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La crisi secondo Romano Prodi: “Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate.”

di ROMANO PRODI-Il Messaggero
Avevamo a lungo sperato che sagge decisioni politiche potessero presto porre fine alla crisi finanziaria mondiale. Lo avevamo sperato perché il giovane presidente aveva dato l’impressione di essere in grado di ridare energia agli Stati Uniti e farne la locomotiva del mondo. Ci siamo sbagliati perché anche la locomotiva americana non ha più un conducente capace di indirizzarla nel giusto binario. I repubblicani e i democratici hanno infatti obiettivi divergenti e il compromesso raggiunto non aiuta né l’equilibrio del bilancio né la crescita economica.

Ancora peggio sono andate le cose a Bruxelles, dove la modesta crisi greca ha travolto gli equilibri europei perché nessuno si è dimostrato in grado di prendere le necessarie decisioni. Non la Commissione Europea, ormai emarginata, non la Germania paralizzata da un’inutile e suicida rincorsa al populismo da parte del suo governo. Avevamo finalmente tirato un sospiro di sollievo quando lo scorso 21 luglio i capi di governo europei si erano messi d’accordo per intervenire in soccorso dei Paesi più minacciati dalla crisi speculativa, ma ci siamo poi accorti che queste decisioni dovevano essere sottoposte a un complesso esame tecnico e quindi ratificate da tutti i governi nazionali.

I mercati finanziari hanno perciò reagito come se queste decisioni non fossero mai state prese. La speculazione ha allargato quindi i suoi orizzonti e ha travolto in pieno anche l’Italia. I valori della borsa sono crollati e i tassi di interesse dei Buoni del Tesoro sono schizzati verso il cielo, annullando in questo modo i possibili effetti delle pur insufficienti misure appena votate dal nostro parlamento in un eccezionale sforzo di solidarietà.

Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate senza la necessità di alcuna nuova decisione. La vendita dei Buoni del Tesoro italiani è invece aumentata di intensità fino a che il tasso di interesse dei Btp non ha raggiunto il livello dei titoli spagnoli. Sotto la pressione dei mercati e la sollecitazione dei governi europei si è dovuta perciò allestire un’improvvisa conferenza stampa.

Una conferenza stampa nella quale sono state presentate misure aggiuntive per scongiurare che la riapertura dei mercati mettesse di nuovo l’Italia in situazione drammatica. Un solo provvedimento appare utile per contenere lo scetticismo nei confronti della politica italiana e cioè l’anticipazione di un anno del raggiungimento dell’equilibrio di bilancio.

Il fatto che il nostro governo avesse rinviato al 2014 le misure più severe aveva infatti suscitato reazioni decisamente negative. Bene quindi per questa decisione anche se non ne vengono precisati gli strumenti per metterla in atto e il peso sembrerebbe gravare in prevalenza su misure di carattere sociale, e quindi sulle categorie più modeste.

Nessun contributo positivo al superamento della nostra tragica crisi può essere invece attribuito alle proposte di modifica della Costituzione, non solo perché questa modifica richiede in ogni caso tempi lunghissimi ma perché tali proposte sono inutili o sbagliate. È inutile inserire nella nostra Carta il principio che tutto quello che non è proibito è lecito perché questa regola già esiste. Ed è sbagliato inserire l’equilibrio di bilancio come obbligo costituzionale perché le Costituzioni sono fatte per durare a lungo e vi possono essere tempi (e spero che essi arrivino anche per l’Italia) nei quali non è pericoloso ma utile per lo sviluppo del paese avere un deficit di bilancio. Così come esistono momenti nei quali è opportuno avere un attivo nelle finanze pubbliche.

Mi auguro che le decisioni prese siano utili almeno per darci un temporaneo respiro alla ripresa dei mercati. Tuttavia per ricondurre i nostri tassi di interesse a un livello compatibile col nostro debito pubblico e risanare definitivamente le finanze italiane non possiamo sfuggire a misure più organiche e severe.

Non possiamo rinviare la lotta all’evasione fiscale, rendendo obbligatoria la registrazione elettronica dei pagamenti, non possiamo non ripensare agli equilibri fra imposte sul lavoro e sui consumi, non possiamo non ripensare alla reintroduzione modulata dell’imposta sugli immobili (ovunque nel mondo imposta federale per eccellenza) e a tutte le altre misure strutturali su cui si è lungamente discusso in passato ma che il populismo, l’interesse elettorale e la demagogia hanno impedito che fossero adottate, pur sapendo benissimo che esse erano necessarie per la salvezza del nostro Paese.(Beh, buona giornata)

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La crisi secondo Bauman: “La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?»

“Il problema centrale di questa crisi è che c’è un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo. Non esiste un sistema politico internazionale in grado di limitarlo”. Intervista a Zygmunt Bauman di ANDREA MALAGUTI- la Stampa.

Dunque siamo destinati al collasso e alla povertà globale?
«Non lo so. So che la mia generazione di fronte alle crisi di sistema si domandava una cosa semplice: che cosa dobbiamo fare? Adesso la domanda da porsi è un’altra, e al momento non ha risposta: a chi ci dobbiamo rivolgere per fermare la macchina?».
Perché professor Bauman?
«C’erano troppe aspettative su quell’uomo. La maggior parte erano irrealizzabili».

Secondo la stampa internazionale l’abbassamento del rating è un’umiliazione senza precedenti per gli Stati Uniti.
«Obama è un uomo. E si trova a fare i conti con una vicenda che è più grande di lui. E dà le risposte di un politico classico. Da quando è stato eletto si preoccupa più dei mercati che delle persone. Come se tra le due cose ci fosse un nesso. Ma la disoccupazione aumenta. E aumentano anche i tempi d’attesa nel passaggio da un lavoro all’altro, così come crescono i senza tetto. La povertà si moltiplica. Di sicuro neppure i neri stanno meglio».

Una presidenza disastrosa?
«No. Normale. Ma se le persone non credono in se stesse e nei leader che le guidano il tracollo è inevitabile. Ho scritto un libro, due anni fa, che prevedeva quello che sarebbe successo».

Cioè?
«Obama mi ricorda gli ebrei tedeschi dopo la prima guerra mondiale. Si sentivano dei metatedeschi, più tedeschi dei tedeschi. Bramavano l’integrazione ma inconsapevolmente segnavano una diversità. Appena sono cominciati problemi li hanno isolati».

Che c’entra il Presidente americano?
«Lui ha fatto lo stesso. Si è presentato come la grande speranza, ma si è preoccupato troppo di piacere ai livelli alti. Quelli che sono decisivi per la rielezione. Poi ha perso il controllo. Perché la politica non è in grado di condizionare la Borsa e i mercati. Se li è fatti sfuggire. Ma forse era inevitabile».

Ora anche la Cina pretende spiegazioni, non solo gli americani.
«I cinesi non sono preoccupati per i soldi che hanno prestato. E’ l’idea di perdere il loro più grande mercato di riferimento che li terrorizza. Dove mettono la quantità infinita di beni che producono ogni giorno? Non avere sbocchi, questo sì che sarebbe una tragedia. Sono i danni della globalizzazione».

Che cosa non le piace della globalizzazione?
«Io mi limito a fare una fotografia. Gli Stati si sono sempre fondati su due cardini: il potere (cioè fare le cose) e la politica (cioè immaginarle e organizzarle). La globalizzazione si muove senza politica. Ha bisogno di rapidità. Detesta i vincoli. Un po’ come la malavita. Le regole sono un ostacolo. Così i mercati più fiorenti nel mondo sono quello criminale e quello finanziario. Non importa se sono sporchi o puliti. Non fa riflettere?».

Professore, l’Europa rischia di squagliarsi?
«No. L’Europa è fatta. Non si può sciogliere. Gli Stati sono troppo legati tra di loro. Non fallirà l’Italia e non finirà l’Unione. Peraltro il problema di Roma non è soltanto Berlusconi. Chiunque fosse al suo posto sarebbe nelle stesse condizioni. E’ il mondo a essere nei guai».

Come se ne esce?
«Ha letto quello che ha detto ieri Prodi?».

Il problema dell’Europa è che non si sa chi comanda.
«Condivido. Ma il punto è che la pensano così anche i leader europei. Che sono ben felici di non prendersi responsabilità in questo momento. E’ l’ora di mettersi a ripensare la società all’interno della quale ci interessa vivere. Provi a chiedere in giro se qualcuno conosce il nome del presidente dell’Unione».

Peggio oggi o nel 2007?
«E’ lo stesso scenario. La follia del credito. C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del Pil. E quando il mercato si ferma la società si blocca».

L’ossessione dei consumi.
«Già. Perdoni l’esempio, ma se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. Dobbiamo parlare con gli istituti di credito».

Per dire che cosa?
«Per capire come fare intervenire la politica. Cinque anni fa ciascuno di noi è stato inondato da lettere delle banche che invitavano le persone comuni a prendere una carta di credito. Un lavaggio del cervello generale. Le banche hanno bisogno che la gente sia indebitata. Prima ti misurano, cercano di capire quanto vali. Poi ti prestano i soldi. Fanno il contrario di quello che faceva – fa? – la mafia siciliana. Se un picciotto ti concedeva un prestito pretendeva che glielo restituissi, pena la morte. Le banche no. Le banche non vogliano che paghi. Ti offrono altre formule di indebitamente, perché più ti prestano denaro più guadagnano con gli interessi. E’ così che, ad esempio, è nata la bolla immobiliare negli Stati Uniti e in Irlanda. Solo che le bolle a un certo punto esplodono».

E’ il mondo alla fine del mondo?
«No, quello non finisce mai. Nella storia l’uomo affronta crisi cicliche. E le risolve sempre. Bisogna solo capire quanto sarà alto il prezzo da pagare stavolta. Temo molto alto. Soprattutto per le nuove generazioni». (Beh, buona giornata).

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Crisi: “si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare.”

di GUIDO ROSSI- sole24ore.com

È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.

Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.

La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.

I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.

Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.

L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.

La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.

Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.

Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.

Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.

C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.

I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.

Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.

L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.

Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.

La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).

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Crisi: downgrading politico per il governo Berlusconi.

di MARIO MONTI- corriere.it

I mercati, l’Europa. Quanti strali sono stati scagliati contro i mercati e contro l’Europa da membri del governo e della classe politica italiana! «Europeista» è un aggettivo usato sempre meno. «Mercatista», brillante neologismo, ha una connotazione spregiativa. Eppure dobbiamo ai mercati, con tutti i loro eccessi distorsivi, e soprattutto all’Europa, con tutte le sue debolezze, se il governo ha finalmente aperto gli occhi e deciso almeno alcune delle misure necessarie.
La sequenza iniziata ai primi di luglio con l’allarme delle agenzie di rating e proseguita con la manovra, il dibattito parlamentare, la riunione con le parti sociali, la reazione negativa dei mercati e infine la conferenza stampa di venerdì, deve essere stata pesante per il presidente Berlusconi e per il ministro Tremonti. Essi sono stati costretti a modificare posizioni che avevano sostenuto a lungo, in modo disinvolto l’uno e molto puntiglioso l’altro, e a prendere decisioni non scaturite dai loro convincimenti ma dettate dai mercati e dall’Europa.

Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un «governo tecnico». Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un «governo tecnico sopranazionale» e, si potrebbe aggiungere, «mercatista», con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York.

Come europeista, e dato che riconosco l’utile funzione svolta dai mercati (purché sottoposti a una rigorosa disciplina da poteri pubblici imparziali), vedo tutti i vantaggi di certi «vincoli esterni», soprattutto per un Paese che, quando si governa da sé, è poco incline a guardare all’interesse dei giovani e delle future generazioni. Ma vedo anche, in una precipitosa soluzione eterodiretta come quella dei giorni scorsi, quattro inconvenienti.

Scarsa dignità . Anche se quella del «podestà forestiero» è una tradizione che risale ai Comuni italiani del XIII secolo, dispiace che l’Italia possa essere vista come un Paese che preferisce lasciarsi imporre decisioni impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno, anziché prenderle per convinzione acquisita dopo civili dibattiti tra le parti. In questo, ci vorrebbe un po’ di «patriottismo economico», non nel fare barriera in nome dell’«interesse nazionale» contro acquisizioni dall’estero di imprese italiane anche in settori non strategici (barriere che del resto sono spesso goffe e inefficaci, una specie di colbertismo de noantri ).

Downgrading politico . Quanto è avvenuto nell’ultima settimana non contribuisce purtroppo ad accrescere la statura dell’Italia tra i protagonisti della scena europea e internazionale. Questo non è grave solo sul piano del prestigio, ma soprattutto su quello dell’efficacia. L’Unione europea e l’Eurozona si trovano in una fase critica, dovranno riconsiderare in profondità le proprie strategie. Dovranno darsi strumenti capaci di rafforzare la disciplina, giustamente voluta dalla Germania nell’interesse di tutti, e al tempo stesso di favorire la crescita, che neppure la Germania potrà avere durevolmente se non cresceranno anche gli altri. Il ruolo di un’Italia rispettata e autorevole, anziché fonte di problemi, sarebbe di grande aiuto all’Europa.

Tempo perduto . Nella diagnosi sull’economia italiana e nelle terapie, ciò che l’Europa e i mercati hanno imposto non comprende nulla che non fosse già stato proposto da tempo dal dibattito politico, dalle parti sociali, dalla Banca d’Italia, da molti economisti. La perseveranza con la quale si è preferito ascoltare solo poche voci, rassicuranti sulla solidità della nostra economia e anzi su una certa superiorità del modello italiano, è stata una delle cause del molto tempo perduto e dei conseguenti maggiori costi per la nostra economia e società, dei quali lo spread sui tassi è visibile manifestazione.

