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La quarta crisi: contro Sky, Mediaset spinge la Rai ad autoinfliggersi “un danno emergente e un lucro cessante”.

Pacco dono per Mediaset di GIOVANNI VALENTINI-Repubblica.

Stupito, irritato, amareggiato. Il Capo dello Stato ha tutto il diritto di esprimere la propria delusione sulla “rottura annunciata” fra la Rai e Sky che priverà l’azienda pubblica di un ricavo di oltre cinquanta milioni di euro all’anno, in seguito al trasferimento dei canali Raisat su una nuova piattaforma satellitare. E in particolare, ha ragione Giorgio Napolitano a lamentarsi delle modalità con cui è maturato il fallimento della trattativa: una decisione per così dire unilaterale che la direzione generale ha praticamente imposto – come un diktat – a tutto il Consiglio di amministrazione.

In quanto custode e garante della Costituzione, il presidente della Repubblica non può evidentemente disinteressarsi di quel servizio pubblico su cui s’imperniano nel nostro Paese principi fondamentali come il pluralismo e la libertà d’informazione, sanciti solennemente dall’articolo 21. Anzi, con tutto il rispetto che si deve alla sua figura e alla sua persona, è lecito pensare che un intervento più tempestivo sarebbe valso forse a impedire o magari a prevenire un tale esito.

Danno emergente e lucro cessante, avevamo avvertito su questo giornale nelle settimane scorse, mentre già si preparava la rottura. Danno emergente: perché il prossimo bilancio della Rai s’impoverirà di questa cospicua entrata finanziaria e staremo a vedere che cosa avrà da eccepire in proposito la Corte dei Conti. Lucro cessante: perché, oltre a perdere l’audience e quindi la pubblicità raccolta attraverso la pay-tv, ora l’azienda di viale Mazzini dovrà sostenere “pro quota” l’onere della nuova piattaforma di Tivùsat. E tutto ciò, in buona sostanza, per fare un favore o un regalo a Mediaset nella sfida della concorrenza con Sky, come ha riconosciuto – tardivamente – perfino il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, Sergio Zavoli.

Si dà il caso, così, che l’ex segretario generale della presidenza del Consiglio, appena trasferito alla direzione della televisione pubblica, non trovi di meglio che confezionare subito un pacco-dono per l’azienda televisiva privata che fa capo allo stesso presidente del Consiglio. Un voto di scambio o una partita di giro, si potrebbe anche dire. Naturalmente, a spese del cittadino contribuente, telespettatore e abbonato alla Rai. Come già a suo carico era stata la multa di oltre 14 milioni di euro inflitta dall’Autorità sulle comunicazioni a viale Mazzini per la nomina dell’ex direttore generale, Alfredo Meocci, insediato alla guida dell’azienda dal centrodestra nonostante la palese incompatibilità con il precedente mandato di commissario nella medesima Authority.

Con buona pace del presidente Garimberti e dei consiglieri di minoranza, siamo dunque alla definitiva subordinazione della Rai agli interessi e alle convenienze di Mediaset. Un’azienda di Stato, la più grande azienda culturale del Paese, che via via si trasforma in una filiale, una succursale, una dépendance del Biscione. Già omologata al ribasso sul modello della tv commerciale, quella della volgarità e della violenza, delle veline e dei reality fasulli, adesso la tv pubblica si allea e si associa con il suo principale concorrente sotto il cielo tecnologico della tv satellitare.

Sarà verosimilmente proprio di fronte a questo scempio che il centrosinistra, risvegliandosi da un lungo e ingiustificabile letargo, s’è deciso finalmente a riproporre con forza la questione irrisolta del conflitto d’interessi: prima, con una dichiarazione di guerra del segretario reggente del Pd, Dario Franceschini, il quale ha annunciato bellicosamente che su questa materia (e speriamo anche su altre) il suo partito non resterà più fermo e silente; poi, addirittura, con una proposta di legge presentata da Walter Veltroni e sottoscritta da tutte le opposizioni, sostenuta dal contributo di un esperto costituzionalista come l’ex presidente della Rai, Roberto Zaccaria. Meglio tardi che mai, dobbiamo ripetere. Ma che cosa avevano fatto nel frattempo Veltroni e Franceschini per risolvere l’anomalia di un presidente del Consiglio che controlla direttamente tre reti televisive private e indirettamente anche le tre reti pubbliche? E pensare che c’è ancora qualche illustre professore che esorta il Pd a emanciparsi dall’influenza di “alcuni giornali” (quanti e quali?), mentre una maggioranza di governo condiziona impunemente giornali, telegiornali e giornali radio.
Nel regno del conflitto d’interessi, la rottura fra la Rai e Sky diventa la prova regina di un’occupazione “manu militari” di tutto il sistema dell’informazione. Un attentato al pluralismo, alla libertà d’opinione. E anche questa, purtroppo, si rischia di apprezzarla solo quando la si perde. (Beh, buona giornata).

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Tv italiane: ecco un gran casino.

Sky, Rai, Mediaset, digitale terrestre. Ecco come cambia-blitzquotidiano.it

Per gli spettatori italiani è un periodo di grandi cambiamenti. Una girandola di sostituzioni, diritti non acquisti, nuove concessioni, stanno modificando il panorama dell’offerta televisiva di tutti noi.

A cambiare nuovamente le carte in gioco interviene adesso un ‘annuncio di Sky che, in maniera irrituale, annuncia un divorzio probabilmente irreparabile: dal 1 agosto i canali di RaiSat non saranno più visibili sulla piattaforma satellitare di Sky.

Cosa faranno allora gli appassionati di RaiSat, il canale recipiente del David Letterman Show, i cuochi amatori, fedeli seguaci del Gambero Rosso, i giovanissimi telespettatori, allettati dall’offerta di Yoyo e Smash Girl? Per adesso stanno a guardare, aspettando le decisioni che il Cda di Viale Mazzini dovrebbe dare nei prossimi giorni, quando la Rai, ingolfata dalle nomine e paralizzata dai problemi di salute del suo Dg, si desterà dal torpore estivo di questi giorni.

Ma cosa si può già sapere che cambierà nell’offerta della nostra Tv?

La tv satellitare di Murdoch sostituirà i dieci canali ospitati di Rai Sat con una nuova programmazione. Vedremo alloratra i nuovi canali, Sky Cinema Italia, dedicato ai film italiani (si comincia con il restauro del Gattopardo di Luchino Visconti), e poi Fox Retro, con i telefilm più celebri del passato, Nick Junior, Baby Tv, il canale di casa Fox per i piccolissmi, Lady Channel, per le signore. Inoltre il David Letterman Show della Cbs resterà sulla piattaforma Sky, che, subodorando un cattivo esito delle trattative con la Rai, aveva già acquistato i diritti per lo spettacolo dell’intrattenitore newyorchese.

Per la tv generalista italiana sono previsti altri cambiamenti. Mediaset, Rai e La7 stanno presentando la loro offerta satellitare, per ora gratuita e visibile sul normale digitale terrestre. Il decoder cui hanno affidato la commercializzazione del loro prodotto, TivùSat (prezzo 100 euro fornito, per adesso, dalle marche Humax, Abn e Telesystem), permetterà di vedere sia il digitale terrestre sia i canali satellitari TivùSat. Chi riceve il digitale terrestre vedrà tutti i canali gratuiti di Rai, Mediaset e La7.

Nel corto periodo di fatto potrebbe non cambiare quasi nulla dal digitale terreste al digitale satellitare Rai-Mediaset-La7. Chi ha già comprato il decoder del digitale terrestre può fare a meno di comprare quello di TivùSat, vedrà comunque tutto. Chi comprerà il decoder di TivùSat vedrà tutto ma dovrà avere la parabola. Chi ha solo la parabola e vede tutto con l’abbonamento a Sky per adesso può fare a meno di comprare il decoder di TivùSat ma può darsi che un domani sia obbligato a farlo.

Aspettando gli inevitabili sviluppi, si delinea sempre più l’allontanamento di Rai da Sky e il seguente consolidamento dell’alleanza Rai-Mediaset-La7.

TAG: baby tv, cbs, david letterman show, decoder, digitale terrestre, fox retro, gambero rosso, gattopardo, luchino visconti, mediaset, murdoch, nick junior, parabola, rai, satellitare, sky, sky cinema italia, smash girl, tivù sat, viale mazzini, yoyo

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Dice che da settembre ci saranno segnali di ripresa. A forza di tagliare, mi chiedo che cosa ci sarà da riprendersi.

Una scombinata combriccola di incapaci entra notte tempo all’Ikea vicino Napoli, piazza una carica davanti alla cassaforte e boom! manda a puttane tutto l’incasso del week end. Tanto rumore per nulla: hanno mandato in fumo un paio di centinai di migliaia di euro.

I giornali ci hanno scherzato su, citando il famoso film “Audace colpo dei soliti ignoti” di Nanni Loy. A me è venuto in mente un altro film, che va in loop da tempo. Un manipolo di audaci manager della pubblicità italiana da qualche anno a questa parte entra in ufficio e patatrac! perde clienti, manda a casa gente, distrugge valori economici e professionali.
I “soliti ignoti” dell’arcinoto film si accontentarono di un piatto di pasta e ceci. Questi qui sono insaziabili come locuste: triturano tutto quello che capita loro sotto i denti, lasciandosi dietro un desolante panorama di distruzione. Ma cècati! se a qualcuno viene in mente che distruggendo non si costruisce un bel niente, men che meno un’onorevole via d’uscita dalla crisi che incombe pesante come il coperchio di un tombino di ghisa sulla pubblicità e sui media.

Ma, tant’è, questo è quello che ci offre questa arida estate della pubblicità italiana. Se tutto va bene, attenzione, ho detto proprio tutto, l’obiettivo è al massimo proteggere i margini e registrare un calo minore rispetto alla media del mercato. E a culo tutto il resto! Il che è un bel paradosso. In un momento in cui i clienti, come minimo, sono sparagnini, dunque anch’essi, per proteggere i propri margini non investono in comunicazione, che cosa fanno le Agenzie?: semplice, fanno lo stesso.

