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La pubblicità italiana, ovvero regressioni d’autunno.

“E mo’ vene Natale, non tengo denari, me leggo ‘o giurnale, e me vado a cuccà”, mitica canzoncina jazz di Renato Carosone del 1955 che, a saldi pari, calza a pennello alla comunicazione italiana, che si appresta a chiudere un altro anno terribile, smentendo, senza che nessuno abbia il coraggio di farne pubblica ammenda, la previsione di un pareggio, se non di un sia pur lieve incremento.

Siamo, invece, ancora nella melma, per non dire di peggio. E non si tratta di numeri, ma d’idee.

Succede, per esempio, che una nota e potente organizzazione nella grande distribuzione mette sui suoi scaffali un nuovo prodotto a marchio: un preservativo. Ma la campagna è moscia. E non vi sembri un volgare ossimoro.

Oppure che un grande editore italiano metta in distribuzione opzionale un prodotto multimediale su Giacomo Leopardi. La creatività radiofonica è niente meno che una serie di brani tratti al Cd, uno dei quali recita:
“Leopardi era un ragazzo allegro”. Peccato che l’agenzia non si chiami Monty Python.

Potremmo andare avanti in un lungo e noioso elenco.

D’altra parte, vanno in continuazione sul web ideuzze risibili, supportate da volonterosi copy e account che tentano di “virarli” attraverso i loro rispettivi profili sui social network.

Però si alzano peana alla comunicazione olistica. Dimenticando che è il marketing che

La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
deve essere olistico. La comunicazione o è settaria o non è.

Siamo in un’epoca di frantumazione. Si è frantumata la Repubblica, ormai ogni potere fa i casi suoi, spesso in contrasto gli uni con gli altri. Si è frantumato il sogno europeo, ormai divenuto il ricorrente incubo dell’austerity: il suo mantra è “ricordati che devi pagare le tasse”.

Si è frantumata la politica, che oltretutto sta frantumando anche la pazienza degli elettori: neanche la pubblicità degli Anni Ottanta sparava fandonie così roboanti. Manco il leggendario “vavavuma!” della Citroen diesel di Seguélá sarebbe arrivato a tanto.

Certo, la frantumazione dei media è la caratteristica attuale. Usciti (male) dall’impero della tv e dalla satrapia di Auditel, oggi vaghiamo in un limbo in cui per raggiungere i consumatori le marche si devono fare in mille pezzi, tanti quanto è la somma tra i vecchi e i nuovi media.

Ma a forza di avvitarsi in tecnicalità e a credere che i mezzi siano tutto, il messaggio langue, il contenuto è esangue. C’è anche un aspetto grottesco, per non dire gotico, una specie di noir de noantri, non tano del dibattito, che forse non c’è mai stato, quanto del chiacchiericcio lamentoso: quelli che urlano “la pubblicità è morta” non riescono a nascondere le mani sporche di sangue della strage di idee.

Guardare a certe importanti campagne fa impressione; vedere immagini, testi, claim, cioè i contenuti, fa pena. Una regressione stilistica, estetica e sintattica; una povertà d’immaginazione e di comunicativa; una fretta nell’esecuzione che fa cadere ogni voglia di interessarsi al narrare delle marche, dunque ai loro prodotti.

La grande corsa all’irrilevanza della comunicazione commerciale italiana fa sudare, boccheggiare e ansimare tutti, su una strada che vede allontanarsi via via il traguardo della ripresa economica.

Come fosse la vocazione a essere comparse, invece che protagonisti, poco vale consolarsi per la partecipazione straordinaria di creativi italiani alla messa in scena di campagne internazionali.

Mentre da più parti ci verrebbe proposto un nuovo modello di comportamento emotivo, basato sulle migliori qualità italiane, si dimentica che il paradigma gramsciano aveva nell’ “ottimismo della volontà” il contrappeso del “pessimismo della ragione”. Cioè di una visione critica, analitica, non conformista, utile alla modificazione positiva della realtà. Che dovrebbe cominciare col rifiutare di credere ancora che tecnicalità e mezzi, invece che idee e contenuti siano la comunicazione del nuovo modo di fare marketing.

E visto che continuiamo a importare acriticamente dall’estero assiomi del marketing moderno, per concludere ci starebbe bene una famosa citazione di “Un americano a Roma”, interpretato da un Sordi giovane e pimpante.

Quando qualcuno viene a farvi il pistolotto sulle nuove opportunità, rivolgetevi a chi vi sta accanto e dite ad alta voce: “Armando, questo mo’ cacci via, subito”. Magari funziona. Beh,buona giornata.

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E ora lo Squalo si fa la sua Auditel.

di Giulio Gargia *

Che differenza c’è tra Murdoch e Genny ‘a carogna ? Che con il secondo si può trattare. Gira questa battuta, da qualche giorno, negli uffici dell’Auditel, dopo il lancio dello Smart Panel di Sky.

Da quando è apparsa nel panorama dell’etere, i rapporti tra la nuova Tv e il vecchio rilevatore degli ascolti, l’Auditel, non sono mai stati idilliaci. Le diatribe sull’audience sono state all’ordine del giorno, con frequenti incursioni nei tribunali e richieste di danni.

Oggi la Tv di Murdoch segna un punto a suo favore, lanciando il suo sistema di rilevazione. Praticamente, un’ Auditel fatta in casa, ma con un dispiego di mezzi che non ha nulla a che invidiare a quella ufficiale: subito un campione di 5.000 famiglie, a pareggiare le 5.127 dell’Auditel, per arrivare a 10.000 entro pochi mesi. Ma che bisogno aveva Sky di raddoppiare un sistema degli ascolti già esistente ? La prima risposta, quella che non si può dare, è che anche loro non si fidano dei dati.

La seconda, quella ufficiale, è affidata alle parole di Eric Gerritsen, vicepresidente esecutivo di Sky Italia per la Comunicazione e gli affari istituzionali.

“Il punto – dichiara alle agenzie – è che noi abbiamo bisogno di capire quali sono i comportamenti dei nostri abbonati e purtroppo gli attuali schemi di rilevazione sono un po’ vecchiotti, abbiamo più volte sollecitato Auditel a essere più innovativi ma la risposta ci sembra un po’ lenta quindi ci muoviamo noi” .

Poi in un rigurgito di diplomazia, precisa, giusto per non essere troppo conflittuale che lo Smart Panel “è uno strumento non alternativo ma integrativo rispetto all’Auditel “.
Walter Pancini, direttore generale di Auditel, abbozza e accetta lo ‘Smart Panel come “un legittimo strumento di indagine interna a fini editoriali, non in competizione con noi”.

Ma poi Gerritsen insiste. Il manager della pay tv italiana osserva che le abitudini di consumo della tv sono cambiate: “Basti pensare che nei fine settimana la Formula Uno, come il calcio, viene seguita da circa 600 mila persone sui tablet. Noi dobbiamo misurare gli effetti del cambiamento, nel dettaglio. Non miriamo a una sorta di autonomia dall’Auditel ma abbiamo bisogno di capire puntualmente quali sono i comportamenti degli spettatori”.

A Sky sono interessati soprattutto alla nuova frontiera, ovvero ai consumi da altri dispositivi che non siano il televisore, come smartphone, tablet ma anche l’interazione con i social. Anche per il recente accordo con Telecom che permetterà di portare l’offerta della pay tv anche sulle reti a banda ultralarga dell’operatore tlc.
E qui Pancini non può far altro che inseguire ” Quello dell’analisi degli ascolti in mobilità è un obiettivo al quale stiamo lavorando da tempo, parallelamente con le altre Auditel europee: siamo in fase di sperimentazione”.

Poi vira sul patetico: “Non siamo un organismo vetusto. Auditel resterà un punto di riferimento per le aziende “.
Intanto, però le tensioni più o meno sotterranee tra Auditel e Sky emergono alla luce del sole. Il sistema di rilevazione degli ascolti nato nel 1986 non ha mai riscosso le simpatie degli uomini di Murdoch per due ragioni. Una è che il è nato per garantire gli equilibri tra RAI e Mediaset , la seconda è che la logica analogica dell’Auditel penalizzava il sistema satellitare e digitale di Sky.

Lo Smart Panel rappresenta quindi “ la soluzione finale” che – al di là delle rassicurazioni sul fatto di essere integrativo e non alternativo – costringerà quanto prima Auditel ad affrontare una rivoluzione nei metodi e nei campioni.

Una “ bomba atomica “ che – anche se per ora non si prevede che siano resi disponibili all’esterno – con la sua sola esistenza sposta gli equilibri tra le grandi emittenti. E chiama in causa l’opera dell’AGCOM per capire chi maneggerà questi dati che sono – ricordiamolo – quelli che determinano gli investimenti pubblicitari sulle emittenti.

Chi controlla l’Auditel, controlla gli spot. E chi controlla gli spot è il vero padrone delle Tv. Perciò l’Autorità delle Comunicazioni potrebbe fare 2 cose: una, un lavoro preventivo sulla trasparenza di queste procedure murdochiane ( come non fu fatto per l’Auditel ) visto che gli approcci dello Squalo ( il soprannome di Murdoch ) non tranquillizzano, in questo senso.

Sky lancia Smart Panel, l'"Auditel" di Sky.
Sky lancia Smart Panel, l'”Auditel” di Sky.
Due, molto più importante, porre all’ordine del giorno del governo la questione dell’applicazione finale della legge 249 che chiede di istituire un sistema pubblico di rilevazione degli ascolti. E’ come se nella sanità, ci fossero solo ospedali privati : va bene per chi ci vuole andare e se lo può permettere, ma gli altri? (Beh, buona giornata.)

* autore del libro “ L’arbitro è il venduto” – la radio dopo Audiradio – Bibliotheka edizioni

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Pubblicità e mass media

“Nel suo grande altruismo pens

Ciao Marco,
probabilmente ci siamo conosciuti nel passato,
dato che il tuo nome non mi giunge nuovo.
Oggi navigando sul web mi sono imbattuto sul tuo Blog.
E con mia sorpresa e credimi con grande commozione
ho appreso la dipartita di Agostino.

Devo ad Agostino il fare questo mestiere,
ci siamo conosciuti nel lontano 1974, lavorava presso
una serigrafia ricordo ancora il nome SERIARTE,
eravamo proprio agli inizi di questa lunga strada.

Vide in me la voglia di fare e alcune capacità,
mi portò a lavorare presso la stessa azienda.
Ogni mattina portava, un layout realizzato nelle ore notturne
con i Magic Marker mostrandomi la tecnica che man mano
si raffinava. Dopo alcune mesi ebbe l’occasione che attendeva
da tempo, quella di entrare in Agenzia di Pubblicità.

Nel suo grande altruismo pensò anche a me,
Vi era una società di servizi di produzione
per la agenzie A.P.S. con la sede madre a Milano,
la quale aveva aperto a Roma per seguire le grandi
agenzie che avevano cominciato a scoprire il mercato romano.

Ricordo la sera, prima del mattino in cui dovevo presentarmi,
mi spiegava cosa era un esecutivo per la stampa e cosa
più importante come lo si realizzava, dato che non avevo
la più pallida idea,non avevo mai visto un cartone schoellers
su cui realizzarlo. Il mattino successivo il colloquio andò bene.
ebbe inizio le mia strada.