Crescita penalizzata . Nelle decisioni imposte dai mercati e dall’Europa, tendono a prevalere le ragioni della stabilità rispetto a quelle della crescita. Gli investitori, i governi degli altri Paesi, le autorità monetarie sono più preoccupati per i rischi di insolvenza sui titoli italiani, per il possibile contagio dell’instabilità finanziaria, per l’eventuale indebolimento dell’euro, di quanto lo siano per l’insufficiente crescita dell’economia italiana (anche se, per la prima volta, perfino le agenzie di rating hanno individuato proprio nella mancanza di crescita un fattore di non sostenibilità della finanza pubblica italiana, malgrado i miglioramenti di questi anni). L’incapacità di prendere serie decisioni per rimuovere i vincoli strutturali alla crescita e l’essersi ridotti a dover accettare misure dettate dall’imperativo della stabilità richiederanno ora un impegno forte e concentrato, dall’interno dell’Italia, sulla crescita. (Beh, buona giornata).

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Proteste e movimenti in tutta Europa:”è indispensabile comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi.”

di ALAIN TOURAINE (traduzione di Elisabetta Horvat) -la Repubblica.

TRA i movimenti sorti in vari Paesi europei, il più importante è quello degli indignados, dal titolo del pamphlet di Stephane Hessel, pubblicato in Francia con un successo eccezionale, che si misura in milioni di copie. La loro protesta non è rivolta contro la politica di un governo, ma contro i sistemi politici in quanto tali. I giovani che manifestano sono soprattutto studenti: sostenuti dalla maggioranza della popolazione, contestano i partiti, e in particolare quelli di sinistra, che ai loro occhi non rappresentano più l’ opinione pubblica, e quindi svuotano la democrazia di ogni suo significato.

In questo grande movimento per una risurrezione democratica alcuni gruppi mettono addirittura in discussione la stessa democrazia, come sempre avviene nelle frange più radicali dei movimenti che si oppongono alle istituzioni politiche. Ma finoraè preminente la volontà di dar vita a una democrazia diretta, assembleare, all’ insegna delle assemblee generali delle università francesi nel maggio 1968. In Spagna questo movimento ha provocato la massiccia sconfitta dei socialisti alle elezioni, soprattutto in Catalogna.

In Grecia l’ opposizione nazionalista ha contestato con più forza gli accordi proposti dall’ Europa e dall’ Fmi per scongiurare il fallimento del Paese. Alla fine però questi accordi sono stati approvati, evitando alla Grecia una situazione catastrofica, che avrebbe messoa repentaglio l’ esistenza stessa dell’ euro. Se è vero che l’ opinione pubblica è stata largamente informata della loro esistenza, di fatto questi movimenti, sorti innanzitutto grazie alla comunicazione diretta attraverso le reti sociali quali Facebook o Twitter, non sono stati definiti con sufficiente chiarezza dai media, e in particolare dalla televisione.

È indispensabile invece comprendere questi movimenti, che segnano una profonda frattura nella vita politica di numerosi Paesi. Ciò che mettono in discussione è innanzitutto il principio della democrazia rappresentativa. In altri termini, respingono l’ idea, insita nella rappresentazione classica della vita politica in Europa, che le rivendicazionie le proteste sociali e culturali sorte dai gruppi sociali trovino un’ espressione più o meno completa nei partiti politici; e rifiutano di vedere in essi i rappresentanti politici degli interessi popolari e dei conflitti sociali. A riprova, basti constatare che i sindacati sono contestati allo stesso titolo dei partiti politici.

Ecco perché dobbiamo porre la domanda più generale sollevata da questi movimenti: quale può essere oggi la base di legittimità dell’ azione politica? La sola formulazione di questa domanda ci getta nella confusione e nell’ inquietudine, anche perché tutti riconoscono che i partiti, i sindacati e le altre organizzazioni politiche hanno perduto gran parte della loro legittimità. La situazione è particolarmente inquietante in un Paese come la Spagna, entrato nella vita democratica solo dopo la morte di Franco, nel 1975 – anche se qui i timori non sono del tipo classico, dato che nessuno immagina la preparazione di un colpo di stato militare o di qualche altra azione antidemocratica.

Si può incominciare a comprendere meglio la natura e l’ importanza di questi movimenti vedendo in essi la rivolta di una gioventù che si sente privata della propria qualità di cittadini ad opera dei politici, in particolare di sinistra – i quali a loro volta si considerano penalizzati da una logica economica irresistibile, in quanto globale. Si spiega così la forza della carica emotiva di questi movimenti, e dell’ impegno dei partecipanti, che solo in misura minore fa riferimento al conflitto di interessi aperto tra i cittadini e una logica economica che rifiuta qualsiasi intervento degli attori, accusandoli di essere impotenti a livello mondiale. Per gli ideologi della globalizzazione tutto-e in modo particolare la vita politica – deve assoggettarsi alla logica del progetto economico mondiale.

Nel riconoscere la propria impotenza, i partiti tradiscono gli interessi, e soprattutto le esigenze e i progetti di chi ha perso ogni fiducia in loro, e nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Il razionalismo politico che animava le idee e le prassi della democrazia rappresentativa è al tracollo; i giovani non credono ormai più nella capacità d’ azione delle istituzioni politiche. È qualcosa di più di una crisi economica e persino politica. Siamo in presenza di una crisi più generale, di perdita di senso, non di una politica, ma della politica stessa.

Questa crisi della politica mette in discussione più particolarmente i partiti di sinistra, che per definizione s’ intendono come i difensori dei diritti e delle libertà della popolazione. Al di là del problema, pure gravissimo, degli alti livelli di disoccupazione giovanile, non siamo più nell’ ordine dei conflitti economici e sociali, ma in quello della contraddizione tra i diritti umani fondamentali e la violenza del dominio del profitto capitalista sopra ogni altra finalità del sistema sociale.

Nel caso italiano, la lotta si concentra innanzitutto su Silvio Berlusconi, sia come individuo che come capo del governo; e ciò spiega il suo carattere meno radicale,a confronto col livello raggiunto in breve tempo dal movimento spagnolo. Ma in Italia e in Spagna, il senso generale della sollevazione è lo stesso. Ed è anche molto vicino a quello delle rivolte in Tunisia e in Egitto, contro la distruzione della vita politica ad opera dei dittatori, delle loro famiglie e degli ambienti corrotti più direttamente legati a un potere autoritario. Non ho parlato di movimenti rivoluzionari: ho forse sbagliato?

Sappiamo che una crisi politica può diventare rivoluzionaria se si verifica un incidente, una scintilla, come nei casi dei manifestanti uccisi dalle forze armate o dalla polizia, o di chi si è immolato per rovesciare il potere costituito con le sue insopportabili imposizioni. Di fatto però, i movimenti attuali sono lontani dall’ essere rivoluzionari, data l’ estrema distanza tra le motivazioni dei partecipanti e le categorie delle azioni politiche possibili. Ma andiamo oltre: i movimenti attuali possono avere in sé alcuni elementi di debolezza, se non addirittura di autodistruzione, dato che il rifiuto dell’ azione dei partiti può ridurli a trovare il proprio dinamismo soltanto nel timore della repressione e delle lotte interne. L’ azione fondata sulla paura può indurre i movimenti ad anteporre la propria unità a qualunque altro obiettivo. Con come conseguenza il rischio di scissionia catena,o al contrario quello di un nuovo orientamento in senso autoritario. La primavera araba potrà far rinascere in quei Paesi la capacità d’ azione politica solo se ad animarla non sarà la paura del nemico, ma la volontà di affermare i diritti di tutti, al disopra di qualunque obiettivo propriamente politico.

In generale, le rivoluzioni conducono in brevissimo tempo a nuovi regimi autoritari, imposti con la forza. Una soluzione democratica non può venire che da una separazione non solo accettata, ma voluta, tra il movimento popolare e le ricostituite forze politiche. Quanto più un movimento è forza di liberazione, tanto maggiori sono le sue possibilità di far rinascere una democrazia politica. La sua debolezza sul piano propriamente politico lo protegge da un ritorno di quello stesso potere egemonico che ha combattuto.

Se i Paesi occidentali sognano di istituire nel mondo arabo democrazie di tipo occidentale, assegnando la priorità ai partiti politici, non faranno che contribuire alla decomposizione dei movimenti. Al contrario, solo proteggendo i movimenti da tutti gli attacchi, e in particolare da quelli provenienti dai regimi autoritari, si potranno rafforzare le opportunità della democrazia; in altri termini, qui la priorità va data ai movimenti, a fronte di ogni tentativo di ricostruzione di attori propriamente politici.

Se anche in futuro il movimento sarà animato dalla volontà di far riconoscere le libertà politiche, vedrà rafforzate le sue opportunità di democratizzazione, mentre al contrario, quanto più la sua lotta tenderà a politicizzarsi, o addirittura a militarizzarsi, tanto più il suo futuro sarà incerto e minacciato. In Libia l’ iniziativa europea (e in misura minore quella americana) è stata indispensabile per fermare la controffensiva di Gheddafi con le sue prevedibili, brutali conseguenze; ma è urgente che essa si autoimponga dei limiti, per non condurre un movimento di liberazione a trasformarsi in guerra ideologica, e a farsi strumento di un nuovo potere autoritario.

Lo stesso ragionamento porta ad auspicare il rafforzamento del movimento degli indignados in Spagna e in Italia, e la sua trasformazione in Grecia, come forza di difesa dell’ opinione pubblica e non come forza propriamente politica. Sembra che i greci l’ abbiano compreso, dato che il loro parlamento ha finito per decidere di non lanciarsi in un’ azione di rottura col sistema europeo. (Beh, buona giornata).

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Appello di Giorgio Cremaschi e altri: 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.

Dobbiamo fermarli
5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche.
Ci incontriamo il 1° ottobre a Roma

E’ da più di un anno che in Italia cresce un movimento di lotta diffuso. Dagli operai di Pomigliano e Mirafiori agli studenti, ai precari della conoscenza, a coloro che lottano per la casa, alla mobilitazione delle donne, al popolo dell’acqua bene comune, ai movimenti civili e democratici contro la corruzione e il berlusconismo, una vasta e convinta mobilitazione ha cominciato a cambiare le cose. E’ andato in crisi totalmente il blocco sociale e politico e l’egemonia culturale che ha sostenuto i governi di destra e di Berlusconi. La schiacciante vittoria del sì ai referendum è stata la sanzione di questo processo e ha mostrato che la domanda di cambiamento sociale, democrazia e di un nuovo modello di sviluppo economico, ha raggiunto la maggioranza del Paese.

A questo punto la risposta del palazzo è stata di chiusura totale. Mentre si aggrava e si attorciglia su se stessa la crisi della destra e del suo governo, il centrosinistra non propone reali alternative e così le risposte date ai movimenti sono tutte di segno negativo e restauratore. In Val Susa un’occupazione militare senza precedenti, sostenuta da gran parte del centrodestra come del centrosinistra, ha risposto alle legittime rivendicazioni democratiche delle popolazioni. Le principali confederazioni sindacali e la Confindustria hanno sottoscritto un accordo che riduce drasticamente i diritti e le libertà dei lavoratori, colpisce il contratto nazionale, rappresenta un’esplicita sconfessione delle lotte di questi mesi e in particolare di quelle della Fiom e dei sindacati di base. Infine le cosiddette “parti sociali” chiedono un patto per la crescita, che riproponga la stangata del 1992. Si riducono sempre di più gli spazi democratici e così la devastante manovra economica decisa dal governo sull’onda della speculazione internazionale, è stata imposta e votata come uno stato di necessità.

Siamo quindi di fronte a un passaggio drammatico della vita sociale e politica del nostro Paese. Le grandi domande e le grandi speranze delle lotte e dei movimenti di questi ultimi tempi rischiano di infrangersi non solo per il permanere del governo della destra, ma anche di fronte al muro del potere economico e finanziario che, magari cambiando cavallo e affidando al centrosinistra la difesa dei suoi interessi, intende far pagare a noi tutti i costi della crisi.
Nell’Unione europea la costruzione dell’euro e i patti di stabilità ad esso collegati, hanno prodotto una dittatura di banche e finanza che sta distruggendo ogni diritto sociale e civile.

La democrazia viene cancellata da questa dittatura perché tutti i governi, quale che sia la loro collocazione politica, devono obbedire ai suoi dettati. La punizione dei popoli e dei lavoratori europei si è scatenata in Grecia e poi sta dilagando ovunque. La più importante conquista del continente, frutto della sconfitta del fascismo e della dura lotta per la democrazia e i diritti sociali del lavoro, lo stato sociale, oggi viene venduta all’incanto per pagare gli interessi del debito pubblico che, a loro volta, servono a pagare i profitti delle banche. Di quelle banche che hanno ricevuto aiuti e finanziamenti pubblici dieci volte superiori a quelli che oggi si discutono per la Grecia.

Questo massacro viene condotto in nome di una crescita e di una ripresa che non ci sono e non ci saranno. Intanto si proclamano come vangelo assurdità mostruose: si impone la pensione a 70 anni, quando a 50 si viene cacciati dalle aziende, mentre i giovani diventano sempre più precari. Chi lavora deve lavorare per due e chi non ha il lavoro deve sottomettersi alle più offensive e umilianti aggressioni alla propria dignità. Le donne pagano un prezzo doppio alla crisi, sommando il persistere delle discriminazioni patriarcali con le aggressioni delle ristrutturazioni e del mercato. Tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è sottoposto a una brutale aggressione che mette in discussione contratti a partire da quello nazionale, diritti e libertà, mentre ovunque si diffondono autoritarismo padronale e manageriale.

