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La guerra civile che dilania Audiradio.

Neppure nel primo trimestre 2011 la crisi economica è stata clemente con la
pubblicità italiana. Secondo i dati Nielsen Media Research, la televisione,
considerando anche i marchi Sky e Fox e le tv digitali rilevate da Nielsen,
chiude il primo trimestre con un calo del -2,9%, con una raccolta
complessiva di poco superiore a 1,2 miliardi di euro. Continua a soffrire la
stampa, ma a differenza dello scorso anno, nel primo trimestre il calo
penalizza più i quotidiani (-4,6%) che i periodici (-2,1%). Mentre aumentano
gli investimenti pubblicitari su internet (+14,9%) e direct mail (+1,0%), si
registrano al contrario variazioni particolarmente negative per tutta la
pubblicità esterna, vale a dire manifesti, grandi impianti e affissioni sui
mezzi pubblici: in questo primo scorcio dell’anno crollano a -25,1%. E la
radio? Nielsen Media Reasearch registra un calo della raccolta
pubblicitaria del comparto delle radio di un pesante -5%.

Questi dati negativi calano come mazzate all’interno del mercato delle radio, luogo in
cui da mesi ormai c’è una situazione di vera e propria “guerra per bande”,
tanto che a metà di questo mese potrebbe succedere lo scioglimento di
Audiradio, l’organismo che emette i dati ufficiali di ascolto delle
emittenti radiofoniche in Italia, come fa la più famosa Auditel per le tv.
Questi dati molto negativi arrivano nel momento sbagliato, nel posto
sbagliato, l’Audiradio, appunto, mentre è in atto la sospensione di ogni
forma di rilevazione dei dati, perché l’indagine non è mai partita.

Lo stop alla diffusione dei dati derivanti dal Panel Diari decretato da Audiradio lo
scorso settembre avrebbe dovuto essere temporaneo, in attesa di stabilire le
soluzioni tecnicamente più idonee e affidabili per affinarne i risultati
partendo da una nuova ricerca di base finalizzata alla costruzione di un
campione adeguato e corrispondente agli obiettivi dell’indagine stessa.

La situazione di stallo totale finora ha prodotto una situazione paradossale:
le emittenti locali fanno attualmente riferimento ai dati dell’indagine Cati
(interviste telefoniche); al contrario, le emittenti nazionali, in assenza
dell’accordo condiviso sulla validità del Panel Diari, continuano a far
riferimento all’indagine sugli ascolti del 2009. Insomma, è come se in
Italia alcuni adottassero l’euro e altri, invece ancora le lira.

E così succede che più precisamente, dal lato del panel sarebbero schierate Radio
Rai/Sipra, Gruppo Espresso/Manzoni (Deejay, Capital ed M20), Radio 24/Sole
24 Ore System, e Mondadori (R101), anche in virtù del fatto che i dati
registrati attraverso i Diari premierebbero, e non poco, tali emittenti.
Radio Rai, per esempio, conta molto sull’esatta rilevazione dei dati di
ascolti relativi ai programmi, in modo da modulare il palinsesto attraverso
una valutazione più evoluta, che tenga conto molto più precisamente delle
fasce orarie di ascolto.

Sul fronte opposto ci sono invece RTL 102.5/Open Space, RDS, Finelco (105, MonteCarlo, Virgin), Kiss Kiss e Radio Italia: essi si dicono non contrari ‘per principio’ ai Diari (sui quali come tutti gli altri hanno del resto investito, e molto), ma insistono perché per loro sarebbe utile, e profittevole, fornire i dati 2010 ottenuti tramite Cati (inchieste telefoniche). C’è una terza posizione sostenuta da
Assocomunicazione, la Confindustria delle agenzie di pubblicità. Per
Assocomunicazione la “balcanizzazione” di Audiradio è pericolosa per tutti i
soggetti del mercato, cioè per gli investitori pubblicitari, le emittenti,
le agenzie perché senza un metro di misura univoco si andrebbe verso la
perdita di quella credibilità che sostiene la radio come mezzo efficace per
gli investimenti in pubblicità.

Se con il sistema Cati, si hanno dati “soggettivi”, ricavati da domande fatte via telefono; se con i Diari si potrebbero raccogliere dati per segmenti temporali di 15 minuti, ecco che Assocomununicazione propone di adottare il meter, cioè un apparecchio più o meno simile a quello adottato da Auditel, che permetterebbe di conoscere gli ascolti “minuto per minuto”, tanto per parafrasare un famosissimo programma radiofonico. Questo però significherebbe ulteriori investimenti che si
andrebbero ad aggiungere ai denari spesi per l’indagine Diari mai
utilizzata.

Come se ne esce? Probabilmente con un “atto di forza” da parte
delle emittenti nazionali, Rai compresa, vale a dire con l’esposizione,
cliente per cliente, dei dati Diari. Il che di fatto mette Audiradio in mora
per tutto il tempo per il quale non si troverà un accordo con le emittenti
locali. Certo, non dichiarare ufficialmente i dati equivale a staccare la
spina, come era già successo con Audipress, la cui messa in mora per tre
anni non ha certo giovato alla raccolta pubblicitaria sulla carta stampata.

Ma tant’è: alla fine vince chi ha più tela da tessere. E le emittenti
nazionali, Rai compresa hanno la forza e il prestigio per convincere il
mercato della validità dei Diari, promettendo, magari a breve l’introduzione
dei meters. E le agenzie media, cioè le aziende che s occupano della
compra-vendita degli spazi pubblicitari si dedicheranno più volentieri dove
più alti sono i volumi e dunque i margini. E’ la crisi, bellezza. Beh. buona giornata.

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Il Financial Times fa a pezzi Silvio Berlusconi: “Egli ha perso il suo tocco magico”.

(fonte: repubblica.it)
Silvio Berlusconi sta perdendo il suo “tocco di Mida”, ovvero la sua capacità vincente: si intitola così un commento sul Financial Times a proposito del secondo turno delle elezioni amministrative italiane. “A meno di un miracolo, il Pdl è avviato alla sconfitta nelle votazioni di questo fine settimana a Milano, città natia del primo ministro e da vent’anni sua roccaforte politica”, scrive l’editorialista Guy Dinmore nella sua analisti datata da Roma. Nella quale vengono anche riportati un paio di giudizi sulla situazione politica da parte di un “funzionario governativo” che fanno presagire un graduale inizio della fine per il capo del governo.
La decisione di Berlusconi di fare delle elezioni amministrative e in particolare del voto di Milano un referendum su se stesso e sulla sua coalizione “è stata un errore colossale”, dice l’anonima fonte governativa al quotidiano finanziario britannico. E la fonte fa poi l’osservazione che ha suggerito al Ft il titolo dell’articolo: “Egli (Berlusconi, ndr.) ha perso il suo tocco magico”.

L’analisi del quotidiano della City prosegue notando che una sconfitta del Pdl a Milano sarebbe “non solo un’umiliazione personale per Berlusconi”, ma potrebbe spingere la Lega Nord a porre pesanti condizioni in cambio del suo appoggio al governo o addirittura considerare la possibilità di aprire una crisi, abbandonare Berlusconi e insediare al suo posto Giulio Tremonti alla guida

di un governo di larghe alleanza con cui fare le riforme istituzionali, economiche e sociali di cui il paese ha urgente bisogno. Il FT nota che la prospettiva di una sconfitta alle urne e di nuove tensioni con la Lega, “la cui base preme per rompere con il Pdl”, si somma ai numerosi processi per corruzione, frode fiscale e per il “Rubygate” iun cui Berlusconi è coinvolto.

L’autorevole giornale britannico conclude ricordando che Berlusconi, dato più volte per finito negli ultimi tempi, finora è riuscito in qualche modo a sopravvivere. Poi però il Financial Times cita ancora una volta la suddetta fonte anonima di governo: “Non ci sarà una rivoluzione. In Italia le cose accadono lentamente”. Alla fine tuttavia, sembra l’implicito ragionamento, accadono. (Beh, buona giornata).

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“Caro direttore, Ti chiedo di essere sollevata dall’incarico di conduttrice del tg 1 della notte”.

Elisa Anzaldo lascia il Tg1, di Giuseppe Giulietti-articolo21.com

“Caro direttore, Ti chiedo di essere sollevata dall’incarico di conduttrice del tg 1 della notte. Ritengo non sia più possibile per me rappresentare un telegiornale che, secondo la mia opinione, ogni giorno rischia di violare i più elementari doveri dell’informazione pubblica: l’equilibrio, l’imparzialità, la correttezza, la completezza…”
Così il 19 aprile scorso la giornalista del Tg 1 Elisa Anzaldo, una cronista serena, coraggiosa, stimata da tante colleghe e colleghi, senza distinzione di parte alcuna, aveva scritto al suo direttore Minzolini, manifestando un disagio professionale e civile profondo e doloroso per chi in quella testata ha speso tanta parte della vita.
In quella prima lettera la Anzaldo non si nascondeva certo dietro lettere anonime o sentito dire, ma documentava e denunciava alcuni episodi di ” malainformazione”.

Ne riportiamo alcuni: “Ancora ieri – scrive la giornalista – non abbiamo dato conto degli sviluppi dell’inchiesta Minetti- Fede- Mora. Domenica sera, 17 aprile, è stato “sfilato” alle 20 un pezzo pronto sui manifesti “Via le BR dalle procure completo in ogni sua parte, intervista a Lassini, parere del sindaco Moratti e di Pisapia, questione autosospensione di Lassini dalle elezioni comunali.
“Nel titolo delle 20 dell’11 aprile si metteva insieme il rinvio a giudizio dell’ex segretario del Quirinale Gifuni con l’arresto del prefetto Ferrigno per reati sessuali, Qual è il criterio giornalistico adottato?”
“Non c’era notizia nei nostri titoli delle 20 del 6 aprile dell’apertura del processo Ruby a Mlano, Forse non è stata considerata una notizia?”

