altro. Ci può essere reato senza peccato, come ci può essere peccato senza reato. I dieci comandamenti sono una cosa, i codici una cosa diversa. Un discorso politico serio deve e può essere avviato anche in casa nostra su questo campo. Anzi è già iniziato, ma proprio per questo non può essere generalizzato e banalizzato».

Banalizzato? Qui ci sono pezzi di Stato e di governo che cercano di infiltrarsi e condizionare le decisioni della magistratura, in nome di “Cesare”. Dove vede la banalità?

«Per banalità intendo la “banalità del male”. E anche per questo non credo che puntare sulla valanga delle intercettazioni renda un buon servizio all’ etica politica».

Le ultime intercettazioni ci hanno però permesso di svelare le trame intorno all’ eolico, e alla nuova cupola ribattezzata appunto P3…

«Le ultime intercettazioni costituiscono una lettura interessante. Ne emerge un bestiario fatto di faccendieri sfaccendati, di «poteri» impotenti, se si guarda i risultati, di reati più “tentati” che “consumati”. Più si affolla la scena, più tutto si confonde. E la presunta “tragedia” si fa commedia. Questo non vuol dire che non ci sia una questione morale…».

Meno male: riconosce che esiste una questione morale nel centrodestra?

«Ma quella morale è una questione generale. Questo è un Paese in cui molti “governi” locali si sono clonati e derivati in galassie societarie “parallele”. Spesso più grandi dei governi stessi. E non sempre sotto il controllo democratico e giudiziario. Leggasi la monografia della Corte dei Conti. Mezza Italia è in dissesto sanitario. E questo riduce drammaticamente la “cifra” della morale pubblica. Troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline verso gli affari. Oggi l’ affare degli affariè quello dell’ eolico, almeno questo non inventato da noi. Vastissime aree del Paese sono deturpate da pale eoliche sorte all’ improvviso, in un territorio che nei secoli passati non ha mai avuto i mulini a vento. E forse ci sarà una ragione. È in tutto questo che vedo la grande questione morale, questo è l’ albero storto che va raddrizzato. E per farlo non vedo alternative al federalismo fiscale. L’ unica, l’ ultima forma per riportare nella trasparenza e nell’ efficienza la cosa comune».


Nel frattempo, per nascondere tutto ai cittadini, il governo vara la legge-bavaglio. Leiè d’ accordo anche con questo?

«La traccia possibile di una discussione seria su di un tema serio, come quello della dialettica tra il diritto alla privacy e il diritto all’ informazione, si è persa in un labirinto. E solo ora forse può essere ritrovata. Più che di bavaglio, pare che si trattasse di un “bavaglino”. Si è troppo confuso, e non certo solo da parte nostra, fra i mezzi e i fini».

Bavaglino, dice lei? E allora perché avete paralizzato per questo il Parlamento per ben due anni, a discutere di intercettazioni, invece di parlare dei problemi veri del paese?

«Al Parlamento è bastato un mese per fare la “manovra”. Un’ azione effettiva, la prima fatta in Europa e qui dall’ Italia. Altrove siamo ancora allo stadio dei disegni, dei documenti, dei propositi, delle reazioni di piazza. Da noi non è stato così. E la “manovra” non è stata solo finanza, ma anche politica. Per la prima volta è riduzione del perimetro dello Stato, con l’ effettivo azzeramento di trenta enti pubblici, dei costi del governo e della politica».


Ministro, a parte i tagli alle Regioni, nella manovra non c’ è niente di strutturale…

«Nella manovra è stata fatta la riforma delle pensioni più seria d’ Europa in questi anni e pari data c’ è stata Pomigliano, con il lavoro che non esce ma torna in Italia e nel Mezzogiorno.E forse queste due, pensionie Pomigliano, sono dueP più importanti della P3. Con rispetto parlando, e con orgoglio parlando, l’ azione del governo contro la criminalità organizzata ha un’ intensità e un’ efficacia finora non conosciute. E forse anche questo va messo sul piatto della giustizia».

Ma le Regioni? Perché i governatori protestano? Perché Formigoni dice che dovrà tagliare i servizi ai cittadini?

«Qui vale la dialettica tesi, antitesi, sintesi. Il processo politico ha funzionato subito con i Comuni e le Province, e si sta chiudendo ora anche con le Regioni. Come Comuni e Province, così le Regioni hanno infine fatto propria la nostra ipotesi di discuterne all’ interno del federalismo fiscale tanto municipale quanto regionale. E alla fine il bilancio mi sembra positivo. Nell’ insieme la manovra è stata fatta su una vastissima base di consenso sociale».

E la crescita? Anche su questo il piatto della manovra è miseramente vuoto. Può negarlo?

«Come le ho detto, i numeri italiani sono allineati alla media europea. Nella manovra, oltre alla stabilità finanziaria, c’ è comunque una prima “cifra” dello sviluppo. Dalle reti di impresa alla drastica riduzione della burocrazia. Più in generale nel tempo presente non esiste lo sviluppo in un Paese solo, non si fa lo sviluppo con la Gazzetta ufficiale, soprattutto avendo il terzo debito pubblico del mondo. Del resto la ripresa in attoè portata più che dalle politiche economiche, dal cambio sul dollaro.E tuttavia certo molto deve esser fatto ancora. Dalla “battaglia per il diritto”, troppe regole sono infatti un costo e un limite allo sviluppo, per arrivare alla ricerca, per cui dovrebbe essere fatto un maxi fondo d’ investimento pubblico, alla combinazione tra la riforma degli istituti tecnici, cui devono concorrere anche le imprese, ed il contratto di apprendistato».