Agostino Reggio (9 aprile 1951-4 marzo 2013)- Autoritratto, eseguito con iPhone, in modalità pittura a olio.
Agostino Reggio (9 aprile 1951-4 marzo 2013)- Autoritratto, eseguito con iPhone, in modalità pittura a olio.

Ciao
Carlo Di Camillo

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Attualità business Marketing Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Consorzio Creativi lancia “Riprendiamoci la ripresa”.

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La campagna è visibile su http://www.consorziocreativi.com/blog
Beh, buona giornata.

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Pubblicità e mass media

Vi racconto Agostino Reggio.

Agostino Reggio (9 aprile 1951-4 marzo 2013)- Autoritratto, eseguito con iPhone, in modalità pittura a olio.
Agostino Reggio (9 aprile 1951-4 marzo 2013)- Autoritratto, eseguito con iPhone, in modalità pittura a olio.
[

di Marco Ferri-Media Key

In effetti Agostino Reggio starà con noi ancora a lungo. Non è un escamotage retorico, inventato al fine di lenire il dolore della sua precoce dipartita. Lo dico perché l’intensità del suo lavoro è una cifra difficile da diluire nei ricordi: è un segno forte, di quelli indelebili. La prima volta fu nel 1986. Poi a più riprese negli anni. Fino agli ultimi anni in cui abbiamo lavorato a stretto contatto. Ma la dialettica fra noi è sempre stata la ricerca dell’intuizione che durasse a lungo, che diventasse esperienza; che fosse sì per il compito affidatoci dal cliente, ma anche per il nostro ambiente uno stimolo, uno spostare sempre la stanghetta.

E Agostino la stanghetta del salto in alto dell’approccio creativo l’ha spostata spesso nel corso della sua vita professionale: andate su www.agostinoreggio.it, il suo portfolio è fresco, pieno di idee, spunti, intuizioni. E qui ho un rammarico forte, la sensazione che tutti noi abbiamo subito un’ingiustizia: Ago era pieno di energie creative, lo è stato anche per tutto il tempo del suo ricovero, fino alle ultime ore, prima che perdesse le forze, ha disegnato, progettato, ha addirittura fatto lay out per una campagna che era in presentazione.

Dunque, una cosa è certa: non c’è alcun dubbio che Agostino Reggio avrebbe potuto ancora fare tante cose belle, strane, provocatorie, spericolate, ma, allo stesso tempo giuste, precise, corrette. Insomma, fare ancora la buona pubblicità, che sa far entrare contemporaneamente in partita sia la testa che la pancia del consumatore.

Agostino Reggio era un autodidatta che aveva affinato la sua cultura professionale con meticolosa cura. Le sue incursioni nell’arte l’hanno portato ad avere successo anche come pittore. Era diventato anche molto bravo con le tecniche di pittura con le App per iPhone: amici, colleghi e clienti hanno ricevuto in regalo i loro ritratti, realizzati da Ago, con una tecnica che sembra pittura a olio: qui potete vedere un suo recentissimo autoritratto, realizzato proprio con quella tecnica. Quando ha scoperto che era stato colpito da un nuovo male, che poi lo avrebbe accompagnato alla fine, Agostino Reggio ha reagito iscrivendosi a un corso d’arte ceramica. E tra una terapia e l’altra non solo continuava a lavorare con Consorzio Creativi, ma ha cominciato a modellare la creta. “Ricordati che nello studio ci sono cose da mandare a cuocere” ha detto a sua moglie Letizia, pochi istanti prima di perdere le forze ed entrare in coma.

Agostino Reggio non si è spaventato quando il computer ha preso il posto dei pantoni, delle taglierine, dell’ingranditore, del catalogo Letraset, della squadra e della riga: padroneggiava programmi, con i quali faceva rough, poi i lay out e infine anche gli esecutivi pilota. Un gioco tra di noi era una “gara” a presentare almeno solo un giorno prima della data prevista, anche in fase di fine tuning delle proposte. Oggi questo metodo è diventato una caratteristica di Consorzio Creativi. Con Agostino si lavorava ovunque: via telefono, via e mail o via sms. O a tavola, magari strappando la tovaglia di carta dove lui aveva schizzato e io buttato giù qualche titolo.

A volte si riusciva a lavorare anche in ufficio, tra lo squillare del telefono, le riunioni su questo o quel brief, debrief, su questioni amministrative o organizzative o di gestione in genere. Riuscivamo a lavorare anche quelle volte che ci siamo incontrati a pranzo la domenica con le nostre famiglie: uno schizzo, una frase, un’idea. Poi la sera mandavo titoli e lui rispondeva a layout, o ricevevo rough e rispondevo a titoli.

Agostino Reggio con il suo parlare pacato, con le sue uscite bizzarre, con la sua energia creativa favoriva l’affiatamento tra creativi, come Paolo Del Bravo o Sandro Baldoni, che con lui prima di me hanno diviso sia il lavoro che pezzi di vita possono direttamente testimoniare.

In definitiva, Agostino Reggio è stato un creativo di successo che non ha mai smesso di essere umile e laborioso ogni volta che c’era da lavorare. E questo vivrà a lungo nella memoria di tutti coloro che lo hanno conosciuto, con i quali ha lavorato, a chi insegnando qualcosa, a chi insegnando molto più di qualcosa. A me ha insegnato ad avere stima e affetto in lui e nel suo lavoro.

Mi piace ricordare che l’ultimo della lunga teoria di premi che Agostino Reggio ha vinto nella sua carriera è stato il press&Outdoor Key Awaed 2012, per la campagna Auser.

Nel mio personale Pantheon, Ago siede accanto a Emanuele Pirella: chissà che, art e copy, non facciamo qualche belle campagna anche da lì.

Il che è un altro modo per dire che se è vero che sono tempi difficili, forse proprio per questo dovremmo cercare sempre di fare sempre meglio. Ad Agostino Reggio, l’art director per antonomasia farebbe piacere. (Beh, buona giornata)

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Marketing Pubblicità e mass media Società e costume

La Coop sei tu. Ma la copy chi è?

di AM

Qualche tempo dopo il lancio dello slogan “La Coop sei tu. Chi può darti di più!”, un cliente della Coop di Ravenna scrisse una lettera ad Andrea Necchi, l’account che all’epoca gestiva il budget Coop in Tbwa, per fare personalmente i complimenti all’autore, dato che lo riteneva “un’autentica cannonata”.

Questa richiesta fu subito girata a Maria Carla Elvetico, la copywriter che, nel 1982, creò quello che sarebbe diventato uno degli slogan più longevi della pubblicità italiana, lavorando alla campagna di rilancio del supermercato in coppia con l’art director Patrizia Bona. La Coop era la più grande organizzazione di consumatori in Italia, con oltre 1 milione di soci. Associarsi costava 10.000 lire e dava diritto alla remunerazione delle quote sociali, alle offerte speciali e agli sconti, segni della partecipazione attiva alla gestione della cooperativa. Da qui l’idea del payoff.

La sua forza risiede nella verità: la Coop è un’associazione dove chi vende e compra sono la stessa persona, e nella brevità della proposizione. Nelle quattro parole che lo formano, è inserito il nome del prodotto, che rimane così legato allo slogan in modo indissolubile. Nel 1985, il fortunato motto divenne ulteriormente popolare con gli spot di Peter Falk, un attore molto noto in Italia, che si proponeva come il tenente Colombo, detective e cliente “ingenuamente” curioso.

Nel 1992, Woody Allen accettò di girare quattro spot televisivi, ricevendo un compenso piuttosto elevato che scatenò qualche polemica proprio tra i consumatori che sentivano di appartenere alla Coop. Quest’autunno lo slogan compie trent’anni ed è da lungo tempo entrato a far parte dei modi di dire della lingua italiana, e delle frasi più citate nella storia della pubblicità.

Per fare qualche esempio: in occasione dello scandalo sui presunti finanziamenti illeciti a Botteghe Oscure da parte della Lega delle Cooperative, in seguito alle accuse lanciate da Craxi ad Occhetto, Giannelli esce sul Corriere con diverse vignette. In una, Di Pietro dice ad Occhetto: la Coop sei tu. Chi può dirmi di più? In un’altra, Fassino chiede a D’Alema: La coop sei tu? Nel 2000, Staino usa lo slogan per parlare della proposta di creare le cooperative di prostitute. La moglie di Bobo: “Le prostitute in cooperativa?”. E Bobo: “Addio allo slogan la Coop sei tu, spero.” Una nefasta previsione.

Nel 2008, il claim fu sostituito da un obamiano “Insieme si può”, tentativo presto abortito con il ritorno al vecchio inossidabile slogan, in una campagna ora affidata a Luciana Littizzetto. Sono molti i copywriter che se ne sono attribuiti la maternità o la paternità (almeno una decina, secondo Aldo Cernuto, direttore creativo di Cernuto, Pizzigoni & Partners che, nella sua carriera, di portfolio ne ha visti davvero tanti). Roberto Caselli, Mauro Costa, Pepe Sangalli sono alcuni dei creativi della Tbwa, allora colleghi di Maria Carla Elvetico, testimoni della nascita di uno degli slogan più riusciti, che ha accompagnato e promosso la crescita della più grande catena di distribuzione in Italia.

Peccato che nessun altro sapesse chi ne è l’autrice. Forse è giunto il momento di chiedere i diritti d’autore, per evitare anche l’appropriazione indebita delle idee. Firmato: Copywriter senza copyright (Beh, buona giornata).

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Attualità libertà, informazione, pluralismo, Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Radio Padania come Radio Maria: molte chiacchiere, poche tasse.

La notizia è che Radio Padania è stata riconosciuta dalla Ue come un’emittente, non più a carattere commerciale, ma la concessione è stata ritenuta comunitaria.

In pratica, a Radio Padania viene riconosciuto essere espressione di particolari istanze culturali, etniche, politiche e religiose. In sostanza, a Radio Padania viene riconosciuta l’esenzione ad avere dipendenti regolarmente assunti a tempo indeterminato, di non essere soggetta a obblighi fiscali attraverso il meccanismo delle questue, donazioni o raccolta fondi, che risultano essere esentasse.

Radio Padania è stata equiparata a Radio Maria (!!), quella del Vaticano: tanti vantaggi, pochissimi obblighi. E in più, la fantastica possibilità di accaparrarsi frequenze libere, gratuitamente su tutto il territorio nazionale. In una interpellanza parlamentare al ministro Passera, l’on. Giuseppe Caforio dell’Italia dei Valori (il partito di Di Petro), scrive: . così (Radio Padania, ndr), oltre a ricevere finanziamenti milionari per fare della propaganda basata sull’intolleranza, può attivare nuovi impianti ed occupare le frequenze assegnate ad altre emittenti.”
Fosse solo per questo fatto, si capirebbe il connubio tra la Lega, Berlusconi, l’ultra-destra, e la benedizione della Chiesa cattolica: fu proprio uno degli alleati della Lega, l’on Gasparri incaricato di firmare la legge omonima, grazie alla quale, secondo Antonio Diomede, presidente dell’associazione delle Radiotelevisioni Europee Associate (REA): “Fu l’inizio di un nuovo Far West dell’Etere, legalizzato, firmato da Berlusconi e Gasparri i quali, successivamente, ebbero la sfacciataggine di consolidarlo ed estenderlo anche alle concessioni commerciali (…) Quelle frequenze- dice ancora Diomede- la maggioranza delle quali furono sanate con false dichiarazioni, hanno costituito il coronamento di un commercio illecito delle frequenze e del peggioramento dello stato interferenziale nell’etere provocando danni non indifferenti alle emittenti locali oneste e osservanti la legalità”.