L’ambiente, la natura, la salute sono sacrificate sull’altare della competitività e della produttività, ogni paese si pone l’obiettivo di importare di meno ed esportare di più, in un gioco stupido che alla fine sta lasciando come vittime intere popolazioni, interi stati.

L’Europa reagisce alla crisi anche costruendo un apartheid per i migranti e alimentando razzismo e xenofobia tra i poveri, avendo dimenticato la vergogna di essere stato il continente in cui si è affermato il nazifascismo, che oggi si ripresenta nella forma terribile della strage norvegese.

Il ceto politico, quello italiano in particolare coperto di piccoli e grandi privilegi di casta, pensa di proteggere se stesso facendosi legittimare dai poteri del mercato. Per questo parla di rigore e sacrifici mentre pensa solo a salvare se stesso. Centrodestra e centrosinistra appaiono in radicale conflitto fra loro, ma condividono le scelte di fondo, dalla guerra, alla politica economica liberista, alla flessibilità del lavoro, alle grandi opere.

La coesione nazionale voluta dal Presidente della Repubblica è per noi inaccettabile, non siamo nella stessa barca, c’è chi guadagna ancora oggi dalla crisi e chi viene condannato a una drammatica povertà ed emarginazione sociale.

Per questo è decisivo un autunno di lotte e mobilitazioni. Per il mondo del lavoro questo significa in primo luogo mettere in discussione la politica di patto sociale, nelle sue versioni del 28 giugno e del patto per la crescita. Vanno sostenute tutte le piattaforme e le vertenze incompatibili con quella politica, a partire da quelle per contratti nazionali degni di questo nome e inderogabili, nel privato come nel pubblico.

Tutte e tutti coloro che in questi mesi hanno lottato per un cambiamento sociale, civile e democratico, per difendere l’ambiente e la salute devono trovare la forza di unirsi per costruire un’alternativa fondata sull’indipendenza politica e su un programma chiaramente alternativo a quanto sostenuto oggi sia dal centrodestra, sia dal centrosinistra. Le giornate del decennale del G8 a Genova, hanno di nuovo mostrato che esistono domande e disponibilità per un movimento di lotta unificato.

Per questo vogliamo unirci a tutte e a tutti coloro che oggi, in Italia e in Europa, dicono no al governo unico delle banche e della finanza, alle sue scelte politiche, al massacro sociale e alla devastazione ambientale.

Per questo proponiamo 5 punti prioritari, partendo dai quali costruire l’alternativa e le lotte necessarie a sostenerla:
1. Non pagare il debito. Bisogna colpire a fondo la speculazione finanziaria e il potere bancario. Occorre fermare la voragine degli interessi sul debito con una vera e propria moratoria. Vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini, vanno imposte tassazioni sui grandi patrimoni e sulle transazioni finanziarie. La società va liberata dalla dittatura del mercato finanziario e delle sue leggi, per questo il patto di stabilità e l’accordo di Maastricht vanno messi in discussione ora. Bisogna lottare a fondo contro l’evasione fiscale, colpendo ogni tabù, a partire dall’eliminazione dei paradisi fiscali, da Montecarlo a San Marino. Rigorosi vincoli pubblici devono essere posti alle scelte e alle strategie delle multinazionali.
2. Drastico taglio alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra. Dalla Libia all’Afghanistan. Tutta la spesa pubblica risparmiata nelle spese militari va rivolta a finanziare l’istruzione pubblica ai vari livelli. Politica di pace e di accoglienza, apertura a tutti i paesi del Mediterraneo, sostegno politico ed economico alle rivoluzioni del Nord Africa e alla lotta del popolo palestinese per l’indipendenza, contro l’occupazione. Una nuova politica estera che favorisca democrazia e sviluppo civile e sociale.
3. Giustizia e diritti per tutto il mondo del lavoro. Abolizione di tutte le leggi sul precariato, riaffermazione al contratto a tempo indeterminato e della tutela universale garantita da un contratto nazionale inderogabile. Parità di diritti completa per il lavoro migrante, che dovrà ottenere il diritto di voto e alla cittadinanza. Blocco delle delocalizzazioni e dei licenziamenti, intervento pubblico nelle aziende in crisi, anche per favorire esperienze di autogestione dei lavoratori. Eguaglianza retributiva, diamo un drastico taglio ai superstipendi e ai bonus milionari dei manager, alle pensioni d’oro. I compensi dei manager non potranno essere più di dieci volte la retribuzione minima. Indicizzazione dei salari. Riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, istituzione di un reddito sociale finanziato con una quota della tassa patrimoniale e con la lotta all’evasione fiscale. Ricostruzione di un sistema pensionistico pubblico che copra tutto il mondo del lavoro con pensioni adeguate.
4. I beni comuni per un nuovo modello di sviluppo. Occorre partire dai beni comuni per costruire un diverso modello di sviluppo, ecologicamente compatibile. Occorre un piano per il lavoro basato su migliaia di piccole opere, in alternativa alle grandi opere, che dovranno essere, dalla Val di Susa al ponte sullo Stretto, cancellate. Le principali infrastrutture e i principali beni dovranno essere sottratti al mercato e tornare in mano pubblica. Non solo l’acqua, dunque, ma anche l’energia, la rete, i servizi e i beni essenziali. Piano straordinario di finanziamenti per lo stato sociale, per garantire a tutti i cittadini la casa, la sanità, la pensione, l’istruzione.
5. Una rivoluzione per la democrazia. Bisogna partire dalla lotta a fondo alla corruzione e a tutti i privilegi di casta, per riconquistare il diritto a decidere e a partecipare affermando ed estendendo i diritti garantiti dalla Costituzione. Tutti i beni provenienti dalla corruzione e dalla malavita dovranno essere incamerati dallo Stato e gestiti socialmente. Dovranno essere abbattuti drasticamente i costi del sistema politico: dal finanziamento ai partiti, al funzionariato diffuso, agli stipendi dei parlamentari e degli alti burocrati. Tutti i soldi risparmiati dovranno essere devoluti al finanziamento della pubblica istruzione e della ricerca. Si dovrà tornare a un sistema democratico proporzionale per l’elezione delle rappresentanze con la riduzione del numero dei parlamentari. E’ indispensabile una legge sulla democrazia sindacale, in alternativa al modello prefigurato dall’accordo del 28 giugno, che garantisca ai lavoratori il diritto a una libera rappresentanza nei luoghi di lavoro e al voto sui contratti e sugli accordi. Sviluppo dell’autorganizzazione democratica e popolare in ogni ambito della vita pubblica.

Questi 5 punti non sono per noi conclusivi od esclusivi, ma sono discriminanti. Altri se ne possono aggiungere, ma riteniamo che questi debbano costituire la base per una piattaforma alternativa ai governi liberali e liberisti, di destra e di sinistra, che finora si sono succeduti in Italia e in Europa variando di pochissimo le scelte di fondo.

Vogliamo trasformare la nostra indignazione, la nostra rabbia, la nostra mobilitazione, in un progetto sociale e politico che colpisca il potere, gli faccia paura, modifichi i rapporti di forza per strappare risultati e conquiste e costruire una reale alternativa.
Aderiamo sin d’ora, su queste concrete basi programmatiche, alla mobilitazione europea lanciata per il 15 ottobre dal movimento degli “indignados” in Spagna. La solidarietà con quel movimento si esercita lottando qui e ora, da noi, contro il comune avversario.

Per queste ragioni proponiamo a tutte e a tutti coloro che vogliono lottare per cambiare davvero, di incontrarci. Non intendiamo mettere in discussione appartenenze di movimento, di organizzazione, di militanza sociale, civile o politica. Riteniamo però che occorra a tutti noi fare uno sforzo per mettere assieme le nostre forze e per costruire un fronte comune, sociale e politico che sia alternativo al governo unico delle banche.

Per questo proponiamo di incontrarci il 1° ottobre, a Roma, per un primo appuntamento che dia il via alla discussione, al confronto e alla mobilitazione, per rendere permanente e organizzato questo nostro punto di vista.

Vincenzo Achille (studente AteneinRivolta Bari)
Claudio Amato (segr. Gen. Fiom Roma Nord)
Adriano Alessandria (rsu Fiom Lear Grugliasco)
Fausto Angelini (lavoratore Comune di Torino)
Davide Banti (Cobas lavoro privato settore igiene urbana)
Imma Barbarossa (femminista, docente di liceo in pensione)
Giovanni Barozzino (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Giovanna Bastione (disoccupata)
Alessandro Bernardi (comitato acqua, Bologna)
Sergio Bellavita (segr. naz. Fiom)
Sandro Bianchi (ex dirigente Fiom)
Ugo Bolognesi (Fiom Torino)
Salvatore Bonavoglia (Rsu Cobas scuola normale superiore Pisa)
Laura Bottai (impiegata, Filt-Cgil Arezzo)
Massimo Braschi (rsu Filctem TERNA)
Paolo Brini (Comitato Centrale Fiom)
Stefano Brunelli (rsu IRIDE Servizi)
Fabrizio Burattini (direttivo naz. Cgil)
Sergio Cararo (direttore rivista Contropiano)
Carlo Carelli (rsu Unilever, direttivo naz. Filctem Cgil)
Massimo Cappellini (Rsu Fiom Piaggio)
Francesco Carbonara (Rsu Fiom Om Bari)
Paola Cassino (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Stefano Castigliego (Rsu Fiom Fincantieri Marghera – Venezia)
Francesco Chiuchiolo (rsa ARES)
Eliana Como (Fiom Bergamo)
Danilo Corradi (dottorando Università “Sapienza” – Roma)
Gigliola Corradi (Fisac Verona)
Giuseppe Corrado (Direttivo Fiom Toscana)
Giorgio Cremaschi (pres. Comitato centrale Fiom)
Dante De Angelis (ferroviere Orsa)
Riccardo De Angelis (rsu Telecom Italia coord. lav. autoconvocati Roma)
Paolo De Luca (FP Cgil Comune di Torino)
Daniele Debetto (Pirelli Settimo Torinese)
Emanuele De Nicola (segr. Gen. Fiom Basilicata)
Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani)
Francesco Doro (Rsu OM Carraro Padova, CC Fiom)
Valerio Evangelisti (scrittore)
Marco Filippetti (Comitato Romano Acqua Pubblica)
Andrea Fioretti (rsa Flmu Cub Sirti coord. lav. autoconvocati Roma)
Roberto Firenze (rsu Usb Comune di Milano)
Eleonora Forenza (ricercatrice universitaria)
Delia Fratucelli (direttivo naz. Slc Cgil)
Ezio Gallori (macchinista in pensione, fondatore del Comu)
Evrin Galesso (studente AteneinRivolta Padova)
Giuliano Garavini (ricercatore universitario)
Michele Giacché (Fincantieri, Comitato Centrale Fiom)
Walter Giordano (rsu Filctem AEM distribuzione Torino)
Federico Giusti (Rsu Cobas comune di Pisa)
Paolo Grassi (Nidil)
Simone Grisa (segr. Fiom Bergamo)
Franco Grisolia (CdGN Cgil),
Mario Iavazzi (direttivo nazionale Funzione Pubblica Cgil)
Tony Inserra (Rsu Iveco, Comitato Centrale Fiom)
Antonio La Morte (rsu Fiom licenziato Fiat Sata di Melfi)
Massimo Lettieri (segr. Flmu Cub Milano)
Francesco Locantore (direttivo Flc Cgil Roma e Lazio)
Domenico Loffredo (delegato Fiom Pomigliano)
Pasquale Loiacono (rsu Fiom Fiat Mirafiori)
Francesco Lovascio (sindacalista Usb Livorno)
Mario Maddaloni (rsu Napoletanagas, direttivo naz. Filctem Cgil)
Eva Mamini (direttivo naz. Cgil)
Anton Giulio Mannoni (segr. Camera del lavoro di Genova)
Maurizio Marcelli (Fiom nazionale)
Gianfranco Mascia (giornalista)
Armando Morgia (Roma Bene Comune)
Antonio Moscato (storico)
Massimiliano Murgo (Flmu Cub Marcegaglia Buildtech, coord. lav. uniti contro la crisi Milano)
Alessandro Mustillo (studente universitario, Roma)
Stefano Napoletano (rsu Fiom Powertrain Torino)
Antonio Paderno (rsu Fiom Same Bergamo)
Alfonsina Palumbo (dir. Fisac Campania)
Alberto Pantaloni (rsu Slc Cgil Comdata, assemblea lav. autoconvocati Torino)
Marcello Pantani (Cobas lavoro privato Pisa)
Massimo Paparella (segreteria Fiom Bari)
Emidia Papi (esecutivo naz. Usb)
Pietro Passarino (segr. Cgil Piemonte)
Matteo Parlati (Rsu Fiom Cgil Ferrari)
Angelo Pedrini (sindacalista Usb Milano)
Licia Pera (sindacalista Usb Sanità)
Alessandro Perrone (Fiom-Cgil, coord. cassintegrati Eaton Monfalcone)
Marco Pignatelli (lavoratore Fiom licenziato Fiat Sata Melfi)
Antonio Piro (rsu Cobas Provincia di Pisa)
Ciro Pisacane (ambientalista)
Rossella Porticati (Rsu Fiom Piaggio)
Pierpaolo Pullini (Rsu Fiom Fincantieri Ancona)
Mariano Pusceddu (rsu Alenia Caselle-Torino, direttivo Fiom Piemonte)
Stefano Quitadamo (Flmu Cub Coordinamento cassintegrati Maflow di Trezzano S/N – Milano)
Margherita Recaldini (rsu Usb Comune di Brescia)
Giuliana Righi (segr. Fiom Emilia Romagna)
Bruno Rossi (portuale, in pensione, Spi-Cgil)
Franco Russo (forum “diritti e lavoro”)
Michele Salvi (rsu Usb Regione Lombardia)
Antonio Saulle (segreteria Camera del Lavoro Trieste)
Marco Santopadre (Radio Città Aperta)
Antonio Santorelli (Fiom Napoli)
Luca Scacchi (ricercatore università, segreteria FLC Valle d’Aosta, direttivo reg. Cgil VdA)
Massimo Schincaglia (Intesa Sanpaolo, segr. naz. Cub Sallca)
Yari Selvatella (giornalista)
Giorgio Sestili (studente AteneinRivolta Roma)
Giuseppe Severgnini (Fiom Bergamo)
Nando Simeone (coord. lav. autoconvocati, direttivo Filcams Cgil Lazio)
Luigi Sorge (Usb Fiat Cassino)
Francesco Staccioli (cassintegrato Alitalia, esecutivo Usb Lazio)
Enrico Stagni (direttivo Cgil Friuli Venezia Giulia)
Antonio Stefanini (direttivo FP Cgil Livorno)
Alessia Stelitano (studente AteneinRivolta Reggio Calabria)
Alioscia Stramazzo (rsa Azienda Gruppo Generali)
Antonello Tiddia (minatore Sulcis Filctem-Cgil)
Fabrizio Tomaselli (esecutivo naz. Usb)
Luca Tomassini (ricercatore precario Cpu Roma)
Laura Tonoli (segreteria Filctem-Cgil Brescia)
Cleofe Tolotta (Rsa Usb Alitalia)
Franca Treccarichi (direttivo FP Cgil Piemonte)
Arianna Ussi (coordinamento precari scuola Napoli)
Luciano Vasapollo (docente università La Sapienza)
Paolo Ventrice (rsu IRIDE Servizi)
Antonella Visintin (ambientalista)
Emiliano Viti (attivista Coord. No Inceneritore Albano – RM)
Antonella Clare Vitiello (studente Ateneinrivolta Roma)
Nico Vox (Rsu Fp-Cgil Don Gnocchi, Milano)
Pasquale Voza (docente Università di Bari)
Anna Maria Zavaglia (insegnante, direttivo nazionale Cgil)
Riccardo Zolia (Rsu Fiom Fincantieri Trieste)
Massimo Zucchetti (professore Politecnico Torino)