La lettera non riceve risposta, o almeno non ha ricevuto una risposta riferibile, almeno in questa sede.
Per questo Elisa Anzaldo riprende carta e penna e riscrive al suo direttore in data 11 maggio e, fedele al suo ruolo di scrupolosa cronista, arricchisce ulteriormente la denuncia con altri fatti spariti o resi incomprensibili, anche qui ci limitiamo a citare testualmente:

“Non si comprende perchè i telespettatori del tg1 non abbiano avuto notizia della proposta di modifica, da parte di un parlamentare, dell’articolo 1 della Costituzione. Perchè se si tratta di una non notizia tutti i quotidiani gli hanno dedicato l’apertura?
Ed erano forse degne di due righe le critiche di un ministro, Galan, ad un altro ministro, Tremonti? Questione che ha reso necessario l’intervento del premier?
O perché abbiamo ignorato, nonostante fossero disponibili i mezzi, la nuova emergenza rifiuti a Napoli sino a quando il governo non ha nuovamente inviato l’esercito…allora si..
Non meritava una notizia, nel decreto dello sviluppo, la concessione delle spiagge per 90 anni?
E la notizia che il governo ha sollevato conflitto di attribuzione dei poteri alla Consulta per non avere la Procura di Milano considerato un legittimo impedimento la partecipazione del premier ad un consiglio dei ministri?
E l’arresto di due assessori leghisti per tangenti? Alle 20 niente.
E la chiusura delle indagini sull’inchiesta per i grandi eventi, con la richiesta di rinvio a giudizio per ‘ex capo della Protezione Civile. Per noi tre righe, per i giornali intere pagine…”

Queste alcune solo alcune, delle osservazioni della Anzaldo, alla fine delle quali con grande fermezza conferma da una parte le sue dimissioni dalla conduzione del tg 1 della notte, dall’altra la sua volontà di restare a lavorare in redazione, come caposervizio alla cronaca e di voler continuare a proporre “quelle che ritengo siano notizie di cronaca”, anche quelle che non vengono considerate tali dalla direzione”.

Non vogliamo strumentalizzare in modo alcuno questa testimonianza che, purtroppo, conferma quanto avevano denunciato Maria Luisa Busi, Tiziana Ferrario che insieme ai Piero da Mosso, ai Raffaele Genha, ai Paolo Di Giannantonio, ai Massimo de Strobell, sono già stati messi in condizione di andarsene, oppure stanno aspettando che sia il giudice a riconoscere le loro ragioni professionali.
La lettera della Ansaldo è impressionante proprio per il suo rigore, per la capacità di stare ai fatti o meglio “ai non fatti”, di documentare omissioni e faziosità che, ancor prima che la politica, colpiscono l’articolo 21 della Costituzione e cioè il diritto dei cittadini ad essere informati in modo ampio e completo.
La cosa sarebbe grave anche se riguardasse un tg privato lo è ancora di più se riguarda il più grande tg della Rai, quello che un tempo amava confrontare se stesso con il Corriere della Sera, mentre oggi contende la palma della faziosità al Tg4. Non si tratta di poca cosa, dal momento che stiamo parlando dello svilimento di tanta parte del patrimonio pubblico e della sua credibilità.
Vogliamo sperare, anzi ne siamo certi che, di fronte alle consuete volgarità e banalizzazioni che si scateneranno contro questa scelta della Anzaldo (peraltro e per l’ennesima volta un’altra coraggiosa donna che si ribella all’ordine ingiusto,) la redazione, il sindacato, interno e nazionale, vorranno sentire come propria questa denuncia, impugnarla collettivamente e pretendere che questa situazione abbia fine e che siamo rimosse radicalmente le cause, anzi la causa di questo malessere, di questa umiliazione.
Forse come nel finale del film ” L’attimo fuggente ” sarà davvero il caso che chi non vuole rendersi complice, salga sul banco o sulla scrivania e cominci a battere i piedi sino a quando la nuova direzione generale non deciderà di restituire l’onore professionale al Tg 1 e non solo al Tg1.

Prima di predisporre una nuova lenzuolata di nomine, sarebbe davvero il caso che quella che, un pò troppo pomposamente, è già stata battezzata la “nuova Rai” della signora Lei, procedesse a liberare l’azienda da veleni e arroganze che la stanno conducendo a morte, con grande gioia della concorrenza, saldamente nelle mani del loro presidente del consiglio.

Da parte nostra grazie a Maria Luisa Busi, a Tiziana Ferrario, a Elisa, Anzaldo, a quella parte del comitato di redazione che ha reclamato il rispetto della legge e a quante e a quanti non hanno alzato ancora bandiera bianca
Qualcuno li deriderà. Ma tra qualche giorno, gli opportunisti di sempre, faranno la fila per farsi fotografare accanto a chi non ha venduto la dignità.

Adesso è il momento di chiedere e di pretendere che, anche alla Rai, persino al tg 1, siano ripristinate le regole della repubblica, senza eccezione alcuna. (Beh, buona giornata).

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Risorgi, Milano.

Quei borghesi autoconvocati che a Milano tifano Pisapia-di ALBERTO STATERA- repubblica.it

“Milano è stata l’Eldorado d’Europa. Come si fa a lasciarla nelle mani del populismo plebeo di Bossi e di quello plutocratico di Berlusconi, interpretati per un grigio quinquennio dalla pochezza culturale di Letizia Moratti?”. Con queste parole, dopo vent’anni di ritirata, di ripiegamento neghittoso su se stessa, torna in scena la cosiddetta borghesia illuminata milanese.

Lo fa con l’auto-convocazione del plenum del Gruppo 51 (per cento) per sostenere nell’ultimo miglio la candidatura a sindaco di Giuliano Pisapia.

Coagulato da Piero Bassetti, classe 1928, olimpionico nella staffetta a Londra nel 1948, master alla London School of Economics, assessore a Milano negli anni Sessanta, primo presidente della Regione Lombardia e deputato dimissionario nel 1974 quando cominciò a vedere le danarose corti dei vari Frigerio assise al Savini, il Gruppo ha scelto un sito evocativo del riformismo ambrosiano: il vecchio circolo socialista De Amicis. E’ qui che i 101 professionisti, banchieri, manager, imprenditori, economisti, architetti, sociologi che per primi hanno firmato l’appello, danno stasera il benservito al blocco sociale conservatore che da un ventennio fa da tappo all’unica possibile “Glocal City” a sud delle Alpi, vagheggiando con Pisapia un blocco sociale nuovo e alternativo. Né di sinistra né di destra, composto di lavoratori e professionisti, di borghesia tradizionale e di neo-borghesia dei flussi e delle reti, come la definisce Aldo Bonomi, con quello che si chiamava ceto
medio e gli immigrati che ormai controllano e dirigono il 13 per cento delle imprese milanesi.

Altro che Zingaropoli.

Al De Amicis sfilano stasera in sobrietà, cifra tradizionale della vecchia borghesia meneghina, giuristi come Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale, banchieri come Alessandro Profumo e Piero Schlesinger, economisti come Pippo Ranci, Fabrizio Onida, Marco Vitale e Mario Artali. E poi l’ex presidente della Consob Salvatore Bragantini con Rosellina Archinto, l’avvocato Cesare Degli Occhi con il collezionista d’arte Giuseppe Berger, il notaio Giuseppe Fossati con il filosofo Fulvio Papi, il designer Fulvio Ronchi con la pubblicitaria Annamaria Testa. Una folta pattuglia socialista e un pezzo del Nuovo Polo, rappresentato, tra gli altri, da Bruno Tabacci.

“Non siamo qui per i begli occhi di Pisapia – esordirà lo speaker Piero Bassetti, che ci preannuncia i temi della serata – ma perché abbiamo visto profilarsi il miracolo dell’alternativa, né di destra di sinistra, ma incarnato da una persona che ha creato consenso senza soldi e senza partiti. Di fronte a una città e a un paese male amministrati, alle insulsaggini di Bossi sull’immigrazione, alle fesserie sui ministeri al nord, e alla miopia ringhiante di Berlusconi. Ora si può rimuovere questo blocco sociale conservatore che fa da tappo alla città e al paese. Il cambiamento urge non tanto per lo scandalo Ruby. Si sa, il potere è afrodisiaco, si può anche tollerare un puttaniere al comando, ma non far finta che non sia insidiata la democrazia in un paese che, tra l’altro, ha un parlamento di nominati”.

Sì, inutile negare che la partita di Milano si salda con quella nazionale, anche perché è qui che si sono sempre prodotte le fasi politiche innovative.

Tra il 1960 e il 1967, con la giunta del sindaco socialdemocratico Gino Cassinis, con Bassetti assessore al Bilancio, alle Finanze e all’Organizzazione, fu lanciato il Piano Milano che realizzò 144 mila vani di edilizia popolare, 30 scuole, il parco che costeggia viale Forlanini. Municipalizzò il gas della Edison con una battaglia campale appoggiata da Enrico Mattei, che aveva fondato Il Giorno, allora foglio progressista. Si fece il primo prestito di 2 milioni sulla Borsa di New York con l’aiuto di Raffaele Mattioli. Si creò in stazione Centrale il servizio di assistenza al Treno della Speranza, che arrivava tutte le notti dal sud, carico di immigrati, per i quali si istituirono corsi di alfabetizzazione.

“Oggi invece – lamenta Bassetti – si vive di paure indotte da una classe politica in gran parte insulsa, così oscurantista da non capire che non basta innalzare qualche grattacielo dell’Expo, che nutrire il pianeta è un tema che trascende le beghe politiche per le quote di potere, che la sfida non è il rifiuto dell’immigrazione, ma la gestione di un fenomeno ineluttabile, che è anche un’opportunità per fare veramente di Milano l’ottava Glocal City d’Europa. Il sindaco di Rotterdam è un immigrato. A Milano il credito al consumo erogato agli immigrati è pari a quello erogato ai milanesi. Banca Intesa ha costituito l’Extra Bank, istituto multietnico. Perché sa, come sanno tutte le altre banche, che se li buttiamo fuori dalle balle come vorrebbe Bossi, tagliamo di netto il 10 per cento della nostra economia e andiamo a fondo. Mi hanno definito un protoleghista perché con la sinistra di Base, sostenemmo l’autonomismo regionale. Ma i nostri riferimenti erano Salvemini, Miglio e Zerbi, non l’incultura leghista”.