Il quadro sarebbe già inquietante di suo, se non vi si aggiungesse una breve riflessione sulle motivazioni che hanno premiato Radio Padania. Come siano riusciti i leghisti al Parlamento europeo a convincere qualcuno che Radio Padania fosse meritevole del titolo di emittente comunitaria lo si può spiegare solo con l’alleanza a geometrie variabili, nel segno del più democristiano dei precetti politici: io ti do una cosa a te, tu mi dai una cosa a me. Vale a dire che con tutta la buona volontà del mondo si farebbe davvero molta fatica a riconoscere a Radio Padania l’essere espressione di particolari istanze culturali, etniche, politiche e religiose. Lasciamo subito perdere la cultura, dal momento che il responsabile della radio è tal Matteo Salvini, i cui sproloqui ci è toccato spesso sentire durante taluni talk show. Etniche? Con rispetto parlando, di etnia c’è niente di autoctono: furbi, chiacchieroni e xenofobi ce n’è mica solo nella presunta Padania. Religione? Quella del dio Po? Boh. Rimane la peculiarità politica di un partito che facendo finta di essere un movimento è diventato peggio del peggior partito della Prima Repubblica: dall’uso personale dei finanziamenti pubblici, al nepotismo, dalle ruberie dei rimborsi elettorali ai più sordidi, quanto smaccati calcoli politici elettoralistici.
Un ospite d’onore alla grande mangiatoia del debito pubblico, logica spartitoria cui anche questa vicenda di Radio Padania non sembrerebbe affatto sfuggire.
Si avvicinano i giorni delle elezioni, quelle amministrative in Lombardia, provocate dalla giunta Formigoni che è rimasta in piedi grazie all’appoggio della Lega. Quelle politiche nazionali, in cui la Lega non sembra affatto intenzionata ad affrancarsi dal berlusconismo. Anche perché leggi come quelle che permetteranno a Radio Padania di fare il proprio comodo e i propri affari la Lega se li sarebbe sognati, senza Berlusconi e soci. Beh, buona giornata.

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LItalia che verra. Industria culturale, made in Italy e territori. Rapporto 2012: le radici del futuro della pubblicita italiana.

(fonte: http://www.symbola.net).

3.1.3 Le radici del futuro della pubblicità italiana (6)

Secondo le più recenti stime, la pubblicità italiana è in netta recessione. Nielsen Media Research ha fotografato una contrazione che nei primi mesi del 2012 si attesterebbe su -8, 4%, rispetto allo scorso anno. Le previsioni di Assocomunicazione, l’associazione delle agenzie di pubblicità parlano di un andamento che a fine anno farebbe registrare un -7%. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’Upa, l’asso- ciazione delle imprese che investono in pubblicità, stima una contrazione pari a-7, 5%. Tutti i media presi in considerazione come veicoli di pubblicità, vale a dire la tv, la stampa quotidiana e periodica, le affissioni esterne, la radio, la pubblicità nelle sale cinematografiche, tutti sono in netto calo. Ha un segno positivo solo la pubblicità su internet, che si aggira su un +12%, anche se anche qui siamo in presenza di una contrazione, calcolabile almeno intorno a 5 punti percentuali.
La domanda è: la crisi della pubblicità italiana è frutto della crisi economica che più generalmente soffre il Paese? La risposta è semplice, pur nella sua complessità: la crisi dei consumi, il taglio dei budget pubblicitari non sono la causa diretta della crisi della pubblicità.
E se la causa della crisi della pubblicità fossero i pubblicitari? La causa della crisi è tutta dentro il come è strutturato il mercato della comunicazione commerciale italiana, cioè all’interno del come sono organizzati i soggetti: agenzie creative, agenzie media; concessionarie di pubblicità degli editori (tv, stampa, radio, ecc.), dall’altro. E poi, le aziende multinazionali che hanno filiali in Italia e che sono
(6) Realizzato in collaborazione con Marco Ferri, Copy Writer Consorzio Creativi

L’Italia che verrà. Industria culturale, made in Italy e territori. Rapporto 2012
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big spender in pubblicità; le aziende italiane: poche di grandi dimensioni, in grado cioè di competere con i budget delle multinazionali; molte di piccole e medie dimensioni, che spesso investono nei loro territori, a vantaggio della cosiddetta pubblicità locale.
Ma la causa vera della crisi della pubblicità italiana è dentro a come sono organizzati i media in Italia: c’è da anni una forte presenza della tv come player “monocratico” della raccolta pubblicitaria che ha profondamente condizionato tutti gli altri media. Nonostante la crisi di cui abbiamo visto i numeri, infatti attualmente la tv assorbe almeno il 51% degli investimenti pubblicitari italiani.
Fatto sta che il combinato disposto tra gli effetti della crisi economica e quelli della crisi di sistema della pubblicità italiana hanno prodotto una spinta al rinnovamento della relazione tra committente e agenzia di pubblicità.
Da Milano a Roma, da Torino a Bari sono nate agenzie di pubblicità di nuova generazione. Figlie delle crisi strutturale delle agenzie classiche, spesso fondate da creativi che avevano avuto incari- chi manageriali importanti, queste nuove esperienze stanno rinnovando il mercato. Sapendo agire senza difficoltà tra i media tradizionali e i social media, riescono a dare un servizio migliore, con un rapporto qualità-prezzo appetibile, proprio perché queste nuove agenzie sono a bassissimo tasso di burocrazia interna. Della serie, se son rose pungeranno.
Ciò che è notevole è la spinta spontanea a fare rete, a immaginarsi network di competenze in grado di essere subito disponibili alle esigenze del committente. Ma deve essere sottolineato che all’inter- no di nuove formule organizzative c’è forte il sentore di un rinnovato entusiasmo professionale, di una voglia di innovare la qualità dei messaggi, di rinnovare il rapporto tra creatività e i valori culturali espressi da questa epoca.
Una nuova consapevolezza del valore culturale della comunicazione che si esprime nello stesso modo di porsi e proporsi a mercato. Troviamo così a Milano COOkies che dice di sé: “il nostro intento era quello di creare un’agenzia di pubblicità che non fosse la solita agenzia. Non volevamo più tristi uffici con le luci al neon. Non volevamo perderci in mille burocrazie. Ci siamo dati poche regole: one- stà, puntualità, innovazione”. Oppure Art Attack a Roma che dichiara: “Usiamo la nostra creatività e la nostra visione strategica per “unire i punti”. “Unire i punti” significa scoprire opportunità di co- municazione che sono già alla portata dei nostri clienti e che aspettano solo di essere “attivate”. Per attivarle individuiamo di volta in volta la migliore soluzione creativa, che combina in modo unico le nostre competenze nelle aree più diverse: digital, social, advertising, corporate, video”. A Bari, Pro- forma sostiene: “L’agenzia nasce con l’intento già ambizioso di rivedere e aggiornare il linguaggio della comunicazione(….) Non rinneghiamo i mezzi tradizionali e li utilizziamo in maniera sempre sor-

L’Italia che verrà. Industria culturale, made in Italy e territori. Rapporto 2012
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prendente, ma da appassionati studiosi della comunicazione contemporanea, sappiamo che un uso intelligente dei nuovi media, in molti casi, può rivelarsi un’arma più efficace ed economica”. Ciò che colpisce positivamente è che queste esperienze, sia pur diverse per collocazione geografica, o per dimensione aziendale, abbiamo, invece, un linguaggio comune, e una consapevolezza della ricchez- za degli strumenti che si possono utilizzare per produrre comunicazione di buona qualità. Colpisce, inoltre, che producano riflessioni e segmenti di cultura della comunicazione attuale, come ormai nelle agenzie di pubblicità “classiche” non si usa più da tempo.
La vicinanza alle problematiche del committente e l’essere concretamente immersi nella realtà so- ciale e produttiva dei rispettivi territori, appare una componente essenziale di questo nuovo modo di intendere la creazione dei messaggi pubblicitari: una relazione calda, artigianale, fatta di sapere e passione che è tutto il contrario della pretesa fredda professionalità che proviene dai network inter- nazionali. A Milano, Le Balene scrivono sul loro sito: “Cosa dovrebbe chiedere un’azienda all’agenzia con cui sceglie di collaborare? Che sia diversa dalle altre, ma questo lo dicono tutti. Che porti argo- menti, provocazioni, idee, fatti davvero utili a rendere diversa l’azienda dalle sue concorrenti, questo è più difficile ma è quello che a noi piace veramente fare.” A Roma, Marimo, afferma: “Anche le cattive idee, i messaggi sciatti, le immagini distorte, la banalità, le volgarità inquinano l’ambiente in cui viviamo. Per esperienza, per filosofia e per un istinto che ci accomuna cerchiamo di produrre solo progetti sostenibili, cioè rispettosi dell’intelligenza altrui. O, almeno, della nostra”.
Costrette da logiche per cui la quantità di profitto è più importante della qualità del prodotto creati- vo, le agenzie tradizionali hanno espulso negli anni i migliori talenti. Ma ciò che è più evidente è che non ne hanno cercato di nuovi. E allora, i talenti si sono autorganizzati, dando vita a aggregazioni professionali che a loro volta hanno dato alla luce piccoli o grandi network di talenti, rinvigorendo quella antica e sempre proficua contaminazione di competenze che è il vero patrimonio culturale del “made in Italy”.
Siamo nel mezzo di un gran bel disordine creativo. Basta mettere il naso fuori dal perimetro rap- presentato dalla pubblicità ufficiale, per trovare esperienze ricche e molto promettenti. È il caso di EDI (Effetti Digitali Italiani) con sede a Milano, leader nel settore della post produzione per cinema e televisione. O di Dadomani, studio di creativi nato a Milano che sanno unire la tradizione visiva italiana fatta di pittura e scultura con le moderne tecnologie per l’animazione. O, ancora, Mammafo- togramma che a Milano sa mescolare scenografia, pittura e multimedialità con il cinema. A Parma, e più precisamente in provincia, c’è Magicind Corporation, uno studio creativo che realizza prodotti audiovisivi in stop-motion per la pubblicità, la messa in onda e l’industria dell’intrattenimento. E