Bersani la invita da tempo ad andare in Parlamento, a discutere della crisi. Perché lei si rifiuta?

«La sequenza non può essere prima chi e poi cosa, e cioè prima si sceglie chi governa e poi si decide cosa si fa. Questa sequenza riflette un eccesso di odio antropomorfo. Prima si deve discutere sul cosa».

E dello scontro tra il premier e Fini cosa mi dice. Quello non è un pericolo, per la tenuta del Pdl?

«Anche questo tema rientra nell’ idea antropomorfa della politica, che non mi appartiene».

Non può negare che l’ altro scontro dentro la maggioranza riguarda lei e il presidente del Consiglio. È vero che venerdì scorso persino Gianni Letta l’ ha rimproverata in Consiglio dei ministri?

«Oggi ci abbiamo riso sopra. Vedo un eccesso di confusione tra “personale” e “politico”. Certo, in politica conta anche il personale, ma su troppi “scontri” ho letto troppo folklore…».

È vero o no che lei minaccia quasi ogni giorno le dimissioni?

«Non ho mai minacciato le dimissioni, ma spesso ho detto “non firmo”. E alla fine il voto è sempre arrivato, positivo e convinto. Tutto quello che ho fatto, e forse anche un po’ più della politica economica, l’ ho fatto convinto di fare comunque quello che mi sembrava bene per il mio Paese.E non avrei potuto farlo senza Berlusconi e Bossi, o contro Berlusconi e Bossi. E sarà così anche nel prossimo autunno e oltre». (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Italia, luglio 2010: fine della Seconda Repubblica.

http://tv.repubblica.it/copertina/berlusconi-ai-promotori-la-nostra-e-una-rivoluzione/50631?video=&ref=HREA-1
(Beh, buona giornata).

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Ave Cesare.

Eolico: P3, il gruppo occulto avrebbe agito su mandato di Formigoni (di Marco Maffettone-Agenzia Ansa)

Tra di loro, il gruppo che faceva capo a Flavio Carboni, il premier Silvio Berlusconi lo chiamavano ‘Cesare’. Come emerge da una telefonata intercettata tra l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino e il giudice tributario Pasquale Lombardi nella quale quest’ultimo sostiene che ”Cesare e’ contento” per cio’ che il gruppo sta facendo proposito del Lodo Alfano.

“Cesare è lo pseudonimo utilizzato dai soggetti per riferirsi al presidente del Consiglio”, affermano i carabinieri del nucleo investigativo di Roma nell’informativa inviata ai pm della Procura capitolina nell’ambito delle indagini sulla cosiddetta P3. I militari dell’Arma si riferiscono proprio all’intercettazione telefonica del 2 ottobre 2009 nella quale Lombardi dice a Cosentino che “lui è rimasto contento per quello che gli stiamo facendo per il 6″, ovvero il giorno dell’udienza della Corte Costituzionale sul Lodo Alfano: un esplicito riferimento, per i militari, all’attivita’ esercitata dal gruppo del quale fa parte anche l’uomo d’affari Flavio Carboni, per condizionare i giudici della Consulta sul provvedimento del Guardasigilli, poi bocciato dagli stessi giudici della Corte Costituzionale il 7 ottobre scorso.

Nessun elemento, nelle carte degli investigatori, permette di capire se il premier sapesse qualcosa o se si tratti di millanterie. Nel corso della telefonata Lombardi fa riferimento anche alla vicenda del cosiddetto complotto contro Stefano Caldoro, attuale governatore campano, sottolineando che se ”lui e’ rimasto contento” allora ”lui ci deve dare qualche cosa e ci deve dare te e non adda scassa’ o cazz”. ”Appare evidente -osservano i carabinieri- che con queste parole il Lombardi vorrebbe far intendere al Cosentino che la sua candidatura a presidente della Regione Campania è stata da loro richiesta nel corso della riunione quale contropartita per l’operazione Lodo Alfano”. Nei documenti redatti dai carabinieri si fa riferimento, inoltre, al governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni. In base a quanto si legge nelle carte

Formigoni diede mandato al gruppo di chiedere esplicitamente al presidente della Corte di Appello di Milano, Alfonso Marra, di “porre in essere un intervento nell’ambito della nota vicenda dell’esclusione della lista riconducibile al governatore dalle elezioni regionali 2010”.

Parlando dell’attività svolta dall’associazione, i militari dell’Arma definiscono emblematica la “vicenda che ha visto protagonista il neo presidente della corte di appello di Milano”. “Non appena Marra – proseguono i carabinieri – ha ottenuto, dopo un’intensa attività di pressione esercitata dal gruppo (ed in particolare da Pasquale Lombardi) sui membri del Csm, l’ambita carica, i componenti dell’associazione gli chiedono esplicitamente, peraltro dietro mandato del presidente Formigoni, di porre in essere un intervento nell’ambito della nota vicenda dell’esclusione della lista ‘Per la Lombardia'”.