Per adesioni mail a:
– g.cremaschi@fiom.cgil.it
– burattini@lazio.cgil.it
– marco.santopadre1@tim.it

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Vanno male i consumi, scende il livello di fiducia dei consumatori. La tempesta perfetta non accenna a diminuire: l’online non salva la pubblicità.

Secondo i risultati della ricerca “Nielsen Global Online Consumer Confidence” nel secondo trimestre 2011 la fiducia dei consumatori globali è scesa al minimo in sei trimestri. “Non ci sono state sufficienti notizie positive per ispirare fiducia nei consumatori online a livello mondiale nel secondo trimestre”, ha affermato Venkatesh Bala, Chief Economist The Cambridge Group, Nielsen. “Dati economici deboli, inflazione e performance produttive rallentate in Asia, l’intensificazione del debito in Europa e la continua instabilità politica in Medio Oriente, oltre all’aumento delle spese domestiche negli US, hanno influenzato la già scarsa fiducia dei consumatori. Le speranze di una piena ripresa economica nei prossimi 12 mesi si sono indebolite nel secondo trimestre e i consumatori di tutto il mondo sono rimasti legati a una mentalità di recessione.”

Il Nielsen Global Consumer Confidence Index, dal 2005 misura la fiducia di oltre 31.000 consumatori internet in 56 Paesi del mondo, le maggiori preoccupazioni e le intenzioni di spesa. Livelli di fiducia sopra e sotto 100 indicano il livello di ottimismo e pessimismo. Nell’ultima ricerca condotta tra il 20 maggio e il 7 giugno 2011, a livello mondiale la fiducia dei consumatori online è scesa di tre punti indice, da 92 a 89 – il livello più basso dal quarto trimestre 2009. Negli Stati Uniti la fiducia è scesa di cinque punti indice posizionandosi a 78, di due punti inferiore agli 80 registrati nel primo semestre del 2009, al culmine della recessione globale. Il livello di fiducia in Europa (74 punti indice) è rimasto sostanzialmente immutato rispetto al trimestre precedente anche se i consumatori europei rimangono i più pessimisti al mondo con differenze nei vari Paesi.

In Italia l’indice di fiducia ha subito una leggera flessione, 55 punti indice rispetto ai 57 del trimestre precedente, dopo la diminuzione importante verificatasi proprio nel primo trimestre 2011 (-14 punti indice). I principali fattori sono legati ad un trend negativo in termini di prospettive di lavoro e di finanze personali per i prossimi 12 mesi. Il 42% dei consumatori italiani (rispetto al 39% del trimestre precedente) ritiene infatti che le prospettive di lavoro del Paese saranno in peggioramento nei prossimi 12 mesi; per quanto riguarda invece le proprie prospettive finanziarie la percentuale passa dal 21 al 23%. Economia e posto di lavoro rimangono per gli italiani le maggiori preoccupazioni mentre il timore della guerra, che aveva subito un picco nel secondo trimestre (8% +7 punti percentuali rispetto al 4^ trimestre 2010) torna a preoccupare in misura minore (2%). La già modesta percentuale di coloro che nel trimestre precedente pensavano di poter uscire dalla recessione si è ulteriormente ridotta. Oggi solo il 15% degli italiani pensa che il nostro Paese uscirà dalla recessione nei prossimi 12 mesi. Si consolida la percentuale di chi non riesce più a risparmiare (circa ¼ della popolazione) e per cercare di rimanere all’interno del proprio budget di spesa gli italiani continuano a spostarsi sull’acquisto di prodotti grocery più economici.

Anche se ancora al di sotto della media europea (74), l’aumento di 8 punti dell’indice di fiducia in Francia (da 61 a 69), è stato il risultato della crescita economica dell’1% nel primo trimestre, la crescita più significativa per il Paese dal secondo trimestre 2006. Lo scatto della crescita economica in Francia all’inizio dell’anno ha superato le aspettative e il governo prevede una crescita del 2% entro la fine dell’anno. Questa fiducia ha contagiato i consumatori francesi: uno su tre (il 33%) si aspetta che le proprie finanze personali per il prossimo anno siano buone/ottime, rispetto al 25% del primo trimestre 2011. In Grecia, la crisi economica, la crescita del debito e le diffuse proteste interne hanno determinato un ulteriore calo della fiducia dei consumatori di quattro punti nel secondo trimestre 2011 posizionando così il Paese come il più pessimista del mondo con un livello di fiducia pari a 41 punti.

Rispetto al trimestre precedente le regioni del Medio Oriente, Africa e dell’Asia Pacifico hanno registrato il massimo declino, rispettivamente di 12 e 9 punti indice, confermando il trend di un anno fa. I più grandi cali di fiducia nel secondo trimestre sono stati registrati in Egitto (-10) e Arabia Saudita (-11), che avevano goduto dei maggiori incrementi nel primo trimestre 2011, ma che mostrano trend coerenti con lo scorso anno. “In Egitto, l’ottimismo post-rivoluzione è stato sostituito da una visione più realistica della situazione del Paese e da una maggiore consapevolezza delle condizioni economiche del periodo”, ha affermato Ram Mohan Rao, Managing Director, Nielsen Egitto. “In Arabia Saudita l’ondata di ottimismo del primo trimestre, dovuta all’introduzione di denaro aggiuntivo nel mercato da re Abdullah, è stato attenuato in quanto i consumatori hanno subito l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e dell’inflazione immobiliare dovuti alla maggiore liquidità sul mercato” ha dichiarato Arslan Ashraf, Managing Director, Nielsen Arabia Saudita.

I consumatori indiani (126 punti indice), nonostante un calo di cinque punti su base trimestrale, sono i più positivi rispetto alle prospettive di lavoro e alle finanze personali e il loro livello di fiducia è sempre stato il più alto dal 2005. “Una serie di fattori stanno influenzando i consumatori indiani: nonostante siano i più ottimisti del mondo, la crescita dell’inflazione, l’aumento dei prezzi del carburante e un clima di incertezza dell’economia mondiale influenzano una visione positiva”, ha affermato Justin Sargent, Managing Director, Nielsen India.

8 su 14 mercati in Asia Pacifico hanno registrato un calo nel secondo trimestre, con valori più alti in Australia (-8 punti) e Singapore (-6 punti). L’indice di fiducia in Australia è in diminuzione dal terzo trimestre 2010. “Le famiglie australiane sono state colpite duramente da un aumento generale dei prezzi ” ha dichiarato Chris Percy, Managing Director, Nielsen Pacifico. “Le inondazioni dello scorso gennaio inoltre hanno limitato la raccolta di frutta e verdura e hanno avuto effetti sui costi di produzione causando un aumento dei prezzi degli alimentari. L’aumento dei prezzi erode i bilanci famigliari e stringere la cinghia è la norma per molte famiglie australiane.”

Malesia, Nuova Zelanda, Filippine e Corea del Sud registrano un aumento di fiducia mentre Hong Kong rimane stabile. La fiducia dei consumatori cinesi è scesa di tre punti su base trimestrale posizionandosi a 105 ed è di quattro punti al di sotto della percentuale registrata un anno fa (109). “Il lieve calo della fiducia dei consumatori in Cina è dovuto all’inflazione, che rimane un problema importante nella mente dei consumatori. Nonostante l’inflazione in aumento negli ultimi tre mesi, non ci sono segnali di rallentamento dei consumi anche quelli discrezionali. La continua forza dei consumi interni è un riflesso del continuo ottimismo generale dell’economia trainato dalla crescita dei livelli di reddito”, ha dichiarato Karthik Rao, Managing Director, Nielsen Gretear China.

“I dati del secondo trimestre evidenziano che i consumatori pensano ancora alla recessione, stanno stringendo la cinghia e contenendo le spese dopo gli ultimi 12 mesi di lento miglioramento” ha affermato Bala. “Secondo l’ultima ricerca, le intenzioni di allocazione di consumo sono diminuite rispetto a tre mesi fa a livello globale in tutti gli ambiti discrezionali: investimenti in borsa, acquisto di abbigliamento, vacanze e aggiornamento della tecnologia”.

Il 58% dei consumatori a livello globale ritiene di essere ancora in una fase di recessione e di questi, più della metà (il 51%) pensa che lo sarà ancora tra un anno. In Asia Pacifico la percentuale di coloro che ritengono di essere ancora in recessione è del 45% rispetto al 37% del primo trimestre 2011. In Medio Oriente e Africa la recessione economica è un dato di fatto per il 74% degli intervistati online – con un incremento di nove punti rispetto a tre mesi fa.

Dodici mesi fa, il 35% dei consumatori online a livello mondiale riteneva che fosse un buon momento per comprare le cose di cui avevano bisogno, nel secondo trimestre del 2011 però questa percentuale è scesa al 27%. In America si è passati dal 27 al 20% e in Asia Pacifico dal 40 al 32%. A livello mondiale un numero sempre maggiore di consumatori si sente a corto di liquidi. L’aumento dei prezzi alimentari è stato ancora una delle principali preoccupazioni dei consumatori globali, superando l’economia come la preoccupazione principale per il secondo trimestre consecutivo. Il 31% dei consumatori ha dichiarato di non avere denaro rimanente dopo aver coperto le spese essenziali, il 25% in Medio Oriente, Africa e il 22% in Europa.(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Teatro

Cresce il dibattito al Teatro Valle occupato. Ecco l’intervento di BIFO.

Far saltare il dispositivo Maastricht e poi? di Franco Berardi (BIFO)-teatrovalleoccupato.it

Rivolte nelle strade di Londra di Roma e di Atene, occupazione di centinaia di piazze nelle città spagnole. Quel che è accaduto tra l’autunno 2010 e la primavera 2011 non è stata un’improvvisa effimera esplosione di rabbia ma l’inizio di un processo che continuerà per anni e crescerà raccogliendo forza e visione strategica.

Un processo simile è iniziato nelle città arabe. Quella che vediamo là non è una rivoluzione per la democrazia, come dicono gli ipocriti occidentali. Non è in vista nessuna democrazia nei paesi arabi, né alcun segnale di una stabilizzazione post-rivoluzionaria. Quel che vediamo in Nord Africa come nel Medio Oriente è l’emergenza di una nuova composizione sociale fondata sul lavoro precario cognitivo, sull’intelligenza sociale collettiva che è sottoposta al dominio dell’ignoranza religiosa e della privatizzazione economica e della corruzione. L’inizio di una rivolta destinata a convergere con quella europea.

Dieci anni fa, in seguito al dotcom crash che segnò la crisi della new economy, il semiocapitalismo finanziario iniziò lo smantellamento della forza politica dell’intelletto generale.

