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Sicurezza: ecco come sono stati avvelenati i pozzi.

(fonte: repubblica.it)
Durante i due anni del governo Prodi (2006 e 2007) i tg hanno raddoppiato lo spazio della cronaca nera. Secondo uno studio del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva (nato da un’iniziativa dei radicali) dal 2003 al 2007, il tempo dedicato ai servizi su delitti, violenze e rapine è raddoppiato (se non triplicato) passando dal 10,4% dei tg del 2003 al 23,7% di quelli del 2007. Dato significativo che potrebbe avere aumentato la percezione di insicurezza da parte degli italiani, e avere avuto un peso alle elezioni politiche del 2008, tesi sostenuta dal centrosinistra in molte occasioni. Come la convinzione che il senso di incertezza e paura sarebbe nato in parte per il battage dei media.

I numeri dicono che nel 2003 il Tg1 ha dato notizie di cronaca nera per l’11% del suo tempo, il 19,4% nel 2006, il 23% nel 2007. Il Tg2 è passato dal 9,7% del 2003 al 21% del 2006, fino ad arrivare nel 2007, al 25,4%. Il Tg3 è la testata che registra il minore aumento, passando dall’11,5% del 2003 al 18,6% del 2007. Sulle reti Mediaset l’aumento è maggiore: per Studio Aperto, la percentuale è stata pari al 30,2 della durata totale dei tg del 2007, contro il 12,6% del 2003. Il Tg5 è passato dal 10,8% al 25,7%. Il Tg4, malgrado il raddoppio negli ultimi 5 anni, ha avuto l’incremento minore, dal 10,2% del 2003 al 20,9% del 2007. (Beh, buona giornata).

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Stupro della Caffarella: “La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale.”

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.

Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo «disguido» delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.

Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative «audaci» da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.

La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come «chiariti»: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith. Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.

A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di «nera». Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di «soap» giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti.

Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso «transgender» che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.

Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!

Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come «materiale organico» e «Dna», nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.

Ora, di fronte alle smentite, si dice: «La politica ha messo fretta». Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.

Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo. (Beh, buona giornata).

Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento. (Beh, buona giornata).

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Stupro della Caffarella: gli esami del DNA smentiscono una sentenza già scritta.

di LUCA LIPPERA da ilmessaggero.it

ROMA (3 marzo) – L’inchiesta sullo stupro della Caffarella si complica ulteriormente. La Procura ha ammesso che esistono «discrepanze» tra il Dna dei romeni in carcere per la violenza di San Valentino e le tracce (di saliva, sudore e liquido seminale) individuate sulla vittima. Ma la vera novità sembra un’altra: le impronte sulle carte “sim” dei cellulari rubati ai fidanzatini, tirate fuori dagli aggressori nel parco e buttate nel bosco, sarebbero inservibili in quanto «troppo frammentarie»: potrebbe dunque diventare impossibile collegarle a Alexandru Isztoika, 19 anni, e Karol Racz, gli immigrati tuttora in carcere per la feroce violenza che ha scosso la città nel giorno di San Valentino.

I difensori dei romeni, Lorenzo Lamarca, e Giancarlo Di Rosa, convinti che «in uno Stato di diritto contino le prove e non le parole», hanno presentato due istanze al Tribunale del Riesame chiedendo la liberazione degli stranieri. I vertici della Procura, ieri, hanno fatto capire chiaro e tondo che i test del Dna sono negativi per entrambi i romeni. Ma c’è di più. Gli investigatori sembrano convinti che l’esperto della Criminalpol che ha eseguito gli esami possa aver commesso in buona fede un errore. I nuovi accertamenti, fatto non consueto, non verranno eseguiti dalla Polizia Scientifica: il compito è stato affidato a un biologo esterno che già domani potrebbe confermare l’esito del collega o ribaltare tutto. Nel qual caso dovrà spiegare dove e perché vi fu un errore.

È chiaro che la negatività dei primi test peserà. Se non ora, sull’eventuale processo. Il nervosismo tra gli investigatori si avverte ed è palpabile anche il timore di aver preso, magari solo parzialmente, un abbaglio. Non a caso nei prossimi giorni, per scongiurare la possibilità (più teorica che altro, ndr) di una commistione tra il Dna di diverse persone, il fidanzatino della quindicenne seviziata alla Caffarella potrebbe essere sottoposto a un prelievo per stabilirne il profilo genetico. I ragazzi verranno comunque risentiti. Perché, si fa capire in Questura, «ci sono da chiarire alcuni punti oscuri». Quali e quante siano le ombre non è dato, tuttora, sapere.
Ma gli investigatori, dopo la “bomba” sul Dna, ieri hanno manifestato ottimismo. Il capo della Squadra Mobile, Vittorio Rizzi, ha incontrato in Procura, a piazzale Clodio, Vincenzo Barba, il pubblico ministero che coordina l’inchiesta. La Procura giudica «del tutto parziali i test non attribuibili completamente agli indagati». Quello su Racz, in realtà, sarebbe completamente negativo. Quello su Isztoika, il “biondino”, ex pastore in Transilvania, lascerebbe invece qualche margine all’accusa. Il Pm ha confermato di aver «disposto nuovi accertamenti per cancellare i dubbi» convinto che ci siano «a carico dei due elementi pesanti come macigni».

Il capo della Mobile, rispondendo a un cronista dell’Ansa, ha anche parlato del giallo dei telefonini. I cellulari personali di Isztoika e Racz, all’ora dello stupro, sabato 14 febbraio, ore 18,30 circa, non erano agganciati ai ripetitori nella zona Caffarella. Rizzi ha definito il fatto «una fantasia giornalistica». I dati effettivamente non sono nel fascicolo dell’inchiesta, fascicolo che per ora nessuno (neanche la difesa) ha visto. È il comprensibile gioco delle parti tra chi raccoglie elementi d’accusa e chi si difende. La polizia sapeva, fin dai primi giorni dopo la violenza, che gli apparecchi erano altrove. La cosa può voler dire tutto e nulla: non è detto che un rapinatore porti sempre con sé il telefonino sapendo di poter essere “tracciato”. Così gli inquirenti hanno sorvolato.

Ora ci si concentra anche sulla successione di colloqui che ha portato la vittima a indicare Isztoika, il “biondino”, come uno degli stupratori. La ragazzina fu sentita una prima volta appena uscita dall’ospedale. Erano le 00,20 del 15 febbraio. La vittima parlò subito di un «giovane coi capelli chiari». Il pomeriggio dello stesso giorno, alle 16,30, con l’aiuto di una psicologa dell’associazione “Differenza Donna”, la quindicenne cominciò a far tracciare negli uffici della Mobile un primo fotokit dell’aggressore. Quattro ore dopo riconobbe, tra quelle che le venivano mostrate dalla polizia, la foto del romeno. Il giorno dopo la Mobile e il Questore di Roma potevano annunciare gli arresti. «Bravissimi o fortunatissimi disse Rizzi alla settima foto la vittima ha detto: “Ecco, è lui!”». Ma il bosco della Caffarella forse si è tenuto qualche lupo e molti misteri.

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La sicurezza, le ronde e le “facce da romeni”.

di RICCARDO BARENGHI da lastampa.it

Una regola basilare di qualsiasi società fondata sullo Stato di diritto si chiama garantismo. E fin qui non ci piove. Solo che se facciamo un passo in più, oggi, in Italia, nel clima che ormai si è creato, rischiamo la più profonda impopolarità. Però lo facciamo lo stesso, per dire che anche i romeni hanno diritto a essere garantiti. Addirittura quei romeni accusati e arrestati per stupro. Quelli della Caffarella, quelli di Primavalle e chiunque altro sia stato o sarà incriminato di qualsiasi reato. Al di là del fatto che siano innocenti o colpevoli – e al momento ci sono molti dubbi che i due accusati dell’orrendo stupro su una ragazza di 14 anni abbiano commesso quel reato, anche se uno dei due è indicato come responsabile di un altro stupro – la regola deve valere per tutti. Italiani, romeni, albanesi, tunisini e via dicendo. Fino alla prova definitiva della loro colpevolezza, si tratta di persone (persone) innocenti. E possono avere qualsiasi faccia truce, qualsiasi espressione poco raccomandabile, possono frequentare i peggiori bassifondi della città, ma sempre innocenti sono fino a che non si dimostra il contrario.

Sebben che son romeni, insomma, sebbene cioè si tratti ormai della popolazione che nel cosiddetto immaginario collettivo suscita più paura, più repulsione e provochi l’istinto primordiale del nemico da sconfiggere o cacciare, sebbene tutto questo, sempre di persone stiamo parlando che potrebbero anche essere innocenti accusati ingiustamente. Ora, figuriamoci, sappiamo benissimo che nelle statistiche della criminalità importata nel nostro Paese, i romeni non sono certo tra gli ultimi. Anzi. Ma proprio per questo, ancora di più vale il discorso. Perché se ci facciamo trascinare dal nostro terrore per il romeno, e lasciamo che le indagini, gli arresti, i processi, insomma la giustizia faccia non il suo corso previsto dalla Costituzione ma vada avanti sull’onda dell’emotività pubblica, allora un domani saranno guai per tutti. Anche per noi italiani. Se poi in questo quadro già piuttosto preoccupante ci mettiamo pure le ronde in arrivo, lo scenario che si prospetta non è certo tranquillizzante.