Nelle carte dell’inchiesta si fa espresso riferimento, inoltre, al ruolo svolto dal sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, dal capo degli ispettori di via Arenula, Arcibaldo Miller, e Antonio Martone, presidente della commissione per la Valutazione, la trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche. ”Altri personaggi vicini al gruppo – si legge nell’informativa – che prendono parte alle riunioni nel corso delle quali vengono impostate le principali operazioni o che paiono fornire il proprio contributo alle attività d’interferenza, sono individuabili nei giudici Miller Arcibaldo, Martone Antonio e nel sottosegretario alla giustizia Caliendo Giacomo”.

Al momento la posizione dei tre è al vaglio dei pm della Procura di Roma. E’ prevista, infine, domani l’udienza del tribunale del Riesame che dovra’ decidere sull’arresto di Carboni. Mentre sabato il presidente della Regione Sardegna Ugo Cappellacci vera’ ascoltato dai magistrati romani nell’ambito dell’inchiesta madre, ovvero gli appalti sull’eolico nell’isola, che vede il governatore indagato per abuso d’ufficio e concorso in corruzione. (Beh, buona giornata).

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Quei quattro “pensionati sfigati” sono rimasti in tre.

Verdini e Cosentino a rapporto da Berlusconi: il primo resta, il secondo lascia-blitzquotidiano.it

Il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino ha deciso di rassegnare le dimissioni dal governo, mantenendo però il ruolo di coordinatore del Pdl in Campania.

La decisione sarebbe stata maturata dallo stesso deputato campano e comunicata al premier. Cosentino non lascia quindi l’incarico di coordinatore regionale campano del Pdl. Diversa, almeno per ora, la sorte dell’altro ipotetico dimissionario, Denis Verdini.

Silvio Berlusconi li aveva chiamati entrambi, un doppio faccia a faccia per decidere se resistere al rischio di un voto contrario in Parlamento o se seguire le tracce del caso Brancher, cioè una ritirata “strategica”.

Denis Verdini e Nicola Cosentino erano entrati più o meno insieme a Palazzo Chigi ma alla fine all’uscita hanno preso due strade diverse. Il coordinatore regionale della Campania, già da tempo raggiunto da un mandato di cattura della magistratura per legami con la Camorra di Casal di Principe, si è dimesso per “opportunità”.

Il governo può infatti fare a meno di sottosegretario all’Economia, non così Denis Verdini. Il Pdl e lo stesso Berlusconi difficilmente potrebbero reggere senza conseguenze alle dimissioni di uno dei 3 coordinatori nazionali. Verdini quindi non dovrebbe dimettersi, a differenza di Cosentino. Questo il quadro e le strategia in cui sembra muoversi il premier.

La scelta del passo indietro è stata probabilmente vista come obbligata. Il coinvolgimento di Cosentino nell’inchiesta stava creando parecchi problemi al Pdl e all’esecutivo anche perché tutta la componente finiana del partito era pronta a votare a favore della sfiducia. Anche Pier Ferdinando Casini, di cui negli ultimi giorni si è parlato spesso per un possibile riavvicinamento dell’Udc al centrodestra, aveva fatto sapere che i centristi avrebbero dato parere favorevole alla richiesta di ritiro delle deleghe per il politico campano, già finito nel mirino nei mesi scorsi per l’accusa di essere il referente politico del clan dei Casalesi, circostanza questa che lo aveva già costretto a ritirarsi dalla corsa alla presidenza della Regione.

Il suo posto quale portacolori del Pdl venne preso da Stefano Caldoro, che poi fu effettivamente eletto, ma contro la candidatura del giovane ex socialista, si apprende dalle carte dell’inchiesta, fu osteggiata dall’interno proprio dal gruppo che oggi viene indicato come “P3″. (Beh, buona giornata).

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Il 90% dei giornalisti italiani contro la legge-bavaglio. Berlusconi: “la libertà di stampa non è un diritto assoluto.”

La Federazione nazionale della stampa italiana rende noti i dati relativi all’adesione della giornata del silenzio dell’informazione contro la legge-bavaglio del 9 luglio scorso . Secondo la Fsni c’è stata una straordinaria adesione, ben oltre il 90 per cento, allo sciopero. La Fnsi ha sottolineato che “pochissimi giornali erano in edicola ieri ma tutti hanno ammesso che il testo di legge Alfano è sbagliato. Le ragioni del no al ddl risultano, dunque, unificanti per la professione giornalistica e assai allarmanti per i cittadini”.

“Una giornata straordinaria di protesta – si legge nel comunicato della Fnsi -. Basti pensare ai tanti giornali che, in occasione di altri scioperi, ad esempio il gruppo Riffeser o quotidiani come il Roma, non hanno mai perso l’occasione di porsi contro il sindacato e di andare in edicola. Pure l’adesione di tutta l’emittenza radiotelevisiva, anche di quella dove era più complicato organizzare la pratica dello sciopero, è stata eccezionale. L’adesione inoltre dei new media, il mancato aggiornamento dei siti, e la partecipazione corale dei colleghi dei periodici (che non potevano impedire l’uscita delle riviste in un solo giorno) sono stati la testimonianza di una rigorosa protesta civile e morale”.