Però, se tutti fanno la stessa cosa, come si crede di uscire dalla crisi? Va avanti tu che a me mi scappa di ridere? Se ognuno aspetta che sia l’altro a fare la prima mossa, stiamo davvero freschi. Sarà pure un’estate calda, ma questo modo di stare freschi ve lo potete pure tenere. Dice che da settembre ci saranno segnali di ripresa. A forza di tagliare, mi chiedo che cosa ci sarà da riprendersi. Beh, buona giornata.

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Per fermare la recessione basta la televisione?

L’indice di fiducia dei consumatori mondiali è salito da 77 a 82 punti secondo i risultati della “Consumer confidence survey”, la ricerca trimestrale condotta da Nielsen a fine giugno. La ricerca dice anche che è calata la percentuale dei consumatori che pensano che il proprio Paese sia in recessione: dal 77% di aprile all’attuale 71%.

In Europa è l’Italia insieme alla Gran Bretagna a segnare il maggior incremento nell’indice di fiducia che passa dai 70 punti di aprile ai 77 di giugno.

“Per quanto riguarda il nostro Paese – ha dichiarato Stefano Galli, Amministratore delegato di Nielsen Italia – il dato di giugno segna una inversione di tendenza del clima di fiducia che torna a posizionarsi sui livelli della fine del 2007”. L’incremento di 7 punti nell’indice di fiducia sarebbe anche legato ai messaggi più rassicuranti e alle decisioni prese a supporto delle famiglie e delle imprese da parte del governo nell’ultimo periodo e alla forte caduta della pressione mediatica sul tema della crisi.

“A questo riguardo i buzz online- ha detto Galli- le discussioni in rete contenti la parola ‘recessione’ sono infatti diminuiti del 35% , come dimostrano i dati Nielsen”.

Insomma, per far risalire gli indici della fiducia dei consumatori italiani bisogna prendere due piccioni con una fava. Vale a dire: la tv deve sempre parlar bene del governo, i giornali non devono mai parlar male della crisi.

Le cose vanno male lo stesso, visto che il 20% degli intervistati si dice molto preoccupato per la possibile perdita del posto di lavoro, come rilevato da Nielsen. Però almeno l’indice della fiducia risale.

Ci sarebbe da chiedersi: a che serve l’indice della fiducia, se è basata sulle mezze verità di giornali e televisioni? Oh, bella: serve proprio ai giornali e alle televisioni, che potrebbero riprendere ad accogliere la pubblicità delle aziende, convinte che se uno ha fiducia nella ripresa, riprende a spendere.

Uno potrebbe dire: ma se la tv parla bene del governo e i giornali non parlano male della crisi, non è che questo è un bel modo per manipolare la realtà? Sì certo: ma secondo una certa “scuola di pensiero” molto in voga da noi in questi mesi, è proprio questa la fava di cui ai due piccioni, cioè giornali e televisioni. O no? Beh, buona giornata.

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La quarta crisi spinge la pubblicità verso Internet, frenano centri media, agenzie di pubblicità e l’entablishment dei media italiani.

(da Affaritaliani.it)
Si tiene oggi, mercoledì 15 luglio al Salone delle Fontane, all’zona Eur, lo Iab Forum Roma 2009, evento dedicato alla comunicazione interattiva. Fra gli interventi più attesi c’è Layla Pavone, presidente di Iab Italia e managing director Isobar Communications, che con Affaritaliani ha fatto il punto in questa intervista dello stato della pubblicità online in Italia, nel contesto di una crisi che sta penalizzando fortemente pressoché tutti i media con la sola eccezione della Rete.

“Questa crisi – spiega Layla Pavone – ha portato le aziende a incrementare l’attenzione ai costi, a dove mettere ogni euro investito. E internet si conferma un mezzo che genera efficacia ed efficienza, completamente misurabile, permettendo fra l’altro variazioni e cambiamenti ‘in tempo reale’ e quindi un’ottimizzazione ‘strada facendo’ degli investimenti. Una flessibilità che tutti gli altri media non hanno. E poi ci sono le grandi possibilità che il web offre da qualche anno a questa parte con la diffusione della banda larga, ormai giunta anche in Italia a un livello di penetrazione rilevante favorendo l’utilizzo di internet come medium di entertainment, oltre che di informazione e di utilità”.

Quindi stiamo entrando in una nuova fase di internet…
“Sì. Fino a qualche tempo fa la caratteristica di ‘utilità’ era predominante. Oggi questo è acquisito, i consumatori si basano sul web quando devono informarsi ad esempio su un prodotto, non importa se poi lo acquisti online o offline. Ora sta crescendo moltissimo tutta l’area dell’entertainment, che va dalla visione di video al gioco, fino all’ascolto di musica, trasformando la Rete in un medium ‘caldo’. Questo ha incrementato il tempo passato online dagli utenti, tempo che oggi è mediamente è di un’ora e mezza a persona. Un dato assolutamente rilevante; e per le aziende oggi è fondamentale indirizzare gli investimenti pubblicitari là dove sono gli utenti”.

Insomma, in questo contesto di crisi le aziende investono meno soldi, ma quelli che investono li indirizzano maggiormente su un medium “cost effective” come internet…
“Assolutamente sì”.

Ma se le aziende hanno capito le potenzialità di internet come mezzo pubblicitario, secondo lei i centri media lo hanno capito altrettanto? Spesso gli editori digitali lamentano una scarsa propensione a ridistribuire gli investimenti pubblicitari verso i media digitali da parte di chi gestisce i grandi budget.
“I centri media sono stati certamente i primi ad avere un’attenzione e una sensibilità strategici per l’importanza di internet, dal momento che svolgono continuamente analisi sui consumatori. Fanalini di coda in questo movimento sono piuttosto le agenzie creative, per quanto stiano ora cercando di recuperare il terreno perduto: queste sii sono arroccate nel difendere l’autorevolezza conquistata ai tempi in cui la televisione pesava moltissimo sugli investimenti pubblicitari, quando si pensava che per fare una campagna pubblicitaria bisognasse necessariamente partire da uno spot televisivo. Oggi le cose sono completamente cambiate ma le agenzie creative se ne sono rese conto in ritardo. Poi certo, nessuno è mai contento, capisco che gli editori digitali vogliano di più. Ma, più che con i centri media, bisognerebbe prendersela con l’entablishment dei media italiani…”

Tornando a parlare di pubblicità online, bisogna comunque distinguere fra display, search, viral…
“Sicuramente restano trainanti search e display, che rispondono a obiettivi diversi di marketing e comunicazione. Il primo ha la funzione di traghettare in brevissimo tempo l’utente verso l’informazione che sta cercando, anche se di carattere commerciale. Quindi l’azienda deve farsi trovare al posto giusto, nel momento giusto, quando un navigatore ricerca informazioni su prodotti e servizi. Dall’altra parte il ruolo del display è legato al concetto di awareness, di ‘ricordo’ e di coinvolgimento emozionale, detto che – come dicevamo – internet sta diventando un medium ‘caldo’, capace di trasferire la stessa ’emozionalità’ che è sempre stata riconosciuta alla televisione. Senza ovviamente escludere la possibilità di generare, attraverso un click, un coinvolgimento diretto che nessun altro mezzo consente. Attenzione: questa classificazione fra mezzi e tipologie di advertising è importantissima ma non deve escludere le numerose sinergie possibili, che garantiscono risultati decisamente superiori rispetto all’utilizzo di un singolo veicolo. Ad esempio le ricerche dimostrano che esiste sinergia fra tv e search o fra search e display online”.

Ultimamente, poi, le aziende mostrano una certa attenzione per i social network: solo una moda del momento?
“E’ un mondo ancora tutto da esplorare e sperimentare. Al di là dei cosiddetti fan page, brand channel e in generale pagine che sono riconducibili a siti web ‘evoluti’ in termini di engagement in quanto ospitati all’interno di social media, se un’azienda vuole investire su un social network non fa altro che investire in pubblicità tabellare. Il che va benissimo, ma ci sono molte altre potenzialità da esplorare in questo settore. E si faranno sicuramente degli errori, come ne sono stati fatti nel momento del boom di Second Life: i social media realtà che raccolgono milioni di persone, è vero, ma quando si parla di business bisogna avere le giuste competenze per ‘prendere le misure’ a questi strumenti, altrimenti si rischiano grandi cantonate…”

Questo Iab Forum si tiene proprio nel pieno del dibattito scatenato dalle dichiarazioni di Rupert Murdoch, secondo il quale l’informazione online dovrà muoversi verso il modello a pagamento, visto che le risorse pubblicitarie non sono sufficienti a coprirne i costi. Si va verso un’integrazione fra advertising e fee per i contenuti online?
“In parte sì e in parte no. Non credo sia più possibile tornare indietro e far pagare ciò che per 10-15 anni l’utente ha avuto gratuitamente, anche perché sull’informazione online c’è una concorrenza agguerritissima che mi consentirà sempre di trovare, gratis, le notizie veloci, in pillole. Anche attraverso gli user generated content. Le opportunità del pay si profilano piuttosto per quei gruppi editoriali molto forti e consolidati, che hanno un patrimonio di contenuti a valore aggiunto, di qualità, il cui valore può essere sfruttato per generare ricavi”.

Ma i grandi editori sembrano ancora restii a spostare l’attenzione verso il digitale, anche se nell’attuale situazione di crisi qualcosa si sta muovendo…
“Finora, sia all’estero sia in Italia, si sono perse moltissime opportunità in questo senso. Ci sono realtà che potrebbero ‘pacchettizzare’ i loro contenuti di valore e offrirli a pagamento su internet, ma non lo hanno fatto principalmente perché le varie divisioni in cui sono organizzate non riescono a mettersi d’accordo per mettere a fattor comune il patrimonio di cui queste aziende dispongono. Credo che la situazione sia abbastanza chiara: o si fa un atto di umiltà e si mettono da parte le barriere, oppure morti e feriti non mancheranno”.
(Beh, buona giornata).

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Se la pubblicità fa i conti senza l’oste: il consumatore.