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ancora, Abstract:Groove, società milanese formata da designers, creativi, registi, animatori, autori, musicisti ed esperti in effetti speciali. Il loro settore comprende spot televisivi, comunicazione virale, video musicali e progetti below the line. Mentre a Torino, N9ve è uno studio multidisciplinare di design, incentrato su design, grafica e animazione.
Come abbiamo visto, si tratta di esperienze multidisciplinari, protese verso il mezzo audiovisivo, ca- paci di mescolare tecniche e discipline, talenti e sperimentazioni che quando arrivano alla pubblicità e vengono utilizzati da marchi famosi, in grado di garantire una più vasta visibilità, si fanno notare per innovatività. E che avrebbero bisogno di strategie di comunicazioni altrettanto coraggiose. Che è quello che sostiene ConsorzioCreativi, che si definisce un aggregatore di professionalità e che scrive sul suo sito: “in tempi di crisi, la pubblicità torna a dialogare con i consumatori. Per sorprenderli, cercando di dire qualcosa d’intelligente, di autentico, di credibile, di scritto e visualizzato bene, che possa arricchire i valori della marca con i valori espressi dall’epoca attuale.”.
La ricchezza delle esperienze che si fondano sulla costruzione di sistemi a rete di talenti ben si confà con il sistema mediatico attuale che è complesso, perché i nuovi media non tolgono terreno ai media tradizionali, anzi sembrerebbe che il passato si aggiunge al futuro dei mezzi. Il nuovo avanza, ma il vecchio non demorde.
Tradotto in termini di pianificazione pubblicitaria e di marketing le aziende dovrebbero pianificare sia sul classico che sul nuovo, destreggiandosi nella scelta della forma di pubblicità migliore in questo scenario, che potremmo definire “liquido”. Per esempio, c’è una forte tendenza all’ibridazione tra tv e web e la fruizione da più schermi porrà alle aziende la necessità della misurazione della quantità vera dell’ascolto, non quella presunta dai dati di ascolto a campione. Secondo Carlo Freccero, diret- tore di Rai4, con l’arrivo della smart tv visibile su pc sarà più facile tracciare la mappa dei consumi in rete, per cui l’evoluzione della tv darà la sveglia alla pubblicità, che dovrà tenere conto dell’evolu- zione dei consumi, e alle emittenti, che dovranno rendere i programmi fruibili su più schermi ancora più interessanti.
Le agenzie di pubblicità di nuova generazione, al contrario di quelle tradizionali, sembrerebbero già pronte: il loro modus operandi è talmente flessibile e multidisciplinare che immaginare una co- municazione che sappia essere insieme un “unicum” nella narrazione, ma segmentabile a episodi, diversi a seconda dello schermo su cui debbano essere fruiti, è attualmente alla loro portata. Infatti, ragionare in termini di rete significa avere un’abitudine che più facilmente diventa un’attitudine ad avere una visione d’insieme, e riuscire a concepire tanti argomenti diversi, capaci di arricchire il filo del discorso che si vuole intraprendere con il consumatore.

L’Italia che verrà. Industria culturale, made in Italy e territori. Rapporto 2012
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Sarebbe di vitale importanza che i soggetti della creatività imprenditoriale italiana, nei vari distret- ti industriali, nelle diverse realtà territoriali prestassero interesse per queste nuove esperienze, espresse dalla creatività diffusa. È da queste che può rinascere uno stile adeguato alle esigenze del mercato italiano e della penetrazione dei prodotti e servizi italiani in Europa e nel mondo. Uno stile di comunicazione commerciale genuino e rispettoso delle regole, alla stessa stregua della qualità dei prodotti e dei servizi che vengono creati e offerti al mercato dalla migliore imprenditoria italiana. È necessario che la creatività esca dalla clandestinità.
Perché è proprio questo il vero nocciolo della questione: la creatività produttiva deve incontrare, stimolare, provocare, spingere la creatività nella comunicazione pubblicitaria. Qui sta è il vero valore aggiunto che la pubblicità può offrire al successo di ciò che si pensa, si costruisce, si produce, si com- mercializza. Così facendo si sono costruiti i successi dei brand globali, che le agenzie multinazionali promuovono anche nei nostri mercati.
Un sano rapporto, ancorché dialettico tra esigenze del committente e sensibilità creative è un buon viatico per fare dell’attuale crisi la palestra del talento, in modo da attivare un costante dialogo con i consumatori, interpretando le loro nuove esigenze.
Per questo sono nate negli ultimi anni strutture molto più leggere, capaci di muoversi con grande agilità, per fornire idee di alto profilo, senza spargimento di costi, burocrazie né perdite di tempo. Strutture capaci di essere molto più competitive dei mastodonti della pubblicità, lenti, costosi, che hanno la missione di servire prima i loro clienti internazionali e poi quelli locali, cioè italiani.
Oggi le filiali in Italia delle agenzie multinazionali si sono nettamente impoverite di talenti. Sono programmate, nella migliore delle ipotesi, per funzionare da hub per la gestione delle problematiche che le marche multinazionali possono incontrare in questo o quel mercato nazionale. Un’azienda italiana non ha alternative se non accodarsi ai tempi e alle modalità prescritte dalle procedure, che come rigidi precetti, presiedono al funzionamento delle grandi agenzie. Al contrario, per non creare intralci, strozzature, frustrazioni e inutili fardelli alla creatività è necessario che la struttura sia legge- ra, orizzontale, focalizzata alla risoluzione dei problemi. E che sappia produrre intuizioni concrete e condivisibili con il pubblico di riferimento del prodotto e del servizio offerto dal committente.
La pubblicità non è solo un costo da misurare con i parametri del Roi, è invece una medicina buona per l’impresa in tempi di difficoltà, è ossigeno per l’economia e per il “made in Italy”.
La crisi è una grande occasione per sperimentare nuovi percorsi verso l’eccellenza. L’invito alle azien- de italiane è non sottovalutare le capacità, il talento, il saper come si fa delle agenzie di pubblicità italiane di nuova generazione. L’invito alle agenzie di nuova concezione è non accontentarsi dell’esi-

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stente, ma di pensarsi in avanti, di essere più propositivi oltre che reattivi, di essere veloci nel com- prendere e risolvere le esigenze e le problematiche del committente. Di sentirsi fino in fondo parte consapevole di un grande progetto di ripresa, di rilancio e di sviluppo compatibile.
Avendo cura di non dimenticare mai l’insegnamento di Emanuele Pirella, che esortava i creativi a lavorare con passione, perché un prodotto, un servizio o una marca venissero scelti dagli acquirenti non solo per convenienza o necessità, ma anche per stima, per affetto, per simpatia, per apparte- nenza un mondo di valori. In ultima analisi, è proprio a questo che serve la creatività in pubblicità. (Beh, buona giornata)

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Se la crisi della pubblicit

La fotografia della pubblicità italiana è stata scattata all’ultimo Festival di Cannes, che si è appena concluso. All’Italia sono stati assegnati un certo numero di Leoni, che è il nome del premio che viene assegnato sul palco del Palais.
In realtà è andata bene alle agenzie di pubblicità globali che gestiscono in Italia la quasi totalità del mercato della pubblicità, sia dal punto di vista dei messaggi che degli spazi pubblicitari. I fatturati delle multinazionali vengono ovviamente consolidati nei paesi in cui hanno sede i rispettivi quartier generali, e vanno a beneficio dei loro azionisti.

Vista poi, la crisi verticale della stampa italiana, della radio italiana, nonché della tv italiana, sia pubblica che privata, neppure dal punto di vista dei fatturati derivanti dalle inserzioni pubblicitarie si può parlare di pubblicità made in Italy. Gli investimenti su Sky, per esempio, vanno al monopolista australiano del satellite, mentre gli investimenti sul web vanno a vantaggio di player come Google o Facebook.
L’Italia “presta” spesso personale per la creazione e la veicolazione di messaggi pubblicitari di grandi marche multinazionali: per questo si sono creati gli hub per la gestione dei clienti internazionali. Però, qui da noi rimane poco di soldi, pochissimo di cultura della comunicazione commerciale.

Il convegno che Upa (l’associazione degli industriali che investono in pubblicità) ha tenuto a Milano nei giorni scorsi è stato una delusione. Nonostante gli sforzi lessicali del presidente Sassoli de Bianchi non è uscito niente di concreto. Una lamentela qui sul ritardo degli investimenti sulla banda larga; una contumelia lì su i diritti di negoziazione; un ammiccamento colà sulla funzione del servizio pubblico radiotelevisivo. Niente di più. E di più significava tracciare una corsia preferenziale per le aziende italiane, per fare in modo che la pubblicità nel suo complesso potesse essere un nuovo starter per la ripresa. Peccato, ma la situazione richiede molto di più che non essere Malgara (il predecessore di Sassoli de Bianchi alla guida di Upa), cioè portatore di una visione totalmente asservita alle logiche della tv commerciale.

In effetti, la situazione richiederebbe un salto di qualità degli utenti italiani di pubblicità, delle agenzie, delle concessionarie, degli editori: per governare codesta crisi bisogna guidare il cambiamento, non soltanto subirlo o, peggio, ricamarci intorno. Manca concretezza, e questo non è un bene. E quando manca concretezza si fatica a leggere con chiarezza i segnali, i messaggi, le tendenze che si stanno muovendo.

Per esempio, i due Grand Prix, nella tv e sulla stampa che generalmente a Cannes tracciano una nuova tendenza per la comunicazione commerciale, dicono che è finita l’era della pubblicità come intrattenimento, che si può aprire una nuova pagina fatta di concretezza, condivisione, coesione, aderenza alla realtà.

Infatti, la campagna “Unhate” di Benetton, vincitrice del Grand Prix nella stampa, (quella che mostra i capi di stato e di governo che si baciano sulla bocca, che da noi è stata vissuta con scetticismo) è una concreta presa di posizione verso il superamento dei contrasti derivati dalla politica globale.
D’altro canto, la campagna “Back to the start” di Chipotle è la storia dell’azienda inglese che smette di produrre alimenti in modo industriale per tornare a una produzione di qualità, nel rispetto dell’ambiente: la pubblicità si colloca nel trend della green economy.

Ma a guardarla bene, questa dolce e soave campagna inglese vincitrice del Grand Prix sembra una fantastica allegoria del ritorno al modo concreto, genuino, passionale, artigianale di fare pubblicità: fuori dai reticolati delle holding, dalle strettoie dei network internazionali c’è vita, passione creatività, visione, capacità.

Come reazione professionale alla crisi, negli ultimi anni sono nate in Italia alcune strutture indipendenti, spesso con eccellenti capacità non solo creative ma anche organizzative. Ma finché le aziende italiane non la smetteranno di “accodarsi” ai budget gestiti dalle multinazionali della pubblicità e non riprenderanno in mano il destino, le loro esigenze verranno sempre dopo i mega-budget globali.

Il presidente dell’Upa, Lorenzo Sassoli de Bianchi.
Mica male, no?! Beh, buona giornata.

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Pirella c’

Emanuele Pirella, 1940-2010.
Per Emanuele Pirella, la pubblicità doveva essere tangibile, criticabile, condivisibile. E un prodotto andava scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.

Questa impostazione culturale e professionale è stata una cifra precisa, riconoscibile, direi una costante del segno che Emanuele Pirella ci ha lasciato, quando ci ha lasciato due anni fa.

E fa per niente impressione che le sue parole trovino piena cittadinanza nell’attualità: l’impoverimento culturale delle agenzie di pubblicità italiana ha toccato i minimi storici, ormai completamente fuori combattimento dal dibattito, non dico culturale, ma neppure sulla società o il costume.

E allora, alla maniera del meccanismo del rovesciamento, tanto caro alla buona pubblicità, non è stato Pirella a mancare due ani fa alla pubblicità italiana, ma l’esatto contrario: in effetti, la pubblicità italiana non c’è più, mentre VolumePills Emanuele Pirella è molto presente nella formazione culturale, nella mentalità aperta, nello stile di lavoro di chi considera il linguaggio creativo un modo stimolante per veicolare pensieri, produrre concetti, creare occasioni ghiotte di comunicazione, capaci di svicolare, surfare, sgambettare, arrampicarsi, volteggiare, scantonare in ogni media: cose che rimangano nella mente dei lettori, perché argute, intelligenti, intriganti, che esse siano lette su un autorevole quotidiano o su un sms; dette dallo speaker di uno spot o colte al volo su un twitter.