Lo sciopero ha fatto notizia nel mondo, dalla Francia , alla Germania, dal Canada, all’Argentina, agli Usa, alla Colombia, alla Corea del Sud, all’Australia, al Venezuela, alla Gran Bretagna, al Belgio.

“Totale la solidarietà della Federazione mondiale (Ifj) e di quella europea dei giornalisti (Efj)”, ha reso noto la Fnsi.

Il Presidente della Federazione mondiale dei giornalisti, Jim Boumela, considerando l’inziativa di “valore straordinario”, ha inviato una calorosa lettera di solidarietà al segretario della Fnsi, Franco Siddi. La Federazione Internazionale dei giornalisti e i suoi 140 sindacati dei giornalisti presenti in 115 Paesi esprime “la solidarietà, all’azione intrapresa dai tuoi associati alla Fnsi durante la Giornata di Silenzio in opposizione alla legge sulle intercettazioni”, ha scritto il presidente Ifj Boumela.

“Crediamo tutti che questa legge-bavaglio, impedendo ai giornalisti di riferire delle investigazioni giudiziarie, sia un tentativo oltraggioso e inaccettabile di ferire gravemente l’informazione e un altro ‘chiodo nella bara’ – ha aggiunto -, la goccia che fa traboccare il vaso, del diritto di sapere e di essere informati dei cittadini italiani. In tutto il mondo, tutti i sindacati hanno seguito l’enorme lavoro che state facendo per difendere il diritto di informazione nell’interesse pubblico. Noi crediamo veramente che la vostra tenacia e determinazione nel combattere questa campagna facciano della Fnsi un modello per molti dei nostri sindacati”. Questo quanto ha riferito la Fnsi.

Da parte sua, il capo del governo italiano, forse non ancora informato della vasta eco della protesta della stampa italiana contro la legge bavaglio, ha detto, per tutta risposta allo sciopero dei giornalisti sul ddl intercettazioni e al silenzio dei media, rovescia la prospettiva. Non è la legge che vieta di ascoltare telefonate altrui ad essere un bavaglio per la libertà, dice il premier. È piuttosto «la stampa schierata con la sinistra, pregiudizialmente ostile al governo, che disinforma, distorce la realtà e calpesta in modo sistematico il diritto sacrosanto della privacy dei cittadini», ad aver «imposto il bavaglio alla verità».

Per il premier sono insomma certi giornalisti che «calpestano» il diritto ad un «uso sereno del telefono», «invocando la loro libertà come se fosse un diritto che prescinde dai diritti degli altri». Berlusconi li bacchetta, ricordando che «in democrazia non esistono diritti assoluti, perchè ciascun diritto incontra il proprio limite negli altri diritti egualmente meritevoli di tutela che, in caso della privacy, sono prioritariamente meritevoli di tutela». «Un principio elementare della democrazia – osserva il premier – ma che la stampa italiana, nella sua maggioranza, ha deciso di ignorare». A quanto sembra di capire, per Berlusconi la libertà di stampa non è un diritto assoluto della democrazia italiana. Beh, buona giornata.

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Regioni, Provincie e Comuni contro il governo. I ministri della Lega se ne sono accorti?

All’indomani della rottura avvenuta al termine del vertice con il premier Berlusconi e il ministro dell’Economia Tremonti, le Regioni si rivolgono al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, confermando l’orientamento, se la manovra economica non cambierà, di trovare la strada per restituire allo Stato le deleghe per funzioni che non sono più in grado di esercitare.

Preoccupati per le ricadute sul territorio, i governatori si riuniranno in una conferenza straordinaria mercoledìprossimo, mentre la manovra sarà al vaglio dell’aula di Palazzo Madama, e non escludono di proseguire i lavori del Parlamentino anche il giorno dopo, il giovedi del voto di fiducia al Senato.

Intanto, secondo quanto ha appreso l’agenzia Agi, dopo il muro contro muro andato in scena con il premier Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, è stato lo stesso presidente della Conferenza delle Regioni a informare telefonicamente il Capo dello Stato delle preoccupazioni dei Governatori.

Vasco Errani lo aveva annunciato, quando a nome della Conferenza, aveva chiesto di incontrare le massime cariche dello Stato. Un colloquio telefonico di pochi minuti in cui Errani avrebbe illustrato le buoni ragioni delle amministrazioni regionali nel confronto con il Governo e la ferma intenzione di proseguire un dialogo vero ed efficace, evitando scontri istituzionali.
Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia

Una nota della Federazione nazionale della stampa italiana. Beh, buona giornata aderisce.

«I giornalisti italiani hanno proclamato per il 9 luglio la giornata del silenzio dell’informazione – si legge in una nota della Federazione nazionale della stampa – per protestare contro il disegno di legge Alfano che limita pesantemente la libertà di stampa e prevede pesanti sanzioni contro editori e giornalisti che danno conto di fatti di cronaca giudiziaria ed indagini investigative».

Nella giornata di venerdì, quindi, i quotidiani non saranno in edicola, telegiornali e radiogiornali non andranno in onda, i siti di informazione on line non effettueranno aggiornamenti delle notizie. L’appuntamento con l’informazione è fissato per sabato.
Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Lavoro

L’amore vince sempre contro l’odio e l’invidia. A manganellate: ieri a Roma contro gli aquilani, oggi a Milano contro gli operai.