La privatizzazione delle risorse comuni della conoscenza e della tecnologia, la precarizzazione e lo sfruttamento crescente del lavoro cognitivo avanzarono insieme. Ora, in seguito al collasso finanziario del settembre 2008 il capitalismo finanziario ha lanciato l’aggressione finale. La spesa sociale viene tagliata, la scuola pubblica e l’università vengono distrutte, la ricerca è sottoposta a strategie di profitto di breve termine. L’insieme della società viene aggredita, impoverita, minacciata e umiliata, per imporle di pagare il debito accumulato dalla classe finanziaria.

Nei prossimi mesi le lotte sono destinate a proliferare radicalizzarsi. Questo è inevitabile, perché è la sola alternativa alla miseria e alla depressione generale.

Combatteremo uniti. Ma non basterà. Il problema che dobbiamo affrontare adesso è un problema d’immaginazione, non di forza. Cosa verrà fuori dalla insurrezione che si prepara in Europa?

Tutti vediamo il pericolo del crollo d’Europa: il ritorno dei peggiori incubi è già percepibile nell’espansione del nazionalismo del populismo mediatico e del razzismo nella psiche sociale.

L’assassino nazista di Oslo e i figuri leghisti che si riuniscono a Monza per celebrare i loro riti razzisti fanno parte dello stesso processo: la frustrazione ignorante e il fanatismo si saldano in una miscela tremenda di tipo nazista che è già forza di governo in paesi come l’Ungheria.

L’Unione Europea, che nel dopoguerra ha rappresentato una speranza di solidarietà sociale, negli anni della svolta neoliberista venne riprogrammata come congegno di governance monetarista, con una fissazione centrale: ridurre il costo del lavoro, ridurre la quota di reddito che va ai lavoratori.

In ossequio al nuovo dogma liberista e monetarista, nel 1993 venne costruito un dispositivo politico-finanziario che prese nome di Trattato di Maastricht.

Questo dispositivo comporta alcuni criteri che debbono essere rispettati dagli stati non vogliano essere espulsi dall’UE. I criteri fondamentali sono questi:

Il rapporto tra deficit pubblico e PIL non deve essere superiore al 3%.
Il rapporto tra debito pubblico e PIL non deve essere superiore al 60% .
Il tasso d’inflazione non deve superare l’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi.
Il tasso d’inflazione a lungo termine non deve essere superiore al 2% del tasso medio degli stessi tre Paesi.

L’ordine monetario dell’unione europea viene sottoposto alla supervisione della Banca Centrale Europea, il cui statuto prevede una completa autonomia rispetto alle decisioni del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, e stabilisce una finalità primaria dichiarata, che è quella di contenere l’inflazione.
Questo ferreo dispositivo giuridico-finanziario sul quale si fonda l’Unione Europea funziona come un automatismo che governa i processi di decisione politica e in ultima analisi costituisce un limite per le possibilità di immaginazione della società europea. Funziona in modo tale da costringere i paesi dell’Unione a ridurre il costo del lavoro, a ridurre la massa di risorse investite nel benessere della società, per contenere l’inflazione, per ridurre il deficit pubblico e per aumentare il profitto finanziario.

Naturalmente quegli stessi obiettivi si potrebbero perseguire adottando strategie differenti, come quella di tassare le transazioni finanziarie e di tassare i grandi patrimoni. Ma nel dispositivo neoliberista queste misure sono interdette, impronunciabili. Di conseguenza l’applicazione dei criteri di Maastricht ha prodotto negli ultimi due decenni uno spostamento gigantesco di risorse dal lavoro verso il capitale e dalla società verso la rendita finanziaria.

L’Europa è un continente ricco, ricchissimo. Milioni di tecnici, ingegneri, medici, progettisti, architetti, poeti, artigiani, biologi, insegnanti, donne e uomini di ingegno e cultura raffinata hanno reso questo continente agiato, comodo, piacevole. Da cinque secoli la borghesia, classe laboriosa e disciplinata ha progettato le città, le fabbriche, le strutture della vita civile. Una classe operaia vastissima, addestrata, qualificata e costretta alla disciplina ha innalzato ponti e grattacieli, prodotto milioni di macchine e macchinette.

Con la lotta sindacale e politica la classe operaia ha imposto alla borghesia di condividere parte della ricchezza prodotta, così che una parte vastissima, maggioritaria della società europea ha potuto godere dei prodotti del lavoro industriale, e ha potuto avere accesso ai servizi che rendono la vita tollerabile, talvolta perfino piacevole.

Poi è arrivata la deregulation, la competizione internazionale si è fatta sempre più feroce, e la borghesia industriale ha dovuto cedere il posto di comando a una classe eterogenea, più spregiudicata e poliglotta, spesso arricchita grazie ad affari criminali, che detiene e maneggia un capitale immateriale, puramente semiotico: la classe detentrice del capitale finanziario.
Si tratta di una classe de territorializzata che possiamo definire come classe virtuale, in quanto essa sfugge all’identificazione fisica, territoriale, mentre pure i suoi movimenti e le sue scelte producono effetti visibilissimi nel corpo vivente della società. La classe finanziaria ha carattere virtuale perché essa non si presenta con un volto riconoscibile, ma piuttosto agisce come pulviscolo di innumerevoli scelte compiute da agenzie impersonali, come sciame guidato da una volontà inconsapevole.

Per quanto non identificabile e pulviscolare la classe de territorializzata della finanza sta imponendo all’Unione Europea il dogma secondo cui la società europea deve diventare povera, miserabile, infernale per essere competitivi sui mercati internazionali.

Il dispositivo Maastricht ha cominciato a funzionare come un sistema di automatismi tecno-finanziari il cui effetto è il contenimento e la riduzione della spesa sociale e l’aumento della rendita finanziaria.
Questi criteri non sono affatto naturali né inevitabili, ma neppure sono il risultato lineare di scelte politiche individuabili. Essi si impongono con la forza dell’automatismo. Possiamo definirli come dispositivo, cioè un prodotto dell’azione umana che si sottrae alla volontà e si sovrappone all’azione umana come un automatismo che pre-dispone l’azione umana a ripetersi. Dopo il 2008, dopo la crisi dei mutui immobiliari americani e il successivo sconquasso della finanza occidentale, la rigidità dei criteri di Maastricht ha impedito qualsiasi flessibilità della decisione politica.

Il dispositivo Maastricht ha fatto fallimento. La crisi greca e tutto quel che segue é dimostrazione del fatto che questi criteri non hanno prodotto dei buoni risultati. Andrebbero rivisti, in modo da rilassare un po’ il respiro degli europei, in modo da restituire risorse alla società.
Ma l’autorità europea (che è un’autorità unicamente finanziaria, dal momento che l’autorità politica non conta niente) applica questi criteri in maniera tanto più fanatica quanto più fallimentare.

A partire dalla crisi greca della primavera 2010 l’effetto del dogmatismo neoliberista e monetarista è visibile: peggioramento delle condizioni di vita della società, aumento della disoccupazione, smantellamento delle strutture della vita civile e dei servizi sociali, insomma impoverimento generalizzato.

La classe finanziaria (le banche, le assicurazioni, il mercato borsistico), che pure hanno lucrato sul rischio (ad esempio imponendo alti interessi sui Credit Default Swaps) ora rifiutano di assumersi le conseguenze di quel rischio, e vogliono scaricarlo sulla società.
Per pagare il debito accumulato negli ultimi decenni dalla classe finanziaria, la società europea viene sottoposta a un dissanguamento generalizzato:
il sistema educativo, che costituisce il pilastro fondamentale per lo sviluppo civile, viene de finanziato, ridimensionato, impoverito, privatizzato in parte.
Il sistema sanitario viene definanziato e tendenzialmente privatizzato.
Le strutture di trasporto e di approvvigionamento energetico vengono privatizzate e quindi sottoposte a logiche economiche del tutto estranee ai bisogni della collettività e funzionali soltanto agli interessi del ceto finanziario, e agli obiettivi strategici della Banca centrale.

Insomma, la società europea viene drasticamente impoverita, tendenzialmente devastata e imbarbarita, pur di non scalfire il castello d’acciaio della cosiddetta stabilità finanziaria.
Se questo è il prezzo dell’adesione all’Unione Europea, presto nessuno vorrà più pagarlo, e allora si rischia il crollo dell’Unione, la cui conseguenza può essere la moltiplicazione dei populismi territorialisti e mediatici, il diffondersi della peste fascista e razzista ai quattro angoli del continente. l’Italia ha anticipato questa tendenza, con il lungo predominio del partito mafioso di Berlusconi e del partito razzista di Bossi.

L’insurrezione europea è nell’ordine dell’inevitabile. Il problema non è organizzarla, armarla. Essa si organizza da sé. Il problema è immaginarne l’esito, costruire le istituzioni che rendano possibile l’autonomia della società dalla catastrofe inarrestabile dell’economia capitalista.
(Beh, buona giornata).

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Cinema democrazia Finanza - Economia - Lavoro Teatro

Le ragioni del Teatro Valle sono a monte.

Succede di aver talmente ragione da capitombolare dalla parte del torto. E’ successo a Goffredo Fofi che sulle pagine de l’Unità ha accusato gli occupanti del teatro Valle di Roma di essere nostalgici dell’assistenzialismo culturale. A quelli non è andata giù, e a ragione.

Perché i motivi dell’occupazione del teatro sono più grandi delle clientele, mafiette e greppie che hanno caratterizzato la produzione cinematografica e teatrale italiana, col risultato di dare vita a sprechi di danaro pubblico e a insulse e dimenticabili opere artistiche. Sono anche più grandi del conformismo di sempre della sinistra parlamentare, ma anche del suo rinato attivismo di questi giorni, tutto imperniato a far sopravvivere il teatro Valle, col coinvolgimento finanziario degli enti locali. Guardano l’albero, ma non vedono la foresta.

Il fatto è che i tagli alla cultura operati nell’ultima manovra finanziaria del governo altro non sono che tagli della parte residua dei tagli precedenti. Il che autorizza a pensare e dunque a dire con chiarezza che chiudere i rubinetti alla cultura italiana è una strategia, prima ancora che una necessità di bilancio. La qual cosa è straordinariamente in sincronia con i tagli di bilancio al finanziamento della scuola, dell’università e della ricerca.

Questa strategia è stata annunciata dal ministro dell’Economia, l’uomo delle forbici, circa un anno fa. “Certi diritti non possiamo più permetterceli”, ebbe a dire Tremonti, molto prima dell’emergenza speculativa internazionale che si è abbattuta sul Paese, proprio grazie alle politiche del governo Berlusconi, cosa, sia detto per inciso, che non è una tesi del dibattito, ma è un fatto accertato e certificato dai mercati internazionali.

Sostenere che l’attuale governo non si può permettere di finanziare certi diritti è la confessione sincera di colpevolezza, al di la di ogni ragionevole dubbio. Perché i diritti non sono merci che a un certo punto esauriscono sullo scaffale del supermarket. La Costituzione non è un menù sul quale un asterisco ci avverte che questo o quel diritto potrebbe essere congelato.

Da questo punto di vista, contrariamente a quanto dice Fofi, si ha l’impressione che gli occupanti del Valle abbiamo le idee chiare. Tanto che la risonanza che sta avendo l’occupazione è un motore mentale che è in grado di produrre idee nuove , quelle stesse di cui Fofi lamenta la mancanza. La verità è che la lotta è una eccellente palestra di ingegni, e il Valle sembra un piccola, ma incandescente fucina. Fosse solo per questo, l’occupazione del Valle andrebbe difesa, propagandata, aiutata con tutti i mezzi.

La piattaforma di lotta non è così chiara come la vorrebbe qualcuno? Sempre succede che chi comincia ha ragioni che le parole ancora non sanno spiegare. Cionondimeno, dall’occupazione del Valle di Roma arriva, sottoforma di metalinguaggio, forte e chiaro un bel messaggio: l’Italia non solo bisogno di una alternativa di governo, l’Italia ha forte consapevolezza di un’alternativa politica, economica, sociale e culturale. L’occupazione del teatro Valle, nella sua specificità, che sembrerebbe riguardare attori, autori, registi e maestranze è in realtà un tassello di un mosaico che rappresenta il cambiamento in atto, tassello che va a collocarsi accanto alle novità espresse dalle amministrative di Milano e Napoli, accanto allo straordinario pronunciamento di massa su i referendum, accanto alla protesta No tav.

Al Valle c’è entusiasmo collettivo, proprio quello che servirebbe per contagiare di nuovo il Paese intero. C’è anche forte il senso di una consapevole autonomia dalle politiche culturali del centrosinistra, contro le quali le parole di Fofi sono sacrosante. Ma il bello delle lotte è che, qualunque risultato immediato ottengano, esse fanno bene alla salute democratica di un Paese.

Per l’attuale ministro della Cultura, che viene dal management di Publitalia,e che ha detto che per quanto allegra l’occupazione del Valle è pur sempre abusiva, evidentemente gli attori servono solo a fare i testimonial pubblicitari. Se da protagonisti delle fiction diventano attori della realtà, bisogna mandargli la polizia? Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia

«L’Italia ha tutte le cose che le servono per ripartire, quello che serve è un cambio di governo».

di Paola Pica-Il Corriere della Sera

«The man who screwed an entire country» l’ uomo che ha fottuto un intero Paese». L’Economist torna ad attaccare Silvio Berlusconi bocciandone senza appello la politica di governo. Il presidente del Consiglio italiano è tornato in copertina del settimanale britannico in uscita venerdì, a otto anni dal celeberrimo «unfit to lead Italy», inadatto a governare l’Italia, e a cinque dall’altrettanto polemico «E’ tempo di licenziarlo». L’occasione di quest’ultima «cover story» è la pubblicazione di uno speciale di 16 pagine sull’Italia realizzato per l’anniversario dei 150 anni. L’analisi di John Prideaux, autore del rapporto, lascia emergere un Paese fermo che paga con la «crescita zero» le mancate riforme. «L’Italia ha tutte le cose che le servono per ripartire, quello che serve è un cambio di governo».