Secondo l’Istat la spesa media mensile per famiglia è stata pari a 2.485 euro, praticamente invariata in termini nominali rispetto all’anno precedente (+0,2%), ma in netto calo se si tiene conto dell’inflazione

Nel 2008 la spesa media mensile per famiglia è stata pari a 2.485 euro, praticamente invariata rispetto all’anno precedente (+0,2%). Il dato emerge dall’analisi annuale dell’Istat sui consumi delle famiglie. La variazione, che tiene conto del tasso di inflazione pari al 3,3%, mette in evidenza la netta flessione della spesa in termini reali.

Lo scorso anno, la spesa per generi alimentari e bevande si è attestata sui 475 euro, circa 9 euro in più rispetto al 2007. Il risultato sembra essenzialmente dovuto alla sostenuta dinamica inflazionistica dei generi alimentari (+5,4%). Le famiglie hanno però cercato di contenere le spese: più del 40% delle famiglie ha dichiarato di aver limitato l’acquisto o di aver scelto prodotti di qualità inferiore o diversa rispetto all’anno precedente (la percentuale è del 43,4% se si considera l’acquisto di pane; il 49,2% per la pasta, il 55,7% per la carne, il 58% per il pesce e il 53,7% per frutta e verdura).

Le spese familiari per generi non alimentari passano dai 2.014 euro del 2007 ai 2.009 euro del 2008. Aumentano le spese per combustibili: la composizione percentuale rispetto al totale della spesa passa dal 4,7% del 2007 al 5,2% del 2008. L’aumento è determinato, spiega l’Istat, da un lato dalla spesa contenuta nel 2007 e dall’altro dalla sostenuta dinamica dei prezzi per combustibili nel 2008.

Analizzando la situazione a livello territoriale si riscontra una sostanziale stabilità del livello di spesa in termini nominali: nel Nord la spesa media mensile delle famiglie è stata pari a 2.810 euro (+0,5% rispetto al 2007), nel Centro a 2.558 euro (+0,7%) e nel Mezzogiorno a 1.950 euro (-1%). Beh, buona giornata.

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La quarta crisi premia The Economist.

Mentre la maggior parte delle testate soffre per il pesante calo degli investimenti pubblicitari, The Economist Group, l’editore inglese di The Economist, e Axel Springer, il gruppo tedesco che pubblica tra gli altri Bild Zeitung , il quotidiano più diffuso d’Europa, vantano un aumento nel numero di copie vendute e bilanci record, anche grazie all’on line.

Mentre la maggior parte delle testate soffre per il pesante calo degli investimenti pubblicitari determinato dalla crisi che ha investito l’economia mondiale, ci sono due editori che possono essere ben contenti dei propri risultati: si tratta, come si apprende da una notizia pubblicata oggi, 14 luglio, sul sito del Corriere della Sera , di The Economist Group, l’editore inglese di The Economist, e di Axel Springer, il gruppo tedesco che pubblica tra gli altri Bild Zeitung , il quotidiano più diffuso d’Europa.

The Economist Group, che nel suo portafoglio vanta, oltre alla testata ammiraglia, mensili specializzati, alcuni siti internet, l’Economist Intelligence Unit, Roll Call (ovvero il notiziario del Congresso Usa, ndr.) e Capitol Advantage , ha chiuso l’anno fiscale lo scorso 31 marzo con un bilancio record. E pensare che nel 2006 era proprio The Economist, che oggi diffonde quasi 1,4 milioni di copie, a fare previsioni in merito alla scomparsa dei quotidiani, che sarebbe avvenuta, secondo il giornale, nel 2043.

L’altra eccezione in questo momento difficile per la stampa è costituita da Axel Springer, che pubblica Bild Zeitung , Die Welt , le testate regionali di Amburgo e Berlino e gestisce alcuni portali, che fruttano già un sesto dei ricavi totali. Ebbene il Gruppo, 10.600 dipendenti e focus sui giornali legati al territorio, vanta ricavi per 2,7 miliardi di euro, e un utile di 571 milioni .

Pare che il punto di forza del Gruppo stia nella minore dipendenza dalla pubblicità rispetto alla concorrenza: l’adv porta a Axel Springer il 43% dei ricavi, mentre per gli altri Gruppi la percentuale sale al 54%, per non parlare dei piccoli annunci, che portano solo il 18% dei ricavi a Axel Springer e invece valgono per oltre la metà del fatturato in Germania e Regno Unito. Beh, buona giornata.

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Crescono i ricavi, scendono i profitti: la Bbc assaggia la quarta crisi.

L’azienda interamente posseduta da British Broadcasting Corporation (BBC) ha visto i propri ricavi crescere del 9.5% rispetto ai 916,3 milioni di sterline dei 12 mesi chiusisi il 31 marzo 2008. Il profitto operativo è sceso del 12,8% (da 117,7 milioni di sterline a 102,6 milioni) a causa di investimenti organici già programmati e altre voci straordinarie che hanno inciso sulla bottom line.

BBC Worldwide Ltd, ramo commerciale e filiale interamente posseduta da British Broadcasting Corporation (BBC), pubblica oggi, 14 luglio, la propria annual review relativa all’anno fiscale 2008/09.

L’azienda ha visto i propri ricavi crescere del 9.5% e superare il miliardo di sterline rispetto ai 916,3 milioni di sterline dei 12 mesi chiusisi il 31 marzo 2008. Il profitto operativo è sceso del 12,8% passando da 117,7 milioni di sterline a 102,6 milioni di sterline a causa di investimenti organici già programmati e altre voci straordinarie che hanno inciso sulla bottom line.

L’impatto dei costi straordinari ha generato profitto prima di interessi e tasse a 85,7 milioni di sterline (2007/08: 117,7 milioni di sterline). Si sono registrati profitti significativi in linea con l’aumento del turnover a partire da oltre 150 milioni di sterline. BBC Worldwide ha anche dato a BBC pagamenti pari a 68,8 milioni di sterline rispetto i 49,9 milioni di sterline dei precedenti 12 mesi che con investimenti diretti nei programmi e nei diritti detenuti da BBC hanno sostenuto la crescita del ritorno alla corporation di circa il 20% pari a oltre 170 milioni di sterline. Beh, buona giornata.

Nell’annunciare i risultati, John Smith (nella foto), chief executive di BBC Worldwide, ha commentato che queste cifre testimoniano il continuo rafforzamento del business a fronte di investimenti pari a circa 50 milioni di sterline in nuove iniziative e nell’ambito di uno scenario generale che vede l’industria dei media e dell’entertaiment in pesanti difficoltà.

L’azienda ha registrato progressi in tutti gli obiettivi di crescita strategici che si era prefissata:
– la quota di entrate generate fuori dal Regno Unito ha raggiunto il 51,3 rispetto il 48,6 per cento del precedente anno fiscale (obiettivo: due terzi entro il 2012)
– i ricavi dell’attività online sono aumentati dal 2.7% al 4.6% (obiettivo: 10% entro il 2012)
– sono stati lanciati 15 canali a marchio BBC e la potenzialità di produzione televisiva si è estesa a New York, Toronto, e Parigi (obiettivo: canali fast track e di business production)
– sono state garantite quote di minoranza ad un numero di case di produzioni indipendenti per fornire finanziamenti per la distribuzione dei diritti ed è stato acquistato dai partner FoxTel e Fremantle il rimanente 80% del canale di entertainment Uk.tv, joint venture australiana (obiettivo: utilizzare le acquisizioni per il raggiungimento del piano generale)

“BBC Worldwide ha dimostrato di possedere solidità di business e forza finanziaria in un anno difficile per l’intera industria, aumentando i propri ricavi di oltre un miliardo di sterline,e aumentando sostanzialmente i profitti per la BBC – ha aggiunto – Nonostante la situazione incerta e il forte investimento nelle diverse aree di business, siamo incoraggiati dalle prospettive di crescita e di performance delle operazioni principali e dei brand a livello mondiale”.

BBC Worldwide rimane in trattativa con Channel 4 in termini di una possibile joint venture. Smith ha spiegato che la diminuzione dei profitti della BBC Worldwide è dovuta all”investimento organico programmato e a due voci straordinarie: la svalutazione associata a Kangaroo , servizio di contenuti video online insieme a ITV e Channel 4, e il costo per 2 entertain, joint venture con la Woolworths Group pic per la distribuzione di dvd.

“Abbiamo continuato ad investire malgrado le impegnative condizioni di mercato. La nostra strategia di diversificare le aree di business e di territorio e i nostri continui investimenti in nuove opportunità, specialmente digitali, riflettono la nostra fiducia in BBC Worldwide nonostante le condizioni di mercato rimangano incerte per il resto dell’anno e per il 2010”, ha concluso John Smithl. Beh, buona giornata.

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RAI al bivio: Sky o Tivù Sat?

Rai-Sky/ Incontro chiave a Milano Masi-Mockridge per futuro tv di Stato sul satellite-blitzquotidiano.it

Incontro chiave, lunedì 13, tra Rai e Sky, per il rinnovo dei diritti per i canali Raisat (in scadenza il 31 luglio) e per il futuro satellitare di Raiuno, Raidue e Raitre. Il direttore generale Rai Mauro Masi, che riferirà nel cda di mercoledì 15 luglio, e l’amministratore delegato Sky Tom Mockridge erano a capo delle rispettive delegazioni. Fonti di viale Mazzini hanno definito il vertice, durato circa un’ora, “serio e concreto”.

Per i canali Raisat il rinnovo appare più che possibile, mentre per i canali “free” la Rai medita di mollare il gruppo di Murdoch in seguito alla formazione del nuovo consorzio “Tivù sat”, nato proprio per far concorrenza a Sky.

Tutto dipenderà dall’offerta economica di Sky: questa dovrà essere molto robusta, soprattutto perchè, come comunicato dall’authority per le comunicazioni, Sky ha già sorpassato Mediaset in quanto a ricavi e tallona la Rai (prima solo grazie al canone) molto da vicino. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: chi si compra Business Week?

Stando ad alcune indiscrezioni, il gruppo editoriale McGraw-Hill avrebbe preso la decisione di mettere in vendita il settimanale Business Week . Il gruppo avrebbe già affidato alla banca Evercore Partners il compito di cercare nuovi acquirenti. Attualmente, la testata è diffusa in 140 paesi e ha una readership di 4,8 mln di lettori.