L’unica chance che la pubblicità italiana ha per tornare a essere un luogo sano sta nel sottrarsi alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla nostra epoca. Consapevoli di correre il rischio dell’innovazione, questo è l’impellente compito dei creativi pubblicitari italiani. Con Emanuele nel cuore. Beh, buona giornata.

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UniCredit ce l’ha fatta.

di Marigia Mangano – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/Oxqfr
UniCredit chiude il maxi aumento di capitale con il pieno di adesioni. L’interesse diffuso di retail e investitori istituzionali, il sostegno dei soci stabili e l’interesse del mondo imprenditoriale ha garantito alla banca di piazza Cordusio di portare a termine la ricapitalizzazione da 7,5 miliardi, complessa per dimensioni e tempistica, con risultati superiori alle attese.

L’operazione, che ha visto a capo del consorzio Bofa Merrill Lynch UniCredit e Mediobanca, ha registrato oltre il 99,8% delle adesioni pari a 7,48 miliardi di euro, battendo le previsioni più ottimistiche. «La partenza è stata dura, ma è fatta», ha dichiarato l’amministratore delegato Federico Ghizzoni.

UniCredit ha registrato anche un rilevante successo sul fronte della campagna pubblicitaria. Secondo i primi dati di un’indagine GFK/Eurisko, il 59% del target investitori ha ricordato spontaneamente la campagna (cfr: http://consorziocreativi.com/blog/2012/01/28/importante-successo-della-campagna-per-laumento-di-capitale-unicredit/) (Beh, buona giornata).

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3DNews/Il direttore del TGUno? Facciamo un concorso pubblico.

di Giulio Gargia *

Chi sarà il prossimo direttore del TG1? Move On lancia un’idea : candidare un giornalista straniero che conosca bene l’Italia. Unica garanzia di un prodotto giornalistico quanto più lontano possibile dalle logiche attuali di fattura dei TG. Il nome ? Wolfgang Achtner, da molti anni in Italia come corrispondente di numerose testate fra cui ABC News, Cnn e Press tv, autore di testi sul giornalismo televisivo, titolare di corsi universitari e di corsi di formazione per videogiornalisti e sulla comunicazione televisiva per il Gruppo Espresso.

Achtner ha scritto una lettera a Garimberti in cui chiede di decidere il direttore del TG1 con un bando pubblico per titoli. E presenta i suoi, candidandosi. La missiva è stata resa pubblica l’11 gennaio, con una conferenza nella sede della Stampa Estera a Roma . Dice il giornalista a Garimberti : “ Ho le carte in regola perchè sono indipendente politicamente, ho una carriera prestigiosa con esperienze nei più grandi network mondiali, come ABC, CNN e Press Tv e una notevole esperienza nel campo della formazione.

Nel momento in cui un nuovo governo è al lavoro per salvare il Paese – afferma Achtner – sono convinto che un buon esito dipenda da una consapevole partecipazione dei cittadini italiani e questo richiede una buona informazione, in particolar modo televisiva, che attualmente non c`è.

In base alla mia consolidata esperienza internazionale in campo televisivo, posso assicurare che, salvo rarissime eccezioni, quello che passa per informazione televisiva in Italia è pura propaganda politica. La funzione dei TG è soprattutto quella di portare nelle case le facce dei politici a ora di cena. Per non parlare del fatto che i servizi dei TG sono ancora una specie di “radio illustrata” , poco attenti allo specifico del linguaggio televisivo che si è così evoluto. Ecco, queste cose mi piacerebbe poterle applicare- continua Achtner – le prime cose che farei? Abolizione del pastone politico, niente editoriali, reintegrare gli emarginati da Minzolini, più servizi sugli esteri e meno sfilate di cani”

Poi Marco Quaranta, di Move On, ricorda il motivo dell’iniziativa : che il servizio pubblico deve operare in condizioni di indipendenza editoriale mentre ci siamo abituati all’idea che la RAI sia lottizzata. Mentre questo è il momento di tornare ai principi che muovono qualsiasi etica dell’informazione, soprattutto perchè bisogna ricordare che c’è un legame indissolubile tra democrazia e buona informazione. E tuttora oltre il 60% degli italiani hanno i TG come unica fonte d’informazione, su cui fondano le loro scelte di tutti i giorni . Compresa quella del voto. Perciò, spiega anche Gianfranco Mascia, questa è solo la prima candidatura, si tratta di riaffermare un principio, il direttore lo fa chi ha più titoli per farlo. Quindi, lanceremo altre candidature, già il 23 gennaio prossimo. E c’impegniamo a rilanciare anche il problema complessivo della governance della RAI, di come viene eletto il CdA. Su quello ripartiremo dalla proposta di Tana de Zulueta elaborata insieme a tante associazioni, che è pronta ed è stata depositata in Parlamento di nuovo già in questa legislatura da Beppe Giulietti.

Alla fine spunta anche un’ ultima idea: fare quanto prima un confronto tra un TG Uno e un nostro TG . Con Achtner mettere sul sito una “ versione alternativa” delle notizie di quel giorno. Per far vedere la differenza che un TG1 Rai rinato potrebbe marcare. Per diventare un punto di attrazione per i migliori, quelli che oggi vengono esclusi per fare posto a persone scelte sulle base della loro affiliazione politica invece che delle loro capacità. (Beh, buona giornata).

* direttore di 3D, inserto settimanale del quotidiano TERRA

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3DNews/Con le liberalizzazioni, che fine faranno i pubblicisti? Intervista a Roberto Natale.

di Lorenza Fruci

I poveri pubblicisti italiani , ancora una volta, sono tornati ad essere boicottati da un sistema e da leggi che non gli favoriscono l’esistenza. Sono circolate notizie allarmanti sulla scomparsa del loro ordine, a causa della manovra Salva Italia (art. 3 comma 5 del DL 138/2011) che potrebbe sancire dal 13 agosto 2012, tra le altre, anche la riforma dell’Odg.

La norma “Riforma degli ordini professionali” presente nel decreto che è in applicazione della direttiva europea sulle professioni regolamentate (2005/36/CE), impone il superamento di un esame di stato per l’accesso a tutte le professioni intellettuali. Prova che non è contemplata per l’ordine dei pubblicisti la cui iscrizione all’Albo è regolata dagli articoli 1 e 35 della legge 69/1963 e definisce che “Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi”. Oltre al fatto che la figura del pubblicista è una peculiarità tutta italiana, la maggior parte dei pubblicisti italiani lavora di fatto da redattore, cioè come se fosse un giornalista professionista, senza godere però degli stessi diritti dei colleghi. La “Riforma degli ordini professionali” ha dunque inquietato gli animi di pubblicisti, giornalisti (ai quali è stato prospettato un futuro senza la tutela dell’Odg del quale si è ipotizzato l’annullamento), addetti ai lavori e blogger che hanno prodotto anche molta disinformazione sull’argomento per interpretazioni errate delle varie norme della riforma.

Ne sono scaturite anche diverse polemiche, alle quali ha risposto il Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino che, in una nota del 30 dicembre 2011, ha cercato di tranquillizzare gli animi e fare chiarezza sul futuro dei pubblicisti, scrivendo in sintesi che è escluso che l’Ordine venga sciolto. Resta aperta invece la questione dell’esame di stato e quindi il destino degli attuali iscritti all’Albo dei pubblicisti. Le soluzioni pratiche possono essere due (fonte www.francoabruzzo.it): i Consigli dovrebbero ammettere all’esame di Stato tutti quei pubblicisti che, 730 in mano, dimostrano di vivere esclusivamente di giornalismo (come è avvenuto dal 1969 in poi in Lombardia); l’Albo dei pubblicisti potrebbe rimanere in vita ma come Albo ad esaurimento. La Costituzione, con il suo articolo 33 (V comma), taglia la strada a soluzioni che prescindono dall’esame di Stato. Si è parlato quindi di “percorsi formativi professionalizzanti” per i quali c’è bisogno, però, di una legge che individui questi percorsi e che preveda alla loro conclusione il rilascio di un titolo universitario che abiliti chi ne é in possesso ad esercitare la professione di giornalista. L’esame di laurea in sostanza potrebbe equivalere anche all’esame di Stato per l’accesso alle professioni intellettuali.

La discussione andrà avanti il 18/19/20 gennaio 2012, quando si riunirà Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti per esaminare tutti i delicati argomenti legati alla Riforma dell’ente e alla costituzione di una “Fondazione Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti”. Il tema sarà “come salvare i pubblicisti” poiché non è possibile chiedere l’esame di stato per l’accesso a questo elenco: i pubblicisti non svolgono la professione ed oggi, dice la Cassazione, non possono lavorare nelle redazioni. E’ possibile ipotizzare la sopravvivenza dell’elenco esistente ma soltanto fino ad esaurimento. Tra le proposte, una sanatoria per i pubblicisti che vivono di giornalismo con l’iscrizione d’ufficio al Registro dei praticanti e l’ammissione conseguente all’esame di “abilitazione all’esercizio professionale” (artt. 33, V comma, della Costituzione e 32 della legge 69/1963).

Intanto ne parliamo con Roberto Natale, segretario della FNSI.

È d’accordo con quello che scrive Enzo Iacopino?
Dal punto di vista delle norme, la cosa è in quei termini. Aggiungo che, qualsiasi siano le intenzioni del governo, il sindacato continuerà a difendere nella maniera più netta i pubblicisti che svolgono attività giornalistica -perché non sempre le due cose coincidono-. In Italia tantissimi pubblicisti svolgono di fatto attività professionale giornalistica a tempo pieno, come attività esclusiva. Il sindacato sarà al loro fianco per difendere la loro piena titolarità a continuare a svolgerla con il tesserino da pubblicista. Dal nostro punto di vista, la distinzione tra pubblicisti e professionisti, quando il pubblicista svolge attività professionista, è di trascurabile importanza.

Quali saranno le conseguenze concrete delle norme della “Riforma degli ordini professionali” e quali cambiamenti interesseranno i giornalisti e i pubblicisti?
Quelle norme fanno chiaramente intendere che sono state pensate per altre categorie, piuttosto che per quella dei giornalisti. Quando si parla, per esempio, dell’assicurazione da stipulare da parte del cliente è evidente che il governo ha in mente un quadro più complessivo delle professioni che non è riferito specificamente all’attività professionale giornalistica. Noi riteniamo che sia importante sfruttare i mesi che verranno da qui ad agosto per arrivare a fare un discorso sulla riforma radicalmente intesa dell’ordine dei giornalisti. Il sindacato intende l’eventualità che si debba rivedere l’assetto dell’ordine professionale non come una minaccia, ma piuttosto come l’opportunità che da anni si sta sollecitando di arrivare ad una vera e propria riforma della legge istitutiva della professione giornalistica in Italia: una riforma che qualifichi l’accesso (in Italia avviene in maniera troppo ampia e non sempre qualificata) e che rafforzi le competenze deontologiche rendendo più incisivo, rapido e di garanzia per i cittadini il loro esercizio da parte dell’Ordine. Queste sono le due cose che ci interessa discutere con il governo nei prossimi mesi, ribadendo naturalmente che se nella riforma dell’accesso noi ci battiamo per un accesso più qualificato, questo in nessun modo può significare che vengano cancellati i diritti di chi già oggi è pubblicista ed esercita la professione giornalistica.