Possiamo prevedere, senza grandi rischi di sbagliare, che saranno proprio i romeni (seguiti dagli albanesi, i tunisini, i neri, gli immigrati in genere) quelli più «segnalati» dalle squadre di cittadini perbene chiamati a vigilare sulla nostra sicurezza. Ma quanti di loro risulteranno poi innocenti, gente che magari beveva una birra per strada, discuteva, scherzava rumorosamente, o forse litigava pure? Quanti di loro saranno costretti a passare una notte in Questura cercando, faticosamente, di dimostrare la loro estraneità a qualsiasi azione criminale? E alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione? Domande retoriche, risposte scontate. E evidente che più l’emergenza stupri cresce nella percezione dell’opinione pubblica, più bisognerebbe avere la capacità di tenere a freno le emozioni. Soprattutto se si è chiamati a responsabilità di qualsiasi genere, dal governo fino all’ultimo poliziotto, fino all’ultimo rondista.

E fino a qualsiasi cittadino si trovi sulla scena di un delitto sentendosi magari sicuro di riconoscere quel romeno piuttosto che quell’altro. Non è facile riconoscere una persona intravista nella notte e che magari assomiglia a tanti suoi connazionali. Già si sente in giro la frase «quello ha la faccia da romeno» (chi si ricorda lo straordinario libro-inchiesta del tedesco Wallraff Günter, «Faccia da turco»?). Si dovrebbe allora pensarci due volte prima di accusare qualcun altro, si dovrebbero vagliare tutti gli indizi, una, dieci, cento volte, prima di arrestare qualcuno. E si dovrebbe anche stare attenti – noi che facciamo informazione – a come pubblicare queste notizie, con quale enfasi, quali certezze, quale rilievo, quali e quanti dubbi. Tanto più se si tratta di romeni: un aggettivo che purtroppo è diventato sinonimo di criminale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Quello che deve sapere chi viaggia con la “Freccia Rossa”.

Si è chiuso a Firenze il processo per i danni ambientali causati dai lavori per l’Alta velocità tra Firenze e Bologna. La sentenza riporta 27 condanne da tre mesi d’arresto a 5 anni di reclusione e un risarcimento danni di oltre 150 milioni di euro.

Fra le persone condannate a 5 anni, figurano i vertici del Consorzio Cavet, che ha avuto in appalto i lavori Tav: Alberto Rubegni, Carlo Silva e Giovanni Guagnozzi, presidente, consigliere delegato e direttore generale di Cavet.

I risarcimenti sono stati riconosciuti per il ministero dell’Ambiente, in misura di 50 milioni, Regione Toscana, 50 milioni, Provincia di Firenze, 50 milioni, e per cifre da 5 a 25 mila euro per altre 5 parti civili costituite da Comuni e province interessate ai lavori.

In tutto gli imputati, accusati a vario titolo, erano una cinquantina, fra dirigenti e dipendenti Cavet, ditte in subappalto, gestori di cave e discariche. Il giudice del tribunale, Alessandro Nencini, ha ritenuto i 27 imputati condannati colpevoli di illecito smaltimento dei rifiuti. Assoluzioni invece per il danneggiamento dei corsi d’acqua e dei pozzi privati, mentre riguardo all’imputazione di furto di acqua ha sollevato la questione di costituzionalità.

Durante il processo i pm Gianni Tei e Giulio Monferini avevano chiesto condanne per un totale di 180 anni, tra queste le più alte, a 10 anni, per Rubegni, Silva e Guagnozzi. Per l’accusa, i lavori per la Tav avrebbero provocato danni per 750 milioni di euro, sia per un illecito smaltimento dei rifiuti, sia per l’impoverimento delle risorse idriche. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Sicurezza: “Centinaia di mariti fuori a fare le ronde, significa centinaia di mogli a casa da sole, dunque meno esposte a pestaggi e violenze sessuali.”

C’è clamore – Giochiamo alla ronda. da alessandrorobecchi.it

Ha ragione Roberto Maroni: le ronde faranno diminuire gli stupri. Centinaia di mariti fuori a fare le ronde, significa centinaia di mogli a casa da sole, dunque meno esposte a pestaggi e violenze sessuali.

E’ una mera notazione statistica, non se la prendano gli indagati per istigazione all’odio razziale che militano nello stesso partito del ministro degli Interni. Ha ragione anche Silvio Berlusconi: gli stupri sono diminuiti, ma le ronde si fanno lo stesso perché su questa faccenda c’è “clamore”. Ma che razza di bastardi sono quelli che fanno “clamore” su stupri e violenza? Non saranno mica i proprietari di televisioni che aprono con la cronaca nera ogni edizione del telegiornale! Tanto per gradire (fonte: Centro d’Ascolto sull’Informazione Radiotelevisiva), ecco qualche numero. Nel 2007 hanno aperto il loro notiziario con la cronaca nera, creando apprensione e paura nel paese, i seguenti telegiornali. Tg1, 36 volte, Tg2, 62 volte, Tg3 32 volte, Tg4 70 volte, Tg5 64 volte e Studio Aperto (record! Il tg tette&culi non delude mai) 197 volte.

Se ne deduce che durante la scorsa campagna elettorale le televisioni di proprietà del candidato Silvio Berlusconi hanno pompato sulla paura molto più delle altre (insieme al fedele Tg2). E’ un dato di fatto. Impaurito a dovere il paese, creato quel “clamore” che oggi si denuncia, si è passati all’incasso vincendo le elezioni e preparando il terreno per il razzismo applicato e la pulizia etnica di questi giorni. Ora la situazione è più complessa: lo statista Berlusconi deve dire (per forza!) che i reati sono calati, ma ricorre alla decretazione d’urgenza a causa del “clamore”.

In sostanza a causa della propaganda delle sue televisioni. Quanto alle ronde, si vorrebbe far credere che nascono per impedire la furia del popolo che vuole farsi giustizia da sé. In italiano tutto questo ha una sola definizione: la faccia come il culo. Resta da chiedersi, quando cominceremo noi a dire a questi ceffi: tolleranza zero? (Beh, buona giornata)

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Lavoro Leggi e diritto

Quello che succede quando si manda al governo la destra: “Atto autoritario e illegittimo del ministro Matteoli impedisce lo sciopero del 4 marzo del trasporto aereo.”

(riceviamo e pubblichiamo)

Atto autoritario ed illegittimo del Ministro Matteoli mpedisce lo sciopero del 4 marzo del trasporto aereo

Dichiarazione di Fabrizio Tomaselli
Coordinatore nazionale SdL intercategoriale

Il 4 marzo i dipendenti Alitalia volevano e potevano scioperare perché non sono minimamente
soddisfatti per come stanno andando le cose nella nuova azienda. Buste paga incomprensibili, orari di lavoro
lasciati alla più completa discrezionalità aziendale, migliaia di colleghi in cassa integrazione o fuori
dall’attività perché precari, tutti senza alcuna certezza di lavoro.

Il contratto di lavoro sottoscritto da sindacati “compiacenti” è del tutto simile a quello di una società lowcost
con pochissimi aerei, nessuna chiarezza nei criteri delle assunzioni, una pervicace ed insolente
indisponibilità a tener conto di qualsiasi elemento che possa migliorare le condizioni di lavoro, anche quando
ciò non comporterebbe alcun costo aggiuntivo per l’azienda, l’insistente ed evidente violazione della dignità
individuale e collettiva di migliaia di lavoratori: questo è ciò che misurano i dipendenti della “nuova” Alitalia.

Il Ministro Matteoli, dopo una inutile e formale incontro tra le parti avvenuto nella serata di ieri, ha
emanato una ordinanza che vieta lo sciopero. Non esisteva alcun rilievo della commissione di garanzia e
quindi lo sciopero era assolutamente regolare.
Nonostante ciò il Ministro, forse per anticipare il disegno di legge del suo Governo che vorrebbe
impedire quasi del tutto lo sciopero nei trasporti, ha compiuto un atto che consideriamo
gravissimo, dal punto di vista formale, giuridico e politico.

Impedire uno sciopero regolare vuol dire infatti schierarsi apertamente dalla parte delle aziende e non
tener in alcun conto il punto di vista del lavoratore.
Un diritto sancito dalla costituzione viene così subordinato al voler di un Ministro che lo vieta
attraverso una semplice ordinanza. Un diritto costituzionale viene messo in soffitta perché il Governo ha
deciso che esso non ha più valore.

Se questo è il livello di libertà e di democrazia nel nostro Paese, allora abbiamo probabilmente
più di qualche problema e l’intero popolo italiano dovrebbe cominciare a preoccuparsi
seriamente per il proprio futuro.(Beh, buona giornata).
Roma, 30 Marzo 2009

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Zagrebelsky: “Le nostre società sono un continuo produrre disuguaglianza: nelle condizioni economiche e culturali, nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione alle deliberazioni pubbliche.”

di Cesare Martinetti – «La Stampa»

L’ex presidente della Consulta Zagrebelsky prepara la Biennale di Torino. “Se non ci sono argini il potere è portato a espandersi e corrompersi”

In Italia c’è qualcosa che si può definire «disagio democratico»? Stiamo scivolando verso il populismo, la demagogia o l’oligarchia, come molti dicono? La crisi del Partito Democratico è una questione interna alla sinistra o investe l’intero quadro della democrazia? C’è materia sufficiente per rimettersi a ragionare sui principi. È quello che si propone di fare Biennale Democrazia che si svolgerà a Torino dal 22 al 26 aprile, alla quale Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista ed ex presidente della Consulta, sta lavorando con un gruppo di giuristi, filosofi e sociologi torinesi.