Milano, tensione al corteo degli operai, “Feriti in cinque per le manganellate”
Scontri durante la protesta per la Mangiarotti. La questura: “Non si sono fermati nel punto prestabilito”. (fonte:repubblica.it

Momenti di tensione nel centro di Milano, quando il corteo degli operai della Mangiarotti nuclear a pochi passi dalla prefettura è stato caricato dagli agenti in tenuta antisommossa e cinque lavoratori sono rimasti feriti. A denunciare l’episodio è un delegato Fiom della Rsu dello stabilimento milanese che rischia la chiusura per il trasferimento della produzione a Udine. Ma fonti della questura smentiscono le cariche facendo invece cenno ad “azioni di contenimento”: i manifestanti non si sarebbero fermati nel punto prestabilito.

“Il percorso del corteo era stato autorizzato – ha affermato Rosario Schiettini, delegato della Fiom nell’azienda che produce componenti per l’industria nucleare – ma all’imbocco di corso Monforte uno schieramento di forze dell’ordine ci ha impedito di arrivare fino al portone della prefettura. Sono partite le cariche e cinque operai sono stati colpiti dalle manganellate: uno di loro è stato portato via in ambulanza”.

La giornata di mobilitazione degli operai della Mangiarotti era iniziata davanti al consolato francese per impedire che la committente Areva chiedesse il trasferimento delle commesse dallo stabilimento di Milano. Dopo un colloquio fra un gruppo di sindacalisti e il diplomatico francese, il corteo a cui hanno partecipato anche una delegazione dei lavoratori della Maflow di Trezzano sul Naviglio e alcuni esponenti dei centri sociali, ha tentato di raggiungere la prefettura per chiedere al rappresentante provinciale del governo il rispetto di una sentenza che impone alla proprietà di mantenere la produzione nello stabilimento milanese.
Dopo gli scontri una delegazione di rappresentati sindacali è riuscita a ottenere un’udienza in prefettura. Beh, buona giornata.

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democrazia Leggi e diritto

Siamo di nuovo sui Carboni accesi?

Eolico in Sardegna, il giudice: “Quasi una nuova P2 contro lo Stato. Manovravano anche il Lodo Alfano”-blitzquotidiano.it

Quasi una nuova P2: non solo facevano affari e tangenti ma tentavano di condizionare gli affari di Stato fino al punto di tentare di intervenire sulla Corte Costituzionale per condizionare il giudizio sul Lodo Alfano. Sono queste le clamorose rivelazioni del gip del Tribunale di Roma, che ha spiegato i motivi dell’arresto di Flavio Carboni, Pasquale Lombardi e Arcangelo Martino.

I tre sono stati arrestati nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti sull’eolico in Sardegna. Quella costituita da Carboni, Lombardi e Martino era, per usare le parole del gip Giovanni De Donato, ”un’associazione per delinquere diretta a realizzare una serie indeterminata di delitti” caratterizzata ”dalla segretezza degli scopi” e volta ”a condizionare il funzionamento degli organi costituzionali nonché degli apparati della pubblica amministrazione”.

Secondo il gip tra settembre e ottobre 2009 i tre tentarono di avvicinare giudici della Corte Costituzionale allo scopo di influire sull’esito del giudizio sul cosiddetto lodo Alfano, la legge che prevedeva la sospensione del processo penale per le alte cariche dello Stato. L’operazione, afferma il gip, fu condotta da Lombardi, previo accordo con gli altri due, con cui si manteneva in costante contatto. L’episodio, conclude il giudice, si intreccia col tentativo dei tre di ottenere la candidatura dell’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, alla carica di presidente della Regione Campania, in cambio appunto degli interventi compiuti sulla Corte Costituzionale.

Il reato ipotizzato dalla Procura di Roma è di associazione a delinquere semplice e violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete. Per il gip i tre hanno ‘’sviluppato una fitta rete di conoscenze nei settori della magistratura e della politica da sfruttare per i fini segreti del sodalizio e ciò anche grazie alle attività di promozione di convegni e incontri di studio realizzate tramite una associazione denominata ‘Centro studi giuridici per l’integrazione europea Diritti e Libertà”.

L’associazione era gestita da Lombardi in qualità di segretario e da Martino quale responsabile dell’organizzazione. Una struttura, scrive il gip, ”di fatto finanziata e gestita in modo occulto da Carboni”. Per il magistrato i tre ”approfittavano delle conoscenze per acquisire informazioni riservate e influire sull’esercizio delle funzioni pubbliche rivestite dalle personalità avvicinate dai membri dell’associazione”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

Protestano le Regioni. Protestano i sindacati nel pubblico e nel privato. Protestano i docenti e i ricercatori. Protestano i medici. Protestano le forze dell’ordine. Protestano i generali dell’esercito. Protestano i diplomatici. Protestano i magistrati. E protestano anche i terremotati aquilani. Il berlusconismo è in crisi?