La causa della vendita sarebbero le difficoltà economiche in cui verte il giornale, problemi causati dal crollo degli investimenti pubblicitari e dalla concorrenza del web. Infatti, nel primo trimestre 2009 la raccolta pubblicitaria ha subito un calo del 38%. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: le news on line hanno 10 milioni di utenti al giorno.

(fonte: advexpress.it)
Nielsen Online elabora e commenta i dati Audiweb del mese di maggio relativi ai siti di news, in particolare quelli di quotidiani, Tg e canali news dei principali portali. A maggio si rileva una lieve flessione della rete rispetto al mese di aprile: gli utenti medi giornalieri sono circa 10 milioni, il 5% in meno rispetto al mese di aprile.

Lo stesso trend si ritrova restringendo l’analisi alle news online, soprattutto perché il terremoto in Abruzzo del 6 aprile ha fatto registrare dei picchi di utenza in quel mese in quasi tutti i siti di notizie.

Considerando che il mese di maggio non ha avuto fatti di cronaca equiparabili a quel drammatico evento, si può dire che l’utilizzo di questa tipologia di siti è stato intenso anche a maggio. Stabili le prime tre posizioni della categoria. Repubblica.it rileva 930 mila utenti medi giornalieri, circa il 10% di tutti i navigatori attivi, e rimane sostanzialmente stabile rispetto al mese precedente. Ogni utente di Repubblica ha trascorso in media 6 minuti al giorno sul sito, visitando 13 pagine.

Molto simili i consumi medi giornalieri su Corriere della Sera, che però rileva una lieve flessione rispetto ad aprile, attestandosi a circa 790 mila utenti giornalieri. Al terzo posto, stabile a 660 mila utenti, si conferma Libero News. Il tempo medio giornaliero più basso (meno di 5 minuti) e il numero di pagine viste più elevato (17 per persona), confermano una specificità di fruizione dei contenuti, dovuta a notizie più brevi e rapide da consultare.

Mediaset.it TGCom, con oltre 400 mila utenti medi giornalieri e alti consumi del sito, si posiziona alla spalle dei tre grandi. Rispetto al mese di aprile però cede il passo alla Gazzetta dello Sport , che come tutti i siti di informazione sportiva nel mese di maggio rileva un forte incremento, per l’importanza degli eventi sportivi del mese: la fine del campionato italiano di calcio, le finali di Champions League e Coppa Uefa, il Giro d’Italia, l’inizio del Roland Garros oltre a notizie quali la rottura dei rapporti di Ancelotti con il Milan, l’esonero di Ranieri dalla Juventus e le prime voci di calciomercato.

Nonostante il grande incremento di utenza, rimane stabile all’undicesimo posto il sito del Corriere dello Sport mentre guadagna una posizione quello del TuttoSport, che arriva a sfiorare i 100 mila utenti medi giornalieri. Stabili al sesto e settimo posto ANSA e Il Sole 24 Ore, mentre Editrice La Stampa e Virgilio Notizie guadagnano entrambi una posizione ai danni di Yahoo! News , che scivola dall’ottava alla decima posizione.

Le prime evidenze sui dati Audiweb powered by Nielsen Online di giugno confermano il gradimento degli italiani per le notizie online, con ulteriori crescite rispetto ai dati di maggio per la maggior parte dei siti di news. Questo è da imputarsi sicuramente agli eventi del mese, dalle elezioni alla bufera scatenata dalle foto di Villa Certosa, ma è anche il segnale di un crescente apprezzamento per questa tipologia di informazione. Le news in digitale hanno infatti il vantaggio decisivo rispetto agli altri mezzi dell’aggiornamento in tempo reale, la possibilità cioè di verificare assiduamente nel corso della giornata l’evolversi degli avvenimenti rispondendo in tal modo al bisogno immediato di informazione degli utenti, soprattutto in circostanze di forte coinvolgimento. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: “Il gruppo Mediaset si è confermato leader sul mercato pubblicitario aumentando la sua quota dal 54,7 al 55,1 per cento, una posizione dominante che la stessa legge Gasparri, all’articolo 14, invita a valutare, e su cui attendiamo nei prossimi mesi la nuova istruttoria dell’Agcom, dopo il pubblico richiamo con cui tre anni fa ha pudicamente rinviato la questione.”

AGCOM E IL GIOCO DELLE TRE CARTE
di Michele Polo-lavoce.info

La relazione annuale dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni sottolinea la fine del duopolio televisivo con il sorpasso di Sky su Mediaset. Ma è un messaggio fuorviante. Perché nasconde l’evoluzione dell’audience tra i principali canali, vero indicatore di allarme rispetto al problema del pluralismo. La pay-tv è un modello di televisione che non ha bisogno di grandi livelli di pubblico. E mentre la scomparsa del mondo televisivo tradizionale è ancora lontana, Mediaset conferma la posizione dominante sul mercato pubblicitario, con una quota del 55,1 per cento.

Con qualche giorno di ritardo sulla data dovuta del 30 giugno, l’Autorità di garanzia per le comunicazioni ha presentato la sua Relazione annuale sul settore delle comunicazioni elettroniche e su quello dei media. Su quest’ultimo ci concentreremo, a partire dal messaggio forte che è stato subito ripreso dai giornali: la fine del duopolio, il sorpasso del gruppo Sky rispetto a Mediaset.
Spiace doverlo dire di un’Autorità che ha come compito istituzionale quello della sorveglianza sulla correttezza dell’informazione e sul pluralismo, ma questo messaggio è fuorviante, parziale e omissivo. Vediamo il perché.

I RICAVI E L’AUDIENCE

Il forte peso economico del gruppo Sky non è una novità, e già nella relazione dell’anno scorso lo poneva sostanzialmente alla pari con il gruppo Mediaset: rispettivamente 2.347 e 2.411 milioni di euro, contro i 2.729 della Rai. Con le correzioni apportate nel frattempo, si apprende nella relazione di quest’anno che il sorpasso era già avvenuto nel 2007 (2.422 a 2.411) e si è consolidato durante il 2008 (2.640 e 2.531). Un forte riequilibrio delle risorse tra Rai, Sky e Mediaset è quindi un dato che da almeno tre anni caratterizza il sistema televisivo italiano.
Ma questo messaggio forte ha lasciato in ombra alcuni aspetti che invece risultano importanti nel fare il quadro dell’ultimo anno televisivo. Il gruppo Mediaset si è confermato leader sul mercato pubblicitario aumentando la sua quota dal 54,7 al 55,1 per cento, una posizione dominante che la stessa legge Gasparri, all’articolo 14, invita a valutare, e su cui attendiamo nei prossimi mesi la nuova istruttoria dell’Agcom, dopo il pubblico richiamo con cui tre anni fa ha pudicamente rinviato la questione.
Ma il secondo dato che non troviamo nella relazione del presidente Calabrò è l’evoluzione della audience tra i principali canali televisivi, vero indicatore di allarme rispetto al problema del pluralismo. Il dato sorprendente è che, in una struttura della relazione che ripercorre fedelmente, tabella per tabella, gli stessi indicatori e le medesime analisi quantitative dello scorso anno, il testo si arresta alla descrizione delle quote di mercato nella raccolta pubblicitaria (Mediaset in posizione dominante) e in quella delle offerte televisive a pagamento (Sky superdominante col 91,1 per cento). La tabella successiva, che lo scorso anno riportava l’evoluzione della audience tra i diversi gruppi televisivi, è scomparsa dalla relazione. E bisogna con cura certosina stanare nella nota 22 a pagina 9 della presentazione del presidente Calabrò il dato prezioso: la audience complessiva di Rai, Mediaset e La7, pari al 83,9 per cento (!) ha ceduto nel 2008 una quota del 1,4 per cento di telespettatori al gruppo Sky, che con l’insieme dei suoi canali raggiunge quindi una audience media del 9,5 per cento.
Terminata questa faticosa cernita, possiamo quindi dire che il gruppo Sky si conferma secondo operatore per ricavi, pur rimanendo attestato su una audience sull’insieme dei suoi canali che non raggiunge un quarto di quella di Rai e Mediaset. Quest’ultima, inoltre, è riuscita con successo, grazie alla sua efficiente concessionaria, a contenere l’impatto negativo della crisi sui ricavi pubblicitari, al contrario di quanto avvenuto per la carta stampata e le reti televisive pubbliche.

IL PLURALISMO CHE NON C’È

Restano quindi i problemi che da anni caratterizzano il mercato televisivo italiano. La crescita indubbiamente positiva di un terzo operatore pay, il gruppo Sky, esercita principalmente un impatto sul mercato dei contenuti, dove la concorrenza per i diritti di trasmissione sui principali eventi sportivi, sui film, sui serial di successo e oggi anche per alcuni personaggi del varietà molto popolari, si fa sempre più accesa. Tuttavia, questo operatore, basato su un modello di ricavi (abbonamento da sottoscrizione) complementare a quello di Mediaset (pubblicità) e Rai (canone e pubblicità), riesce a consolidare la propria posizione economica senza la necessità di raggiungere elevati livelli di audience durante la giornata.
Un riequilibrio della audience, d’altra parte, sarebbe quello che potrebbe realmente portare a una maggiore articolazione delle scelte del pubblico, con un beneficio per l’obiettivo del pluralismo. Così, tuttavia, non è. E non lo è per ragioni tante volte commentate su questo sito. La pay-tv è un modello di televisione che non ha bisogno di grandi livelli di audience, e che erode selettivamente fasce di pubblico in determinati momenti, su determinati programmi, lasciando, almeno in una prospettiva temporale ancora lunga, gran parte dei telespettatori ai grandi canali generalisti. Le fughe in avanti di quanti vedono nel digitale, e nei molti canali che consente, la fine del mondo televisivo tradizionale non sono giustificate dalle forze economiche che governano il settore dei media né dai dati, se si ha l’accortezza di riportarli.
Per il pluralismo in Italia, anche quest’anno, profondo rosso. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: è utile e fattibile far pagare le news su internet?

Editoria on line/ Murdoch lo dice, gli altri lo fanno: il New York Times vuole mettere il suo sito a pagamento-blitzquotidiano.it

Rupert Murdoch l’aveva detto. Il magnate dell’editoria aveva predetto la fine delle notizie on-line gratis. Ora anche il New York Times, dall’alto del suo record di 18 milioni di contatti singoli al mese, sta valutando di far pagare l’accesso al suo sito, unica risposta al crollo dei profitti.