Professor Zagrebelsky, com’è nata e cos’è la Biennale?
«È nata dall’idea di Pietro Marcenaro di proseguire ciò che si fece con le “Lezioni Bobbio” nel 2004, una serie di incontri su grandi temi di etica pubblica e filosofia della politica che si svolse tra la primavera e l’autunno del 2004. Il successo fu straordinario, al di là delle previsioni».

Perché Biennale? E perché Democrazia?
«Perché si ripeterà ogni due anni e tratterà dei grandi temi della democrazia, a incominciare dalle sue “promesse non mantenute”, secondo la formula di Bobbio. Il tema è altamente “politico” ma le iniziative previste non saranno in alcun modo passerelle per “i politici”. Questa è una pre-condizione per evitare strumentalizzazioni e preservarne il carattere esclusivamente scientifico».

Ma il fatto stesso di porsi il problema dello stato della democrazia non è già prendere una posizione politica?
«La democrazia è un regime sempre problematico. È un insieme di diritti, regole e procedure che mirano a un ideale, l’autogoverno consapevole dei cittadini. È un ideale di convivenza da perseguire e nessuno mai potrà dire che esso è raggiunto definitivamente».

Un ideale sempre in bilico, dunque?
«Forze nemiche della democrazia sono sempre all’opera per il suo svuotamento. Per esempio, una condizione di successo della democrazia è l’uguaglianza delle posizioni. Ora le nostre società sono un continuo produrre disuguaglianza: nelle condizioni economiche e culturali, nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione alle deliberazioni pubbliche. La democrazia non è solo voto e elezioni. Voto e elezioni possono anche essere inganni, se non si nutrono di presupposti sostanziali».

Dunque, c’è un pericolo per la democrazia?
«In un certo senso, un pericolo c’è sempre. Con la conclusione della seconda guerra mondiale, la democrazia sembrava essere il regime politico acquisito per sempre. Oggi, questa fede ingenua in un movimento naturale della storia, come storia di emancipazione dei popoli dall’oppressione, non esiste. Tutto si è complicato, nulla è sicuro».

Ma lei crede che vi sia un «caso italiano»?
«Vi sono segni che non si possono non vedere. Toccano il modo di scegliere i rappresentanti e quindi la legittimità della sede principale della democrazia, il Parlamento. Il nostro sistema elettorale è così complesso che il cittadino elettore non ha la minima idea di come il suo voto viene poi “macinato” nella macchina elettorale, non sa nemmeno per chi vota, perché la scelta è fatta dai vertici dei partiti che detengono il monopolio delle candidature. Si conoscono solo le facce dei capi e queste facce trascinano i consensi per i loro adepti. E ci stupiamo se si parla di disagio democratico?».

Il disagio non è solo italiano, però.
«Certo, vi sono ragioni che vanno ben al di là. Per esempio, il fatto che la gran parte delle decisioni pubbliche presentano caratteristiche tecnico-scientifiche, fuori della competenza dei comuni cittadini. La potenza della tecnocrazia dipende da questo. Come coinvolgere i cittadini in modo consapevole – parlo di una questione ritornata d’attualità – nella politica dell’energia nucleare. La vita pubblica è sempre più determinata dalla scienza».
Come insegnano la vicenda Englaro e, in genere, le questioni bio-politiche.
«Certo. La tecno-crazia insidia la demo-crazia. Il destino sembra segnato da forze che si sono rese indipendenti, ineluttabili».

Ma questo non è sempre stato vero?
«Non nella misura odierna. Viviamo un’epoca in cui sembra che il corso degli eventi sociali non possa che essere così com’è. La politica ha perso in gran parte la sua funzione direttiva. Si risolve semplicemente nel correre dietro alle cose per tamponare le difficoltà, nei momenti di crisi. Sembra che il movimento sia imposto da fuori».

Da chi?
«Direi piuttosto: da che cosa? Da potenze immateriali che tutto muovono, che sembrano inesorabili. Per esempio, lo sviluppo, l’innovazione, il consumo: tre cose quantitative e non qualitative, che si legano e spingono tutte nella stessa direzione. Di fronte alla crisi dell’economia mondiale e alle sue conseguenze non si discute di alternative, che collochino sul terreno del possibile altri modi di vivere o di consumare».

È il pensiero unico?
«È un grave pericolo il non saper più guardare le cose da diversi lati, l’aver perso l’idea stessa di alternative. È cecità che riduce la politica alla gestione dell’esistente, magari nella direzione dell’abisso, senza nemmeno accorgersene. Se così è, a che cosa si riduce la partecipazione politica?».

Torniamo al nostro Paese. La crisi del partito democratico ha a che vedere con ciò che abbiamo chiamato disagio democratico?
«Direi di sì. Nessuna democrazia vive senza opposizione, senza qualcuno che, per l’appunto, sappia “guardare le cose dall’altra parte”. Oltretutto, senza una sponda, un limite, chi dispone del potere è portato a espandersi illimitatamente. Aggiungo: ma anche a corrompersi al suo interno. Senza opposizione, le forze dissolutici interne del potere non hanno ragione di trattenersi. È l’intero sistema che è in pericolo. Per questo, c’è da augurarsi che coloro che si sono assunti il compito di rimettere in piedi l’opposizione si rendano conto della responsabilità non solo verso un partito, ma verso la democrazia».

Diceva Bobbio: gli italiani sono democratici meno per convinzione che per assuefazione. L’assuefazione può facilmente portare a una crisi di astinenza e quindi a una ripresa delle energie democratiche ma anche a una crisi di rigetto. Ciò può spianare la strada a un regime?
«Forse solo favorirà la certa tendenza al rovesciamento della piramide democratica, alla concentrazione in alto del potere: il potere che scende dall’alto e produce consenso dal basso, lo schema della demagogia».

Sta succedendo in Italia, oggi?
«Poniamo mente alla concentrazione di potere economico, culturale (editoria, televisioni) e politico, i tre poteri su cui si fondano le società umane: concentrazione al loro interno e tra loro. Sono cadute le barriere. Chi parla ancora della necessità che il mondo dell’economia non sia oggetto di incursioni da parte della politica? Chi osa porre il problema dell’autonomia della comunicazione e della cultura? Quanti tra gli intellettuali si preoccupano dell’indipendenza dal potere economico e da quello politico? Quanti nel mondo della politica ritengono che sia un loro dovere occuparsi di politica, appunto, e non di banche, finanziamenti, posti in consigli di amministrazione? È venuta meno l’etica delle distinzioni. Il potere si accentra e procede dall’alto. Demagogia significa letteralmente: popolo che “è agito”, non “che agisce”».

Siamo già alla demagogia?
«Il pericolo è antico, anzi connaturato alla democrazia. Basta leggere Tucidide o Aristofane. Nulla di nuovo sotto il sole. Oggi, il pericolo è accresciuto da un certo modo d’intendere e organizzare il bipolarismo indotto dal sistema elettorale maggioritario, un modo che ingigantisce, fino al rischio della deflagrazione, la persona dei leader. Il culto del personaggio è certo una manifestazione di degrado democratico. Il presidenzialismo all’italiana potrebbe ridursi a questo».

Quali gli antidoti?
«Non vorrei sembrar tirar l’acqua al mio mulino, ma vorrei dire: difendere la Costituzione cercando di comprenderne i suoi contenuti, di cultura politica, di ethos civile, di promozione della partecipazione e dell’assunzione delle responsabilità. La Costituzione è nata in un certo momento storico a opera di certe forze politiche. Ma, se la raffrontiamo con gli esempi migliori del costituzionalismo mondiale, possiamo constatare facilmente ch’essa non sfigura affatto».

Perché?
«Al di là di tutto, degli interessi in gioco e del conflitto sociale, mi pare che ci sia una difficoltà maggiore, che allontana dalla politica e favorisce lo svuotamento della democrazia: la tirannia del tempo, cui tutti siamo drammaticamente sottoposti. Quando il tempo manca, perché non delegare a qualcuno la nostra esistenza?».

E che propone «Biennale Democrazia»?
«Propone una parentesi di cinque giorni nella routine di ogni giorno e chiede ai cittadini di riservarsi uno spicchio del loro tempo per dedicarlo a una riflessione comune sul nostro modo d’essere cittadini in una democrazia. Chiede di ribellarsi alla schiavitù del tempo che è nemica della libertà». (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Stupro della Caffarella: presi i “mostri” sbagliati? Un altro grossolano errore sulla sicurezza? Possiamo dare l’addio definitivo alle “ronde”?

di Luca Lippera da ilmessaggero.it
ROMA (2 marzo) – Più dubbi – e quali dubbi – che altro. Il test del Dna sui romeni in carcere da dodici giorni per lo stupro della Caffarella ha dato risultati che potrebbero stravolgere l’inchiesta dalle fondamenta. Gli investigatori hanno chiesto una ripetizione degli esami dopo aver appreso i risultati ufficiosi delle prime analisi: i profili genetici dei due immigrati arrestati per la violenza non corrisponderebbero, con il grado di certezza richiesto dalle leggi, a quelli individuati sui vestiti, sul corpo e sugli organi sessuali della vittima. Un’equipe di biologi ha lavorato anche ieri, domenica, nel laboratorio della Criminalpol al Tuscolano, perché la pressione degli inquirenti è possente. È chiaro che tutta la vicenda sarebbe da riconsiderare se scarseggiassero i cosiddetti “punti di contatto” tra il Dna dei presunti mostri e i Dna individuati sulla ragazzina che ha denunciato l’aggressione.