Cosa hanno in mente dunque i redivivi borghesi illuminati, oltre a una decente amministrazione per Milano, ormai rattrappita nel suo bozzolo di neo-populismo fatto di arcaicità, provincialismo gretto, affarismo e potere rivolto all’interesse di pochi, se domenica prossima vincerà Pisapia? Molti di loro non negano nell’attuale situazione assonanze con gli anni Sessanta, quando qui con un nuovo blocco sociale si crearono le condizioni per il primo centrosinistra nazionale. Ma anche dissonanze, perché i partiti non hanno più il peso di allora e il populismo berlusconiano ha cambiato il sistema, nel senso che le leadership nascenti di sinistra contengono adesso elementi populistici, sia pure a “consenso critico” e non “acritico”, da tifoseria, come quello di destra. E non è facile coniugare il vecchio partitismo con le nuove forme di leadership.

Ci vollero tre anni perché l’esperimento del centrosinistra milanese fosse replicato a Roma, dopo molte resistenze, compresa quella di Aldo Moro. “Perciò attenzione – avverte Bassetti, che ne discute da mesi con gli altri “congiurati” – se vinciamo a Milano, il recepimento nazionale non sarà rapido. Non solo perché Bossi rischia di rimanere abbracciato a Berlusconi nell’agonia, rinviando il 25 luglio del berluscoleghismo, come i naufraghi che affogano. Ma anche perché il Pd dovrà adeguarsi ad alternative del tipo Pisapia. Non più l’Ulivo, ma forme neo-populiste a guida tranquilla e gentile. Il modello inglese che consente al leader di non dover negoziare. “Sì” o “no”, come al parlamento britannico. Quindi, meglio non improvvisare, se no la sinistra rischia grosso”. Non sarebbe la prima volta, avvertono al De Amicis. Al riformismo milanese seguirono le degenerazioni del craxismo e il berluscoleghismo. Addio Eldorado. (Beh, buona giornata).

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Sondaggi e ballottaggi.

Secondo quanto ha riportato la stampa italiana, Berlusconi s’impegnerebbe nel ballottaggio a Milano solo se i sondaggi gli facessero intravvedere una possibilità di rimonta della Moratti su Pisapia.

Siamo talmente abituati all’idea che le scelte politiche siano per forza di cose eterodirette dalle percentuali di successo diagnosticabili, interrogando un campione di elettori, che quanto avrebbe detto Berlusconi ai suoi ci appare normale. E non invece la prova provata del solito modo furbastro di fare politica. Quel modo furbastro che è stata la vera causa della sua debacle elettorale.

La domanda è: è lecito fare politica basandosi sui sondaggi? Da anni i sondaggi su argomenti politici ed elettorali svolgono un ruolo centrale nelle democrazie occidentali, in quanto permetterebbero di conoscere gli orientamenti dei cittadini nei confronti di istituzioni, partiti, leader politici e politiche pubbliche. Pare che non se ne potrebbe più fare a meno, allo stesso modo di come sarebbe difficile per una grande azienda rinunciare alle ricerche di mercato per conoscere i gusti, gli orientamenti, la propensione dei consumatori attuali e potenziali. Addirittura i risultati dei sondaggi godono di una tale sproporzionata visibilità mediatica, da rendere facile il meccanismo di auto-convincimento di chi commissiona l’indagine.

Un caso eclatante di autoavveramento indotto dai sondaggi si è appunto verificato in occasione delle elezioni comunali di Milano. I sondaggi davano la Moratti vicino al 49% e Pisapia intorno al 40%. A urne chiuse, oplà: i valori erano esattamente rovesciati, lasciando tutti a bocca aperta. Nessuno dei due contendenti, nessuno dei due schieramenti, nessuno in Italia in genere ci poteva credere. Come mai? Per almeno due motivi “tecnici” e per una ragione politica e sociale.

Il primo motivo tecnico lo confessa Luigi Crespi: “Il Pdl sta perdendo voti da due anni, infatti li ha persi alle Regionali e alle Europee, ma questa perdita non è stata rilevata poiché Berlusconi aveva comunque vinto le precedenti elezioni.” L’ineffabile Crespi ci dice candidamente che lui e i suoi colleghi sondaggisti hanno preso un abbaglio, perché non hanno mai voluto dire pubblicamente della costante emorragia di voti. Per vile compiacenza con il committente? Per venale convenienza contrattuale? Fatto sta che durante la campagna elettorale, interrogato dai media, Crespi ebbe a dire che per la Moratti a Milano si sarebbe ripetuto “l’effetto chiodi”. Si chiamava Chiodi il governatore dell’Abruzzo che Berlusconi riuscì a far eleggere, facendogli la campagna elettorale. La qual cosa ci rimanda al secondo motivo tecnico.

L’Istituto Cattaneo di Bologna sostiene la tesi secondo la quale vista la rilevanza delle funzioni dei sondaggi e dei rischi connessi, è essenziale che i loro risultati rispecchino fedelmente gli orientamenti dei cittadini e che vi trovino riscontro le relative interpretazioni. Però, succede che se da una lato un numero elevato di aziende specializzate hanno dato vita a un mercato concorrenziale per la conduzione dei sondaggi, con il rischio di impoverire la qualità delle ricerche pur di abbassarne i costi; dall’altro lato le diverse categorie di utenti di queste inchieste difficilmente posseggono le competenze metodologiche per valutare criticamente le tabelle delle percentuali. Senza contare che i risultati dei sondaggi godono di una visibilità mediatica sempre più crescente che tende a rendere effimero il loro impatto sulla realtà e sulla comprensione della realtà.

Un esempio concreto è quanto sostiene proprio l’Istituto Cattaneo di Bologna. Secondo l’analisi dei risultati del primo turno elettorale delle elezioni amministrative 2011, il Pdl ha perduto 164 mila voti rispetto a quelli raccolti, con Alleanza Nazionale nelle precedenti elezioni comunali, con una flessione pari al -24,6%. Il Partito democratico ha perduto 111 mila voti rispetto alla comunali precedenti, con una flessione pari al 16,2%. La Lega ha guadagnato 56 mila voti in tutto il nord. Rispetto alle Regionali del 2010, la Lega ha perso 25 mila voti a Milano e Torino, ma li ha guadagnati a Bologna, grazie al candidato sindaco, ancorché battuto al primo turno.

Se si fossero tenuti in corretta considerazione i flussi elettorali che hanno portato ai risultati delle ultime elezioni, essi sarebbero stati sorprendenti, ma non inaspettati. E questo ci riporta, infine, alla ragione politica e sociale per cui i sondaggi hanno mancato l’obiettivo di una corretta previsione dei risultati.
Infatti, una valutazione “oggettiva” della condizione materiale della stragrande maggioranza degli italiani avrebbe fatto, quanto meno presumere, se non proprio prevedere una sonora punizione elettorale nei confronti dei partiti che fanno parte della coalizione di governo. Non fosse altro perché è successo così in tutte le elezioni amministrative in Europa.

Nello specifico, in Italia il declino del berlusconismo aveva già dato vistosi segnali, che la sconfitta di Milano ha semplicemente certificato. La fatica di vincere a Bologna, la sconfitta di Napoli hanno detto chiaro quello che del Pd già si sapeva: l’opposizione non è all’altezza del compito se non si dà il compito di una nuova politica, a cominciare da una nuova visione della politica. I primi a non aspettarsi il successo di Pisapia a Milano, i primi a non immaginare il successo di De Magistris a Napoli sono proprio quelli che avrebbero, quanto meno, dovuto progettare candidature credibili su programmi efficaci.

Ma questo modo di capire l’esistente non lo può suggerire nessun sondaggio. La differenza tra politica e statistica sta nel fatto che quest’ultima fotografa l’esistente al passato prossimo, mentre la politica dovrebbe costruire una visione del presente prossimo, tendente al futuro semplice.
La cosa comica, a una settimana dal prossimo voto, è che nessuno sembra sapere che pesci prendere, forse perché essendo saltati i riferimenti dei sondaggi, nessuno si espone. Proprio come pare abbia confessato Berlusconi. A parte, ovviamente Pisapia a Milano, De Magistris a Napoli, Zetta a Cagliari e tutti i candidati al ballottaggio: loro il “campione” lo incontrano dal vivo, ce l’hanno davanti in carne e ossa. Difficile per loro non fare i conti con la realtà. Beh, buona giornata.

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“Zingaropoli”, neologismo razzista.

“No alla parola Zingaropoli, è carica di disprezzo”, di ROBERTO NATALE- www.fnsi.it

Umberto Bossi“Il leader della Lega Umberto Bossi, intervenendo sul prossimo ballottaggio milanese, ha detto che Giuliano Pisapia vuole “trasformare la città in una Zingaropoli”. La polemica politica è affare dei candidati e delle coalizioni. Ma l’avvelenamento del linguaggio è un problema che riguarda tutti, compresi noi giornalisti che le parole le maneggiamo per lavoro. E allora non si può accettare che entri in circolo un nuovo termine così carico di significati spregiativi: il popolo Rom si chiama così e ha il diritto di essere chiamato così.

All’estero un uso tanto contundente del linguaggio politico verrebbe bollato come “hate speech”, incitamento all’odio. E’ bene che anche il discorso pubblico italiano recuperi il senso del limite. Ci abbiamo messo vent’anni a imparare che gli immigrati non andassero chiamati “vu’cumprà”, e abbiamo ancora difficoltà a non definirli sbrigativamente “clandestini”. Non c’è proprio bisogno di aggiungere un altro vocabolo al glossario del disprezzo”. (Beh, buona giornata)

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Punire gli smoderati.

Toglietevi dalla testa che in questa campagna elettorale il centrodestra italiano abbia toccato il fondo. Insulti, menzogne, vigliaccate sono state, sono e saranno il pane quotidiano del crepuscolo berlusconiano. Sembra proprio la ferocia che precedette il dissolvimento della Repubblica di Salò: senza più inibizioni, pudori, ipocrisie il ceto politico berlusconista ha sguainato il pugnale e colpisce a tradimento, senza nascondere più la bava alla bocca e l’autocompiacimento per il gestaccio.