L’entropia dei conti, di MASSIMO GIANNINI-repubblica.it

L’eroica settimana del “ghe pensi mi” precipita nella prosaica entropia della manovra economica. Berlusconi ha disinnescato la mina Brancher, al prezzo di una penosa rinuncia che ha svelato il patto diabolico tentato sulla pelle delle istituzioni: un ministero ad personam in cambio di un’impunità personale. Ma non riesce a disinnescare la bomba del decretone da 25 miliardi, sul quale si concentrano le tensioni della maggioranza e le pressioni della società. La ragione è semplice. Per un governo non c’è atto politico più costitutivo di una legge finanziaria. E poiché questo governo non ha una proposta politica, non può sperare nel consenso del Paese sulla sua manovra economica.

C’è un’evidente confusione “tecnica”, che in queste ore supera i limiti della decenza. In una manovra già nata male, perché iniqua nella distribuzione dei tagli di spesa e incerta nella quantificazione delle voci di entrata, si stanno moltiplicando emendamenti sulle materie più astruse e disparate. A colpi di “refuso” quotidiano, e di blitz notturni di fugaci peones e audaci relatori, si aggiungono e si sottraggono impreviste stangate sulle assicurazioni e improbabili riforme del processo civile, intollerabili batoste sulle tredicesime e incredibili abbattimenti degli stipendi Rai.

Il tutto accompagnato dall’ennesima celebrazione del conflitto di interessi: l’immancabile norma ad aziendam (questa volta la Mondadori) che pagando un misero obolo del 5% sul dovuto potrà estinguere il suo contenzioso da 400 milioni con il Fisco. Il risultato di questo caos è a somma zero. Nessuno può alterare i saldi finali, come esige il ministro dell’Economia. Ma nessuno capisce più niente, come teme il presidente del Consiglio. Meno male che la riforma del bilancio su base triennale avrebbe dovuto metterci al riparo dagli indecorosi assalti alla diligenza della Prima Repubblica. Le cavallette all’opera nella Seconda Repubblica sono molto peggio.

Ma c’è soprattutto una patente convulsione politica, che in questi giorni mette a nudo i vizi di questo centrodestra in cui la logica irriducibile della monarchia assoluta comincia a patire il parziale squilibrio di una diarchia relativa. Lo scontro con le Regioni è forse il sintomo più inquietante. Il presidente del Consiglio sarebbe pronto ad ascoltare le grida di dolore che arrivano dai governatori, molti dei quali appartengono alla sua maggioranza, uscita già molto provata dalle elezioni amministrative della primavera scorsa. Berlusconi sarebbe pronto a venire incontro alle richieste non solo delle virtuose regioni del Nord di fresca marca leghista, ma anche delle disastrate regioni del Sud di vecchia marca forzista. Ma il suo ministro del Tesoro non può permettersi questo lusso: i tagli pesanti agli enti locali, insieme al salasso dilazionato sul pubblico impiego, sono l’unica certezza di questa manovra scritta sull’acqua. Tremonti non si può permettere di cedere su questo: non può dare ai mercati l’impressione che il governo italiano sia pronto a scendere a patti su una manovra che per il Paese (e per l’Eurozona) rappresenta la linea del Piave da opporre agli attacchi speculativi.

Questo spiega la resistenza del governo ad incontrare i governatori (con la discutibile eccezione dell’udienza “privata” concessa a Palazzo Grazioli agli azzurri Formigoni, Polverini, Caldoro e Scopelliti) e ad ascoltare le proteste delle categorie (con l’inaccettabile eccezione del presidente di Confindustria Marcegaglia, rassicurata personalmente al telefono sull’eliminazione dei nuovi adempimenti fiscali per le imprese). Questo spiega anche l’ennesimo schiaffo della doppia fiducia imposta a Camera e Senato, per blindare un testo che con tutte le sue clamorose storture deve comunque assicurare i 25 miliardi promessi sulla carta. Ma è evidente che, al di là delle smentite di rito, Berlusconi ha un problema serio con Tremonti. Persino più serio di quello che ha con Fini. Per la legge sulle intercettazioni si trova a dover fronteggiare il presidente della Repubblica e il presidente della Camera, dentro una cornice istituzionale difficile ma con un margine interno gestibile. Per la manovra deve fronteggiare il suo ministro del Tesoro che si propone come unico garante della stabilità economica, dentro un quadro di compatibilità politiche aperte ma con un vincolo esterno indisponibile.

Per questo la battaglia sulla manovra è più insidiosa per il premier, che su questo deve fare i conti non tanto e non solo con l’opposizione, ma con la sua constituency politica e, in definitiva, con il Paese. A parte le Regioni, i focolai di conflitto si diffondono con velocità e intensità impressionanti. Protestano i sindacati nel pubblico e nel privato. Protestano i docenti e i ricercatori. Protestano i medici. Protestano le forze dell’ordine. Protestano i generali dell’esercito. Protestano i diplomatici. Protestano i magistrati. E protestano anche i terremotati aquilani. Un dissenso concentrico così vasto non si era mai visto. Meno che mai nei confronti del leader che, più di chiunque altro non solo in Italia ma forse nell’intero Occidente, ha fatto della sua popolarità l’unico metro per misurare la sua politica.