«Stiamo considerando la possibilità di introdurre una tariffa mensile di 5 dollari per accedere ai nostri contenuti, inclusi articoli, blog e multimedia» dice un annuncio pubblicato sull’ edizione cartacea del New York Times.

Non è la prima volta che il New York Times fa questo esperimento. Nel 2005 lanciò il “Times Select”, che introduceva una tariffa per l’ accesso ad alcune opinioni ed editoriali, ma chiuse il programma due anni dopo.

Sulla questione delle news a pagamento su internet si è espressa anche Layla Pavone, presidente della sezione italiana di Iab (Interactive Advertising Bureau). Intervistata dal Corriere della Sera, la Pavone ha affermato: «È troppo tardi per fare pagare le notizie agli utenti, almeno se parliamo di internet, perché per quanto riguarda il mobile il discorso è già molto diverso. Sul web è difficile fare un passo indietro dopo quasi venti anni di notizie free. Personalmente non credo che l’informazione a pagamento possa avere un impatto positivo sui business model delle aziende editoriali».

TAG: giornali on line, iab, internet, layla pavone, new york times, pagamento, rupert murdoch

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La quarta crisi: scendono gli investimenti pubblicitari, cresce il conservatorismo dei committenti, soffrono i centri media.

di Ilaria Myr-NC
La crisi globale sta interessando tutta la filiera della comunicazione, si è detto. E i centri media non fanno eccezione. Soprattutto se si considera l’attuale sistema di remunerazione delle centrali media, basato sui fee e i diritti di negoziazione. Come spiega Giorgio Tettamanti, chief operating officer Carat Italia : “La voce prevalente della remunerazione è rappresentata da una percentuale applicata all’investimento dei nostri clienti e la seconda voce di ricavo è costruita dai premi di fine anno, dalle concessionarie, al raggiungimento di determinati obiettivi di volume. È innegabile che entrambe queste voci risentano negativamente dei trend di mercato in corso”.

Gli fa eco Federico de Nardis, amministratore delegato di Mc2 Mediacommunication: “La crisi internazionale sta portando a una forte compressione dei budget di molte grandi aziende. A seconda dei settori la riduzione si può stimare tra un -5% e un -20%. In un modello tradizionale dove il centro media è la struttura di pianificazione e acquisto dei suoi clienti, la remunerazione si riduce in modo proporzionale alla contrazione dei budget”.

Tutto ciò influenza anche il lavoro stesso, come spiega Marco Muraglia, amministratore delegato Starcom: “L’impatto è significativo dal momento che in molti casi siamo remunerati in misura proporzionale agli investimenti. Inoltre, purtroppo la quantità di lavoro necessario non si è ridotto. Anzi, il tempo delle persone per produrre strategia, pianificazione e acquisto è incrementato: si devono valutare molte più alternative, peraltro tentando di ottenere risultati soddisfacenti con risorse inferiori”.

D’altronde, la questione dei diritti di negoziazione è al centro di calorose discussioni già ormai da qualche tempo. “La crisi sta impattando su un processo di revisione di questo sistema che era già in corso – specifica Alessandro Villoresi, coo Vizeum -. E anche dal Parlamento sono uscite proposte per normalizzare la questione. Certo è che in un momento come questo, in cui le aziende tendono a fare saving dei propri investimenti, ne risentono anche i consulenti”.

La sofferenza dunque c’è. Ma una soluzione può venire dalla crisi stessa, come sostiene Vittorio Bonori, ceo ZenithOptimedia, che concorda con Hartsarich sulla necessità di sfruttare la congiuntura negativa in atto e sull’inevitabile cambiamento del modello di business dei centri media. “Ogni crisi nasconde grandi opportunità ed è su queste che occorrerebbe concentrarsi per superare le difficoltà e prepararsi alle sfide future. Il modello di business dei centri media è destinato a cambiare così come quello di tutti i componenti della filiera, a partire dalle aziende fino ad arrivare a editori e concessionarie di pubblicità. Allo stesso modo, i modelli economici di remunerazione seguiranno questi cambiamenti e contribuiranno a riallocare le risorse presso i soggetti della filiera che si conquisteranno una posizione centrale e strategica sul mercato”.

Le aziende: fra vecchio e nuovo

I clienti, dal canto loro, reagiscono alla situazione attuale con un atteggiamento che, se può sembrare contraddittorio, dice in realtà molto su come si stia evolvendo oggi la comunicazione. Come spiega Walter Hartsarich: “I clienti oggi cercano di mira- re al massimo al target di riferimento e, a fronte di investimenti ridotti, concentrano i budget sui mezzi che facilitano il raggiungimento degli obiettivi di vendita in modo più immediato, sia classici che più innovativi, come il digitale”.

Da un lato quindi si assiste a una concentrazione degli investimenti verso la tv, mezzo da sempre ‘rassicurante’. Ne è convinto Roberto Binaghi, ceo Omd (da giugno, vicedirettore generale Manzoni, ndr), che al tema aveva dedicato un intervento allo Iab Forum di novembre. “Quando le cose vanno male, la tendenza è fare meno esperimenti e affidarsi al ‘bene rifugio’ – dichiara -. Nella pubblicità tale bene è la televisione. Gli investitori la usano perché hanno ritorni importanti, la considerano un mezzo efficace. Non è un caso che, in Italia, attiri la metà abbondante del totale investimen- ti. Quindi, la tv è l’ultimo mezzo a essere tagliato”.

Concorda con questa posizione Marco Muraglia di Starcom, che spiega: “Nelle situazioni di stagnazione e crisi economica, prevale da parte delle aziende un atteggiamento protettivo e maggiormente conservatore, che porterà prevedibilmente, nel prossimo futuro, a un maggior ricorso al mezzo tv, tradizionalmente percepito come ‘meno rischioso’, e più sicuro in termini di impatto positivo sul giro d’affari”. Dall’altro lato, cresce la domanda di strumenti e soluzioni innovative, che più di quelle tradizionali raggiungono in modo efficace il tanto ricercato coinvolgimento del consumatore. Si accentua così una tendenza ben presente sul mercato negli ultimi tempi, anche prima della crisi, come ben emerge ogni mese dalle pagine di questo giornale. Spiega Tettamanti di Carat: “Non è la crisi che sta cambiando modalità di approccio dei clienti. La maggior attenzione al ‘consumer insight’, al ritorno sull’investimento, alla misurabilità, il maggior ricorso al narrowcasting, l’importanza crescente del concetto di ‘engagement’: sono tutti trend che caratterizzano il nostro presente ma che trovano origine già nel recente passato”.

In particolare internet e il digitale sono strumenti che, a fronte di investimenti più contenuti rispetto a mezzi più classici, permettono di realizzare comunicazioni molto targettizzate. Prova ne è la crescita che questo settore continua a mettere a segno (+2% a gennaio, dati Osservatorio Fcp-AssoInternet). E sebbene si tratti di una quota ridotta rispetto al passato, il web è il mezzo che cresce di più, in un mercato che invece cala vertiginosamente. Come precisa Binaghi, “è possibile che quest’anno si debba accontentare di una crescita a una sola cifra, però sta guadagnando quota a scapito di altri mezzi, come la stampa”. Soprattutto, esso viene scelto per la sua misurabilità: variabile, questa, che sarà sempre più determinante nel futuro. È quanto sostiene Vittorio Bonori, che spiega: “L’allocazione di un budget di comunicazione dipende sostanzialmente da quattro variabili: dagli obiettivi, dal target, dall’arena competitiva e dalla dimensione del budget. Queste regole non muteranno nel breve termine, ma tenderanno a semplificarsi notevolmente nel momento in cui la misurabilità dei media consentirà di lavorare in un’ottica di performance marketing. Lo stiamo già sperimentando su alcuni media digitali, con un guadagno significativo in termini di efficienza di investimento”.

Tutto ciò, però, avviene in quell’atmosfera di attesa, diffusa in tutti i campi e i settori, che si traduce nell’allungamento da parte dei clienti dei tempi di decisione degli investimenti. “In un momento in cui è notorio che gli investimenti sono depressi – spiega Alessandro Villoresi – i clienti tendono a dilazionarli nel tempo, nella speranza/attesa di cogliere delle opportunità. E questo, come è immaginabile, ha un’influenza anche sul lavoro dei centri media”. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: “La stampa non è mai riuscita a coprire i costi grazie al suo core business, cioè vendere notizie ai lettori, ma vendendo la audience dei suoi lettori agli inserzionisti. Insomma, la pubblicità.”

di Enrico Beltramini – da Limes

La crisi che sta attraversando il mondo della stampa negli Stati Uniti è probabilmente irreversibile. Il modello di business è insostenibile, e l’intreccio tra informazione, politica ed economia che ha contrassegnato la vita nell’ultimo secolo di storia americana, al capolinea.

Non è soltanto il giornalismo politico che sta attraversando una crisi profonda, ma l’intera industria dell’informazione americana su carta. Dall’inizio dell’anno ad oggi (e siamo a metà anno), 105 giornali sono stati chiusi, lasciando a casa circa 10 mila persone (giornalisti e non). La pubblicità è scesa del 30%, 23 dei 25 più importanti giornali americani hanno dichiarato una riduzione della circolazione tra il 7 e il 20%, e hanno registrato il crollo verticale del valore dei titoli quotati. Per la cronaca, 61 di questi 105 giornali appartenevano a quattro gruppi editoriali: Gannett Co., GateHouse Media, The Sun-Times Media Group e The Journal Register Company. Il gruppo Tribune, che pubblica il Chicago Tribune e il Los Angeles Times, ha chiesto l’accesso alle procedure di in bancarotta, mentre il New York Times ha cominciato ad ipotecare gli immobili. Il Miami Herald è in vendita. Più del 20% del settore editoriale ha problemi finanziari.

Megan McCardle ha spiegato su The Atlantic che “for most of history, most publications lost money, or at best broke even, on their subscription base, which just about paid for the cost of printing and distributing the papers. Advertising was what paid the bills. To be sure, some of that advertising is migrating to blogs and similar new media. But most of it is simply being siphoned out of journalism altogether. Craigslist ate the classified ads. eHarmony stole the personals. Google took those tiny ads for weird products. And Macy’s can email its own damn customers to announce a sale”.