L’arroganza dei capo-manipolo berlusconisti è qualcosa che va al di là delle esagerazioni da circoscrivere all’interno di un periodo di campagna elettorale: è un ordine di scuderia impartito da Lui in persona. E al suo segnale, si è scatenato
l’inferno, che potrebbe durare per tutta la seconda parte della legislatura.
Berlusconi ha paura di essere fatto fuori, non già dall’opposizione.

Sono i “suoi” che lo minacciano: la Lega, la Chiesa, la Confindustria. Questo atteggiamento personale di insofferenza è diventata una politica precisa: io non mollo,boia chi mi vuol far mollare. È una strategia mediatica di straordinaria
violenza verbale. Azzera ogni possibilità del ben che minimo livello di
confronto, azzittisce ogni accenno di dialogo, non ammette mediazioni. È
una politica dell’informazione che trucca le carte, che rovescia preventivamente il rapporto tra il vero e il falso, che aggredisce e diffama senza quartiere.

È l’estremismo di fine corsa: il tragitto cominciato con il politicamente scorretto sta finendo in un baratro di rabbia, di gaffes, di arroganza ciarliera, di cieca violenza verbale. Sbaglia chi sostiene che questo è un sintomo di disperazione, perché incomberebbe il pericolo di una sconfitta elettorale, per esempio a Milano. Sbaglia non perché non sia possibile che il candidato del centro sinistra costringa al ballottaggio il sindaco Moratti a Milano, nella roccaforte del berlusconismo. Sbaglia non perché sia impossibile al centrosinistra riconfermarsi a Napoli, a Torino e a Bologna. Lo sbaglio sta nella valutazione dei comportamenti degli uomini e delle donne del centrodestra berlusconista: essi non si stanno comportando in modo scorretto perché in preda al panico della sconfitta.

Essi sono così, esattamente così lo sono sempre stati: è una classe dirigente improvvisata, raccogliticcia, ingorda e presuntuosa come lo possono essere tutti i dilettanti che l’impresario Berlusconi ha mandato allo sbaraglio. Persone senza scrupoli politici, capaci di fare la spola da uno schieramento all’altro, capaci, per una poltrona, uno stipendio, un business di favore, di trasformarsi in sicari pronti a tutto.

In questo ultimo parapiglia elettorale è davvero difficile immaginare una coerente linea di condotta del centrosinistra. D’altronde, se uno incontra un avversario scorretto, falloso, truffaldino e vigliacco il risultato è un pessimo spettacolo. Succede nelle partite di pallone, negli incontri di pugilato,
figuriamoci nelle tribune politiche, nei talk show. Come la politica italiana sia stata ridotta in quindici anni di berlusconismo è sotto gli occhi, le orecchie e le labbra di tutti.

E come al solito, la borghesia italiana è stata fin troppo opportunista, ha preso tutti i vantaggi che il berlusconismo poteva dargli. Ma è oggi che Berlusconi chiede apertamente indietro il prestito, con gli interessi: “facciano loro qualcosa per il governo” ha detto senza mezzi termini Berlusconi a proposito della richiesta di Confindustria di fare di più per le imprese.

A Milano si è rivista la borghesia progressista schierarsi per Piasapia. Sarebbe troppo augurarsi che questa domenica elettorale i “non sento, non vedo e non parlo” della borghesia milanese più moderata si prendessero una breve vacanza e, magari non andando alle urne, punissero Berlusconi e i suoi accoliti? Una astensione moderata contro gi eccessi del potere berlusconista sarebbe una sonora batosta, capace di rimettere in moto la politica, bloccata da mesi dalle vicende private del Cavaliere, oltre che una incapacità ormai conclamata di affrontare i nodi della crisi del Paese.

Lo sanno bene i milanesi, come lo sanno i napoletani, i bolognesi, i torinesi e tutti i cittadini italiani chiamati alle urne in questa tornata elettorale che non succederebbe nessuna rivoluzione. I tempi sono maturi per voltare pagina: basterebbe che i moderati punissero gli smoderati. Beh, buona giornata.

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La lobby del nucleare (e Publitalia) vittime del conflitto di interessi.

A quelli del Forum nucleare deve essere preso un attacco di bile. Lo si capisce dalle dichiarazioni di Chicco Testa che, sorvolando sulle motivazioni politiche che hanno fatto dire stop al nucleare al neo ministro dello Sviluppo economico, si è limitato a osservare che così vince il petrolio e i suoi derivati.

Certo è che a quelli del nucleare gli devono girare forte. Come ha avuto modo di dire Massimo D’Alema ,con il suo consueto cinismo, il governo Berlusconi si rimangia, in un boccone solo, l’unica vera innovazione della sua travagliata legislatura: il ritorno al nucleare , con tanto di accordi firmati con i francesi, la gran cassa mediatica, il cavallo di battaglia dell’ex ministro Scajola, il quasi riuscito sfondamento a sinistra in fatto di energia atomica, con i possibilisti pronti all’avventura, per non dire dei neoconvertiti già partiti all’attacco, di cui Chicco Testa è stato alfiere.

Adesso che tutto è andato in vacca, ci si chiede ma chi è che ha portato sfiga? E’ stato il Forum che ha gettato sul piatto della comunicazione quattro o cinque milioni di euro per la famosa campagna degli scacchi? L’operazione di comunicazione sollevò un vespaio, beccandosi anche una censura dal parte degli organi di autodisciplina della pubblicità italiana. E’ come se quella campagna avesse evocato il disastro di Fukushima, come dire che il Forum se l’è tirata: si è fatto scacco matto da solo.

Oppure, chi ha portato sfiga è stato Scajola? Scajola è quello che faceva il ministro degli Interni quando si scatenò l’inferno a Genova per quel G8 che vide morire ammazzato Carlo Giuliani, che vide la “macelleria messicana” alla Diaz e alla Caserma Bolzaneto. Non pago, Scajola qualche settimana dopo in barca se se esce con i giornalisti che Marco Biagi, ammazzato della nuove Br a Bologna era (testuale) “un rompicoglioni”. Bufera e Scajola si dimette. Tornerà al governo con il nuovo governo Berlusconi, ma si deve dimettere dopo la scoperta della cricca dei costruttori, quelli che si sfregavano le mani non solo per il terremoto de L’Aquila, ma anche al pensiero delle tonnellate di cemento armato che servono per costruire le centrali nucleari. Ma per via dell’acquisto di quella famosa casa “che se scopro che qualcuno me l’ha pagata a mia insaputa…..”, ecco che è proprio Scajola che ha portato sfiga al nucleare, lui che gli tsumani politici se li crea e se li scatena addosso.

Oppure a portare sfiga al ritorno al nucleare è stato Marcello Andreani, amministratore delegato di Publitalia, la concessionaria di pubblicità di Mediaset. Le reti del Biscione si leccavano i baffi, avevano già offerto spazi a tutte le aziende dell’energia, che, in occasione del Referendum, avrebbero potuto inondare le tv di spot a favore del nucleare. Forse l’eccessiva sicurezza di avere il portafoglio già pieno di inserzioni pubblicitarie ha giocato un brutto scherzo alle reti del Cavaliere: succede il disastro a Fukushima, tutti loro dicono che non bisogna farsi prendere dall’emotività, poi però ci sono le elezioni amministrative, si rischia di perderle. Le aziende dell’energia mangiano la foglia e cominciano a disinvestire. A Publitalia sfuma l’affare pubblicitario, che avrebbe potuto salvare un anno difficile anche per loro.

C’è da pensare che Andreani, se potesse, ammazzerebbe Berlusconi, ma ovviamente non può. Anche se è proprio Berlusconi l’unico vero colpevole della fine del sogno nucleare. Deve aver pensato, che sfiga: se quelli vanno a votare contro e vincono, il governo va in minoranza nel Paese e addio sogni di gloria dell’”eletto dal popolo”. Col pericolo che magari vince anche il referendum contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e, sciagura delle sciagure, magari già che ci sono gli elettori mettono una bella croce sul Sì all’abrogazione della legge sul legittimo impedimento.

Insomma, ‘sta volta Berlusconi è stato vittima del suo stesso conflitto di interessi. E’ diventata una scoria radioattiva, che ha portato sfiga alla stessa lobby dell’atomo made in Italy. Beh, buona giornata.

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Il 2011 peggio del 2010: pessimo inizio d’anno per la pubblicità italiana.

SECONDO NIELSEN MEDIA RESEARCH, IN ITALIA L’ ADVERTISING E’ IN CALO NEL PRIMO BIMESTRE 2011. NEGATIVI TV E STAMPA, POSITIVI, INTERNET, RADIO E DIRECT MAIL.

Il mercato

Inizio non particolarmente brillante per il mercato pubblicitario italiano che chiude il primo bimestre in negativo: a totale pubblicità il cumulato gennaio – febbraio 2011 mostra una variazione del -2,0% rispetto allo stesso periodo 2010.

I risultati di televisione e stampa, rispettivamente – 0,5% e -7,4% (considerando pubblicità nazionale, locale e altre tipologie rilevate), influenzano la variazione totale del bimestre,
buone notizie arrivano dagli altri principali mezzi in particolare internet (+15,5%), radio (+1,0%) e direct mail (+2,1%).

Per i primi due mesi dell’anno buoni risultati nei settori automobili e distribuzione. Il primo dopo la crescita moderata del 2010 registra un +9,9%, il secondo nonostante una variazione più bassa rispetto al 2010 cresce del +7,6%. Arrancano altri importanti settori quali alimentari e telecomunicazioni.