Consiglierebbe ad un giovane di prendere il tesserino da pubblicista oggi?
Sì, se è una persona che ha già scritto articoli: conviene comunque ottenere il riconoscimento che si è guadagnato. Aggiungo che come sindacato ci battiamo da anni perché la discriminazione che c’è nei confronti dei pubblicisti operata da certe leggi venga eliminata. Vedi il caso della giornalista siciliana Giulia Martorana che non si è vista riconoscere il diritto di segreto sulle fonti perché pubblicista e non professionista: la posizione del sindacato è coerentemente al fianco di questi colleghi e chiediamo che venga modificata quella norma perché non ha senso impedire ad un giornalista pubblicista di potersi avvalere di un segreto sulle fonti. Si tratta di una discriminazione. Ovviamente questo discorso si inserisce nel contesto della precarizzazione, fenomeno diffusissimo nella professione, per il quale molti pubblicisti sono dei redattori di fatto (non potendo accedere al praticantato come conseguenza della situazione di crisi) e proprio per questo non meritano di essere distinti da coloro che sono professionisti di diritto.

Di fatto, i veri problemi di oggi dei giornalisti, sia professionisti che pubblicisti, sono la disoccupazione, il precariato, lo sfruttamento. Nel realizzare la riforma dell’Odg si terrà conto di questi problemi reali della categoria che vanno oltre l’appartenenza a meno ad un albo?
Come sindacato, negli ultimi anni, così come ha fatto l’ordine, abbiamo posto il dramma e il problema della precarizzazione al primo posto. Al governo appena insediatosi abbiamo ricordato che c’è un testo di legge al quale teniamo molto che è un provvedimento sull’equo compenso che è in discussione alla camera e che avrebbe in teoria il consenso di tutte le forze politiche. Abbiamo chiesto al governo Monti, così come avevamo fatto l’anno scorso al governo Berlusconi, che quel disegno di legge promosso arrivi a rapida approvazione. Sarebbe un modo per dire ai giornalisti precari, moltissimi dei quali sono pubblicisti, che il legislatore ha compreso quanto scandalosa sia la situazione di vero e proprio caporalato nei quali troppo spesso vengono tenuti.

Visti i cambiamenti in atto, si farà necessaria una regolarizzazione dei blog?
La nostra posizione è che non bisogna confondere giornalismo professionale e libertà di espressione dei cittadini. Noi come sindacato difendiamo il giornalismo professionale, ma questo non significa che vogliamo impedire a chi, per esempio tramite la rete, esercita la sua sacrosanta libertà di espressione; non vogliamo che passino norme bavaglio nei confronti dei blogger e simili e per questo, con la stessa determinazione con la quale diciamo che c’è bisogno di giornalismo professionale, diciamo come giornalisti, ma anche come cittadini, che la rete continui ad essere, malgrado i tanti tentativi di bloccarla, luogo in cui ci possa esprimere in libertà. Non ha senso voler imporre ai blogger le stesse regole che giustamente devono valere per l’informazione professionale anche in rete.

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APPELLO DELLA STAMPA A MARIO MONTI

” Stanno morendo cento giornali. Pluralismo bene prezioso”

Ci troviamo costretti ad appellarci a Lei per segnalare la drammatica necessità di risposte urgenti per l’emergenza di un settore dell’editoria rappresentativa del pluralismo dell’informazione, un bene prezioso di cui si ha percezione
solo quando viene a mancare. Alla data di oggi, infatti, queste aziende
non sono in grado di programmare la propria attività, rischiano di
dover a fine mese sospendere le pubblicazioni e anzi alcune hanno già
chiuso i battenti. Si tratta dei giornali gestiti in cooperative
espressioni di idee, di filoni culturali politici, voci di minoranze
linguistiche, di comunità italiane all’estero, no profit per i quali
esiste il sostegno previsto dalla legge per le testate non meramente
commerciali, ma per le quali oggi non ci sono garanzie sulle risorse
disponibili effettivamente per il 2012. C’è inoltre un’ urgenza
nell’urgenza: la definizione delle pratiche ancora in istruttoria per
la liquidazione dei contributi relativi all’esercizio 2010 che riguarda
una trentina di piccole imprese. In assenza di atti certi su questi due
punti sta diventando pressoché impossibile andare avanti, mancando
persino gli elementi per l’accesso documentario al credito bancario.

Nell’ancora breve, ma intensa, attività del Suo Governo, non è mancata
occasione per prendere atto della domanda di garanzie per il pluralismo
dell’informazione, anche nella fase di transizione verso il nuovo
quadro di interventi previsto a partire dal 2014. Siamo decisamente
impegnati a sostenere una riforma. Con il Sottosegretario in carica
fino a pochi giorni fa, Prof. Carlo Malinconico, era stato avviato un
percorso di valutazione delle possibili linee di iniziative. E’
indispensabile riprendere questo dossier al più presto.

Il nostro è un vero Sos che riguarda sia le procedure amministrative in corso, da sbloccare, sia la dotazione definitiva per l’editoria durante il 2012.
Il Governo ha già preso atto dell’insufficienza dello stanziamento
risultante da precedenti manovre sulla spesa pubblica e ha, perciò,
condiviso una norma, approvata dal Parlamento, che include l’editoria
tra i soggetti beneficiari del cosiddetto “Fondo Letta” della
Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’integrazione di questa
somma con un prelievo (cifra ancora indeterminata).

Ritenevamo e riteniamo che il provvedimento sulle “Proroghe”, divenuto frattanto “proroghe”, possa e debba contenere le misure opportune per stabilire l’impegno finanziario dello Stato durante il 2012. Siamo dell’avviso
che sia indispensabile la destinazione da tale Fondo di una somma non
inferiore a 100 milioni di euro, al fine di assicurare alle testate del
pluralismo dell’informazione non meramente commerciale le condizioni
minime di sopravvivenza, nelle more di un riordino del sistema di
interventi per il quale ci sentiamo solidamente impegnati. Si
tratterebbe di operare in una linea di equità, analogamente a quanto
già fatto dal Governo per Radio Radicale, verso l’indispensabile
costruzione di un nuovo e più chiaro modello di intervento.
Condividiamo nettamente l’idea che i contributi debbano sempre più
essere misurati sulla base dell’impiego dei giornalisti e
dell’effettiva diffusione delle testate e che sia davvero “impensabile
eliminare completamente i contributi che sono il lievito di quella
informazione pluralistica che è vitale per il Paese”, come Ella ha
recentemente dichiarato in sintonia con una risposta che il Capo dello
Stato diede tre mesi fa a un appello dei direttori dei giornali.

Grati per l’attenzione – d’intesa con Fnsi, Sindacati dei lavoratori,
Associazioni di Cooperative del settore (come Mediacoop, Fisc e
Federcultura/Confcooperative), giornali di idee, no profit, degli
italiani all’estero, delle minoranze linguistiche Articolo21, e
Comitato per la Libertà dell’informazione – vogliamo aver fiducia che
una puntuale e tempestiva risposta eviti la chiusura di molte delle
nostre testate e la perdita di migliaia di posti di lavoro tra
giornalisti e lavoratori del nostro sistema e dell’indotto.

Se i nostri cento giornali dovessero chiudere nessuna riforma dell’editoria
avrebbe, ovviamente, più senso. (Beh, buona giornata).

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3DNews/Auditel, un metro inattendibile che affossa la qualità.

La delibera dell’Antitrust riaccende il dibattito sulle rilevazioni degli ascolti

“Per loro ci dividiamo in aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, provinciali frivoli “

di Roberta Gisotti

Meglio tardi che mai arriva la sentenza dell’Autorità antitrust, su ricorso di Sky.
Con orgoglio ricordiamo che la verità sull’Auditel era già scritta nero su bianco nel libro “La favola dell’Auditel” (edizioni 2002 e 2005) e nel libro di Giulio Gargia “L’arbitro è il venduto” (2003), oltre che nella vasta letteratura sul tema oggi facilmente reperibile in Rete.
Una sentenza che non deve però farci abbassare la guardia se già nel 2005 la Magistratura di Milano – su ricorso di Sitcom, consorzio di quattro emittenti satellitari (Alice, Leonardo, Marco Polo, Nuvolari)- aveva condannato l’Auditel per “abuso di posizione dominante” e “turbativa di mercato”. Ma poi l’Auditel ricorse in Cassazione che annullò la sentenza, come ora annuncia di voler ricorrere al Tar contro l’Antitrust Non è quindi detta l’ultima parola. Del resto a fine 2005 l’Autorità garante per le comunicazioni aveva dato ad intendere di voler e poter riformare l’intero sistema di rilevamento degli ascolti televisivi. Ma non è stato così. Il nodo economico – trasversale agli orientamenti politici – che sottostà al patto dell’Auditel si rivelò più saldo di quanto immaginato. Del resto i controllati sono anche i controllori – come denuncia l’Autorità antitrust – in questa società privata, che pure svolge un ruolo pubblico, se il dato Auditel assume la valenza di consenso perfino politico.

Da 25 anni i rilevamenti Auditel sono funzionali ad un sistema televisivo che si continua a volere immutabile nei tempi, imprigionato nel duopolio (Rai-Mediaset), dove il polo pubblico è stato del tutto assoggettato al polo privato gestito da un unico soggetto, che arrivato al Governo del Paese ha comandato su ambedue i poli. Duopolio insidiato dal 2003 dalla Tv satellitare Sky di Rupert Murdoch, altro potentissimo e discutibilissimo monopolista, che da sempre ‘scalpita’ per qualche punto in più di share, che negli anni a fatica gli è stato concesso ma non abbastanza. Duopolio disperso oggi in uno scenario digitale del tutto trasformato che i dati d’ascolto continuano a registrare come se nulla o quasi fosse accaduto.

Da 7 canali nazionali analogici siamo passati a 37 digitali terrestri e se comprendiamo anche tutti i satellitari ci sono ben 250 canali. Eppure l’Auditel in questi tre anni di sisma televisivo non ha fatto una piega!
L’Auditel è sempre stato un sistema del tutto inaffidabile sul piano tecnico riguardo il campione, le modalità del rilevamento, l’affidamento a comportamenti a umani. Un sistema del tutto distorsivo nel modo di elaborare il dato grezzo – sconosciuto a tutti -minuto per minuto o anche 15 secondi se non si resta sintonizzati almeno 60 secondi, per cui basta restare pochi attimi davanti allo schermo per essere compresi nel pubblico di un programma che non ricordiamo di aver visto, o contribuire ad un picco d’ascolto – quanto spesso un picco di disgusto – che va a premiare proprio il peggio del peggio che non vorremmo aver visto in Tv.

Un sistema del tutto fuorviante per l’uso che se ne fa nelle redazioni televisive, sempre più anche dei Telegiornali, dove le scalette si fanno con i grafici dell’Auditel per compiacere una maggioranza di pubblico che in realtà non esiste, è virtuale, composta nei laboratori della Nielsen-Tv a Milano, ad uso e consumo di chi ci vuole tutti spettatori imboniti piuttosto che cittadini responsabili. Basti citare le categorie nei quali viene compresa nei rapporti dell’Auditel l’intera popolazione italiana: aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, eclettici esigenti, provinciali frivoli, protettivi interessati, poi c’è il gruppo dei minori di 14 anni e quello dei non classificati, dove spero esserci anch’io. Sono semplificazioni di marketing che non vorremmo – come invece accade ogni giorno – finissero sui tavoli di chi decide i contenuti della Tv pubblica ma anche privata in base a queste idiozie per condizionare i nostri stili di vita e tendenze al consumo.
Basta con la dittatura dell’Auditel che ha mercificato gli uomini e soprattutto le donne di questo Paese.