Qui sta il drammatico limite del berlusconismo, che forse per la prima volta assaggia, anche tra la sua gente, il frutto amaro dell’impopolarità. Mai come in questo momento, sulla manovra e non solo su questa, servirebbe un presidente del Consiglio capace di fare una sintesi più avanzata tra le tesi del suo ministro dell’Economia e le antitesi espresse dagli enti locali e dalla società civile. Mai come in questo momento servirebbe una vera politica del fare, e non la solita mistica del potere. E invece, con quel grottesco “ghe pensi mi”, il Cavaliere ci ripropone l’eterno ritorno dell’uguale. Se in campo c’è lui, la politica non serve: Silvio è il messaggio. È stato vero per molto tempo, nell’Italia dell’egemonia sottoculturale televisiva. Ora, forse, non lo è più. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

La lunga estate calda del berlusconismo.

La stampa estera su Brancher. “Colpo imbarazzante per Berlusconi”, di MARCO PASQUA-repubblica.it

“Una crisi che scuote il governo di Silvio Berlusconi”, minacciandone “la stabilità”. Un colpo “imbarazzante” per il premier, che deve far fronte alle crescenti “divisioni all’interno della sua maggioranza”, in uno “dei momenti più difficili” da quando il Cavaliere ha vinto le elezioni. La notizia delle dimissioni di Brancher fa il giro del mondo, e in poche ore è sui principali siti di informazione.

Sia il Financial Times 1 che il Wall Street Journal 2, nelle loro edizioni on-line, titolano parlando di un “colpo a Berlusconi”. Il primo, ripercorrendo la vicenda del contestato ministro, “ex manager nel gruppo Fininvest”, evidenzia come la sua nomina sia stata seguita da una “serie di problemi”. Un “colpo imbarazzante al governo di centrodestra”, che è riuscito a “far arrabbiare il principale alleato di Berlusconi, la Lega Nord”, e ha spinto persino il presidente Giorgio Napolitano “a fare un raro intervento”, a proposito della decisione iniziale di Brancher di fare ricorso al legittimo impedimento.

Il Financial Times, che ricorda come queste siano le seconde dimissioni di un ministro nell’arco di due mesi (dopo quelle di Claudio Scajola), cita anche “lo scompiglio all’interno del Partito della Libertà, all’interno del quale il co-fondatore Gianfranco Fini ha dichiaratamente messo in discussione la leadership di Berlusconi”. Fattori questi che stanno alimentando le discussioni circa la possibilità di nuove alleanze e “di elezioni anticipate”. Il Wall Street Journal parlando delle “crescenti divisioni nel governo di centro-destra” e della “difficile fase della premiership di Berlusconi”, si sofferma sulle caratteristiche della legge del legittimo impedimento, cui il premier “ha fatto ricorso in due diversi processi”.

Le dimissioni di Brancher – sottolinea il WSJ nella sua edizione on-line – rappresentano un nuovo “colpo per Berlusconi, mentre deve fronteggiare un conflitto con il presidente italiano, con il suo alleato chiave e il presidente della Camera Gianfranco Fini”. In Australia, il Sydney Morning Herald, riprende un lancio d’agenzia della Agence France-Presse, e ricorda come la “nomina a ministro” di Brancher “sia stata duramente criticata dall’opposizione, che, dando una rara prova di unità, “ha calendarizzato una mozione di sfiducia un Parlamento”. Una vicenda, spiega la AFP, che ha “aumentato le divisioni nella maggioranza di centrodestra”, tanto che Gianfranco Fini “ha tacitamente minacciato di votare con l’opposizione nella mozione di sfiducia”. Lo stesso lancio della AFP compare anche sul sito del francese Le Figaro 3. L’Irish Times 4, invece, pubblica un lancio della Reuters, e oltre a ricostruire le tappe della vicenda, parla del “calo di popolarità che si trova ad affrontare Berlusconi, alle prese con i conflitti con i suoi alleati”.

Passando alla Germania, la notizia viene riportata dai principali siti dei quotidiani. A partire da quello della Sueddeutsche Zeitung 5, che, citando lo “scandalo giudiziario”, titola: “L’amico di fiducia di Berlusconi deve dimettersi”. “A poche settimane dalla nomina, un ministro italiano si è dimesso per via di uno scandalo giudiziario”, si legge sulla SZ, che ricorda come Brancher abbia irritato lo stesso governo per aver voluto fare ricorso al legittimo impedimento. Soluzione cui “ha dovuto rinunciare, dopo le pressioni ricevute”. Una legge che, scrive la SZ, permette “da mesi a Berlusconi di aggirare appuntamenti in vari processi”. Particolare messo in luce anche dalla versione on-line di “Die Zeit: “A pochi giorni dalla nomina, il ministro aveva cercato di utilizzare una norma sull’immunità per i membri del governo. Norma di cui si è più volte servito Berlusconi”. “La ritirata di Brancher – si legge sul sito tedesco – è un nuovo contraccolpo per il presidente del consiglio Berlusconi. Appena lo scorso mese di maggio, il suo ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola, si era dimesso”.