L’EDITORIALE – «Nonostante i suoi successi personali Berlusconi si è rivelato tre volte un disastro come leader nazionale», si legge nell’editoriale. Il primo disastro è la «saga» del bunga bunga e il secondo sono le vicende che hanno premier in Tribunale rispondere di frode, truffa contabile e corruzione. «I suoi difensori – spiega l’Economist – dicono che non è mai stato condannato ma questo non è vero. In molti casi si è arrivati a delle condanne ma queste sono state spazzate via» o per via della decorrenza dei termini o «in almeno due casi perchè Berlusconi stesso ha cambiato la legge a suo favore». «Ma il terzo difetto è di gran lunga il peggiore – continua l’Economist – e questo è il totale disinteresse per la condizione economica del paese. Forse perchè distratto dai suoi problemi legali, in nove anni come primo ministro non è stato in grado di trovare un rimedio o quanto meno di ammettere lo stato di grave debolezza economica dell’Italia. Il risultato è che si lascerà alle spalle un paese in grave difficoltà. La malattia dell’Italia non è quelle di tipo acuto; si tratta piuttosto di una malattia cronica, che pian piano mangia via la vitalità». Se fino ad ora, «grazie alla linea del rigore fiscale imposta dal ministro delle finanze Giulio Tremonti» l’Italia è riuscita e evitare di diventare la nuova vittima della speculazione dei mercati, questo non significa che la linea di credito sia infinita. Un’Italia stagnante e non riformata, con un debito pubblico ancorato attorno al 120% del pil, si ritroverebbe così esposta come il vero problema dell’eurozona. Il colpevole? «Berlusconi, che non ci sono dubbi, continuerebbe a sorridere» conclude l’Economist.

IL RAPPORTO – «Non farò l’errore di predire la fine di Berlusconi – ha detto l’analista incontrando la stampa a Milano – ma arrivando qui, parlando con le persone si inizia a sentire un’aria nuova, la fine di un’era».«L’Italia ha un problema di produttività, ha bisogno di alcune riforme. Se guardiamo agli ultimi dieci anni e più, dimenticando tutti gli scandali, lo scontro con i magistrati, il problema è c’è stato un disastro da un punto di vista economico. Berlusconi è arrivato al potere con l’idea di essere un imprenditore di successo in grado di fare le riforme economiche, ma poi non le ha fatte» e il Paese «ha sprecato» tempo prezioso.

BASSA CRESCITA – Il nostro Paese ha avuto il «più basso tasso di crescita di tutti gli altri Paesi del mondo occidentale. Tra il 2000 e il 2010, il Pil italiano è cresciuto in media dello 0,25% all’anno, una dato allarmante – scrive l’Economist – migliore solo rispetto a quello di Haiti o dello Zimbawe». E nonostate l’Italia «abbia saputo evitare il peggio durante la recente crisi finanziaria globale, non ci sono segnali di una possibile inversione di tendenza».

GERONTOCRAZIA – Nonostante i problemi che appaiono per lo più legati alla fase politica, l’Italia resta un «Paese civilizzato, ricco, senza conflitti». Il «successore di Berlusconi potrebbe introdure alcuni immediati miglioramenti con poco sforzo» e dovrà sicuramente metter mano alla legislazione sul lavoro «che favorisce gli anziani». L’Italia è afflitta tra le altre cose da una «gerontocrazia istituzionalizzata» che rende difficile ai giovani costruirsi una carriera. Tanto che dobbiamo porci il problema di come «richiamare migliaia di giovani di talento che sono emigrati e potrebbero avere un impatto positivo per il Paese». (Beh, buona giornata).

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La privatizzazione dell’acqua ha fatto aumentare le bollette. Un buon motivo per andare a votare sì.

Costi, dispersione, efficienza i falsi miti dell’acqua privata

In vista dell’appuntamento del 12 e 13 giugno, Altraeconomia ha realizzato un dossier che sfata, punto per punto, tutte le false credenze nate intorno alla privatizzazione del servizio idrico italiano. Gli acquedotti pubblici non sono affatto dei “colabrodo”. E gestione privata il più delle volte fa rima con bolletta salata di GIULIA CERINO-republica.it

MITO numero uno: gli acquedotti “pubblici” sono dei colabrodo. “Falso: secondo i dati di Mediobanca, il peggiore, se consideriamo la dispersione idrica (litri immessi in rete e non fatturati/abitanti/lunghezza della rete gestita), è quello di Roma, dove l’acquedotto è affidato ad Acea, una spa quotata in borsa i cui principali azionisti sono il Comune di Roma, Francesco Gaetano Caltagirone e Suez”. In vista del referendum del 12 e 13 giugno, Altraeconomia ha pubblicato un dossier “speciale” 1. Lo scopo? Sfatare punto per punto tutte le false credenze nate intorno alla privatizzazione del servizio idrico italiano. A partire dai costi. Secondo il Conviri (Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche), per i prossimi 30 anni servono circa 64 miliardi di euro per la manutenzione e l’ammodernamento delle reti idriche di casa nostra. Due miliardi l’anno, una cifra standard necessaria in ogni caso, a prescindere dall’esito del referendum. Di questi, il 49,7% è diretto al comparto acquedottistico (per nuove reti, impianti e per manutenzione) mentre il 48,3% alle fognature e alla depurazione. A metterci i quattrini dovrebbero essere lo Stato, le Regioni e i Comuni d’Italia dato che quelli – spiega Pietro Raitano, direttore del mensile Altreconomia e curatore del dossier Speciale Referendum – sono “soldi delle nostre tasse, gli stessi che vengono usati anche per riparare le strade, per costruire il ponte sullo Stretto o per la Difesa”.

Ed ecco sfatato il secondo mito. Con l’ingresso dei privati, la bolletta non si ridimensionerà. Al contrario, ai costi standard appena elencati se ne aggiungono altri. Per fare i lavori infatti (gli stessi che dovrebbero fare gli enti pubblici) le aziende punteranno al risparmio tentando di “scaricare l’investimento sulle bollette, come previsto dalla legge”. Dunque, nel conto di ogni italiano saranno inclusi, oltre ai lavori ordinari, “anche gli utili delle aziende”, spiega Raitano. La concorrenza tra privati non basterà a contenere i costi. Anzi. In assenza di ulteriori interventi normativi e in virtù della legge Galli del 1994, come modificata dal dl 152/2006, i costi di tutti gli investimenti sulla rete acquedottistica finiranno in bolletta. Il business ringrazia. I consumatori non proprio perché – conclude Raitano – pretendere tariffe più basse significherebbe – trattando con dei privati – “necessariamente un blocco degli investimenti”.

La privatizzazione della gestione dell’acqua prevista dal decreto Ronchi (numero 135 del 2009) ha dunque di fatto provocato un aumento dei costi. A dimostrarlo sono anche le cifre del rapporto Blue Book 4 che ha pensato di confrontare le tariffe della gestione privata con quelle in house. Risultato? Nel primo caso sono aumentate del 12% rispetto alle previsioni, nel secondo il dato è rimasto quasi costante (solo l’1% in più). Conferma la tendenza anche l’annuale dossier 5, realizzato dall’Osservatorio Prezzi & Tariffe di Cittadinanzattiva, dal quale si scopre che dal 2008 il costo dell’acqua non ha fatto che aumentare: la media è del più 6,7%, con aumenti del 53,4% a Viterbo (record nazionale), Treviso (+44,7%) Palermo (+34%) e in altre sette città, dove gli incrementi hanno superato il 20%: Venezia (+25,8%), Udine (+25,8%), Asti (+25,3%), Ragusa (+20,9%), Carrara (+20,7%), Massa (+20,7%) e Parma (+20,2%).

In generale, gli incrementi si sono registrati in 80 capoluoghi di provincia ma è la Toscana che si conferma la regione con le tariffe mediamente più alte (369 euro). Costi più elevati della media nazionale anche in Umbria (339 euro), Emilia Romagna (319 euro), Marche, Puglia (312 euro) e Sicilia (279 euro) mentre capita spesso di trovarsi di fronte a differenze all’interno di una stessa regione: l’acqua di Lucca costa 185 euro in meno di quella di Firenze, Pistoia e Prato. Stessa cosa in Sicilia: tra Agrigento e Catania lo scarto è di 232 euro. D’altra parte, la logica che muove ogni business degno di tale nome – scrive Luigino Bruni, docente di economia politica all’università Milano-Bicocca – è quella di fare utili, possibilmente a breve termine. Il ragionamento fila: “Le imprese private hanno per scopo il profitto. Chi massimizza il profitto non tiene conto dell’ottimo sociale e difficilmente può essere controllato, nemmeno con un meccanismo di sanzioni”.

Sul tema dell’acqua poi sembra circolino tanti altri falsi miti. Si dice, ad esempio, che la gestione privata della rete idrica sia molto efficiente. Sbagliato. “Uno dei migliori acquedotti del nostro Paese – spiega Raitano – è quello di Milano, al cento per cento di gestione pubblica, dove l’acqua viene controllata più volte al giorno e le dispersioni sono minime”. E’ quindi “dogmatico dire che la gestione privata garantisce una migliore gestione della rete. Le esperienze che si sono fatte in questi anni in Calabria, ad Agrigento, a Latina dimostrano che dove gli acquedotti sono passati in mano ai privati c’è stato solo un aumento delle tariffe”. E’ successo in Calabria, dove alcuni sindaci della Piana di Gioia Tauro si sono visti raddoppiare la bolletta. A San Lorenzo del Vallo, comune di 3.521 abitanti della provincia di Cosenza, il conto è salito da 100 a 190 mila euro l’anno perché – spiega il sindaco – l’azienda che gestisce l’acqua in tutta la Calabria (la So.Ri.Cal) con concessione trentennale ha arbitrariamente aumentato la tariffa del 5%. Una cifra, questa, pari all’intero bilancio del piccolo comune che, non avendo saldato il debito, e stato dichiarato moroso.

Privati o no, la gestione idrica pubblica in Italia sembra aver fallito. Il Belpaese spreca acqua continuamente. Ogni giorno si perdono circa 104 litri di sangue blu per abitante, il 27% di quella prelevata. Considerando ogni singolo italiano si scopre che consumiamo a testa in media 237 litri di liquido al giorno: 39% per bagno e doccia, 20% per sanitari, 12% per bucato, 10% per stoviglie, 6% per giardino, lavaggi auto e cucina, 1% per bere e 6% per altri usi. A fronte di un terzo dei cittadini che non ha un accesso regolare e sufficiente alla risorsa idrica, otto milioni di italiani non ne hanno di potabile e 95 milioni di litri di acqua che, ogni anno, vengono usati per l’innevamento artificiale. Dunque il problema – conclude il dossier – non si risolve nemmeno affidando l’acqua ai privati che – per loro natura – tenderebbero a spostare le reti idriche nelle zone d’Italia più fruttuose. Il punto semmai è la totale assenza di un piano normativo, economico ed amministrativo nazionale volto a finanziare e supportare le tecnologie necessarie. In alcune regioni d’Italia mancano ancora gli Ato, ambiti territoriali ottimali, territori appunto su cui sono organizzati servizi pubblici integrati. Come quello dell’acqua o dei rifiuti. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Natura Popoli e politiche Salute e benessere

Parigi, Berlino, Johannesburg, Buenos Aires, Atlanta, Monaco di Baviera sono tutte tornate all’acqua pubblica.

di ANTONIO CIANCIULLO-repubblica.it

Mentre il governo Berlusconi varava la legge che bocciava il gestore pubblico dell’acqua, facendolo finire in serie B e costringendolo per legge a restare in minoranza nelle aziende quotate in Borsa, grandi città, comprese quelle che per decenni avevano sperimentato la gestione privata, decidevano di puntare sul pubblico. Parigi, Berlino, Johannesburg, Buenos Aires, Atlanta, Monaco di Baviera sono tutte guidate da ideologi sprovveduti, teorici estremisti che odiano i capitali privati? Proviamo a vedere cosa sta succedendo in alcune di queste città partendo dal caso meno pubblicizzato, Monaco di Baviera.

La chiave per comprendere la scelta di Monaco è il rapporto tra l’acqua e il territorio. Per la risorsa idrica quello che conta è la qualità dell’ambiente: più si preserva la natura in cui l’acqua scorre, meno è necessario intervenire sugli acquedotti. Nel 1992 Monaco di Baviera ha deciso di acquisire i terreni vicini alla falda e di riservarli alla coltivazione biologica: niente chimica, allevamento controllato. In questo modo è stata vinta la battaglia contro i nitriti che per tre decenni avevano continuato a crescere e l’acqua può arrivare in tavola senza cloro e senza trattamenti chimici.