Chiediamo pluralismo e trasparenza nella gestione del rilevamento e nella gestione dei dati di ascolto, che siano non solo quantitativi ma anche qualitativi per esprimere il gradimento ed anche le attese del pubblico. (Beh, buona giornata),

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Se la Borsa si sostituisce al borsino dei direttori dei giornali.

Non bastava un governo sfiduciato dai mercati, e uno nominato dalla Bce. In Italia adesso anche i direttori dei telegiornali vengono nominati dalla Borsa.

I fatti sono che Mentana si dimette, il titolo Telecom crolla. Mentana ci ripensa, il titolo risale. Enrico Mentana deve essersi sentito più importante di un barile di petrolio, di un’oncia d’oro, per non dire più determinante del famigerato spread. Ormai che i mercati finanziari hanno rotto ogni inibizione, superato ogni riservatezza, in Italia da oggi in poi tutto è possibile. Non si muoverà foglia che Piazza Affari non voglia. Chi vincerà in prossimo Giro d’Italia, lo deciderà la Borsa.

Il campionato di calcio, quello già lo decide da un pezzo. La Borsa si sta preparando a decidere chi sarà il conduttore del prossimo Festival di Sanremo, e ovviamente chi nominerà  il vincitore non sarà più il televoto, ma il Mibtel, l’indice telematico. Si quoteranno i titoli delle canzoni? E poi,  chi vincerà le primarie del Pd? Una seduta contrastata di Piazza Affari?  La ricandidatura di Alemanno alla carica di sindaco di Roma? Sospesa per eccesso di ribasso.

Ovviamente, bisognerà stare attenti alle manovre degli speculatori: per sostenere il titolo Mediaset, ad esempio, si sono scatenati contro la Rai Minzolini e Ferrara, e contro SKY direttamente Auditel. Solo che non tutte le ciambelle riescono più col buco: da quando il Cavaliere è stato disarcionato,  l’unico buco certo è quello di Endemol, che Mediaset non riesce va dare via. Senza il santo protettore a Palazzo Chigi, Minzolinil  è stato giubilato, Auditel multata. E’ rimasto Ferrara.  Verrà considerato anche lui troppo grosso per fallire? Eppoi, riuscirà Maccari a salvare il TgUno dalla bancarotta degli ascolti? Staremo a vedere.

Intanto, tornando alla vicenda de La 7 e del suo direttore c’è  dire che i tempi sono cambiati per davvero. Una volta un direttore di successo si vedeva dai titoli di prima pagina. Oggi sono i titoli borsistici a consacrare il ritorno alla guida del Tg La 7 di  Mentana, il quale, se può essere soddisfatto di aver vinto la sua personale battaglia contro l’Associazione della Stampa romana, e di aver riottenuto la fiducia del cdr del suo telegiornale, certo qualche domanda se la sarà pur fatta,  dopo portato a termine con successo il suo personale aumento di capitale: sono un bravo giornalista o una bolla speculativa? Beh, buona giornata.

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3DNews/TV, IL MISTERO DEL MILIONE SCOMPARSO.

di Giulio Gargia

Sostiene Pancini, il direttore dell’Auditel, che un milione di spettatori può sparire da una settimana all’altra. Sono quelli della trasmissione di Santoro, che giovedì 8 dicembre avrebbe registrato il 5% , perdendo circa 3 punti di audience rispetto alla settimana scorsa. Senza contare che facendo i conti dal 3 novembre avrebbe perso più della metà dei suoi aficionados, visto che la stessa Auditel l’aveva accreditata del 12%. Insomma, un crollo epocale da fare invidia a Minzolini, Facchinetti o Banfi ( non Lino, l’altro ), cioè i migliori flop della stagione “ ufficiale”. E cosa avrebbe causato questo disastro da parte di gente che – come il pubblico dell’ex Anno Zero – ha tirato fuori 10 euro di tasca sua pur di vedere questo programma e poi se lo è andato pazientemente a cercare facendo lo slalom tra le televendite della miriade di canali del digitale ?

Sostiene Pancini che un pò è stata la festività e un pò la partita della Juventus, in contemporanea su RAI 2, a riuscire là dove la concorrenza di Piazza Pulita non era arrivata. Insomma, un milione di juventini, un pò delusi da Santoro un pò esaltati dalla fondamentale sfida con il Bologna degli ottavi di coppa Italia, match che avrebbe evidentemente deciso le sorti della stagione, hanno abbandonato Servizio Pubblico per andarsene in gita o, accesa la tv, si sono goduti lo spettacolo di Del Piero in panchina.

Sostiene Pancini che i dispersi potrebbero anche essere finiti sul web, però non può dirlo perchè l’Auditel non fa ricerche sulla rete.

Questo sostiene Pancini, e noi gli crediamo. Come gli abbiamo creduto quando disse che 1 milione e mezzo di telespettatori avevano visto per 20 minuti il cartello “ le trasmissioni riprenderanno il più presto possibile” , una sera d’estate di qualche anno fa su Rai Uno.

Quei fetenti di Sky, invece, abituati alla BBC e alla concorrenza anglosassone, non gli credono. Insinuano il dubbio. Ricordano che Auditel è una società privata, che effettua un servizio in regime di monopolio e che per tale servizio viene compensata da tutti gli operatori del settore. Sui dati prodotti quotidianamente da Auditel si basa la valutazione della performance dell’intero mercato televisivo, una valutazione che impatta direttamente sui ricavi del settore, un settore cruciale per la crescita economica del Paese ma anche per tutto il “Sistema Italia” in considerazione del ruolo fondamentale di traino che svolge la pubblicità per le imprese che hanno un prodotto da far conoscere ai consumatori italiani. Perciò parlano di una governance da riformare e di una rappresentanza azionaria in conflitto di interessi. Nonchè “una distorsione dei risultati sul piano quantitativo e qualitativo”. In pratica Sky contesta all’Auditel la natura del campione (mancano circa 5 milioni di stranieri residenti in Italia, il 7-8 per cento della popolazione) e “vengono conteggiati anche coloro che non possiedono un apparecchio tv”. Circa 400 mila famiglie, il 2 per cento del totale dello share.

Ma che l’Auditel sia degna di fede lo possiamo affermare con cognizione di causa, rivelandovi che Sky ha malignamente copiato queste sue osservazioni da due libri, usciti 8 anni fa: “ La favola dell’Auditel” di Roberta Gisotti, e “ L’arbitro è il venduto”, redatto dal sottoscritto. Perciò, le cose che loro dicono adesso le sapevano. Quindi non solo sono copioni ma anche in malafede. Se lo sapevano, e non potevano non saperlo, perchè sono venuti a mettere zizzania nell’etere italiano ?

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3DNews/Santoro e la menopausa dell’Auditel.

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di Giulio Gargia
4 volte su 4. Se è una coincidenza, allora si tratta davvero di sfortuna nera. Per 4 settimane, tutte quelle di novembre, l’Auditel ha fornito in ritardo i dati del giovedì . Giorno in cui, dal l 4 novembre, va in onda il nuovo programma di Michele Santoro, con una formula che evidentemente mette a dura prova le capacità del servizio di rilevazione degli ascolti. Che a furia di ritardi del ciclo – di rilevazione – rischia di andare in menopausa.

“Anche oggi i dati dell`Auditel arriveranno in ritardo, formalmente a causa di `un problema tecnico`. Si tratta di un fatto allarmante, guarda caso ancora una volta in coincidenza con una puntata di Servizio Pubblico, il programma di Michele Santoro”. Così dichiarava giovedì scorso Flavia Perina, deputata Fli e membro della Vigilanza.

“A questo punto è innegabile ritenere l`Auditel un sistema obsoleto di rilevazione dei dati d`ascolto, che non tiene conto delle nuove modalità di fruizione dei prodotti televisivi. E diventa anche lecito pensare che forse una parte dei soci di maggioranza del consorzio, Rai e Mediaset in particolare, temono l`effetto Santoro”, concludeva la Perina. Che risolleva così uno dei problemi basilari della Tv : ma l’Auditel è attendibile ? Ora, senza entrare nel merito dei problemi che – secondo chi scrive e tanti altri – NON rendono tali i suoi dati, vogliamo ricordare che ogni volta che si presenta un nuovo network sulla scena TV, i suoi rapporti con l’istituto di via Larga non sono mai tranquilli. E’ successo con La7 ai tempi del mancato lancio del “terzo polo”, quando furono disdetti contratti già firmati con star come Fazio e Litizzetto, e alla rete fu imposta la consegna – accettata dai suoi vertici – di non superare il 3% nel giorno medio. E’ successo con Sky, quando ha chiesto di entrare nel comitato tecnico, tanto che ci sono stati comunicati di fuoco tra Mokridge, ad di Sky Italia e Pancini, direttore Auditel. E sta succedendo adesso con Servizio Pubblico e il network di Tv che lo manda in onda che si propone, almeno il giovedì sera, come un attore capace di rompere i sempre delicati equilibri su cui si spartisce la pubblicità. Perchè il problema è sempre quello : chi controlla gli spot, controlla la Tv . E dall’86 a oggi gli investimenti pubblicitari si sono ridistribuiti a favore della tv, grazie anche ai numeri che ha prodotto l’Auditel, che hanno orientato ingenti risorse a spostarsi da stampa e radio a favore della tv, e in particolare verso il costituendo duopolio RAI – Mediaset. Ma le modalità di produzione e divulgazione di questi dati hanno generato dubbi sempre più consistenti, corroborati da inchieste e libri che ne hanno minato l’attendibilità.

Il caso Santoro è solo l’ultimo , e nemmeno il più eclatante. Ma potrebbe essere quello che finalmente mette in crisi l’Auditel non tanto come apparato tecnologico obsoleto, come dice la Perina, ma in quanto macchina di costruzione e conferma del consenso attraverso la “ visione obbligata”. Come il PIL , che tutti gli economisti stanno rimettendo in discussione come parametro di misura del benessere di una società, così l’Auditel è destinato a implodere dentro una TV sempre più parcellizzata e specifica come quella digitale. E il fatto che le Tv locali siano sottostimate storicamente è un ulteriore conferma di come questa approssimazione chiamata Auditel sia ormai un residuo del passato da superare al più presto. Il problema non è la tecnologia: basterebbe collegare un cavetto telefonico a ogni decoder digitale per avere i dati degli ascolti in tempo reale, come sui siti Internet, in cui sai sempre quanti visitatori ci sono in quel momento. Il problema è l’apparato commerciale e industriale (grandi emittenti, centri media, agenzie dominanti ) di cui Auditel è il servomeccanismo, che non riuscirebbe a “ digerire” dei “ numeri” veri . E che dovrebbe dire ai suoi clienti investitori cose molto diverse da quelle finora avallate dalle curve e dai grafici d’ascolto.

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3DNews/La finanza Auditel, quel PirL che insegue il PIL.

I dati Auditel sulle pagine del Televideo Rai.

di Giulio Gargia
L’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società. Sono termometri di una mentalità da cambiare, indicatori di una marcia da invertire. Esempio: “Gli uragani Katrina e Rita avranno ripercussioni negative sull’economia americana solo nel breve periodo, il successivo processo di ricostruzione stimolera’ infatti la crescita”.
Così diceva il segretario al Tesoro Usa, John Snow, presente al vertice del Fondo Monetario Internazionale di Washington. Insomma, benvenuta Katrina, se l’economia poi cresce che sarà mai qualche morto annegato e qualche saccheggio ?
Questa è la logica demenziale di quello che si chiama pensiero unico. Ed è questa logica che l’Auditel ha portato in televisione.