Sempre in Germania, Focus mette in luce il passato di Brancher nel gruppo Fininvest e tutte le critiche che la sua nomina ha provocato, sia nell’opposizione che nella stessa maggioranza. Lo spagnolo El Mundo titola: “Si dimette un ministro di Berlusconi, a due settimane dalla nomina”. “Una nuova crisi scuote il governo di Silvio Berlusconi – è l’incipit del pezzo in spagnolo – Aldo Brancher, amico intimo del Cavaliere, nominato ministro appena 17 giorni fa, si è dimesso questa mattina”. Una nomina, quella di Brancher, che aveva fatto sorgere il sospetto che il ministro volesse usare la sua carica per utilizzare il legittimo impedimento, evitando così di presentarsi di fronte ai giudici. Ma, ricorda El Mundo 6, anche in seguito all’intervento di Napolitano, Brancher “è stato obbligato a rinunciare al legittimo impedimento”, fino alle pressioni di Berlusconi perché si dimettesse.
(Beh, buona giornata)

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Attualità democrazia Media e tecnologia

Roma, 1 luglio: no alla legge bavaglio.

Intercettazioni. La Fnsi raccoglie tutti in piazza Navona, lo slogan: “Non molliamo”-blitzquotidiano.it

La piazza stracolma, ovazioni per Roberto Saviano e tutti, di ogni generazione, d’accordo nel dire ”non molliamo”: questo il bilancio della manifestazione contro il ddl intercettazioni, ”la legge bavaglio” organizzata dalla Federazione nazionale della stampa a piazza Navona. ”Ci viene detto che la legge difenderà la privacy, che è sacra – ha detto Saviano tra gli applausi -. Ma questa legge non difende le telefonate tra fidanzati, ha l’unico scopo di impedire di conoscere quello che sta accadendo, difendere la privacy degli affari, anzi dei malaffari”.

In un lungo e caldo pomeriggio, presentato da Tiziana Ferrario del Tg1 e aperto dall’inno di Mameli, si sono alternati molti interventi (senza politici, rimasti ai piedi del palco ma con tanti colori di partito nella piazza), e musica. Tra i più applauditi c’è stato Stefano Rodotà che ha ringraziato il presidente della Repubblica ”che oggi con una sobria e decisa dichiarazione ha detto che questa legge non può essere approvata”.

Dario Fo, in collegamento telefonico ha usato l’ironia per definire il premier ”un uomo che sta perdendo colpi, tradito anche da chi gli è più vicino. Siamo solidali, aiutiamo un uomo perduto, ignoriamo Berlusconi”. Tra gli artisti anche Fiorella Mannoia, che ha fatto un appello a tutti i parlamentari, al di là del colore politico ”perchè ritrovino un po’ di coscienza civile e non approvino questa legge”.

E Giovanna Marini, che insieme al Coro dei benpensanti ha fatto cantare la piazza, sembrava di essere tornati agli anni ‘70, con una canzone scritta ad hoc, Vivere l’utopia sulle ”veline indottrinate, avvocati fraudolenti e un governo che vuole un popolo ignorante”. A spiegare le ragioni della manifestazione il segretario generale e il presidente della Fnsi Franco Siddi e Roberto Natale, oltre al presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, ma anche rappresentanti dei sindacati della polizia, degli istituti di ricerca e dei poligrafici.

Nel retropalco, molti politici, da Pierluigi Bersani a Fausto Bertinotti, da Antonio Di Pietro a Rosy Bindi, da Walter Veltroni a Piero Fassino, e fra gli altri volti noti, il consigliere Rai Nino Rizzo Nervo, Carla Fracci, Monica Guerritore, Dacia Maraini, Francesco Maselli, Ettore Scola, Mimmo Calopresti, Tullio Solenghi, Leo Gullotta e Carlo Lucarelli. C’era anche Anna Politovskaja nella voce di Ottavia Piccolo che ha letto un testo della giornalista russa uccisa, che ha infiammato la piazza. Ma non sono mancate le polemiche.

Protagonista Patrizia D’Addario, che con in mano il suo libro Gradisca presidente, è stata assalita da fotografi e giornalisti. ”Questa legge mi riguarda. Sono stata invitata dagli organizzatori. Se ci fosse stata questa legge un anno fa, io non avrei potuto raccontare la mia verità e voi sareste andati in carcere”. ”Via le escort di Berlusconi da questa piazza!”, ha detto Benedetta Buccellato, segretario dell’associazione per il teatro italiano. Siddi ha precisato che la D’Addario ”non è una testimonial della manifestazione di oggi, nessuno di noi l’ha invitata, la battaglia per la libertà che stiamo compiendo è troppo seria, no alle strumentalizzazioni”. Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro ha fatto un appello a tutti i cittadini: c’è un pericolo per la democrazia, Berlusconi è al governo perché ce l’hanno mandato. Dobbiamo fermare lui e i suoi sodali prima che sia troppo tardi”.

Per Pierluigi Bersani, i consigli di Napolitano sono stati inascoltati. Loro hanno voluto forzare. A questo punto io sono perche’ il ddl venga ritirato”. In piazza sventolavano molte bandiere di Idv, Pd, Rifondazione comunista, Verdi e Sinistra Ecologia e Libertà. Immancabili gli striscioni anti-Berlusconi, come quello che recitava ”Un presidente del Consiglio (serio) non si avvale della facoltà di non rispondere, specialmente per fatti di mafia”.
(Beh, buona giornata).

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