Secondo Cardle, non dovremmo meravigliarci della crisi che ha colpito oggi i giornali. Il problema è che i loro fondamentali sono sempre stati deboli. La stampa non è mai riuscita a coprire i costi grazie al suo core business, cioè vendere notizie ai lettori, ma vendendo la audience dei suoi lettori agli inserzionisti. Insomma, la pubblicità. E anche così, non ha mai raccolto abbastanza soldi per raggiungere il break even. Ecco perché i giornali offrivano altri servizi: la pubblicità locale, i messaggi personali, la comunicazione istituzionale delle aziende, ecc..

Ora però i servizi accessori sono stati strappati via dal corpo del giornale e sono diventati attività a se stanti, servizi indipendenti online con un loro business model specifico; Google offre micro advertising, Craigslist le inserzioni personali, e le aziende possono informare la loro clientela direttamente attraverso il loro sito. Costretta a dover contare soltanto sul suo core business, vendere notizie ai lettori, la stampa ovviamente collassa. Qualcuno spinge l’analisi sulla crisi dei giornali americani ancora più in profondità.

Ricorda Dave Winer, uno dei pionieri delle informazioni in digitale, che le fonti delle notizie non sono mai state pagate. Quindi, integrando il ragionamento di McCardle con quello di Winer, possiamo concludere che vendere notizie ai lettori non è mai stato sufficiente per coprire i costi nemmeno nel caso in cui le notizie fossero gratuite. Insomma, il mestiere di raccolta, selezione, impacchettamento e assemblaggio e vendita della notizia non riesce a pagarsi abbastanza per coprire i costi.

Non c’è da sorprendersi se oggi il business vacilla.

Jeff Jarvis, docente alla City University di New York e famoso bloggista, affonda il coltello senza riguardi. “Owning the printing press or broadcast tower used to define advantage: I own and control the means of production and distribution and you and don’t, which enables me to decide what gets distributed and forces you to come to me if you want to reach the public through news or through advertising, whose price I alone set with little or no concern for competition”.
Quindi, la proprietà dei mezzi di produzione e di distribuzione comporta il controllo sul contenuto, e quindi sulle informazioni.
E’ interessante il ragionamento di Jarvis: creando una connessione tra la proprietà dei mezzi di produzione e distribuzione e il core business della stampa, dimostra la vulnerabilità della stampa dal punto di vista economico e anche dal punto di vista culturale.
Dal punto di vista economico, è proprio il costo dell’infrastruttura che si sta dimostrando insostenibile.

E’ innanzitutto lì che Internet sta ottenendo i maggiori successi, impiegando tecnologie che aprono una conversazione con la audience ad una frazione del costo di un giornale. Dal punto di vista culturale, racconta Jarvis, la proprietà dei mezzi ha determinato la diffusione di una cultura del controllo della notizia. La proprietà dei mezzi si è trasferita a quella delle notizie.

“We journalists own the news, that we’re necessary to it, that we decide what’s reported and what’s important, that we can package the world for you every day in a box with a bow on it, that what we do is perfect (with rare, we think, exceptions), that the world should come to us to be informed, that we deserve to be paid for this service, that the world needs us”. Il cerchio è chiuso. La proprietà dei mezzi determina il controllo dell’informazione. E il controllo dell’informazione rende la stampa una realtà potente.

Il potere è un elemento dell’equazione. Un elemento che Megan McCardle aveva dimenticato. Ovviamente, i giornali servono per dare notizie; ma anche per progetti economici – rendere attraente una nuova area urbana precedentemente depressa, e costruirci sopra una speculazione; e politici – sostenere la candidatura di un politico o un altro.

Il giornale, soprattutto se assurge ad una diffusione nazionale, forgia narrative, costruisce modelli culturali, entra in ogni aspetto importante della vita dei suoi lettori. Tutto questo, naturalmente, significa che intorno a questi progetti, di qualunque natura siano, si raccoglie interesse: interesse economico. Soldi.
Perché il giornale, come tutte le creature economiche, non vive di buoni propositi.
Il giornale ha quindi un ruolo sociale. Ma questo ruolo può essere svolto soltanto se c’è qualcuno che continua a comprare i giornali e qualcun altro che non smette di pagare per metterci sopra la sua pubblicità. Così, quando i soldi che arrivano alle casse del giornale dai lettori o dagli inserzionisti iniziano a declinare, a declinare, e il declino non si ferma più.

Quando il giornale non sembra più essere il veicolo su cui costruire un progetto, o annunciare una conferenza, o cercare un amministratore delegato.
Quando emergono altri mezzi che permettono di aprire una conversazione con milioni di lettori ad un costo minimo.
Quando i conti cominciano a non tornare, e tutta la retorica costruita intorno al giornale che plasma il paese, sostiene un personaggio pubblico, o semplicemente trova il miglior candidato, evapora; quando non ci sono più i soldi per pagare i giornalisti, sostenere sedi estere, avviare inchieste.
Quando tutto questo accade, allora è il momento di voltare pagina. (Beh, buona giornata).

Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/la-stampa-americana-i-dettagli-di-una-crisi-epocale/5498?h=0.

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Chi la fa l’aspetti: Sky lancia un decoder unico satellite-digitale?

Sky lancerà il decoder unico per captare il digitale terrestre e il segnale del consorzio Tivù (Rai-Mediaset-Telecom)-blitzqutotidiano.it
Murdoch spara le sue cartucce nella guerra dichiarata a Raiset. Secondo Dagospia, il colosso televisivo Sky starebbe progettando un apparecchio capace di abilitare i vecchi decoder Sky a intercettare anche il digitale terrestre, per frenare l’offensiva di Rai, Mediaset e La7 contro la tv satellitare.

Le tre società di broadcasting italiane intendono frenare la crescita degli abbonati Sky, che nel passaggio dall’analogico al digitale preferiscono optare definitivamente per la piattaforma satellitare come visore unico dell’intera offerta televisiva.

Ma l’obiettivo del magnate australiano è un altro: come è noto le tre emittenti nazionali (Rai, Mediaset, La7) dal primo agosto trasmetteranno i loro canali, già visibili sul digitale terrestre, anche sul satellite ma con una codifica non leggibile dai decoder di Sky. «Di fronte al rischio di vedere lo schermo nero nei primi otto numeri della lista canali», riporta Dagospia, Sky ha fatto trapelare di poter abilitare, con lo stesso apparecchio lettore di card, oltre la metà degli apparecchi in uso ai propri abbonati. Per l’altra metà ha invece autorizzato la distribuzione di un decoder “combo” (X-Dome HD 1000NC) che permette di sintonizzare sia i canali del digitale terrestre che quelli satellitari di Sky, nella numerazione preferita. Un primo esempio di decoder unico.

Queste due mosse, accanto al regalo di un decoder per il digitale terrestre ad ogni nuovo abbonato dovrebbero, secondo Sky, fortemente depotenziare l’iniziativa di Rai, Mediaset e Telecom che, con la società Tivù, stanno cercando di creare una piattaforma televisiva alternativa e incompatibile con quella di Sky.
(Beh, buona giornata).

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In piena quarta crisi, nasce in Italia un nuovo quotidiano.

di Pino Cabras – Megachip.info

Sta per nascere un nuovo quotidiano, «Il Fatto», e ha già un volume di abbonati potenziali che appare subito significativo perché sembra voler chiamare a raccolta quanto resta dei “ceti medi riflessivi” italiani.

La cosa merita un po’ di domande e alcune valutazioni. L’iniziativa sembra avere il pregio di poter durare. Come si risponde all’emergenza informativa del nostro paese dominato dall’impresario dello spettacolo che vive la sua fase più sguaiata e pericolosa? C’è un modello imprenditoriale in grado di reggere una nuova impresa nel mondo della comunicazione? Quali sono le sponde politiche?

Sono domande molto attuali, che ci poniamo in piena fase di pericolo per la libertà di parola.

Nel momento in cui sarebbe più necessario che mai poter raccontare una grande crisi, maggiore è invece la difficoltà di fare una buona narrazione e trovare gli strumenti. I media più importanti, nonostante quegli strumenti li abbiano, non li usano, essendo essi stessi troppo dentro le cause della crisi. In Italia, per giunta, questi media sono sotto schiaffo di Papi l’Insaziabile, che insiste ormai ogni giorno per indirizzare ‘pro domo sua’ le risorse pubblicitarie, che con la crisi si sono fatte sempre più scarse. Papi in sostanza che fa? Avverte gli imprenditori con tutta la sua “immoral suasion” affinché non osino finanziare i giornali scomodi. L’avvertimento è pronunciato ormai ogni volta che apre bocca in pubblico. Delimita l’area entro cui il mercato mediatico può funzionare. Per gli altri, fuori dal suo perimetro, pretende che la crisi dell’informazione, un fenomeno mondiale, li strazi più che altrove, perché a loro «bisogna chiudere la bocca».

Negli ultimi due anni, proprio durante l’esordio della grande crisi, sono nate tante iniziative fuori da quel perimetro. C’è chi ha imitato maldestramente la già dimessa Current TV di Al Gore, ma in chiave di bollettino di partito. YouDem è uno specchio perfetto della crisi verticale del Partito Democratico. Non conta quasi nulla nemmeno la cugina dalemiana, Red TV. Sono nati nuovi quotidiani a sinistra, «Terra» e «L’Altro», mentre sono stati investiti da forti trasformazioni editoriali altri quotidiani esistenti, «l’Unità» e «Liberazione». Il loro peso nella società italiana, come la capacità di raccontarla, tendono all’irrilevanza, in ciò riflettendo la dissipazione della sinistra novecentesca in Italia: anche questa è una tendenza di cui le ultime elezioni europee hanno rivelato la portata internazionale.