I risultati ufficiali verranno consegnati tra oggi e domani al pubblico ministero Vincenzo Barba. Lo stupro di San Valentino, avvenuto a pochi giorni da quello di Guidonia, ha scosso la città. La cattura dei due romeni, Karol Racz, 36 anni, e Alexandru Isztoika, 19, sembrava aver tacitato ansie e paure. Almeno, hanno pensato in tanti, li hanno presi. Ma le incertezze che sembrano nascere dalle analisi non sono da niente: il Dna di Racz, il bassetto con la faccia da pugile, non avrebbe alcuna “somiglianza” con il profilo genetico individuato sui tamponi. Quello di Isztoika, secondo indiscrezioni, ha solo “alcune analogie” con le tracce di liquido seminale trovate sui vestiti della vittima. Insomma: i veri colpevoli, se tutto stesse così, potrebbero essere ancora liberi.
Ma c’è di più. I problemi nell’inchiesta non sembrano legati solo alla genetica e ai suoi misteri. Dalla Questura si fa sapere che i «due fidanzatini verranno risentiti per chiarire alcuni punti che restano oscuri». Quali siano le «ombre» per ora non è chiaro, perché la polizia, mai come questa volta, parla con il contagocce. Si percepiscono però diversi scricchiolii. Uno, il più insistente, riguarda i telefonini. Non quelli rubati (e mai ritrovati) ai fidanzatini della Caffarella, bensì quelli dei presunti stupratori. Gli apparecchi, all’ora della violenza sessuale, le sei e mezzo di pomeriggio del 14 gennaio, non erano agganciati ai ripetitori telefonici nella zona della Caffarella. Sembra che i cellulari di Racz e Isztoika fossero ognuno in zone diverse della città. Gli investigatori, che finora non hanno divulgato la notizia, hanno fatto notare come «non sia affatto detto che due rapinatori portino con sé i cellulari ogni volta che assaltano qualcuno». Ma i dubbi sul Dna, ovviamente, potrebbero far riconsiderare sotto una diversa luce anche questo “dettaglio”.

Isztoika, il “biondino”, e Racz sono tuttora in isolamento a Regina Coeli con l’accusa di stupro e rapina. Il primo, fermato nel pomeriggio di martedì 17 febbraio dagli agenti del commissariato Primavalle, confessò la notte successiva dopo un lungo interrogatorio nelle stanze della Squadra Mobile. Ma tre giorni dopo, sentito in carcere da Valerio Savio, giudice delle indagini preliminari, ritrattò tutto, sostenendo di aver subito in Questura «pressioni fortissime». C’era già, nella vicenda, un giallo che resta tale. La mattina della cattura di Isztoika una sua foto segnaletica era apparsa su un quotidiano gratuito. Gli agenti di Primavalle conoscevano il romeno perchè bazzicava la zona, ma dissero di aver saputo solo dal giornale che era ricercato. Misteri.
Racz è stato catturato a Livorno, su indicazione del presunto complice, la mattina di mercoledì 18 febbraio. Era in un campo nomadi. Disse subito: «Io non faccio queste cose». Non ha più cambiato versione. Ma gli agenti della Mobile di Roma, diretta da Vittorio Rizzi, avevano dalla loro elementi ritenuti «solidi e decisivi». La quindicenne vittima della violenza, dopo aver fornito una descrizione degli aggressori, dopo averne “ricostruito” i “fotokit” «con l’ausilio di una psicologa», dopo aver visto mazzi di foto segnaletiche, disse di aver riconosciuto il “biondino”. Cioè Alexandru Isztoika, ex pastore in Transilvania. Quattro zingari di Torrevecchia, giorni fa, si sono presentati in Questura offrendo un alibi a Racz. Ma il caso, dopo giorni di indagini frenetiche, veniva ormai ritenuto chiuso.

Ora tutto potrebbe complicarsi. La Questura invita alla «massima prudenza». «Cè un approfondimento sul Dna – ammette un funzionario – Ma aspettiamo a trarre conclusioni. Bisognerà vedere quanti sono i punti di contatto tra i profili del tampone e quelli degli indagati. Se ci sono discrepanze, quale “parte” del codice genetico riguardano? Una parte decisiva o irrilevante? Sono cose complesse. È chiaro che se i biologi accertassero diversità importanti, saremmo i primi a richiedere una mole di accertamenti in tutte le direzioni». A quel punto – chissà – potrebbe rispuntare l’ombra dell’uomo senza quattro dita. Se ne parlò, subito dopo lo stupro, come uno dei possibili autori della violenza. Non se ne scrisse sui giornali, anche se la vittima aveva accennato alla mutilazione, perché farlo avrebbe potuto aiutare un fuggiasco e configurare il reato di favoreggiamento. Poi il “monco”, così come era apparso, sparì. Tanto, dopo una lunga conferenza stampa in Questura, c’erano Isztoika e Racz, due romeni: i “mostri” che tutta Roma attendeva. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Pubblicità e mass media

L’Autodisciplina Pubblicitaria dice no alla censura di Atac di Roma contro la tv di Al Gore.

Siamo a un nuovo capitolo della bizzarra storia della censura “all’amatriciana”. Infatti, a quanto risulta a “Beh, buona giornata” l’Istituto per Autodiscipina della Pubblicità (IAP)avrebbe espresso un giudizio contrario alla censura che Atac di Roma ha applicato contro la campagna Vanguard di Current Tv. (vedi “Ricapitolando una bizzarra storia di censura “all’amatriciana, postato il 22.02 su “Beh, buona giornata)

Secondo IAP non ci sarebbero i requisiti per ritenere la campagna “inopportuna e offensiva della sensibilità dei cittadini romani”.

Allo IAP si era rivolta l’associazione dei Tecnici Pubblicitari (TP) per chiedere secondo quali criteri l’Atac di Roma poteva censurare una campagna pubblicitaria, senza neppure rivolgersi allo IAP. Per ora è una vittoria “morale” di Current Italia (il commitente della campagna censurata) e di Cookies ADV (l’agenzia di pubblicità che ha ideato la campagna).

In attesa si pronunci l’Autorità garante per e Comunicazioni (Agicom) , cui TP si è rivolta, rimane da capire come sia possibile che Atac, una azienda di interesse pubblico si sia potuta arrogare il diritto di operare una censura senza comprovati motivi. E da capire come sia possibile che per le fisime censorie del presidente di Atac, l’azienda dei trasporti pubblici sia stata privata delle somme copiscue del budget pubblicitario previsto da Current nel circuito delle affissioni di proprietà dell’azienda.

Forse anche il Campidoglio, che aveva prontamente spalleggiato la decisione del presidente di Atac dovrebbe spiegare ai cittadini romani come si fa, in tempo di crisi, a rinunciare a entrate di privati, che sarebbero andate a benificio delle casse di Atac, dunque degli utenti del servizio del trasporto pubblico nella Capitale.

Se la censura è stata un atto di superficialità nel valutare una campagna pubblicitaria, il procurato mancato introito pubblicitario appare un danno alla collettività.

Il che dimostrerebbe che le cose un po’ stupide alla fine si rivelano sempre molto dannose, non solo per l’intelligenza dei cittadini, ma anche per le casse pubbliche. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto

L’Antitrust multa chi ha le mani in pasta.

L’Antitrust ha multato per complessivi 12,5 milioni il “cartello” delle pasta. Il Garante ha infatti deliberato che le società Amato, Barilla, Colussi, De Cecco, Divella, Garofalo, Nestlè, Rummo, Zara, Berruto, Delverde, Granoro, Riscossa, Tandoi, Cellino, Chirico, De Matteis, Di Martino, Fabianelli, Ferrara, Liguori, Mennucci, Russo, La Molisana, Tamma, Valdigrano, insieme all’Unipi, Unione Industriali Pastai Italiani, hanno posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza finalizzata a concertare gli aumenti del prezzo di vendita della pasta secca di semola da praticare al settore distributivo.

Sono invece risultate estranee all’intesa, a diverso titolo, le società Gazzola, Mantovanelle e Felicetti, nei confronti delle quali era stata ugualmente avviata l’istruttoria. I produttori sanzionati – fa sapere l’Antitrust con una nota – sono rappresentativi della stragrande maggioranza del mercato nazionale della pasta (circa il 90%) e Unipi è l’associazione di categoria più rappresentativa del settore.

L’Autorità ha sanzionato, con 1.000 euro, anche l’intesa realizzata da Unionalimentari, Unione Nazionale della Piccola e Media Industria Alimentare che, in quanto associazione d’impresa, ha divulgato una propria circolare per indirizzare gli associati verso un aumento uniforme di prezzo.