Analoga la scelta di Parigi che, dopo la decisione di far tornare l’acqua in mano pubblica togliendola alle due multinazionali francesi (Veolia e Suez) che gestivano il servizio da 25 anni, ha preso il controllo dei terreni collegati alla falda idrica e li ha concessi in affitto a canone agevolato o a titolo gratuito agli agricoltori che si sono impegnati a lavorare seguendo gli standard più rispettosi dell’ambiente. Secondo i dati del Comitato per il sì, le perdite di rete registrate in Francia dai due principali gruppi privati del settore vanno dal 17 al 27 %, contro il 3-12 % della gestione pubblica. E l’assessore alla municipalità di Parigi, Anne Le Strat, ritiene che il passaggio da un sistema privato a uno pubblico consentirà di risparmiare 30 milioni di euro l’anno.

“Questo tipo di scelte può essere fatto solo se la gestione dell’acqua è pubblica perché impone investimenti e programmazioni a lunghissimo termine”, ricordano al Comitato per i sì al referendum. “Una società privata non ha interesse a investire per acquistare terreni che poi potranno non servirle più a nulla se alla scadenza il contratto non viene rinnovato. Inoltre avrebbe difficoltà a giustificare agli azionisti un investimento così importante per risolvere un problema che si può affrontare con una spesa molto minore utilizzando il cloro”.

I punti cruciali sono dunque due. Il primo, come abbiamo visto, è lo spazio. Più è vasta l’area ambientalmente sana in cui l’acqua scorre minore è la necessità di un intervento correttivo sulla rete idrica. Il secondo è il fattore tempo. Gli importanti investimenti di cui il settore idrico ha assoluto bisogno per chiudere il cerchio dell’acqua collegando alle fogne quel 30 per cento di scarichi non ancora in regola, richiedono uno sguardo lungo. La manutenzione costa, l’espansione della rete costa. E i ritorni si misurano nell’arco di vari decenni. Spesso troppi per un’azienda privata che è abituata a rendere conto del suo operato in tempi decisamente più brevi e che difficilmente ottiene contratti con una durata di più di 30 anni. A meno che il controllo delle scelte sull’acqua non rimanga saldamente in mano alla mano pubblica.
(Beh, buona giornata)

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Finanza - Economia - Lavoro

Perché in Italia politici, banchieri, giornalisti economici e imprenditori dicono cazzate? “Si tratta di una forma di auto-illusione nazionale, nel tentativo di sfuggire alla dolorosa realtà.”

Le bugie sui conti dell’Italia, di BILL EMMOTT -La Stampa

E’ normale aspettarsi dai politici mezze verità quando non addirittura bugie: in questo l’Italia non è unica, anche se resta un’eccezione la capacità del suoi leader di dire qualcosa un giorno per negarlo il giorno dopo, nella peraltro giustificata convinzione che le loro parole verranno comunque rapidamente dimenticate. Ma non mi aspettavo che questo fenomeno riguardasse anche l’economia, campo dove è facile verificare come stanno davvero le cose. Eppure, andando in giro per l’Italia, mi sono accorto che dichiarazioni false sull’economia nazionale vengono prodotte ogni giorno non solo dai politici, ma anche da banchieri, imprenditori e perfino esponenti del governo.

E’ vero che alcune di queste dichiarazioni potrebbero venire catalogate più come opinioni che come constatazioni dei fatti, in quanto l’economia possiede aspetti soggettivi e spesso il dibattito riguarda un futuro imprevedibile sul quale non si dispone di certezze. Eppure mi sembra che ci sia qualcosa di più, visto che il ricorso a dichiarazioni false, anche sul presente e sul passato, resta così diffuso. Così ho prodotto una teoria: si tratta di una forma di auto-illusione nazionale, nel tentativo di sfuggire alla dolorosa realtà.

Permettetemi di spiegarla. Il primo mito che ho sentito decine di volte ripetere agli imprenditori è che l’Italia è nell’ottima posizione della seconda «economia d’esportazione» d’Europa, dopo la Germania.

L’ultima volta l’ho sentito il 3 marzo, quando il Sole – 24 Ore ha organizzato un dibattito con me e Marco Fortis della Fondazione Edison sull’economia italiana, e nella loro introduzione all’articolo in merito i giornalisti del quotidiano economico hanno scritto: «Le esportazioni, invece, viaggiano a ritmo sostenuto, seconde soltanto a quelle della Germania». Ciò nonostante il fatto che durante il dibattito io e Fortis ne abbiamo parlato e abbiamo convenuto che non era vero.

L’idea è bella, ma purtroppo le esportazioni annue dell’Italia la collocano non al secondo, bensì al quarto posto nell’Ue, con il sorpasso della Francia e dei Paesi Bassi. Se poi, come si dovrebbe fare se si misurano le entrate reali dalle esportazioni, si includono nel calcolo anche i servizi, l’Italia scende al quinto posto, battuta anche dal Regno Unito. Si potrebbe anche ammettere che nel caso dei Paesi Bassi alcune esportazioni sono in realtà re-esportazioni in quanto si tratta di prodotti trasportati su per il Reno e lavorati laggiù, ma anche con questa correzione l’Italia non riesce a riguadagnare il secondo posto.

Si potrebbe obiettare che sono soltanto dettagli statistici, che le esportazioni italiane restano forti e che i giornalisti del Sole si riferivano alla loro variazione di crescita piuttosto che al loro livello in termini assoluti. Questa affermazione è stata recentemente fatta nientemeno che da Antonio Vigni, presidente della terza banca italiana, Monte dei Paschi di Siena, in un’intervista («View from the Top», 15 aprile 2011) al Financial Times. In questo breve colloquio ha opportunamente ripetuto tre dei miei miti preferiti sull’economia italiana. Ha detto che la crisi economica ha «messo alla prova la forza del nostro sistema industriale», che stiamo assistendo a «un balzo del livello delle esportazioni e della ripresa», e che la situazione delle famiglie italiane è «positiva per l’economia» a causa del loro basso livello di indebitamento e alto tasso dei risparmi.

Non voglio prendermela con Vigni: ha solo ripetuto quello che dicono in tanti, anche se da un banchiere mi sarei aspettato che ogni tanto desse un’occhiata ai numeri. Per quanto riguarda la prima affermazione, che il sistema industriale italiano ha dimostrato la sua forza, basta andare a guardare l’ultimo Bollettino economico prodotto dalla Banca d’Italia, dove si dice che «la crescita del settore manifatturiero è stata meno robusta rispetto ai principali Paesi della zona dell’euro: rispetto al livello pre-crisi, nel febbraio 2011 la produzione industriale in Italia era scesa circa del 18%, contro il 9% in Francia e il 5% in Germania». Numeri che fanno apparire il «sistema industriale» italiano debole più che forte.

Ma tanto le esportazioni sono tornate a crescere, no? E’ vero che l’export di beni e servizi dall’Italia è aumentato nel 2010 dell’8,9%. Ma nello stesso periodo la Francia ha visto un aumento del 10,1%, il Belgio del 10,2% e la Germania del 14,1%. A essere onesti, Vigni ha dato questa risposta alla domanda se fosse possibile paragonare l’Italia al Portogallo, alla Grecia, all’Irlanda e alla Spagna, le economie della zona euro che non fanno dormire gli investitori. Diamo però un’occhiata ai tassi di crescita delle esportazioni portoghesi (8,7%) e spagnole (10,3%) del 2010, e la presunta potenza esportatrice dell’Italia non appare più così convincente. Senza poi menzionare il fatto che l’Italia nell’ultimo decennio ha avuto un deficit commerciale, in quanto importa più di quanto esporta.

Allora Vigni ha ragione ad affermare che le famiglie italiane sono un fattore positivo, con i loro debiti bassi e i risparmi cospicui? E anche quando dice che il sistema bancario italiano è più stabile di quello di molti altri Paesi europei? Entrambe queste affermazioni così diffuse sono vere, ma non contano molto. Potevano suonare rassicuranti durante la tempesta finanziaria del 2008-9, quando l’alto indebitamento delle famiglie, il basso tasso di risparmio o banche propense ad avventure internazionali erano fattori di rischio, minacciando la riduzione dei consumi o il collasso del sistema bancario. Ma oggi, la tempesta è passata.

Le famiglie italiane possiedono un patrimonio di ricchezza impressionante. Ma le loro spese di consumo non sono molto positive per l’economia, per la semplice ragione che le entrate in termini reali (tenendo conto dell’inflazione) e dopo il pagamento delle tasse sono scese per tre anni consecutivi, dal 2008 al 2010. Il consumo delle famiglie si è ridotto meno delle entrate nel 2008-9 e si è rianimato nel 2010, in quanto la gente ha deciso di mettere da parte meno di prima. Di fatto, il famigerato tasso di risparmio delle famiglie italiane (un autentico fattore di forza nel passato) sta scendendo dal 2002, e nel 2010 è stato – secondo i dati dell’Istat – inferiore sia a quello della Germania che a quello della Francia. L’abitudine a spendere i risparmi può mantenersi, ma in questo caso in breve tempo l’Italia non vanterà più un alto tasso di risparmio. E’ quello che è accaduto in Giappone negli ultimi 20 anni.

La questione della forza e del peso dei risparmi delle famiglie ci fa capire perché le illusioni sull’economia italiana sono così diffuse e radicate. Esse sono un modo per non vedere le debolezze, in questo caso il fatto che i redditi delle famiglie stanno scendendo e sono deboli ormai da più di un decennio. Questo è stato vero perfino nei periodi di riduzione del tasso di disoccupazione, in quanto era dovuto essenzialmente alla creazione di milioni di impieghi precari e a bassa retribuzione. Ora che la disoccupazione è tornata a crescere, e per ora non accenna a diminuire, la politica e l’opinione pubblica dovrebbero concentrarsi proprio su questa incapacità di creare posti di lavoro che producano un aumento del reddito delle famiglie.

Lasciamo in pace il signor Vigni, l’ho torturato abbastanza. La mia prossima vittima sarà un rappresentante molto importante del Tesoro, di cui non posso fare il nome in quanto le parole che sto per citare sono state pronunciate «off the record» a un seminario per giornalisti britannici tenutosi a Venezia in gennaio. La sua dichiarazione comunque è apparsa in un articolo sull’economia italiana nella rivista di cui sono stato direttore, The Economist, e naturalmente ha attratto la mia attenzione. Questo signore ha detto ai giornalisti che l’economia italiana dovrebbe venire calcolata come divisa nel Nord, che cresce del 3% l’anno, e il Sud che scende del 2% annuo, risultando nell’apparentemente debole tasso annuale dell’1%.

Questa dichiarazione è assurda comunque la si guardi, ma soprattutto è pericolosa e fuorviante. E’ assurda in termini matematici: in quanto il Sud ha un Pil minore, ci vorrebbe molto più di una riduzione del 2% annuo per neutralizzare su scala nazionale l’effetto della crescita del 3% del Nord. Ma è assurda anche in termini fattuali: nell’ultimo decennio, il Pil del Sud è sceso solo due volte: di poco nel 2003, e poi nel biennio 2008-9, quando comunque si è ridotto meno di quello del Nord. In nessun anno dell’ultimo decennio il Centro-Nord è cresciuto più del 2%.

Tutto questo non è per negare che il Sud resta un problema. La sua crescita economica dovrebbe in effetti essere più rapida di quella del Nord, in quanto ha un minore costo del lavoro e parte da una posizione più bassa. Ma il punto è un altro: questo funzionario molto importante del Tesoro ha usato questo falso per dire che non era richiesto alcun intervento nel cuore dell’economia italiana, il cui tasso di crescita e la ricchezza sono già a livelli tedeschi. In realtà questo si può affermare soltanto per alcune zone dell’Italia settentrionale, escludendo non solo il Sud, ma anche il Centro e pure diverse regioni del Nord. Metterla in questi termini equivale a dire che l’America sta andando bene perché Silicon Valley ha ricchezza e successo, o che l’economia britannica è sana perché Londra è una città ricca.

E’ un modo di distrarsi, intento ad auto-ingannarsi. Perfino il settore manifatturiero non sta andando bene quanto i corrispettivi in altri Paesi europei, ma concentrarsi solo su questo significa perdere di vista il quadro generale: che non vengono creati posti di lavoro, che la produttività non sale, così come non aumentano il reddito e gli standard di vita. Questa debolezza è evidente sia nel settore dei servizi che in quello manifatturiero. Diverse società incontrano troppi ostacoli per crescere, burocrazia, legislazione sul lavoro, accordi sindacali, tasse, privilegi di varie categorie, monopoli, istruzione mediocre e tanti altri.

Questi fattori rendono statisticamente falsa anche la fondamentale asserzione sull’Italia, che la sua forza maggiore sono i suoi imprenditori: il tasso di nascita di nuove imprese in Italia negli anni precedenti alla crisi è stato inferiore sia a quello della Francia che a quello della Germania. Ma decidere di rimuovere questi ostacoli, rischiando di infastidire quelli che ne beneficiano, sarebbe difficile, forse anche doloroso. Dunque, meglio attaccarsi alle illusioni di forza ed elasticità come virtù nazionali. (Beh, buona giornata9.

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La lobby del nucleare (e Publitalia) vittime del conflitto di interessi.

A quelli del Forum nucleare deve essere preso un attacco di bile. Lo si capisce dalle dichiarazioni di Chicco Testa che, sorvolando sulle motivazioni politiche che hanno fatto dire stop al nucleare al neo ministro dello Sviluppo economico, si è limitato a osservare che così vince il petrolio e i suoi derivati.