I mezzi

La televisione mostra un rallentamento nei primi due mesi dell’anno, dovuto soprattutto
alla diminuzione dei livelli di investimento di importanti aziende inserzioniste dei settori
alimentari (-7,3%), telecomunicazioni (-8,5%) e farmaceutici/sanitari (-4,3%).
La stampa in generale raggiunge un -7,4%, con una periodica particolarmente colpita dalla
riduzione degli investimenti di settori strategici quali abbigliamento (-4,1%) e abitazione (-
14,8%) che hanno influito sull’andamento del mezzo portandolo al -4,3% rispetto all’anno
precedente.
Variazione positiva invece per la radio, che sostenuta dal suo settore core, quello
automobilistico (+10,9%), ottiene una variazione del +1,0% rispetto al primo bimestre
2010, ma rimane sempre internet, il mezzo più dinamico e in evoluzione, con un +15,5%
di variazione data soprattutto dall’aumento di investimenti nei settori automobilistico

(+13,5%), media/editoria (+15,6%), distribuzione (+211,8%) e tempo libero.
Calano gli investimenti per cinema (-15,3%) e affissioni (-24,1%), mentre buoni risultati
ottengono out of home tv (+4,0%) e cards (+1,0%), nonostante rimangano ancora
marginali nel mercato pubblicitario italiano.

I settori

Nel 2011 il mercato pubblicitario parte sottotono anche guardando ai singoli settori
merceologici con poco più della metà dei settori analizzati con variazioni negative. Tra i
primi cinque settori top spender spicca però il risultato positivo del settore automobilistico
(+9,9%) che tenta di riprendersi dalle ancora cattive performance di vendita con un buon
livello d’investimento pubblicitario.
Negativi i risultati invece per gli alimentari (-6,6%) cosi come per gli altri componenti del
largo consumo (toiletries -2,9% e gestione casa -7,1%) ad eccezione di bevande/alcoolici
che ottengono un buon +13,0%.
Tra i primi spender risultati poco brillanti anche per le telecomunicazioni, che già nel 2010
avevano avuto difficoltà di ripresa, e media/editoria. Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La dittatura mediatica.

Avete presente quando le orche marine fanno le loro evoluzioni e poi sbattono, gettandosi di peso, fragorosamente sulle onde del mare producendo copiosi schizzi d’acqua? Esattamente come quando l’altra sera Giuliano Ferrara dai microfoni di Radio Londra, luogo televisivo che continua a occupare, nonostante gli ascolti lo puniscano, come continuano a punire il Tg di Minzolini, esattamente come Giuliano Ferrara, quando si è buttato a pesce sulle tesi sostenute su Il Manifesto da Alberto Asor Rosa.

Asor Rosa dice cose giuste: la nostra democrazia è al collasso, il berlusconismo che si compra tutto, si è comprato anche la democrazia parlamentare, la situazione di impotenza istituzionale è paragonabile alla presa del potere di Mussolini e di Hitler. I quali non andarono al potere con un golpe, ma sfruttando la totale debolezza politica delle istituzioni del tempo, si fecero incaricare, sfruttando le pieghe delle regole istituzionali.

E qui la similitudine tra la debolezza dell’attuale opposizione con l’inconsistenza delle opposizioni sia nell’Italia del ’24 che nella Germania del ’33 è, ahinoi, lampante.

Asor Rosa suggestiona l’idea che lo Stato scateni le forze dell’ordine contro il berlusconismo. Idea balzana, ma che la dice lunga sulla totale sfiducia nella possibilità di un cambiamento. Asor Rosa dice che non è prevedibile un cambiamento promosso dal “basso”, vale a dire promosso dai cittadini, le associazioni, dalla base popolare dei partiti, dalle forze del lavoro, dello studio, della cultura.

Forse, piuttosto che attardarsi sulle ipotesi di “golpe istituzionale”, bisognerebbe capire perché l’indignazione per le porcherie del governo Berlusconi non riesce a diventare forza di trasformazione, che metta in moto un processo di superamento di questi partiti, di queste forze politiche, per arrivare a prefigurare una vera alternativa alla crisi della democrazia italiana.

Una delle ragioni è sicuramente la dittatura mediatica, esercitata contro la democrazia del nostro Paese. Una dittatura feroce, capillare, letale per le coscienze. Quella dittatura che si esplicita all’insegna del semplice “se vuole fare carriera, sposi un uomo ricco”, oppure se da precario cerchi lavoro, cerca di fare il provino per “Non è mai troppo tardi”, talent show prossimamente condotto da Signorini, uno dei lacché del signor B. La vicenda delle sconsiderate nottate del capo del Governo ci ha spiegato con dovizia di particolari che il bunga-bunga è un modo per far carriera nel mondo dello spettacolo e che anche la politica, in Italia, fa parte del mondo dello spettacolo. D’altro canto, “I responsabili”, il gruppo parlamentare di Mimmo “monnizza” Scilipoti non sembra forse il titolo di un programma tv?

Il fatto è che questa dittatura mediatica si esercita soprattutto quando si distrae il pubblico dalla politica vera, dal reale disagio sociale, dalle proteste di massa che hanno invaso le piazze del Paese. Secondo l’Osservatorio di Pavia, le reti televisive italiane hanno dedicato nel 2010 alle vicende di nera e processuali nei rispettivi telegiornali: 867 servizi all’omicidio di Avetrana, 204 al caso Claps; 98 al delitto di Perugia, 55 al delitto di Garlasco. Senza contare i talk show, con tanto di criminologi, plastici, e ospiti tuttologi a comando. Il collasso di cui parla Asor Rosa non è solo istituzionale, è sistemico.

Il conflitto di interessi è stato superato brillantemente dai fatti: oggi in Italia la politica è solo una questione di interessi personali, la tv è ormai solo una commodity di quegli interessi. Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il burlesquoni show a Patacca Italia.

La performance di Berlusconi a Lampedusa segna una tappa nuova nella vita politica italiana. Lampedusa come l’Isola dei Famosi è stato il set televisivo dello show del capo del Governo: un programma di tipo nuovo, un cocktail preparato con un terzo di reality, un terzo di infomercial, un terzo di videomessaggio in salsa web.

Il programma-pilota era andato in onda su tutti gli schermi qualche giorno prima a Milano, durante lo show del processo, che non c’era, perché era solo un’udienza preliminare, però c’era il pubblico, il predellino, e il “cuscino” antiproiettile sulla schiena del nostro eroe. Ora bisognerebbe chiedere aiuto a eminenti critici televisivi per dare un nome a questo nuova forma di intrattenimento: nel frattempo, la chiameremo provvisoriamente “burlesqu-oni show”.

Bisogna dire che il ”burlesquoni show” ha fatto subito scuola. E così succede che il ministro della Difesa, attorniato da poliziotti si mette a provocare i manifestanti davanti a Montecitorio come fosse ancora ai tempi del Fronte della gioventù nella Milano degli anni Settanta. Poi entra in Aula e dà in escandescenze. Richiamato dal presidente, che una volta era anche il “suo” presidente, il fascistello attempato non trova di meglio che mandare affanculo la terza carica dello Stato.

Il giorno dopo, tocca al ministro della Giustizia che arriva trafelato sui banchi del governo per votare, e mentre il presidente della Camera chiude le votazioni, il ministro perde la testa e getta il tesserino parlamentare verso i banchi dell’opposizione. Un comportamento degno di Cassano o Balotelli verso l’arbitro.

Comunque sia, la vera forza del “burlesquoni show” sta nel fatto che è una forma estrema di intrattenimento, che supera anche i vasti confini della tv. Il “burlesquoni show” è multimediale, multicanale. Pensate all’on. Nicole Minetti, parlamentare della Regione Lombardia. Ha detto a Vanity Fair e poi a Repubblica che lei sta mica tanto a preoccuparsi per quella storia del bunga bunga, ma che scherziamo, lei aspira a ben altri traguardi, che vi credete che un giorno non riesca a diventare ministro degli Esteri? La notizia non ha solo fatto il giro del mondo dei media italiani, ma è come se la cosa si fosse davvero materializzata: che differenza farebbe una Minetti al posto di un Frattini? Vista il peso relativo che ormai la nostra diplomazia ha in Europa, non si capisce perché la sorte non dovrebbe accontentare i sogni della più famosa igienista dentale italiana.

Insomma, il “burlesquoni show” ha una forza comunicazionale inedita: niente a che vedere con i reality. Per tenerli in piedi, quelli bisogna pomparli: mandare la Ventura in Honduras e poi magari anche un citrullo di ex Casa Savoia. Niente a che vedere con roba decotta come Forum, dove una finta terremotata viene smascherata in quattro e quattr’otto.

Il “burlesquoni show” è genuino, perché i personaggi non fingono, sono proprio così: Berlusconi che compra casa a Lampedusa, vuole un campo da golf e un casinò è lui, lui in persona. Lo si capisce quando promette che Lampedusa sarà un paradiso fiscale. La Russa è lui, proprio lui, quando scatena una gazzarra fascista in Aula, è se stesso. Il ministro Alfano è lui, proprio lui, quando, nel tentativo di confutare i dati diffusi dall’associazione dei magistrati, secondo i quali col processo breve salterebbero il cinquanta per cento dei processi per gravi reati, il ministro sostiene invece che la norma che salverebbe Berlusconi dal processo Mills potrebbe riguardare solo l’uno per cento dei processi in Italia. Dal che si evince, per ingenua confessione che il provvedimento non è affatto strategico per la giustizia in Italia, lo è solo per il capo del Governo. Anche la Minetti è lei, proprio lei, quando alza la posta in gioco della sua carriere politica, in vista della testimonianza al processo Rubygate.

Eccola, allora la forza del “berlusquoni show”: fa rabbia, fa ridere, fa un po’ schifo, fa anche molta pena. Ma una cosa è drammaticamente certa: è tutto vero. È l’ultimo regalo della vulcanica inventiva del Berlusca ( ovvero, Burlesca): il “burlesquoni show” è sinonimo, all’interno e all’esterno del Paese di un’Italia molto speciale.

Ci rende famosi nel mondo, siamo ormai a pieno titolo nell’epoca di Patacca Italia. Beh, buona giornata.

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L’incerta primavera della pubblicità italiana.