Garofalo: né cartello, né speculazione. Il pastificio Garofalo ribadisce con fermezza di non aver mai aderito a presunti accordi di cartello finalizzati ad influenzare la dinamica dei prezzi sul mercato e di non aver mai operato nessun tipo di speculazione nè alcun accordo lesivo degli interessi dei consumatori».

Barilla: stupiti. «Il provvedimento dell’Autorità Garante ci lascia stupiti. La nostra missione, da sempre, è quella di offrire alle persone prodotti di ottima qualità al giusto prezzo, operando in assoluta trasparenza, secondo i principi di sana concorrenza alla base del libero mercato», è il commento di Guido Barilla. «Non credo si possa parlare di speculazioni, ma di condizioni minime di sopravvivenza per un intero comparto industriale che, nonostante le forti tensioni interne, continua a garantire al nostro Paese, al costo di 1 euro, un pasto per una famiglia di quattro persone». Beh, buona giornata.
(fonte: ilmessaggero.it)

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“L’attacco al diritto di sciopero è un attacco alla democrazia.”

ricevo e pubblico (Beh, buona giornata):

Con le nuove norme previste dal Governo sul diritto di sciopero si sta andando rapidamente verso un nuovo
e pericolosissimo capitolo del più vasto tema della limitazione delle libertà sindacali e costituzionali, della
democrazia nel mondo del lavoro e nella società.
Dietro un linguaggio formalmente tecnicistico, presentato come un intervento per il solo settore trasporti, il
governo predispone la legislazione per gestire la fase attuale e futura di grave crisi economica e le
conseguenti risposte dei lavoratori al tentativo di farne pagare a loro il costo. Ciò è confermato dal fatto che
il governo ha annunciato norme che dovrebbero impedire di bloccare strade, aeroporti e ferrovie, forme di
lotta utilizzate da tutti i lavoratori in casi particolarmente drammatici.
L’attacco al contratto nazionale, le nuove norme che si intendono introdurre sulla rappresentatività
sindacale, la nuova concertazione tra governo, confindustria e sindacati confederali che si è trasformata in
una vera e propria alleanza neocorporativa, sono elementi finalizzati ad impedire le rivendicazioni e la difesa
dei diritti dei lavoratori. Ciò avviene proprio quando più grave è la crisi economica, più pesanti le
conseguenze per i lavoratori e maggiore la necessità di risposte determinate.
Lo scopo del governo è quello di imporre per legge la pace sociale, vietando e criminalizzando il diritto
di sciopero. Di ridurre al silenzio i lavoratori mentre si celebrano i misfatti nel settore dei trasporti –
Fs , Tirrenia, Alitalia – con migliaia di esuberi, di messa in mobilità, di licenziamenti e il relativo
aggravio sulla qualità del servizio e dei costi
UN COLPO DI MANO CHE VA SVENTATO SUL NASCERE , INSIEME A TUTTI I TENTATIVI PROTESI A
METTERE AL BANDO LA COSTITUZIONE E I DIRITTI FONDAMENTALI.
Illegittima e autoritaria l’ipotesi di consegnare lo sciopero, che è un diritto individuale sancito dalla
Costituzione, alla disponibilità gestionale di sindacati che rappresentino il 50% dei lavoratori; assurdo
perché in molte aziende la sindacalizzazione non arriva neanche al 50%. Nonché il referendum preventivo
che tende a dilazionare e snaturare l’azione di sciopero, già oggi estremamente contrastata dalle limitazioni
della Commissione di Garanzia e dai ripetuti divieti del governo. Altrettanto improponibile è l’adesione
preventiva allo sciopero, un non senso giuridico che prevederebbe l’impossibilità del singolo di poter mutare
il proprio atteggiamento rispetto ad un’azione sindacale indetta. Inaccettabile infine la forma di lotta virtuale
che di fatto elimina il diritto di sciopero ed assegna alle parti la capacità/volontà di individuare la “penale”
per l’azienda in caso di “sciopero lavorato”, mentre ai lavoratori si ritira l’intera giornata di lavoro: quindi la
perdita secca della giornata per il lavoratore ed una impercettibile riduzione dei profitti per l’azienda.
Contro questo ennesimo tentativo di eliminare il diritto di sciopero rispondiamo con la mobilitazione
immediata contro governo e padroni, cisl, uil e ugl e finalizzando a questo obbiettivo gli scioperi già
programmati a partire da quello per il trasporto aereo del 4 marzo.
Il sindacalismo di base ha indetto una manifestazione nazionale a Roma il 28 marzo e uno
sciopero generale per il 23 aprile anche per difendere il diritto di sciopero e la democrazia
sindacale
Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale
26 febbraio 2009

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Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia

Agcom li multa, loro continuano. E’ una nuova strategia di marketing?

Negli ultimi mesi una serie di procedimenti diretti a verificare la corretta osservanza – da parte di alcuni operatori telefonici – delle norme in tema di portabilità del numero, servizi non richiesti, indici di qualità, applicando sanzioni per complessivi 2.804.000 euro, hanno portato, come annuncia la stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) a multare i cinque principali operatori nel mercato italiano: Vodafone è stata multata con 1.680.000 euro; Telecom Italia con 536mila euro; Opitel, che è l’azienda che gestisce Tele 2 Italia con 348mila euro; Bt Italia ed Eutelia con 120mila euro ciascuna.

Le sanzioni inflitte a Vodafone, per un totale di 1.680.000 euro, riguardano innanzi tutto la violazione delle norme relative alla mobile number portability e in particolare: 1.440.000 euro per aver illegittimamente ostacolato le richieste di trasferimento di utenti verso operatori concorrenti; 240.000 euro per aver utilizzato in modo improprio i dati dei clienti che avevano chiesto la portabilità del numero verso un altro operatore.

Telecom Italia viene invece multata per diverse violazioni della normativa a tutela dei consumatori: 240.000 euro per aver utilizzato in modo improprio i dati dei clienti che avevano chiesto la portabilità del numero verso un altro operatore; 180.000 euro per aver addebitato servizi a sovrapprezzo non richiesti; 116.000 euro per il mancato raggiungimento degli obiettivi di qualità stabiliti per l’anno 2007, sia per quanto riguarda il tasso di malfunzionamento delle linee di accesso più alto del dovuto, sia per i tempi di riparazione dei guasti superiori a quelli previsti.

Opitel (Tele2 Italia) viene punita per aver attivato servizi non richiesti ad utenti che si ritrovavano, senza saperlo, ad essere clienti della società; in questo caso l’Autorità non ha ritenuto sufficiente la proposta di impegni presentata dall’operatore, «in quanto non conteneva alcuna modifica migliorativa rispetto agli obblighi già imposti dalla normativa di settore a tutti i gestori».
Infine 240.000 euro complessivi (120.000 ciascuno) è la multa per Bt Italia ed Eutelia, per la violazione della normativa sui servizi a sovrapprezzo.
Quello che colpisce è la reiterazione delle infrazioni e il fatto che sia un costume generalizzato a tutti gli operatori. Tanto da far pensare che abbiano fatto “cartello”, cioè che si siano accordate sulla violazione della normativa. Dal che deriverebbe il fondato sospetto che venga calcolato il rischio delle eventuali sanzioni pecuniarie, a priori nei piani tariffari, tanto più che le somme dovute dalle sanzioni sono un costo accettabile, visti i fatturati delle compagnie telefoniche.
Il che configurerebbe una strategia di marketing, poco ortodossa, ma tutto sommato conveniente: forzo le norme, incamero i proventi, pago le sanzione e alla fine faccio comunque profitti. Non è etico? Tanto i clienti si incazzano, ma poi gli passa, anche perché, in barba alla concorrenza, non è che cambiando gestore cambia la situazione: lo fanno tutti! E possono continuare a farlo, perché la “class action”, cioè la possibilità di intentare cause civili collettive contro i cattivi comportamenti delle grandi compagnie è stata rinviata di due anni, dal decreto “milleproroghe” varato dal governo.
Due anni coincidono con la presunta durata dell’attuale crisi economica, che colpisce tutti i consumi, con il conseguente calo dei fatturati delle aziende. Però, la telefonia tiene, sia dal punto di vista dei consumi che dei fatturati. Forse adesso è chiaro perché. Beh, buona giornata.

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Sicurezza: tolleranza zero? No, 60,9: ecco come la xenofobia copre la violenza di genere.

Gli autori delle violenze sessuali sono italiani in più di sei casi su dieci. E’ il dato rilasciato dal Viminale durante un convegno dedicato alla violenza sulle donne, che si è tenuto oggi a Roma. Il ministero dell’Interno ha reso noto che gli autori di stupro sono di nazionalità italiana nel 60,9% casi. Solo il 7,8% dei violentatori, invece, è romeno, mentre il 6,3% è marocchino.

I numeri sono nazionali, ma ci sono anche dati relativi alle singole zone e città. “Vicino Roma il dato cambia”, ha sottolineato il capo di gabinetto delle Pari opportunità, Simonetta Matone. Rimane la prevalenza degli italiani, ma nei dintorni della capitale la percentuale scende “al 48%”, mentre quella dei romeni “sale al 28%”.

Dalle informazioni a disposizione del Viminale si evidenzia anche che a Milano, ad esempio, le violenze sessuali sono diminuite nel triennio 2006-2008: si passa dai 526 episodi del 2006 ai 480 del 2008. Anche qui però prevalgono gli italiani tra gli autori del reato: nel 41% dei casi denunciati il responsabile è cittadino italiano, nell’11% romeno, nell’8% egiziano e nel 7% marocchino.