Ci sono poi le esperienze della Rete. In questi ultimi anni Beppe Grillo ha rafforzato il suo efficiente modello imprenditoriale in cui c’è sinergia fra il suo blog, gli spettacoli, un certo networking su temi politici, sociali e ambientali. Qualche volta l’«azienda Grillo» ha inciso sull’agenda della comunicazione, ma è difficile scalfire un modello di consumo comunicativo nel quale il 70% dei cittadini apprende tutto soltanto dalla TV. Daniele Luttazzi aveva liquidato i V-Day grillini come dei flash mob un po’ più articolati. Allo stesso modo dei flash mob, i raduni di Grillo rompevano la quotidianità, ma poi la quotidianità ritornava, e le urne del vasto blocco sociale berlusconiano si riempivano ugualmente di voti nei giorni delle elezioni. Grillo ha segnato tuttavia una tendenza, così che anche altri comunicatori hanno ricreato “modelli di business” sostenibili in cui al centro c’è internet, la grande ostetrica delle nicchie intellettuali. Anche questa è una tendenza che si manifesta su scala mondiale.

D’altronde i media non sono compartimenti stagni.
Beppe Grillo ha guadagnato il suo primo sostrato di popolarità dalla sua originaria caratura di personaggio televisivo, ha integrato questo patrimonio con lo specifico del teatro, lo ha riportato sul terreno di internet, dove ora fa ritornare anche un certo uso della grammatica delle immagini, che descriverei comunque come “televisive” in mancanza di migliori definizioni.

Si può richiamare un altro esempio di interazione fra media diversi. Marco Travaglio assieme a Elio Veltri aveva scritto un libro nel 2001, “L’odore dei soldi”, che rompeva tutti i tabù mediatici sulla biografia di Berlusconi. Un buon libro può influenzare i lettori, crescere e sedimentarsi anche quando questi lettori siano poche migliaia. Può perfino arrivare in TV. Successe anche a quel libro. Travaglio presentò il suo volume in televisione, e la rottura del tabù pervenne a milioni di persone. Il segmento di mercato librario raggiungibile dal più documentato cronista giudiziario italiano si moltiplicò fino ai suoi confini naturali potenziali, tanto che Travaglio in questo decennio è diventato una macchina mediatica in grado di sfornare decine di best-seller, al punto di dare forma a un “genere”, adoperato in varia misura anche da altri scrittori. Nascono nuove collane e perfino nuove case editrici fondate apposta da quelle più grosse per consentire più agilità ai direttori editoriali nello sfruttamento del filone. Sebbene i punti più delicati delle inchieste di Travaglio non passino se non occasionalmente in televisione, la TV è comunque una piattaforma di lancio non secondaria per l’indotto, assieme ai DVD, ai blog e, recentemente, al teatro. Adesso dunque entra in gioco anche un quotidiano.

L’idea che la televisione sia ancora il formato dominante nella comunicazione è stata invece alla base di Pandora TV, il progetto promosso a partire da un appello di noti intellettuali, giornalisti, personalità dello spettacolo, che ha visto anche Megachip spendersi in prima fila nella promozione. Come oggi spiegano i promotori nel documento in cui rilanciano il progetto, le sottoscrizioni materiali sono state finora nettamente inferiori alle attese e al numero dei firmatari. Sebbene sia «stata costruita un’agenda televisiva insolita, che ti dà l’idea di come potrebbe essere potente una TV con più mezzi, che intenda diffondere quel che qualcuno non vuole che tu sappia», si è scontato un problema più esteso, che riguarda Pandora come altre esperienze: «la profonda crisi culturale e democratica del paese, la spaccatura a sinistra tra intellettuali ormai incapaci di trovare un linguaggio comune e comuni obiettivi, un pubblico sempre più annichilito dall’agonia dell’informazione», senza tralasciare il peso della crisi economica, non certo un buon viatico per investire a fondo perduto in un bene pur essenziale come la comunicazione. Oggi stiamo tentando di riproporre il progetto, perché l’emergenza è ancora più forte di prima. Scontiamo tutta la grande difficoltà del compito, ma il terreno televisivo andrà presidiato in qualche modo.

Intanto, non trasmette ancora Europa 7, la TV generalista di Francesco Di Stefano bloccata per anni dal sistema politico italiano in barba alle leggi con accanimento bipartisan. L’ultima beffa del 2009 è stato concederle un sistema di frequenze che copre solo una minima parte del territorio nazionale. A queste condizioni, se Europa 7 partisse ora fallirebbe in sei mesi. Per la TV – medium ancora dominante – non ci sono di fatto spazi per grandi operazioni se non con disponibilità economiche immense su nuove piattaforme (Murdoch) o con operazioni “corsare” che osino informare e intrattenere rompendo gli schemi (Pandora se avesse risorse).

In questo quadro politico e mediatico nasce dunque l’iniziativa imprenditoriale denominata «Il Fatto Quotidiano», imperniata sulla diretta partecipazione nella compagine sociale di due giornalisti, Antonio Padellaro e Marco Travaglio, rispettivamente con il 22% e l’11% delle azioni, nonché di un soggetto editoriale forte, la casa editrice Chiarelettere (con il 22%), che appartiene interamente al terzo gruppo dell’editoria libraria italiana, le Messaggerie Italiane, un gruppo relativamente poco noto con questa denominazione, mentre sono molto conosciute le tante case editrici che controlla. Oltre a Chiarelettere, sono controllate infatti dalle Messaggerie anche Bompiani, Garzanti, Salani-Ponte alle Grazie, Longanesi, Vallardi, TEA, Guanda, e altre ancora, tra cui l’ultima acquisita, nel luglio 2009, la Bollati Boringhieri. Il fatturato consolidato del gruppo supera il mezzo miliardo di euro. Le copie stampate sono circa dieci milioni all’anno. L’utile registrato negli ultimi bilanci è sempre stato di poco inferiore ai sette milioni di euro. Del gruppo fa parte anche Internet Bookshop Italia (IBS), la più nota piattaforma italiana di vendita di libri on line. Si tratta dunque di un soggetto che, in base a questi e altri parametri, potrebbe ipoteticamente offrire ampie garanzie, fideiussioni e “collaterals” in grado di ridurre drasticamente il rischio d’impresa per una sua nuova iniziativa in fase di “start up”.

Nel quadro dell’operazione è stata lanciata anche una campagna di disponibilità ad abbonarsi al nuovo quotidiano, con 40mila aderenti finora persuasi dalla promessa che «non avrà padroni». È un segno di un possibile successo fra i lettori, anche se questo non dice nulla in merito alla sostenibilità del business una volta che si dovranno fare i conti con la pubblicità e i costi di distribuzione, le note dolentissime dell’attuale crisi dei quotidiani cartacei.

Un quotidiano costa e costerebbe ancora di più senza editori a reggerlo. Senza editori si hanno le mani libere e si rende conto solo ai propri sostenitori e lettori, ma si è troppo esposti ai rovesci. L’elenco dei quotidiani italiani falliti su queste premesse è lunghissimo. «Il Manifesto» è un’eccezione che sopravvive camminando sempre su un filo sottilissimo, pronto a spezzarsi.

L’operazione «Il Fatto», come abbiamo visto, è meno avventata di altre. L’editore industriale c’è.

E c’è anche l’identificazione di una missione politica ed editoriale che ha alcuni margini di espansione, una missione che vede convergere diversi soggetti.

La crisi del Partito Democratico ha concesso estese praterie elettorali all’Italia dei Valori, il partito fondato e dominato da Antonio Di Pietro. Un elettorato numeroso e smarrito osserva con avvilimento la triste parabola dei partiti che normalmente votava, e oscilla tra l’astensione e lo sguardo rivolto a progetti politici diversi (dal partito in cui detta legge Di Pietro fino a Beppe Grillo e alla spinta laica post-girotondina). Sul numero 4/2009 di «Micromega», Paolo Flores d’Arcais fa notare che tra le elezioni politiche del 2008 e quelle europee del 2009 il PD ha perso diecimila voti al giorno, mentre Italia dei Valori ne guadagnava quattromila al giorno. E la sinistra ha confermato l’incapacità di superare i quorum. Su vari candidati dipietristi è arrivato un robusto ‘endorsement’ da parte di testimonial un tempo restii a dare indicazioni di voto: ancora Grillo, ancora Travaglio. E poi il netto schierarsi di «Micromega» e altre riviste e movimenti.

Pura constatazione: si sta formando una galassia di “intellettuali organici” a un progetto, che trova sempre più stabili occasioni di convergenza e luoghi di interazione. La definizione gramsciana di “intellettuale organico”, dal punto di vista metodologico, parte dal fatto che ogni intellettuale è militante; legato in modo “organico” a un gruppo sociale, a una formazione sociale, e riproduce costantemente, perfino inconsciamente, un certo quadro di interessi; senza che questo si traduca necessariamente in una posizione partitica blindata. Un quotidiano che s’inserisse in questo contesto magari non sarebbe un “organo” di partito, ma sarebbe naturalmente “organico” a una proposta politica in divenire.

Per via delle dinamiche elettorali in corso, le liste dell’Italia dei Valori-Di Pietro sono diventate un campo gravitazionale in grado di ricomporre e attrarre con una certa forza quella parte di opposizione che intende consistere in sé e per sé e vuole difendere la Costituzione sotto scacco. Quella parte sa bene che Di Pietro sui contenuti – adottati con disinvoltura a tratti cinica – interviene con la prontezza di un vero “imprenditore del consenso”: realizza “affari politici” in tempi che un tipico esponente del PD non realizzerebbe mai, e lo fa in modi sostanziali e spregiudicati. Questa opposizione in fieri è talmente consapevole di alcuni difetti costitutivi dell’«azienda Di Pietro» che fa di tutto per enfatizzare le possibili correzioni promesse dal capo del partito.
Travaglio ha scritto ad esempio qualche riga di coinvolto e partecipe incoraggiamento nei confronti dei modesti segnali di cambiamento nello statuto del partito, finora corazzato in modo proprietario nelle mani del furbo Tonino.
Flores D’Arcais intervista Di Pietro con lo stesso tono partecipe, chiedendogli – già nello speranzoso titolo del dialogo su «MicroMega» – «cosa vuol fare l’IDV da grande?»