Secondo l’Istat, la benzina aumenta del 3,4% su mese e del 12,7% su anno, il gasolio del 4,3% e del 18,5%, il gpl +0,1% e +20,7%, il gasolio da riscaldamento +4,3% e +19,1%. Nel settore regolamentato, i prezzi salgono dello 0,2% su mese e del 3,4% su anno, a causa del rialzo del costo del gas (+0,3% su febbraio e +8,5% tendenziale).

Ed ecco riapparire l’inflazione: a febbraio il costo della vita aveva registrato un incremento dello 0,3% rispetto a gennaio e del 2,4% su base annua. Ed ecco un’accelerazione a marzo: i prezzi sono saliti dello 0,4% mensile per un incremento tendenziale del 2,5%, massimo da novembre 2008.

Com’è facile prevedere, questa situazione non favorisce i consumi, dunque fa male alla pubblicità. Non solo. Fa male alla pubblicità anche il fatto che l’aumento dei prezzi all’ingrosso dei prodotti derivati dal petrolio, utili al confezionamento di beni di largo consumo sta determinando una situazione critica: per non aumentare i prezzi al dettaglio si tagliano i budget pubblicitari, in modo da riequilibrare i relativi business plan.

Gli effetti di questa politica commerciale, che potremmo definire di resistenza alla crisi petrolifera da parte delle aziende italiane comincia a farsi sentire a partire da i centri media e non tarderà ad attraversare tutta la filiera.

Ma non sono solo le turbolenze geopolitiche del nord Africa, con le conseguente corsa al rialzo dei prezzo del petrolio, a turbare i sonni già da tempo molto agitati della pubblicità italiana. Il terremoto e lo tsunami che hanno sconvolto il Giappone stanno diventando un incubo per le concessionarie di pubblicità, soprattutto delle tv commerciali italiane.

La catastrofe nucleare di Fukushima ha provocato un’ondata di generale disapprovazione nei confronti delle politiche nucleariste. La cosa ha provocato una vera e propria catastrofe nella raccolta pubblicitaria.

Se in previsione del referendum erano stati prenotati spazi, soprattutto televisivi, da parte delle aziende del settore energia per sostenere il No al referendum, l’effetto Fukushima ha azzerato tutto: ha costretto il governo a ipotizzare una moratoria di un anno sulla legge che prevedeva il ritorno al nucleare.

E così le aziende del comparto energia hanno disinvestito, annullato le prenotazioni, gettando nel panico le concessionarie. Così è in questa incerta primavera. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

In pubblicità, sempre meglio non esagerare troppo.

Il capo del governo italiano, in visita a Lampedusa, isola siciliana, meta di continui sbarchi di profughi in fuga dalle catastrofi umanitarie del nord Africa, ha tentato di placare gli animi esasperati dei cittadini promettendo la soluzione di tutti i problemi nelle prossime ore.

Per fugare ogni scetticismo, il capo del governo italiano, durante un comizio, ha affermato, tra l’altro che: acquisterà una villa nell’isola; che aprirà un casinò; che farà nascere un campo da golf.
Bene. Poi però ha esagerato: ha promesso la candidatura dell’isola al Premio Nobel per la Pace, direte voi. Ma va.

Non è questo il problema, che è invece aver promesso che Lampedusa sarà zona franca dalle tasse. Questa proprio non ci voleva, esagerando rischia di tirarsi la zappa sui piedi: un casinò, un campo da golf, una villa in un paradiso fiscale, ancorché nostrano? Poi dice che uno pensa sempre male. In pubblicità, sempre meglio non esagerare troppo.
In politica, non so. Beh, buona giornata.

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“…e quel carico di neri che non sono più profughi, non sono più clandestini, non sono più rifugiati, non sono più immigrati, ma sono solo deportati”.

Il Cavalier Laqualunque, di FRANCESCO MERLO-la Repubblica.

NELL’ISOLA dei disperati il più disperato è lui. Con la camicia scura aperta sul collo e il doppiopetto nero che è diventato enorme, Berlusconi a Lampedusa è più Cetto Laqualunque dello stesso Albanese.

È venuto a svuotare l’isola così come andò a svuotare Napoli. Lì i rifiuti e le lordure furono caricati sui Tir, dispersi via terra con destinazione ignota, e qui sulle navi, onda su onda il mare li porterà al largo dell’Italia degli egoismi regionali e del ricatto secessionista.

“Sono lampedusano” dice, e sembra la caricatura di Kennedy a Berlino, “stamattina ho comprato una villa su Internet, si chiama “Le due palme””. Più tardi, a un cronista che lo aspetta sulla sabbia nascosto dietro una delle due palme confesserà compiaciuto: “Ma è tutta da rifare”. Le tv mandano ossessivamente l’immagine della facciata, il muro di cinta, e poi sabbia, stoppie, l’intervista ai vicini di casa. Ha già speso due milioni di euro. Il solito vento che, in qualsiasi stagione, qui fa perdere la voce, agita le piante basse e dunque anche Berlusconi, che è gonfio come una mongolfiera, per un momento perde l’equilibro e sembra migrare, lui che vorrebbe migrare lontano da tutte le regole, anche quella di gravità.

Noi italiani sappiamo che Berlusconi si butta sulle disgrazie quando sente di essere in disgrazia. Ma Lampedusa gli serve anche a dissimulare, a tenere occupata l’Italia nel giorno in cui la maggioranza parlamentare, ridotta in servitù, lo sta spudoratamente liberando dei suoi processi. Le promesse ai terremotati furono le sue campagne del grano. Ma questa volta la scenografia lo tradisce. Lampedusa infatti è due volte palcoscenico, due volte finzione: è il solenne e forse fatale teatro espiatorio per attirare e distrarre la più vasta delle platee ma è anche il remake dell’autarchia del “ci penso io” come estrema risorsa per illudersi ancora. Berlusconi fa il palo a Lampedusa, mentre a Roma i suoi scassinano il Parlamento e rubano i pesi della Bilancia.

E però tra il governatore Lombardo e il sindaco De Rubeis, circondato da assessori, imprenditori locali e guardie del corpo che qui non si distinguono dai corpi che hanno in guardia, nel mezzo di una nomenklatura scaltra, truce e goffa, Berlusconi esibisce una fisicità terminale che va ben oltre Cetto Laqualunque. È quella dei dittatori africani e degli oligarchi russi. Ha portato a Lampedusa più Africa lui che gli immigrati.

È atterrato all’ora dei Tg quando i soldati avevano finito di pulire il Porto vecchio, la stazione marittima e la famosa “collina della vergogna”. Il Tg3 documenta la pulizia anche degli slogan di protesta, si vede il sindaco che grida alla folla: “Basta cu ‘sti minchia di cartelli”. Ruspe e camion dei netturbini hanno spazzato via la tendopoli proprio come a Napoli spazzarono le strade, e ora le tv mostrano il “com’era” e il “com’è”.

Resistono, a testimoniare l’inciviltà della miseria, stracci, bottiglie, escrementi accanto ai ciuffi d’erba di una primavera che a fine marzo a Lempedusa è già estate: domina il giallo che solo al tramonto si tinge di arancione. Berlusconi garantisce che porterà “il colore, come a Portofino”. Promette pure il premio Nobel per la Pace, il campo da golf e il casinò che è un vecchio sogno non solo dei lampedusani più eccentrici, vale a dire la risorsa di chi non ha risorse, ma è soprattutto l’aspirazione della malavita intossicata di danaro che ha impiantato in tutti gli angoli della Sicilia le sue bische clandestine, i luoghi sordidi dove si sfogano il bisogno sociale e la pulsione individuale.

Quando Berlusconi scende dall’aereo, i disperati già avanzano sul molo in fila indiana, ciascuno con la mano sulla spalla dell’altro, “una mano sola per evitare l’effetto trenino” mi ha spiegato un funzionario degli Interni. Sono immagini che testimoniano l’umiliazione di uomini ardimentosi. Quasi tutti i primi piani li mostrano con le palpebre semichiuse forse perché non riescono più a vedere lontano. Ai lati, per tenerli in riga, ci sono i poliziotti con i guanti di gomma e le mascherina sulla bocca per proteggersi dal male fisico, per non entrare in contatto con la sofferenza dei corpi che, proprio come aveva ordinato Bossi, si stanno togliendo dalle balle.

E mentre Berlusconi si mette in gioco nella più triste di tutte le sue demagogie, giura di cacciare per sempre gli immigrati che ci sono e quelli che verranno, promette aiuti europei e corrimano, vasi di fiori, niente tasse per tutti, una scuola, investimenti turistici, trasmissioni promozionali della Rai e di Mediaset …, mentre, insomma, Berlusconi delira, la nave da crociera sembra una carboniera del diciassettesimo secolo, con la broda sciaguattante di acqua di mare, le zaffate, un equipaggio militare efficiente a bordo e riservato a terra, e quel carico di neri che non sono più profughi, non sono più clandestini, non sono più rifugiati, non sono più immigrati, ma sono solo deportati.

Se si mettono a confronto queste immagini che, comunque la si pensi, sono angoscianti e dolorose, con quelle della piccola folla festante attorno allo Sciamano, si capisce che non c’è solo lo stridore tra la violenza della realtà e la pappa fradicia della demagogia. Qui c’è anche il sottosviluppo di piazza, il sud di Baaria, – “santo Silvio pensaci tu” – la bocca aperta e lo schiamazzo delle feste patronali, il bisogno del voto, del miracolo, del divo: “Silvio!, Silvio!, Silvio!”. C’è la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale degli imbonitori, dello zio d’America come quel Thomas DiBenedetto che ha appena comprato la Roma, del messia e del conquistador, il mito antico dell’uomo che viene da fuori, dell’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore e non importa chi, purché venga appunto da fuori, perché è all’interno che questo Sud non trova pace. Ed è probabile che questa visita diventi un mito rituale, la chimera di una Lampedusa protagonista, porto franco, una specie di Las Vegas del Mediterraneo, il sogno come variante del sonno. Dev’essere per questo che i miei sciagurati paesani lo hanno applaudito invece di mandarlo. .. alla deriva nel suo cargo. (Beh, buona giornata).