Il ministero precisa poi che le vittime sono donne nella gran parte dei casi (85,3%). Nel 68,9% sono di nazionalità italiana. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto

Sicurezza: pestare un immigrato non è un reato?

«Olocausto rumeno». Una scritta  lunga due metri, seguita da una svastica, è apparsa questa mattina a Roma su un muro in via della Caffarelletta vicino al parco della Caffarella dove il giorno di San Valentino una quindicenne fu  aggredita e violentata insieme al fidanzato. I due presunti responsabili furono in novantasei ore arrestastati, grazie alla collaborazione tre la polizia italiana  e quella rumena. 

L’ incitamento all’odio raziale, l’apologia del nazifascismo, gli attentati incendiari contro gli esercizi commerciali e centri culturali degli immigrati,  le aggressioni fisiche contro cittadini stranieri inermi sono all’ordine del giorno a Roma e in Italia. Pestare un immigrato non è reato?

Ieri sera, nel primo canale della tv pubblica, un ministro delle Repubblica ha detto che “chi violenta una ragazina di 15 anni è una bestia”. Bell’esempio di civiltà del diritto.  Beh, buona giornata.

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L’emendamento anti-internet di D’Alia:”noi italiani dobbiamo sempre distinguerci, anche nelle misure illibertarie e stupide al tempo stesso.”

di Carlo Gubitosa – da giornalismi.info
E’ impossibile mettere un bavaglio politico alla rete: per un sito che viene chiuso in una Repubblica delle Banane, altri mille siti in altri cento paesi del mondo sono disposti ad ospitarne i contenuti ritenuti “scomodi” da una miope legislazione nazionale.

Un provvedimento inutile per reprimere reati affida al ministero dell’Interno il potere di oscurare interi servizi web.

Per questa ragione ogni tentativo di normare la comunicazione dal basso piu’ che un bavaglio e’ solo un “bavaglino”, come quelli che si mettono ai bambini per contrastare il loro istinto naturale di giocare col cibo, sperimentando, manipolando e lanciando tutto quello che gli passa per le mani e per la bocca.

E i bavaglini sono solo palliativi inutili, come ben sa chi ha scoperto a sue spese che nonostante i nostri sforzi i bambini riescono comunque a sporcare seggiolone, genitori, tavola e pareti.

Anche i tentativi di regolamentare una tecnologia intrinsecamente libertaria e creativa come internet sono pezze colorate che non potranno fermare con un colpo di penna la forza inarrestabile della comunicazione sociale, che segue tempi, regole e dinamiche di evoluzione non governabili per legge, nonostante il pugno dei governi cerchi da sempre di stringersi attorno alla sabbia della comunicazione orizzontale. Ma la sabbia si sposta altrove, e le mani dei governi restano vuote.

Inizialmente si e’ cercato di affermare la responsabilita’ dei fornitori dei servizi internet, obbligandoli a controllare tutti i siti che ospitano come se le compagnie telefoniche fossero responsabili dei reati organizzati con una telefonata. Poi questo principio e’ diventato talmente assurdo da essere comprensibile perfino a un parlamentare.

Poi si e’ maldestramente provato ad equiparare ogni pagina web ad una testata giornalistica, col risultato tragicomico di veder oscurato un sito sciocchino pieno di bestemmie su Padre Pio (Vedi http://beta.vita.it/news/view/3208/ ), ma solo dopo averlo elevato al rango di “prodotto editoriale”, come se fosse stato il Corriere della Sera e non un banale sfogo anticlericale.

Ora c’e’ la cosiddetta “dottrina Sarkozy”, che chiude i rubinetti della rete agli “utenti cattivi” e sta prendendo piede in vari paesi europei per minacciare e criminalizzare tutti quelli che condividono materiali culturali in rete senza guadagnarci un centesimo, proprio come fanno le biblioteche pubbliche, ma pagando di tasca propria i costi di connessione e delle bollette telefoniche.

Ma noi italiani dobbiamo sempre distinguerci, anche nelle misure illibertarie e stupide al tempo stesso. Ed ecco quindi l’ultimo “bavaglino politico” con cui si e’ cercato di piegare la rete alla visione di un singolo: l’articolo 50-bis del Ddl n° 773 gia’ approvato dal Senato, un emendamento del pacchetto sicurezza varato dal governo e presentato dal senatore Udc Gianpiero D’Alia, che a suo dire servirebbe a reprimere l’utilizzo di internet per commettere reati di opinione.

Alcune bestialita’ saltano subito all’occhio gia’ dalla prima lettura: se c’e’ una apologia di reato su una pagina web si oscura tutto il sito (un po’ come oscurare tutte le reti Mediaset perche’ hanno esaltato in una specifica trasmissione l’eroismo del mafioso Vittorio Mangano) e non e’ la magistratura che dispone “l’interruzione dell’attivita'” di un sito, ma il ministero dell’Interno con apposito decreto.

Il tutto con una formulazione talmente vaga da lasciare ampi e prevedibili margini di discrezionalita’ politica al “censore” di turno, che a seconda dei suoi orientamenti decidera’ se censurare “da destra” i filmati violenti e sanguinari che mostrano i reati commessi dai poliziotti durante il G8 genovese del 2001, oppure oscurare “da sinistra” i siti padani quando fanno apologia di reato inneggiando alla rivolta armata secessionista. Ce n’e’ per tutti i gusti.

Intervistato da Alessandro Gilioli (L’Espresso), D’Alia ha spiegato che secondo lui quando un video sconveniente fa capolino su youtube bisognerebbe oscurare tutto il servizio. Affermazioni sufficienti a scatenare la protesta del popolo della rete e di chi ha sottratto alla lobotomia televisiva i neuroni sufficienti a leggere e capire una norma scritta male.

Ma il senatore ha ribadito le convinzioni espresse a Giglioli con una lettera indirizzata a Vittorio Zambardino di Repubblica.It, in cui afferma che rifiutare il suo emendamento equivale a “legittimare gli insulti, le nefandezze di cui è già piena la nostra società reale” e concedere “diritto di parola di chi incita alla mafia, al terrorismo, alla violenza, alla pedofilia, agli stupri di gruppo”.

Ma nel testo dell’emendamento si parla di “delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali”, e allora se sono gia’ previsti dal codice e puniti dalla magistratura, che bisogno c’e’ di reprimerli anche con l’azione discrezionale del Ministro dell’Interno?

Questo dubbio e’ sollevato anche dalla dettagliata analisi giuridica di questo stupido bavaglino giuridico fatta da Elvira Berlingieri sulle pagine di Apogeonline (http://www.apogeonline.com/webzine/2009/02/11/fact-check-il-50-bis-secondo-dalia) in cui si afferma che tutte le brutture descritte dal senatore sono gia’ sanzionate “da adeguati strumenti già presenti nel nostro ordinamento”, e al tempo stesso “la pericolosità sociale dei reati individuati dall’articolo 50-bis sembra sproporzionata agli effetti che la norma potrebbe perseguire”.

Tra i “delitti contro l’ordine pubblico” puniti dal codice penale, c’e’ anche l'”istigazione a delinquere” (art. 414) che punisce con la reclusione fino a cinque anni “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati, per il solo fatto dell’istigazione”, oppure l'”Istigazione a disobbedire alle leggi” (art. 415), che sbatte in galera da sei mesi a cinque anni “chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali”.

C’era bisogno di altri strumenti repressivi da affidare al potere politico anziche’ a quello giudiziario? D’Alia e’ sempre piu’ convinto di si’, e nel testo inviato a Repubblica.it sostiene che la sua azione e’ mirata a colpire “chi insulta le vittime di Mafia, si mette a disposizione di Cutolo, inneggia alla Jihad o alle Brigate rosse, spiega come fabbricare un esplosivo, incita a picchiare i romeni o considera filantropi gli stupratori di Guidonia o i pedofili”.

Ma le vittime di Mafia che tira in ballo D’Alia saranno state interpellate?Sembra proprio di no, almeno a giudicare dalla reazione di Sonia Alfano, presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia: “invece di oscurare internet – sostiene la Alfano – si potrebbero ad esempio riaprire le inchieste sulle stragi di Ustica, Via D’Amelio, Capaci, Piazza Fontana, e molte altre, e far avere alle vittime delle molteplici stragi italiane la giustizia che non hanno mai ottenuto”.

Sul suo blog “piovono rane”, Giglioli racconta che “ho proposto via mail a D’Alia un di realizzare un dibattito audio-video da registrare qui a Kataweb e da pubblicare sul sito de L’espresso, in cui il senatore avrebbe potuto rispondere a tutte le accuse mossegli in questi giorni, confrontandosi con due giornalisti e due blogger”. Ma Il senatore D’Alia, tramite il suo addetto stampa, ha rifiutato il confronto. La “bonta'” delle sue idee e’ tale da non aver bisogno di dibattito per essere colta nella sua pienezza.