Perciò oggi l’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società . Provo a spiegarlo, usando un bell’articolo di Giorgio Ruffolo di qualche tempo fa sul PIL, l’indice che misura lo sviluppo economico di un paese. Scrive Ruffolo :
“Il governo italiano, ma tutti i governi del mondo sono incollati allo schermo del Pil. Zero virgola in meno, iattura, zero virgola in più, vittoria. Elettorale, s´intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Pil, è una cosa seria? Domanda per niente affatto nuova, come ben sappiamo, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dagli economisti che l´hanno inventato e dai politici che ne usano e ne abusano”.

La cosa curiosa è che tutte le sue giuste argomentazioni si possono trasporre, senza colpo ferire, alla questione dell’Auditel, su cui da anni – grazie anche agli sforzi di Megachip – ormai si discute. Sostituiamo qualche parola e vediamo se è davvero così.
Per inquadrare la questione, riportiamo un’agenzia sugli ascolti di domenica 2 ottobre.
Prime time festivo alla Rai con il 42,83% rispetto al 36.39% di Mediaset, con Raiuno al 26,31%. Mediaset invece si è aggiudicata la seconda serata con il 39.87% (38,19% Rai). In seconda serata lo speciale Tg1 con una puntata sul fenomeno del bracconaggio ha ottenuto uno share del 16,84% e 2 milioni 190 mila spettatori superando il diretto concorrente ‘Terra su Canale 5 che ha avuto 1 milione 508 su Canale 5, share 10.60% occupandosi di Islam. Su Raitre il programma di Serena Dandini ‘Parla con mé ha registrato l’11,13% con 777 mila spettatori.

E‘ evidente che anche qui “Il governo della TV italiana è incollato ai grafici dell’Auditel. Zero virgola in meno, sconfitta, zero virgola in più, vittoria. Televisiva, s’intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Auditel, è una cosa seria? Domanda per molti versi nuova, come ben sappiamo sollevata da noi e da articolo 21, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dai pubblicitari che l´hanno inventato e dai direttori e responsabili TV che ne usano e ne abusano”.
Continuiamo. Afferma Ruffolo sul PIL : “La risposta è sì, certo, è cosa seria, ma solo se utilizzato correttamente, nell´ambito del suo significato: e cioè, come indice della produzione complessiva dei beni e dei servizi venduti sul mercato. Dei beni e dei mali, purtroppo. Se invece è usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice di efficienza dell´economia nazionale nel suo insieme o, addirittura, del benessere sociale, la risposta è tre volte no”.

Contro canto sull’Auditel : ” La risposta è molto dubbia. Ma i dubbi diventano certezze, in negativo, perché certamente l’Auditel non viene utilizzato correttamente, nell’ambito del suo significato ( cioè quello di misurazione per mettere un prezzo agli spot pubblicitari ) ma è ormai indice di gradimento e di giudizio sulla sopravvivenza di un programma. Viene quindi usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice unico di efficienza di un programma e di una rete e, addirittura, del gradimento sociale verso la TV nel suo insieme. Perciò la risposta alla domanda se Auditel è una cosa seria è: tre volte no”.
Ruffolo continua : “Chi sarebbe disposto a sostenere che un paese in cui sono aumentate le devastazioni ambientali la criminalità e le diseguaglianze, diminuita l´istruzione e peggiorate le condizioni sanitarie, stia alla pari con uno in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché il Pil sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino.

Contro canto Auditel : Chi sarebbe disposto a sostenere che una Tv in cui sono aumentate le sopraffazioni,le manipolazioni, in cui è messa la bando la cultura, ( al massimo relegata in 3° serata) quasi azzerata la qualità complessiva dei programmi e peggiorate le condizioni del pluralismo, stia alla pari con un canale in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché l’Auditel sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino
Riprende Ruffolo : “Diceva l´economista Oskar Morgenstern, autore, insieme a von Neuman, della Teoria dei giochi: «Quando la scienza economica raggiungerà uno stato più maturo, sembrerà incredibile che tali misure siano state prese sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera nazione: misure di questo tipo appartengono ai secoli bui».

E allora, perché sono prese sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo del capitalismo; e il capitalismo è diventato la forma sociale e ideale suprema delle società «avanzate».
Diciamo noi : “Quando l’opinione pubblica sarà davvero messa in grado di giudicare, quando le saranno stati forniti strumenti meno rozzi e più flessibili dell’Auditel, sembrerà incredibile che tali dati siano state presi sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera televisione: misure di questo tipo appartengono a tempi bui. E allora, perché li dati Auditel sono presi sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo della Tv dominata dall’Auditel”
Argomenta ancora Ruffolo : La sinistra porta il lutto della catastrofe comunista. Un lutto che si estende anche a quella non comunista e che comporta la sostanziale rinuncia a ogni forma di guida politica e l´adesione sostanziale a una economia di mercato totalitaria: un´adesione troppo a lungo ritardata, e forse per questo acritica.

Di questa acriticità fa parte l´adozione del Pil come stella polare: al posto della rivoluzione, e va benissimo; ma anche di qualunque progetto di società che tenga conto dei bisogni e dei valori che il mercato ignora o offende: e va malissimo.
In questo contesto di resa culturale incondizionata al pensiero unico si colloca il pirlismo della sinistra: la riduzione della sua strategia alla deriva della crescita continua e indifferenziata (di tutto, di più) orientata da una «misura priva di teoria», come diceva l´economista Koopmans.

Coloro che si permettono di ricordare che l´insignificanza del Pil non è un problema di tecnica statistica, ma è una grande ed essenziale questione culturale e politica, sono considerati frivoli disturbatori di una politica severamente e altrimenti impegnata: per esempio, nel grande dibattito sul Partito Democratico .
Ma che cosa pretendono questi disturbatori?

Diciamo noi : E la Sinistra, che dice su Auditel? Cosa dice Petruccioli, che ha celebrato la vittoria della RAI su Mediaset affidandosi ai dati Auditel ? Ma in questo almeno bisogna capirlo. Quali altri strumenti ha ? Perciò ci tratta da disturbatori.
Chiosa Ruffolo : Risponderei che pretendono di ricordarsi dell´insegnamento teorico e delle proposte pratiche di economisti “eretici”, come l´americano di origine romena Georgescu Roegen, l´americano di origine indiana Amartya Sen; i nostri Giorgio Fuà e Giacomo Becattini, nel senso:

(a) di una riforma del Pil che lo depuri dalle bestialità più clamorose per farne un indice realmente rappresentativo dell´attività economica;
(b) di costruire indici del benessere in grado di rappresentare sinteticamente la qualità sociale del paese nei suoi aspetti più critici: lavoro, ambiente, sanità, istruzione, sicurezza;
(c) di definire infine, al massimo livello della responsabilità democratica, un traguardo progettuale collocato nel tempo, che integri in un «indice normativo» equilibrato gli obiettivi economici e sociali adottati come scelte da proporre al Paese.
Rispondiamo noi: eppure le cose da fare sono semplici.
a ) Bisogna applicare la legge 249 e far sì che sia l’Autorità delle Telecomunicazioni in prima persona a fare i rilevamenti degli ascolti.
b) L’Auditel deve consegnare i dati grezzi ( cioè non trattati dai suoi software ) ad esperti indipendenti per consentire elaborazioni alternative.
c ) Bisogna che l’Autorithy avvi ricerche qualitative che integrino e correggano il dato Auditel nell’opinione pubblica. E devono essere diffusi in contemporanea.

In sostanza, chi dice quanti spettatori hanno visto Fede, ci deve anche dire a quanti è piaciuto e a quanti no, di modo che il numero non diventi automaticamente indice di qualità.d ) Dev’essere reso pubblico l’IQS RAI, ovvero la ricerca sul gradimento dei programmi del servizio pubblico. Ricerca resa pubblica una sola volta, nell’ottobre dello scorso anno, che ha dato risultati “eversivi” per gli attuali vertici RAI e che da allora è stata nuovamente segretata. Nonostante la sua pubblicazione sia prevista , ogni trimestre, dall’accordo tra Stato e RAI.

E chiudiamo, sottoscrivendo la conclusione di Ruffolo sul Pil che vale anche per l’Auditel: Cari compagni: non è questo un modo intelligente e pratico per uscire da un´afasia culturale e politica mal dissimulata dalle chiacchiere sul riformismo; di mettere i numeri al posto dei simboli; gli impegni al posto dei discorsi; insomma, di riacquistare, credibilmente, una bussola perduta ?
E di seguito diciamo noi : non è il caso di ricostruirsela da soli, una bussola, che segni i nostri punti cardinali, senza inseguire quella degli altri ?

Giulio Gargia è l’autore del libro ” L’arbitro è il venduto” , sulle storture delle rilevazioni degli ascolti.

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E’ vero: Facebook traccia tutti gli utenti.

(fonte: ilsole24ore.com)

Grazie ad altrettante interviste rilasciate da quattro manager di Facebook, gli ingegneri Arturo Bejar e Gregg Stefancik e i portavoce Andrew Noyes e Barry Schnitt, USA Today è stato in grado di ricostruire le modalità con cui in casa Zuckerberg si tracciano i Facebook-addicted negli immensi spazi della Rete. Metodi che differiscono tra loro: ce n’è uno studiato per i membri di Facebook loggati durante la navigazione, uno per quelli non loggati e uno studiato per chi non è annoverato tra gli 800 milioni di iscritti; fatto che rende ancora più inquietante il potere della piattaforma social.

Il funzionamento è tanto semplice quanto efficace: il computer o il device di un internauta, che dovesse navigare su una qualsiasi pagina offerta da Facebook, diventerebbe ospite di un apposito cookie; il quale diventa due se l’internauta è già registrato al social network, da qui parte l’attività di tracking. Ogni altra risorsa visitata che contiene plugin di Facebook (ad esempio il classico bottone “like”) viene registrata insieme alla data, l’ora e un identificativo univoco assegnato al computer. Visitando altre pagine web, quando si è eseguito il login a Facebook, vengono tracciati anche il nome utente, il proprio indirizzo email ed informazioni relative ai propri “amici”.

Ciò dà maggiore senso alla necessità di certificare il proprio pc o device quando ci si collega a Facebook da una fonte mai utilizzata in precedenza o dopo avere pulito la cache del proprio browser. I dati vengono conservati per 90 giorni e questa tecnica non è del tutto estranea a quelle adottate, ad esempio, da Google o Yahoo!, lasciando peraltro defluire tutta una serie di informazioni che possono fare gola alle agenzie di marketing o a quell’industria che basa il proprio core business sui dati personali degli internauti.

Il tema della privacy torna a bussare forte, ed è uno degli argomenti – insieme alla sicurezza – che spaccano in due il popolo del web. Le strade percorribili sono, al momento, due: o continuare ad alzare gli scudi oppure accettare questa fuga di informazioni personali come lo scotto da pagare per poter godere dei vantaggi offerti dalla Rete. Quest’ultima ipotesi è quella a più riprese sponsorizzata dalla stessa Facebook. (Beh, buona giornata).

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