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Direttori o caporali?

C’è una fattispecie giuridica che prevedere che una persona faccia più danni che produrre
benefici: si chiama “incompatibilità ambientale”. Succede che un capo venga assegnato a
un compito, per svolgere il quale egli assume la direzione di un certo numero di
dipendenti. Quando però sia per questioni caratteriali, sia per i metodi autoritari la
difficile relazione tra il capo e i dipendenti diventa un vero e proprio ostacolo, per
“incompatibilità ambientale”, il capo viene rimosso, se non addirittura licenziato.

Se guardiamo a quanto succede al TgUno, sembrerebbe si sia in presenza di un caso esemplare di “incompatibilità ambientale” tra il direttore della testata e i giornalisti. C’è ormai una lunga teoria di avvenimenti che potrebbero essere la prova provata: dalla rimozione alla conduzione del Tg che poi viene annullata dal tribunale del lavoro,
dall’inconsistenza degli editoriali in video del direttore, che ha portato non solo un
drastico calo di ascolti, ma anche all’inserimento di un commentatore “di peso”, Ferrara,
che certo quest’opera di supplenza non la fa davvero gratis.

L’ultima, in ordine di tempo, la vicenda del “libro bianco” sulle scorrettezze porofessionali del direttore del TgUno, redatto a cura dei menmbri uscenti di un organismo sindacale. Anche in questo caso, stupisce la reazione di Minzolini, che accusa i redattori del libro bianco di essere faziosi. Tanto per riconfermare la sua ormai irreversibile “incompatibilità ambientale.”

Certo, quello del direttore del TgUno non è affatto un caso isolato di
“incompatibilità ambientale”. Abbiamo visto il ministro Brunetta scagliarsi contro i
dipendenti pubblici, che dal suo ministero dipendono. Vista la Gelmini avercela coi
professori, gli studenti e recentemente anche con i bidelli. Visto il ministro della
Giustizia avercela coi magistrati. Ma l’esempio di incompatibilità ambientale per
antonomasia riguarda, ironia della sorte, la ministra dell’Ambiente. Nuclearista
convinta, dopo aver cercato di impapocchiare una diffesa di ufficio del nucleare in
Italia, si è lasciata sfuggire un fuori onda degno di dimissioni immediate: ha detto più
o meno che se continuamo a dire ste cazzate perdiamo le prossime elezioni amministrative.

Il consenso potè più della salute e così si è inventata la storia della moratoria. Tanto
per mandare in bianco il prossimo referendum. Insomma, anche per “incompatibilità
ambientale” ci vuole un minimo di professionalità. Non basta essere nominato capo per
saper fare il dirigente. Né essere definito “direttorissimo” per saper fare il direttore. Beh, buona giornata.

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Un brutto momento per la lobby del nucleare in Italia.

E’ passata sotto silenzio la decisione del Giuri, l’organo di autocontrollo della pubblicità italiana circa l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario firmato dal Forum nucleare. Vi ricorderete che persone giocavano a scacchi, i bianchi a favore i neri contro la reintroduzione del nucleare in Italia. Il Giuri ha appunto censurato questa campagna.

Non è che mi faccia piacere: sono stato più volte “utente” delle decisioni del Giuri. Cose che succedono. Il fatto è che le tesi sostenute dalla campagna non stanno in piedi. Infatti, quelle teorie sono crollate dopo il terribile terremoto e il successivo tsunami che ha funestato il Giappone. E la cosa terrificante è che alla fine delle cause “naturali” della sciagura, cominciano le cause “umane” della sciagura.

Vale a dire la presunzione di poter controllare la scissione dell’atomo per produrre energia. Il fatto eclatante è che il Giappone, a distanza di 65 anni sta pagando le due versioni storiche dell’uso dell’atomo: vittima fu dell’uso “militare” dell’energia atomica (Hiroshima e Nagasaki), è attualmente vittima dell’uso “civile” dell’energia atomica: stanno esplodendo centrali nucleari a Fukushima.

Un caso più unico che raro di preveggenza dell’Istituto di autodisciplina? Una forzatura della verità da parte del committente, il Forum? Propendo per la seconda ipotesi, anche perché così potrebbero essere in essere attenuanti verso l’agenzia di pubblicità che ha concepito la campagna degli scacchi. Nella quale si vedeva uno scacco matto. Che nella realtà è uno scacco pazzo, pazzo come il Dottor Stranamore, film indimenticabile del sempiterno Kubric. Non credo che il mio amico Chicco Testa sia un novello Stranamore. Penso invece che attualmente la realtà rischia molto seriamente di superare la più sfrenata fantasia. Quando uscì nelle sale cinematografiche ‘Sindrome cinese’ (regia di James Bridges, con Michael Douglas, Jane Fonda e Jack Lemmon), film che pregonizzò l’incidente nucleare a di Three Mile Island, avvenuto lo stesso anno, nel 1979 negli Usa.

La sindrome cinese è la capacità teorica che la fusione del nocciolo possa perforare da parte a parte il globo terrestre. A Fukushima si sta rischiando la fusione, per il quale motivo si rilasciano fuoriuscite controllate, cercando di dosare il sovrariscaldamento del nocciolo delle centrali. Cominciano a contarsi “danni collaterali” di questa strategia: sono vittime umane. Tra “sindrome cinese” e “strategie giapponesi” il problema è: la smettiamo una volta per tutte di fare pubblicità radioattiva? Beh,buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La pubblicità, il pane fresco che si fa tutti i giorni.

“Per il mio Paese faccio sacrifici. Che non mi troverei a fare se fossi un privato cittadino”. Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa a palazzo Chigi dopo il consiglio dei ministri. “Mi hanno chiesto a che punto erano i miei denti (dopo l’aggressione di Milano, ndr). Non sono ancora riuscito a mettere l’altro dente perché – ha spiegato – ho il nervo scoperto che non guarisce. E questo per me è un sacrificio grande, un rischio a cui sono andato incontro e che, se fossi stato un privato cittadino, non avrei corso. A questo punto il presidente del consiglio ha mostrato, a bocca aperta, il dente mancante ai giornalisti.

Questo è un lampante esempio di pubblicità-intrattenimento: il prodotto si mostra al pubblico, cercando di stupire, di spiazzare. Siamo proprio sicuri che questo sia il futuro dell’advertising? Lo chiedo non solo perché la stragande maggioranza dei consumatori italiani sanno bene quanti ‘sacrifici’ bisogna fare per pagare il conto del dentista. Ma lo chiedo a chi sostiene che il futuro dell’advertising sia intrattenere e non invece informare sulle virtù della marca, attraverso gli espedienti dell’esagerazione, del rovesciamento, dell’iperbole tipici del linguaggio della pubblicità. Quegli espedienti che sono convincenti proprio perché dichiaratamente sono pubblicitari, dunque innocui, non invasivi, in definitiva accettabili. La pubblicità cerca affetto, stima, atteggiamenti positivi, come ci insegnava Pirella.

Se la pubblicità diventa coercizione del consenso sprofonda nella propaganda. La propaganda è un assordante rumore di fondo. La pubblicità è la costruzione della reputazione, esercitata attraverso il rendere pubblico le qualità dei prodotti, il talento dei marchi. Con irriverenza, ma buon gusto. Ecco perché l’intrattenimento è attività effimera, mentre la pubblicità è una cosa concreta. Insomma, tanto per rimanere in tema, sarebbe come avere il pane, ma non i denti. Beh, buona giornata.

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Alstom, Ansaldo Nucleare, Areva, Confindustria, Eon, Edf, Edison, Enel, Federprogetti, Gdf Suez, Sogin, Stratinvest Ru, Techint, Technip, Tecnimont, Terna, Westinghouse: Chicco che ti sei messo in Testa?

Pubblicità sul nucleare: diteci chi paga quei 7 milioni di euro, di Oliviero Beha

Qualche tempo fa il Ministro Brunetta aveva avuto un’idea tutt’altro che trascurabile: per i programmi tv della Rai nei titoli di coda far scorrere anche i compensi dei singoli, conduttori, autori, ospiti, i costi di produzione, ecc. La cosa finì lì, perché da un lato sembrava una mossa del centrodestra, che governa la Rai dopo la vittoria elettorale come vuole il nostro splendido costume, contro Santoro e le trasmissioni anti-governative.

Governo che ricordo presieduto dal proprietario di altre tre reti in chiaro, più un vasto pacchetto analogico più altri ammennicoli che qui o mi sfuggono o mi faccio sfuggire per farla corta. E dall’altro non se ne fece nulla per oggettive ragioni di psicologia collettiva, di radicate abitudini, di foschia antropologica: non è forse vero che la trasparenza sembra non convenire a nessuno in un Paese anticalvinista che ha un pessimo rapporto con il denaro, in una sorta di post cattolicesimo alla Dio Mammone?

Che cosa mi fa venire in mente quell’uscita di Brunetta presto evaporata tra le polemiche? La storia degli spot tv sul “nucleare sì/ nucleare no” che ormai da un bel po’ campeggiano sui nostri teleschermi (anche alla radio, anche su internet? Controllerò). Sono spot della Saatchi&Saatchi, dubbiosi, problematici, ben fatti da un certo punto di vista. Del resto non si ripete spessissimo che la parte migliore ovvero meglio fatta, più curata della tv, è la pubblicità? E nel processo di produzione delle merci abbinate ai mezzi di comunicazione, in primis la televisione, la pubblicità non gioca un ruolo decisivo?

Voglio dire che si potrebbe sostenere che oggi non sia la pubblicità a essere una condizione essenziale per il capitalismo degli anni Tremila ma il capitalismo un pretesto colossale per il mulino della pubblicità, che sia bianco o no cambia poco. Viviamo ormai una vita pubblica e pubblicitaria, nella quale gli spazi privati si sono ridotti all’osso, per scelta consenziente oppure no, per distrazione, per abitudine delle masse di consumatori. Dei prodotti pubblicizzati. Della pubblicità che li rende visibili aumentandone a dismisura il costo.