Dopo essere stata demolita sul versante giuridico, l’invenzione di D’Alia e’ stata attaccata anche sul fronte tecnico dal blogger Stefano Quintarelli ( http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/quel-biiip-di-biiip-ha-biiip-una-biiip-.html )

Oltre a rilevare “una sproporzione colossale tra il garantismo relativo alle intercettazioni telefoniche e il filtraggio di qualunque comunicazione internet”richiesto dall’emendamento D’Alia, Quintarelli dimostra con dati tecnici alla mano che “quanto richiesto dalla norma non è tecnicamente fattibile. Almeno non più di quanto sia fattibile combattere le inondazioni facendo evaporare l’acqua”.

Quintarelli prosegue affermando che “la rete non e’ un luogo diverso dal mondo reale; la rete e’ uno strumento che fa parte del mondo e quindi per i comportamenti attuati con questo strumento valgono gia’ le leggi esistenti! Ma forse il legislatore lo ignora. Sequestri di contenuti, imputazioni di reati, condanne di persone che hanno compiuto reati usando lo strumento Internet, avvengono gia’, su provvedimento delle autorità”. Ma non ancora su ordine del ministro dell’Interno.

Per commentare questo pastrocchio si e’ scomodata perfino la “Grande G” di Google, che per bocca del suo rappresentante italiano Marco Pancini ha denunciato l’ignoranza e la sordita’ delle istituzioni. “Non c’è dubbio che per chi non è un nativo digitale – scrive Pancini – non è semplice comprendere immediatamente le dinamiche delle nuove tecnologie. Ma per questo è importante il dialogo fra Istituzioni, industria e società civile”, lo stesso dialogo a cui D’Alia si e’ sottratto dopo le sue esternazioni unilaterali. Pancini fa riferimento esplicito al “filtraggio di tutti i siti Internet” auspicato da D’Alia, affermando senza mezzi termini che “non serve a combattere il crimine, perché basta segnalare un’attività illecita a qualunque Internet service provider perché questi la possa rimuovere: è già previsto dalla legge e dai contratti di tutti coloro che forniscono servizi online”. Ma allora qual e’ lo scopo di questi maldestri tentativi? Google non ha dubbi: “questo serve a controllare la Rete e in quanto tale è pericoloso per la nostra libertà”.

Che sia proprio questo l’obiettivo del pasticciaccio brutto innescato dal senatore UDC? Poche righe ben confuse per consegnare al ministro dell’Interno la chiave di un potentissimo lucchetto che puo’ chiudere un intero sito anche per una piccola istigazione a delinquere di due righe, qualcosa di tremendo e di sovversivo come “non ubbidite alle leggi ingiuste, stupide e repressive scritte da parlamentari ignoranti che non hanno la minima idea del funzionamento tecnico della rete, delle sue dinamiche sociali e degli strumenti gia’ a disposizione contro gli abusi”. (Oops! Mi e’ scappato! Speriamo che non se ne accorga nessuno senno’ si chiude baracca)

Di fronte alla superficialita’ cialtrona con cui si stanno affrontando nel nostro paese i problemi delle nuove tecnologie, viene voglia di rileggere la “Dichiarazione di Indipendenza del Ciberspazio”, scritta nel 1996 da John Perry Barlow, pioniere della difesa dei diritti civili in rete e cofondatore della “Electronic Frontier Foundation”.

Per reagire alle prime leggi che mettevano le briglie alla comunicazione elettronica, Barlow affermava che “queste misure sempre più ostili e coloniali ci mettono nella stessa posizione di quegli antichi amanti della libertà e dell’autodeterminazione che furono costretti a rifiutare l’autorità di poteri distanti e poco informati. Noi dobbiamo dichiarare le nostre coscienze virtuali immuni dalla vostra sovranità, anche se continuiamo a permettervi di governare i nostri corpi. Noi ci espanderemo attraverso il Pianeta in modo tale che nessuno potrà fermare i nostri pensieri”.

Tredici anni dopo, questa sfida e’ ancora valida. (Beh, buona giornata).

Note:

APPROFONDIMENTI

L’analisi tecnica di Stefano Quintarelli
http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/quel-biiip-di-biiip-ha-biiip-una-biiip-.html

L’analisi giuridica di Elvira Berlingieri
http://www.apogeonline.com/webzine/2009/02/11/fact-check-il-50-bis-secondo-dalia

La posizione del Senatore Dalia
http://zambardino.blogautore.repubblica.it/2009/02/17/risponde-il-sen-dalia-ma-quale-censura/

La posizione di Google
http://googleitalia.blogspot.com/2009/02/filtrare-la-rete-no-grazie.html

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Attualità Leggi e diritto Pubblicità e mass media

La TP contro l’Atac di Roma che ha censurato la tv di Al Gore.

COMUNICATO STAMPA

TP – Associazione Italiana Pubblicitari Professionisti,

dopo aver preso visione delle motivazioni censorie

adottate dall’ATAC di Roma (immagini pesanti,

inopportune, che avrebbero potuto offendere la

sensibilità dei cittadini) e le successive contrastanti

dichiarazioni del suo presidente Massimo Tabacchiera

sulla campagna VANGUARD della Tv satellitare Current,

campagna normalmente on air su Milano, realizzata

dall’agenzia CookiesADV di cui è direttore creativo il

nostro socio Massimo Guastini Vice Presidente

dell’Associazione,

chiede

un incontro urgente al Garante della concorrenza e del

mercato con audizione delle parti, allo scopo di valutare

se esistono i termini giuridici perché l’ATAC potesse

compiere tale azione.

TP provvederà anche a segnalare allo IAP la campagna in

oggetto per una valutazione su quanto accaduto.

Biagio Vanacore

Presidente TP – Associazione Italiana Pubblicitari

Professionisti

Milano, 23 febbraio 2009

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Attualità Leggi e diritto Media e tecnologia

La legge contro le intercettazioni:”Sì, il giornalismo italiano non ha alcuna intenzione di rispettare una norma che sequestra ai cittadini notizie importanti.”

di Roberto Natale * – da articolo21.info

E’ una battaglia che possiamo vincere: perché poche altre volte le ragioni della categoria dei giornalisti hanno avuto la limpida coincidenza che oggi c’è fra la difesa del nostro diritto-dovere di informare e il diritto – non meno fondamentale – di un’intera comunità civile ad essere informata, a non vedersi sottratta la conoscenza dei fatti che è l’alimento di base di una opinione pubblica degna di questo nome.

L’iniziativa pubblica contro il disegno di legge Alfano che si terrà martedì 24 febbraio, dalle 10,30, nella sede della Fnsi (corso Vittorio Emanuele II, 349), è una nuova tappa della mobilitazione che il giornalismo italiano ha messo in piedi dal giugno scorso, dal primo apparire di un testo pericoloso. Ad organizzarla è un insieme di sigle che dice quanto compatto sia il mondo dell’informazione: c’è la Federazione della Stampa, c’è l’Ordine, c’è l’Unione Cronisti, e stavolta a partecipare è anche la Fieg. Cosa rara, tanto più anomala in anni nei quali giornalisti ed editori sono divisi da un rinnovo contrattuale mai prima così lungo e conflittuale.

Noi giornalisti non siamo caduti nella tentazione cieca di pensare che le maximulte minacciate dal testo fossero un problema solo delle imprese chiamate a pagare. Gli editori, a loro volta, non si sono fatti affascinare dall’idea di mettere bocca nelle scelte di direttori e redazioni; anzi hanno denunciato con chiarezza che il disegno di legge stravolgerebbe il corretto funzionamento di una impresa editoriale scardinando i fondamenti dell’autonomia giornalistica.

Abbiamo capito bene, giornalisti ed editori, che non soltanto possiamo e dobbiamo procedere insieme, ma che le nostre ragioni sono così forti perché coincidono con un interesse e un diritto ben più vasti dei nostri: l’interesse e il diritto di un intero Paese a non veder scomparire la cronaca giudiziaria. Questo è il punto cruciale, che abbiamo saputo cogliere e tener fermo nelle analisi, senza farci distrarre o confondere dalle modifiche che il testo del disegno di legge ha via via subìto. 

Il carcere per i giornalisti – presente nel testo originario, poi tolto, poi inserito di nuovo – è stato ed è uno dei temi che rischiano di provocare confusione: così enorme la minaccia, da richiamare su di sé l’attenzione e le richieste di cancellazione. Misura medievale, certo, come è stato detto. Ma se anche fosse cancellata, il nostro giudizio negativo sull’impianto del disegno di legge Alfano non verrebbe attenuato: perché rimarrebbe intatto il suo nocciolo vero e più insidioso, la secretazione per anni di vicende di assoluta rilevanza pubblica. Così come non ci siamo fatti fuorviare dai ripetuti richiami alla privacy: la riservatezza sta a cuore anche a noi, ma basta pensare al crack Parmalat per capire che questa norma impedirebbe non indebite intrusioni nella vita privata (da impedire in altro modo), ma fatti di indubbia importanza sociale.

Di questo parleremo martedì con politici di entrambi gli schieramenti, con magistrati, con avvocati, con rappresentanti delle grandi confederazioni sindacali ed esponenti dell’associazionismo dei consumatori. Abbiamo la forza di argomenti che hanno fatto breccia anche nelle discussioni di questi ultimi giorni alla Camera. L’on. Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia, ha riconosciuto che “in aula dovremmo aprire una riflessione seria sul diritto di cronaca, che è incomprimibile, e sul previsto divieto di pubblicare anche per riassunto pure gli atti investigativi non coperti da segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari. Altrimenti la norma rischia di non essere rispettata”. Sì, il giornalismo italiano non ha alcuna intenzione di rispettare una norma che sequestra ai cittadini notizie importanti. E per questo nelle prossime, decisive settimane, farà tutto il possibile – proprio tutto – per evitare che il bavaglio divenga legge. (Beh, buona giornata).