Di Pietro ha un disegno. Nell’aprire parzialmente la sua macchina politica alla galassia degli intellettuali, allarga la classe dirigente e punta a un raddoppio dei consensi. Cioè un partito del 16%. Il che forse corrisponde al numero di elettori che vedono al primo posto la questione della legalità sopra tutti gli altri temi. Di fronte all’afasia del PD è una prospettiva plausibile, tanto più verosimile quanto più il progetto si dimostri in grado di captare in modo più strutturato i famosi “ceti medi riflessivi”, per svariati motivi non più rappresentabili dal PD. Per una tale strutturazione la presenza nell’area di un giornale quotidiano – ancorché non finanziato dal partito – potrebbe essere un pezzo importante del mosaico.
I vari media hanno raggi d’azione diversi, imprimono effetti sulla realtà che non derivano solo dal numero di persone raggiunte direttamente, ma pure dall’influenza che possono esercitare su gruppi particolari, sulle élite, su strati di cittadini particolarmente attivi che a loro volta interagiscono con altri.

Al mosaico mancano alcuni pezzi.

Innanzitutto quale sarà il peso delle questioni internazionali, così centrali per capire le emergenze ambientali ed economiche di oggi? I quotidiani italiani su questo fronte non hanno informato bene, per usare un eufemismo. Quale sarà l’analisi degli scenari di guerra? Il foglio di Travaglio & C. saprà liberarsi dagli schemi dei dinosauri della Guerra Fredda su molte decisive questioni? Questo non lo sappiamo ancora, ed è un tema altrettanto fondamentale quanto quello della legalità interna.

Un altro pezzo del mosaico è la questione del pubblico di riferimento per l’informazione. Un quotidiano, quando le cose riescono bene, fa riflettere il caro vecchio “homo legens”. E magari gli dà strumenti per agire e contare, specie se si trova in posizioni in cui decide. Un articolo che lascia un buco informativo ai giornali che ignorano i fatti fa sempre rumore e li mette in una posizione scomoda. Tuttavia quel quotidiano da solo non raggiungerà il nuovo “homo videns”, che rappresenta la maggioranza dei cittadini. Posto che – per le ragioni prima accennate – aumentano le convergenze fra segmenti comunicativi diversi (quotidiani, rete, TV) rimane un incombenza per chi vuole rafforzare l’informazione libera: è quella di non smarrire l’importanza di un percorso per immagini e contenuti di tipo televisivo.

Un’ultima considerazione. Ho usato più volte in modo intercambiabile i termini informazione e comunicazione. In realtà la comunicazione è un fatto molto più ampio dell’informazione.
Si fa bene a essere sensibili al tema dell’informazione. Ma questa è una componente sottile di tutta la corrente dei messaggi, in cui prevalgono le concezioni del mondo date da intrattenimento e pubblicità. La grande manipolazione dei media ha certo come ingrediente di base l’inganno informativo nonché la scomparsa dei fatti e delle domande scomode, ma il grosso di essa si compie nel resto della comunicazione, ampiamente fruita dalla maggioranza dei cittadini.

Il nuovo quotidiano aprirà qualche finestra in più davanti alla coscienza democratica dell’Italia e perciò mi auguro che possa avere successo, intanto che però mi pongo il problema di fondo, ancora irrisolto: come aprire le porte e finestre più importanti, come varcare la soglia delle stanze in cui si decide la vera colonizzazione delle menti, per immagini ed emozioni. (Beh, buona giornata)

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: clamoroso, Sky batte Mediaset.

(fonte repubblica.it)
Sky supera Mediaset ed è, dietro la Rai, il secondo operatore tv per ricavi. La tv di Stato lo scorso anno ha registrato “ricavi per 2.723 milioni di euro, Sky Italia 2.640 milioni e RTI 2.531 milioni di euro”. Lo rende noto il presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Corrado Calabrò nella relazione annuale presentata al Parlamento.

“La Rai è ancora – afferma Calabrò – la principale media company italiana con oltre 2,7 miliardi di euro di ricavi, anche se in decremento rispetto al 2007 a causa della flessione della pubblicità (-3,6%). Sky Italia consolida la sua posizione, divenendo addirittura il secondo gruppo televisivo per ricavi. Il gruppo Mediaset (che scende al terzo posto, con un calo della pubblicità dello 0,3%) vede il rafforzamento della propria offerta a pagamento sulla piattaforma digitale terrestre (passando da 125 a 199 milioni di euro)”.

Nel 2008, in Italia i ricavi complessivi del settore televisivo hanno raggiunto gli 8,4 miliardi di euro con un +4,1% rispetto al 2007, rileva il garante.
La struttura televisiva è articolata in tre soggetti “con una posizione simmetrica in termini di ricavi complessivi del settore televisivo. All’interno di essa – spiega Calabrò – RTI è leader della pubblicità e nuovo concorrente nelle offerte a pagamento; Sky è di gran lunga leader nella pay tv e nuovo concorrente nella pubblicità; Rai mantiene le classiche posizioni attraverso una quota di rilievo nella pubblicità e prelevando le risorse residue dal canone di abbonamento”. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: il Sole 24 Ore, giornale di Confindustria piomba a- 8% e minaccia sfracelli.

Il Sole 24 Ore ha diffuso alle agenzie stampa una nota dove comunica che il CdA del gruppo editoriale, preso atto delle proiezioni riguardanti l’esercizio in corso, si aspetta una flessione dei ricavi di circa l’8%, tenuto conto della variazione di perimetro rispetto al passato esercizio, derivante prevalentemente dalla minor raccolta pubblicitaria.

Per far fronte a questa dimunizione dei ricavi, il Consiglio di Amministrazione ha dato mandato al Presidente e all’Amministratore Delegato di predisporre ulteriori incisive iniziative, anche strutturali, di contenimento dei costi. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: al festival di Cannes è andata in scena la crisi della pubblicità.

(fonte:advexpress.)
Dopo l’incontro del 2008 con le big media company del web, il ‘Cannes Debate’ ha visto nuovamente Sir Martin Sorrell, ceo di WPP Worldwide, sulla poltrona di moderatore: a rispondere alle sue domande sono state stavolta quattro fra le più grandi multinazionali a livello globale, Kraft, P&G, J&J e McDonald’s, che come ha ricordato Sorrell hanno investito complessivamente lo scorso anno circa 16,5 miliardi di dollari in advertising.

“Oggi però la vita non è facile: il primo trimestre è andato male, aprile e maggio sono stati anche peggio, e anche il resto dell’anno sarà duro. Quali sono – ha chiesto quindi Sorrell – gli effetti della recessione sulle vostre aziende in termini di spesa, di media mix e di crescita degli investimenti nel digital?”.

Mary Dillon , executive vice president e global chief marketing officer di McDonald’s Corporation, ha confessato di trovare questo periodo particolarmente ‘eccitante’, “E non solo perché stiamo guadagnando market share… I nostri investimenti sono una percentuale delle vendite, e quando salgono le seconde salgono anche i primi. È vero però che le cose sono difficili e complicate: tutto è costantemente esaminato al microscopio e può essere cambiato da un momento all’altro. Per quanto riguarda il mix, le cose variano a seconda dei paesi, e la televisione continua a essere fondamentale. Ma il digitale assorbe in media il 7% della nostra spesa totale, e la sua quota cresce molto velocemente”.

“Con la recessione, i budget di Kraft Foods sono aumentati – ha confermato Mary Beth West, executive vice president e chief marketing officer dell’azienda –: la prima spesa che le persone hanno tagliato sono i pranzi e le cene fuori casa, eccezion fatta, evidentemente, per la qui presente McDonalds. E questa per noi è un’opportunità. Stiamo ancora cercando di ‘educare’ il nostro senior management all’online, ma il digitale vale per noi già oltre il 10%”.

“La crisi ci ha spinto a investire sempre di più in communication planning – ha spiegato Michael Murphy, vice president of consumer integrated marketing Johnson & Johnson –, perché in momenti come questo il marketing e l’advertising diventano ancora più importanti. In particolare il digitale ha ormai una share a doppia cifra sul totale dei nostri investimenti”.

Anche Procter & Gamble investe sempre di più online, anche se le cose variano da paese a paese, ha testimoniato il suo global marketing officer Marc Pritchard: “I nostri budget globali sono diminuiti del 4%, ma l’effetto più importante della recessione per noi e per la media industry nel suo complesso è stato quello di costringerci a fare un passo indietro e resettare tutte le nostre attività di marketing. Abbiamo quindi chiesto drettamente al consumatore che cosa volesse, e la risposta è stata: valore. Questo è ciò che stiamo facendo: variando il media mix e, soprattutto, puntando sempre di più sull’impatto e sulla creatività della nostra comunicazione: il punto, infatti, è integrare il digitale con tutto il resto, dalla Tv alle relazioni pubbliche fino al retail. Tutto ruota attorno all’integrazione di tutte le discipline fin dal primo momento e in funzione del brand: al nostro interno come nelle agenzie e nei centri media”.

Alla domanda di Sorrell su quanto contino le dimensioni di agenzie e centrali, la risposta è stata unanime: “A volte, lavorando in così tanti paesi, abbiamo bisogno della ‘scalabilità’ che le holding garantiscono, ma in altri casi non è così: la prima preoccupazione è e resta l’integrazione”.
“Personalmente, però, – ha aggiunto Murphy –, sono ancora in attesa di vedere una holding significativamente superiore alla somma delle sue parti e capace di aiutarci concretamente a sviluppare idee olistiche”.

Sempre parlando di agenzie e loro holding, l’ultima domanda di Sorrell ha riguardato le cose essenziali che non vanno e che devono essere sistemate con maggiore urgenza?

Per West e Dillon, ciò che è cambiato è il marketing nel suo complesso: “Abbiamo tutti già cominciato ad applicare i nuovi principi che ne derivano, ma non lo abbiamo ancora fatto sul fronte della relazione fra agenzia e cliente… Aiutateci a essere clienti e partner migliori, integrati fin dall’inizio”.

Murphy e Pritchard hanno invece preferito l’autocritica: “Sono da sempre convinto che ogni cliente abbia esattamente l’advertising che si merita – ha affermato il primo -… Troppe volte siamo noi a non dare alle agenzie un brief chiaro o non restituire immediatamente il feedback necessario”.
“Vanno ancora abbattuti e cambiati – ha concluso il global marketing officer di P&G – molti dei silos che circondano le aziende prima ancora delle agenzie”. (Beh, buona giornata).

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