Seguendo Brunetta, forse bisognerebbe pretendere che per ogni spot pubblicitario ci fosse la scritta o la dicitura di chi paga quella pubblicità specifica. Che la Barilla produca i suoi spot è ovvio, dunque non è questo il caso in questione e tutti i produttori di qualcosa immediatamente collegabile al marchio dei loro prodotti naturalmente restano fuori da questo discorso. Ma la pubblicità ambigua o dialogica o dialettica (anche qui, dipende dal punto di vista) sulla scelta del nucleare in un Paese che lo ha comunque rigettato con un referendum popolare, bella o brutta che sia, chi la paga? Da Il Fatto di ieri l’altro ecco l’elenco di chi paga: Alstom, Ansaldo Nucleare, Areva, Confindustria, Eon, Edf, Edison, Enel, Federprogetti, Gdf Suez, Sogin, Stratinvest Ru, Techint, Technip, Tecnimont, Terna, Westinghouse.

Un budget di 7 milioni fino ad oggi, non si sa di quanto per l’anno appena cominciato. I dirigenti del Forum sono, oltre a Chicco Testa, Bruno D’Onghia (capo in Italia dell’Edf, gigante elettrico nucleare francese), Karen Daifuku (nota lobbista internazionale del settore), e tre dirigenti Enel: Giancarlo Aquilanti, Paolo Iammatteo e Federico Colosi. Tra i soci del Forum ci sono anche Cisl e Uil di categoria, più alcune Università italiane. L’associazione è fondata sul “supporto organizzativo e strategico” della Hill & Knowlton, multinazionale della comunicazione.

Il Presidente del Forum nucleare italiano che è dietro a tutta l’operazione, compresa la pubblicità di cui sto parlando, non è un profano. Citando Il Fatto ma anche la mia memoria: “Testa conosce l’argomento. L’Enel l’ha scelto per sanare i danni gravissimi da lui stesso prodotti alla cultura nucleare nazionale negli anni ‘80, quando guidava le manifestazioni per fermare le centrali. E’ lui che il 9 novembre 1987, deputato comunista, così commentava l’esito del referendum nucleare: ‘Il risultato è di grandissimo interesse politico.

La battaglia è stata dura per i grossi interessi in campo'”. Insomma, Chicco si è sistemato e da un pezzo.
Capita l’antifona? Allora forza, se la pubblicità si sta mangiando l’informazione non vale la pena che almeno si sappia se gli spot sull’Avis sono prodotti dal Conte Dracula? Non è il minimo della pena, per capirci qualcosa? E se ci fossero spot prodotti dagli antinuclearisti, non credete che pretenderei la stessa trasparenza? Viva Brunetta, dunque, e abbasso Testa se non mi mette in tv (con chiarezza assai superiore e meno subliminale del contenuto sceneggiato) che gli spot sul nucleare sono prodotti dal medesimo business del nucleare. Me li metta in sovrimpressione, prego. Il resto sono chiacchiere.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Buon Natale agli italiani vittime dell’Italia delle bugie, bugie grosse come il ponte sulla Stretto di Messina.

FS, incubo di Natale sull’intercity- repubblica.it

Sette ore e mezza senza WC. Partiti da Milano alle 7:05 di questa mattina e diretti a Reggio Calabria, i viaggiatori dell’Intercity 1589 si sono ritrovati su un convoglio privo di bagni agibili. Solo a Roma e a Formia il treno ha sostato per quasi un’ora per permettere loro di utilizzare i servisi delle stazioni, accumulando un forte ritardo. Surreale giustificazione di un capotreno: “Forse è colpa dei passeggeri: utilizzano male le toilette”

Tra ritardi e malfunzionamenti, alle Ferrovie dello Stato non è mai servito molto per trasformare in un incubo la vigilia di Natale dei propri utenti. Ma questa volta è davvero difficile immedesimarsi nelle sofferenze provate dai passeggeri del treno Intercity 1589, partito stamani alle 7:05 da Milano e diretto a Reggio Calabria. In viaggio attraverso tutta la Penisola…senza bagni agibili.

Per quei malcapitati viaggiatori la “liberazione” giunge solo a metà percorso, dopo sette ore e mezza di viaggio, alle stazioni di Roma e Formia, dove l’altoparlante si rivolge direttamente a loro con questo annuncio: “Chi vuole usufruire delle ritirate si rechi al binario uno…”. E il personale delle ferrovie ha dovuto anche insistere per persuadere i clienti ad abbandonare le carrozze per raggiungere i servizi delle stazioni.

“Da dieci ore non bevo e non mangio, sapendo di non poter contare su una toilette – racconta Daniela -. E’ vergognoso, sono partita da Milano e devo andare a Palermo: una vigilia di Natale in queste condizioni proprio non me l’aspettavo. E ho avuto paura di scendere, temevo che il treno ripartisse senza di me”. Maria Lucia, altra testimone diretta dell’incredibile situazione. “A Formia abbiamo sentito questo annuncio anni Venti – ricorda -, ci invitavano a ‘usufruire delle ritirate’ lasciando il treno. E’ pazzesco. E nei bagni non c’è nemmeno acqua”.

A Napoli il treno giunge con un’ora e venti di ritardo e con i passeggeri ormai rassegnati.
“Ci sono state due lunghe soste – spiega Salvatore – una di cinquanta minuti a Roma, l’altra di quaranta a Formia, e ora siamo fermi qui, dove finalmente hanno ripristinato l’agibilità di un bagno, uno solo!”.

Sul treno, ovviamente, viaggiano anche bambini e anziani. “Mio marito è cardiopatico, ha subito tre operazioni di ernia – dice Maria – e sono un po’ spaventata all’idea di continuare il viaggio in queste condizioni. Noi siamo diretti a Lamezia”. Indignata anche una madre con le sue due figlie giovanissime: “Viaggiare così con due bambine piccole non è da paese civile”.

Ed è surreale scoprire, tra tante testimonianze, le parole di un capotreno che prova a giustificare così l’accaduto: tutti i bagni del convoglio sono inagibili per colpa “degli utenti: se i servizi sono inaccessibili è forse anche perché vengono utilizzati male”.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Pubblicità e mass media

Ciao, Enzo.

Una lapide a forma di balena-l’ultimo saluto a Enzo BaldoniCelebrati oggi, tra familiari, amici e colleghi, i funerali del freelance ucciso in Iraq nel 2004. I suoi resti, rientrati in Italia ad aprile, sepolti nel paesino dov’era cresciuto. L’epitaffio di Marguerite Yourcenar: “Ho avuto la buona vita di un cane al sole” – LUIGI BOLOGNINI-la Repubblica

Ci sono voluti sei anni, tre mesi e un giorno, ma eccoli i funerali di Enzo Baldoni. Ora il giornalista freelance e pubblicitario ucciso in Iraq nell’agosto 2004 è sepolto nel paesino umbro dov’era cresciuto, sotto una lapide a forma di balena (animale a cui aveva intitolato la sua agenzia di pubblicità, scherzando sulla propria mole), e intorno un paio di allegre girandole che girano. E una frase di Marguerite Yourcenar che finisce così: “Talvolta dico tra me e me che ho avuto la buona vita di un cane al sole con varie risse e qualche osso da rodere”. Una tomba allegra, com’era allegro, e in perenne ricerca di cose nuove da scoprire e conoscere, Baldoni, che a questa sua curiosità ha sacrificato anche la propria vita, ucciso da un gruppo di fanatici islamici al ritorno da una missione di aiuto alla città di Najaf, dilaniata dalla guerra civile del dopo-Saddam.

Quel che restava del suo corpo è tornato in Italia ad aprile, ma solo una decina di giorni fa – dopo controanalisi del Dna volute dalla famiglia, illusa e delusa molte volte – si è avuta la certezza che si trattava proprio di lui. “A quel punto – ha confessato la moglie, Giusi, in un breve discorso al termine della messa – la voglia era di una cerimonia privata, solo tra di noi. Ma adesso sono contenta di avere diviso il saluto finale a Enzo con così tanta gente che ha fatto così tanti chilometri”.

La piccola parrocchia di Santa Maria in effetti è piena, saranno 200 persone: molti abitanti di Preci, dove i Baldoni gestiscono un agriturismo, ma anche il coro milanese dove la stessa Giusi canta, l’inviato Rai Pino Scaccia, l’ultimo a vedere Enzo vivo, Enrico Deaglio, che ai tempi dirigeva Diario, il settimanale che aveva dato a Baldoni un accredito per raccontare la guerra irachena, e Giuliana Sgrena, la giornalista del Manifesto rapita a sua volta in Iraq. Pochissime istituzioni (il gonfalone e il sindaco del Comune di Preci, una corona della Provincia di Milano, e stop), il resto sono amici, colleghi, persone che l’avevano conosciuto anche solo per le sue attività da pioniere di Internet (aveva fondato una community, la Zonker zone, che tuttora raduna le persone a cui voleva bene) e da esploratore del mondo per hobby e per vocazione (era stato in Colombia, Chiapas, Timor Est), che in alcuni casi si conoscono dal vivo solo a messa finita.

Una cerimonia semplice, voluta dalla moglie in apparente contrasto con le volontà di Enzo, che ai tempi scherzosamente ma non troppo aveva invocato un funerale fatto di canti, balli, risa, scherzi, cibo e sesso, senza retorica. Ma si è fatto così pensando al papà di Enzo, Antonio, 88 anni, “e anche Enzo metterebbe il suo babbo al primo posto”, dice Giusi. Cerimonia semplice, trattenuta, senza lacrime e strepiti, e senza gli ormai inevitabili applausi all’entrata e all’uscita della bara (“è stato incredibile anche in questo”, commenta un amico), asciutta come le pareti color crema della chiesa di Santa Maria, come le parole del parroco che nell’omelia ricorda le “terre senza riposo, i corpi umiliati e martoriati” visti da Enzo.

Il resto sono ricordi personali, lacrime e sorrisi. Le stesse lacrime e gli stessi sorrisi di poco dopo, davanti a una tomba a forma di balena in un cimitero di campagna a mezza costa sui Monti Sibillini.
(Beh, buona giornata).

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