* Roberto Natale (Presidente Fnsi)

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Attualità Leggi e diritto

Attenzione: “Il rischio di politicizzazione della sicurezza è reale e ci riporta alla memoria tempi che credevamo superati”.

di VLADIMIRO POLCHI da repubblica.it

I City Angels battono le strade milanesi da 14 anni. Gli “assistenti civici” di Livorno sono invece pronti a debuttare in questi giorni. Il decreto anti-stupri del governo non fa che accelerare un processo in corso: decine sono le ronde già attive nei comuni del centro-nord. Il rischio? Le mani dei partiti sulla sicurezza.

Una parte delle ronde ha infatti un colore politico: in testa, sventolano le bandiere della Lega Nord, seguite da quelle di An, Destra di Storace, Forza Nuova e Fiamma tricolore. “Il rischio di politicizzazione della sicurezza – avverte l’Associazione nazionale dei funzionari di polizia – è reale e ci riporta alla memoria tempi che credevamo superati”.

Quello delle ronde non è un fenomeno omogeneo. Si va dai pensionati con block notes di Firenze, agli studenti-vigilanti di Bologna; dagli storici e apartitici City Angels lombardi, alle ronde targate Carroccio. Se infatti è vero che una parte del fenomeno è trasversale a tutte le amministrazioni comunali, di centrosinistra e centrodestra, un’altra parte mantiene precisi connotati politici.

Molte ronde sfilano oggi sotto le insegne leghiste. Le prime? Le “Ronde padane”, nate a Voghera nel 1997: “Stavamo raccogliendo le firme per chiedere una maggiore presenza di polizia nel centro storico – racconta uno dei fondatori, Gigi Fronti – quando ci venne in mente che noi stessi potevamo fare la nostra parte formando squadre che, disarmate, girassero per la città”. Quanti sono i volontari padani? Numeri ufficiali non ce ne sono, ma Mario Borghezio, già dieci anni fa, parlava di 8mila persone: “Da Cuneo e Trieste sono una quarantina i comuni coinvolti, anche grandi come Modena, Torino e Monza”.

La bandiera della sicurezza porta voti e fa gola a molti. Gli altri partiti non stanno a guardare: si muove Alleanza nazionale, con Azione Giovani a Torino, Padova e Venezia; muovono i primi passi le ronde della Destra di Francesco Storace alla periferia di Roma; la Fiamma Tricolore annuncia di aver cento militanti pronti a Trieste; Forza Nuova è già attiva a Foggia e Pescara.

Bisogna vedere ora cosa cambierà con la patente di legittimità promessa dal governo, sotto la responsabilità del prefetto. “Non solo le ronde sono una maldestra surroga alla mancanza di turn over tra le forze dell’ordine – sostiene Enzo Letizia, segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia – ma costituiscono un rischio reale di politicizzazione della sicurezza. Le ronde – prosegue – sono permeabili all’infiltrazione di organizzazioni criminali, come mafia e camorra e possono nascondere tra le loro fila delle squadracce di esaltati pericolosi”. Meno allarmato il giudizio del sociologo Marzio Barbagli: “Non serviranno a granché, ma non credo che siamo in presenza di fenomeni pericolosi, se disarmati e privi di colore politico. Una cosa però è certa: le ronde rappresentano una forma premoderna di sicurezza, di prima che nascesse la polizia. Se le si ritirano fuori, accanto all’uso dei militari in città, si mette in discussione la funzione stessa delle forze dell’ordine”. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Attenzione:”i testi che la maggioranza si appresta ad approvare incidono in profondità su alcune regole che, per anni, sono state considerate patrimonio giuridico irrinunciabile del Paese.”

 di CARLO FEDERICO GROSSO da lastampa. it

Le novità elaborate dal governo in materia di giustizia e sicurezza sono numerose. Le ronde sono già diventate legge con decreto d’urgenza e sono in attesa della conferma parlamentare. I disegni di legge in tema d’intercettazioni e processo penale sono ai nastri di partenza in Parlamento (rispettivamente in aula e in commissione). Il testamento biologico sta impegnando la commissione Sanità e dovrebbe presto approdare al dibattito plenario con un testo fortemente voluto dalla maggioranza.

Davvero innovazioni utili al bene comune? Sui diversi profili vi saranno sicuramente opinioni divergenti, ed è naturale che sia così. Ciò che è, invece, incontrovertibile è che i testi che la maggioranza si appresta ad approvare incidono in profondità su alcune regole che, per anni, sono state considerate patrimonio giuridico irrinunciabile del Paese. Ed è con questa modificazione di sistema che occorre fare i conti nel momento in cui si vuole esprimere una valutazione complessiva su ciò che, probabilmente, accadrà nei prossimi mesi.

Il disegno di legge in tema di intercettazioni prevede, sul versante dell’informazione, il divieto di rendere pubblico ogni contenuto degli atti di indagine preliminare. Ciò significa che, in spregio al diritto dei cittadini ad essere informati, nessuno potrà più pubblicare alcunché sulle indagini in corso fino al momento in cui esse si saranno esaurite. Viene meno, in questo modo, ciò che è stato considerato, da sempre, uno dei capisaldi della libertà di stampa.

L’essere cioè, la stampa, strumento indispensabile di controllo pubblico sull’esercizio dell’attività giudiziaria fin dal momento in cui iniziano le istruttorie.

Il disegno di legge sulla riforma del processo penale prevede che fino a quando verrà consegnato all’autorità giudiziaria un rapporto sull’esistenza di un reato, la polizia è legittimata a condurre le attività investigative senza controllo o pungolo da parte dei pubblici ministeri. Quello sulle intercettazioni prevede, sul versante delle indagini, che, ad eccezione dei reati di mafia e terrorismo, tale importante strumento di acquisizione probatoria possa essere utilizzato per tempi brevi e soltanto dopo che siano già stati altrimenti acquisiti «gravi indizi di colpevolezza» a carico di qualcuno. Il che significa azzerare, di fatto, la stessa utilizzazione delle intercettazioni, che sono utili, soprattutto, quando esistono soltanto sospetti di reità ed occorre acquisire indizi o prove.

Sulla base di tali innovazioni vengono intaccati quantomeno due importanti cardini del sistema di giustizia vigente: l’indipendenza dell’attività investigativa ed il potere dei pubblici ministeri, l’incisività dell’attività giudiziaria nel contrastare il mondo del crimine. La totale autonomia delle forze dell’ordine nella prima fase delle investigazioni aprirà infatti la strada alla possibilità di interferenze da parte del governo (dal quale la polizia dipende gerarchicamente) sull’esercizio dell’azione penale. L’azzeramento di fatto delle intercettazioni taglierà le unghie a molte indagini per reati gravi, nelle quali l’intercettazione può essere strumento decisivo per individuare i colpevoli. Basti pensare a reati quali la pedofilia, la violenza sessuale, la corruzione.

Il decreto legge che ha riconosciuto l’utilizzazione delle ronde, sia pure non armate, per il controllo del territorio ha determinato un’alterazione delle consuete competenze in materia di sicurezza. Si è attribuito al privato una porzione di ciò che costituisce, da sempre, competenza esclusiva dello Stato sul presupposto che soltanto l’istituzione pubblica sia in grado di assicurare, con le sue strutture, l’indispensabile correttezza nella gestione di settori (delicati) quali sono i servizi sicurezza ed ordine pubblico.

Che dire, infine, della legge sul testamento biologico? Se passerà davvero il principio secondo cui l’idratazione e l’alimentazione artificiale di chi si trova in coma persistente saranno imposte anche a chi ha manifestato, quando era cosciente, la sua volontà contraria a tale tipo di trattamento, risulterà alterato il principio costituzionale per il quale nessuno può essere obbligato, neppure dalla legge, a subire un trattamento sanitario che travalichi i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Ho fatto alcuni esempi di modificazioni «di sistema» conseguenti agli interventi legislativi in cantiere: si intacca la libertà di stampa, si consente di fatto al governo d’interferire sulla gestione dell’azione penale alterando la divisione dei poteri, si indebolisce l’incisività delle indagini penali, si attribuiscono pericolosamente ai privati competenze nella gestione della sicurezza, si contravviene al principio di autodeterminazione in materia di interventi sanitari. Poco conta, a questo punto, auspicare che la Corte Costituzionale, se le menzionate innovazioni diventeranno leggi, le cancelli con le sue sentenze: l’attuale maggioranza parlamentare, con il sostegno della maggioranza popolare che l’ha votata, potrebbe infatti cambiare anche il testo della Costituzione.

Ciascuno di noi, di fronte a ciò che sta accadendo, deve piuttosto domandarsi se è d’accordo, o non è d’accordo, con un progetto politico che, sotto l’etichetta formale delle libertà, nei fatti tende ad intaccare, passo dopo passo, i diritti e le garanzie dello Stato liberale. Di questo è oggi importante ragionare e discutere, al di là degli obiettivi specificamente perseguiti da ciascuna delle nuove leggi programmate. (Beh, buona giornata).

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