Certo è che a quelli del nucleare gli devono girare forte. Come ha avuto modo di dire Massimo D’Alema ,con il suo consueto cinismo, il governo Berlusconi si rimangia, in un boccone solo, l’unica vera innovazione della sua travagliata legislatura: il ritorno al nucleare , con tanto di accordi firmati con i francesi, la gran cassa mediatica, il cavallo di battaglia dell’ex ministro Scajola, il quasi riuscito sfondamento a sinistra in fatto di energia atomica, con i possibilisti pronti all’avventura, per non dire dei neoconvertiti già partiti all’attacco, di cui Chicco Testa è stato alfiere.

Adesso che tutto è andato in vacca, ci si chiede ma chi è che ha portato sfiga? E’ stato il Forum che ha gettato sul piatto della comunicazione quattro o cinque milioni di euro per la famosa campagna degli scacchi? L’operazione di comunicazione sollevò un vespaio, beccandosi anche una censura dal parte degli organi di autodisciplina della pubblicità italiana. E’ come se quella campagna avesse evocato il disastro di Fukushima, come dire che il Forum se l’è tirata: si è fatto scacco matto da solo.

Oppure, chi ha portato sfiga è stato Scajola? Scajola è quello che faceva il ministro degli Interni quando si scatenò l’inferno a Genova per quel G8 che vide morire ammazzato Carlo Giuliani, che vide la “macelleria messicana” alla Diaz e alla Caserma Bolzaneto. Non pago, Scajola qualche settimana dopo in barca se se esce con i giornalisti che Marco Biagi, ammazzato della nuove Br a Bologna era (testuale) “un rompicoglioni”. Bufera e Scajola si dimette. Tornerà al governo con il nuovo governo Berlusconi, ma si deve dimettere dopo la scoperta della cricca dei costruttori, quelli che si sfregavano le mani non solo per il terremoto de L’Aquila, ma anche al pensiero delle tonnellate di cemento armato che servono per costruire le centrali nucleari. Ma per via dell’acquisto di quella famosa casa “che se scopro che qualcuno me l’ha pagata a mia insaputa…..”, ecco che è proprio Scajola che ha portato sfiga al nucleare, lui che gli tsumani politici se li crea e se li scatena addosso.

Oppure a portare sfiga al ritorno al nucleare è stato Marcello Andreani, amministratore delegato di Publitalia, la concessionaria di pubblicità di Mediaset. Le reti del Biscione si leccavano i baffi, avevano già offerto spazi a tutte le aziende dell’energia, che, in occasione del Referendum, avrebbero potuto inondare le tv di spot a favore del nucleare. Forse l’eccessiva sicurezza di avere il portafoglio già pieno di inserzioni pubblicitarie ha giocato un brutto scherzo alle reti del Cavaliere: succede il disastro a Fukushima, tutti loro dicono che non bisogna farsi prendere dall’emotività, poi però ci sono le elezioni amministrative, si rischia di perderle. Le aziende dell’energia mangiano la foglia e cominciano a disinvestire. A Publitalia sfuma l’affare pubblicitario, che avrebbe potuto salvare un anno difficile anche per loro.

C’è da pensare che Andreani, se potesse, ammazzerebbe Berlusconi, ma ovviamente non può. Anche se è proprio Berlusconi l’unico vero colpevole della fine del sogno nucleare. Deve aver pensato, che sfiga: se quelli vanno a votare contro e vincono, il governo va in minoranza nel Paese e addio sogni di gloria dell’”eletto dal popolo”. Col pericolo che magari vince anche il referendum contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e, sciagura delle sciagure, magari già che ci sono gli elettori mettono una bella croce sul Sì all’abrogazione della legge sul legittimo impedimento.

Insomma, ‘sta volta Berlusconi è stato vittima del suo stesso conflitto di interessi. E’ diventata una scoria radioattiva, che ha portato sfiga alla stessa lobby dell’atomo made in Italy. Beh, buona giornata.

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Il 2011 peggio del 2010: pessimo inizio d’anno per la pubblicità italiana.

SECONDO NIELSEN MEDIA RESEARCH, IN ITALIA L’ ADVERTISING E’ IN CALO NEL PRIMO BIMESTRE 2011. NEGATIVI TV E STAMPA, POSITIVI, INTERNET, RADIO E DIRECT MAIL.

Il mercato

Inizio non particolarmente brillante per il mercato pubblicitario italiano che chiude il primo bimestre in negativo: a totale pubblicità il cumulato gennaio – febbraio 2011 mostra una variazione del -2,0% rispetto allo stesso periodo 2010.

I risultati di televisione e stampa, rispettivamente – 0,5% e -7,4% (considerando pubblicità nazionale, locale e altre tipologie rilevate), influenzano la variazione totale del bimestre,
buone notizie arrivano dagli altri principali mezzi in particolare internet (+15,5%), radio (+1,0%) e direct mail (+2,1%).

Per i primi due mesi dell’anno buoni risultati nei settori automobili e distribuzione. Il primo dopo la crescita moderata del 2010 registra un +9,9%, il secondo nonostante una variazione più bassa rispetto al 2010 cresce del +7,6%. Arrancano altri importanti settori quali alimentari e telecomunicazioni.

I mezzi

La televisione mostra un rallentamento nei primi due mesi dell’anno, dovuto soprattutto
alla diminuzione dei livelli di investimento di importanti aziende inserzioniste dei settori
alimentari (-7,3%), telecomunicazioni (-8,5%) e farmaceutici/sanitari (-4,3%).
La stampa in generale raggiunge un -7,4%, con una periodica particolarmente colpita dalla
riduzione degli investimenti di settori strategici quali abbigliamento (-4,1%) e abitazione (-
14,8%) che hanno influito sull’andamento del mezzo portandolo al -4,3% rispetto all’anno
precedente.
Variazione positiva invece per la radio, che sostenuta dal suo settore core, quello
automobilistico (+10,9%), ottiene una variazione del +1,0% rispetto al primo bimestre
2010, ma rimane sempre internet, il mezzo più dinamico e in evoluzione, con un +15,5%
di variazione data soprattutto dall’aumento di investimenti nei settori automobilistico

(+13,5%), media/editoria (+15,6%), distribuzione (+211,8%) e tempo libero.
Calano gli investimenti per cinema (-15,3%) e affissioni (-24,1%), mentre buoni risultati
ottengono out of home tv (+4,0%) e cards (+1,0%), nonostante rimangano ancora
marginali nel mercato pubblicitario italiano.

I settori

Nel 2011 il mercato pubblicitario parte sottotono anche guardando ai singoli settori
merceologici con poco più della metà dei settori analizzati con variazioni negative. Tra i
primi cinque settori top spender spicca però il risultato positivo del settore automobilistico
(+9,9%) che tenta di riprendersi dalle ancora cattive performance di vendita con un buon
livello d’investimento pubblicitario.
Negativi i risultati invece per gli alimentari (-6,6%) cosi come per gli altri componenti del
largo consumo (toiletries -2,9% e gestione casa -7,1%) ad eccezione di bevande/alcoolici
che ottengono un buon +13,0%.
Tra i primi spender risultati poco brillanti anche per le telecomunicazioni, che già nel 2010
avevano avuto difficoltà di ripresa, e media/editoria. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

L’incerta primavera della pubblicità italiana.

Secondo l’Istat, la benzina aumenta del 3,4% su mese e del 12,7% su anno, il gasolio del 4,3% e del 18,5%, il gpl +0,1% e +20,7%, il gasolio da riscaldamento +4,3% e +19,1%. Nel settore regolamentato, i prezzi salgono dello 0,2% su mese e del 3,4% su anno, a causa del rialzo del costo del gas (+0,3% su febbraio e +8,5% tendenziale).

Ed ecco riapparire l’inflazione: a febbraio il costo della vita aveva registrato un incremento dello 0,3% rispetto a gennaio e del 2,4% su base annua. Ed ecco un’accelerazione a marzo: i prezzi sono saliti dello 0,4% mensile per un incremento tendenziale del 2,5%, massimo da novembre 2008.

Com’è facile prevedere, questa situazione non favorisce i consumi, dunque fa male alla pubblicità. Non solo. Fa male alla pubblicità anche il fatto che l’aumento dei prezzi all’ingrosso dei prodotti derivati dal petrolio, utili al confezionamento di beni di largo consumo sta determinando una situazione critica: per non aumentare i prezzi al dettaglio si tagliano i budget pubblicitari, in modo da riequilibrare i relativi business plan.

Gli effetti di questa politica commerciale, che potremmo definire di resistenza alla crisi petrolifera da parte delle aziende italiane comincia a farsi sentire a partire da i centri media e non tarderà ad attraversare tutta la filiera.

Ma non sono solo le turbolenze geopolitiche del nord Africa, con le conseguente corsa al rialzo dei prezzo del petrolio, a turbare i sonni già da tempo molto agitati della pubblicità italiana. Il terremoto e lo tsunami che hanno sconvolto il Giappone stanno diventando un incubo per le concessionarie di pubblicità, soprattutto delle tv commerciali italiane.

La catastrofe nucleare di Fukushima ha provocato un’ondata di generale disapprovazione nei confronti delle politiche nucleariste. La cosa ha provocato una vera e propria catastrofe nella raccolta pubblicitaria.

Se in previsione del referendum erano stati prenotati spazi, soprattutto televisivi, da parte delle aziende del settore energia per sostenere il No al referendum, l’effetto Fukushima ha azzerato tutto: ha costretto il governo a ipotizzare una moratoria di un anno sulla legge che prevedeva il ritorno al nucleare.

E così le aziende del comparto energia hanno disinvestito, annullato le prenotazioni, gettando nel panico le concessionarie. Così è in questa incerta primavera. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro

Finché c’è crisi c’è speranza (per Berlusconi&Figli).

di R.Pol.-ilmessaggero.it

Gli affanni della crisi economica, in tutta evidenza, non toccano la famiglia di Silvio Berlusconi, che ha incassato a fine gennaio un dividendo di 174,5 milioni di euro dalle società che controllano il 100% di Fininvest. Si tratta in questo caso di ricavi personali, o meglio ripartiti tra il premier e i suoi figli. In particolare Silvio Berlusconi ha incamerato quasi tutto l’utile delle holding Prima, Seconda, Terza e Ottava (a lui intestate): si tratta di 127,5 milioni sui 129 risultanti dal bilancio annuale al 30 settembre 2010. Tuttavia in ragione di alcuni intrecci azionari tra queste holding l’assegno che materialmente il Cavaliere ha messo in tasca ammonta a 118 milioni di euro, in lieve calo rispetto allo scorso anno.

Le holding che controllano Fininvest sono in tutto sette. Le altre tre sono intestate ai figli. Marina Berlusconi è titolare della holding Quarta e ha incassato un dividendo di 12 milioni. Di Piersilvio è la holding Quinta, che ha deciso di ritirare «solo» 5 milioni accantonando oltre 11 milioni di profitti residui nelle riserve straordinarie. Ai tre figli di Veronica Lario – Barbara, Eleonora e Luigi – appartiene infine holding Quattordicesima e per loro è stato staccato un assegno di circa 10 milioni a testa.

Fin qui il denaro ”in contante” che il Cavaliere e i figli si sono distribuiti. Ma le holding sono un cassaforte molto capiente, che contiene un tesoro accumulato negli anni. Basti pensare che le quattro società personali di Silvio Berlusconi dispongono, secondo i dati certificati, di 544 milioni di euro tra titoli e liquidità. Come per i figli Marina e Piersilvio, le attività in conto titoli del presidente del Consiglio sono gestite in prevalenza dalla banca svizzera Arner. Mentre invece la liquidità è depositata presso conti del Monte Paschi di Siena ed è legermente calata nell’ultimo anno da 152,3 a 144,7 milioni. Il patrimonio netto delle quattro holding del capofamiglia ammonta a 679 milioni, anch’esso in flessione rispetto ai 686 milioni del 2009.

La holding Quattordicesima, partecipata dai figli più giovani del Cavaliere, è stata nel 2010 la più dinamica nel settore degli investimenti, avendo acquistato partecipazioni anche in una società specializzata nei software dedicati ai sistemi fieristici. Ovviamente l’asset principale della holding resta la Fininvest, che ha consentito un utile di 42 milioni per il 2010. La Quattordicesima ha messo insieme negli anni 339 milioni tra liquidità e riserve. Ma tra i figli di Berlusconi chi ha accantonato più riserve, almeno attraverso le holding di famiglia, è Piersilvio che vanta oggi un portafoglio di 213 milioni. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Chi fornisce gli aerei militari all’aviazione di Gheddafi?

“Dall’alto caccia militari dell’aviazione libica avrebbero eseguito dei raid contro i manifestanti”. Finmeccanica colpisce ancora. Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

A Davos, il World Economic Forum sfiducia il governo Berlusconi e commissaria la classe dirigente in Italia.

di FEDERICO RAMPINI-Repubblica

Gli altri leader europei vengono qui per “dare la linea” al World Economic Forum. In 48 ore si succedono a Davos Nicolas Sarkozy, David Cameron, Angela Merkel: espongono una visione dell’Europa, le loro ricette per la ripresa, le strategie verso l’America e i paesi emergenti. All’Italia tocca un ruolo diverso a Davos: quello dell’imputata. Il campionario di dirigenti mondiali che si riunisce in questo summit – statisti, grandi imprenditori, opinion leader – riserva al nostro paese una sessione a porte chiuse. Intitolata “Italia, un caso speciale”. La riunione viene presentata così dagli organizzatori nel documento introduttivo: “Malgrado la sua storia, il suo patrimonio culturale, la forza di alcuni settori della sua economia, il paese ha difficoltà di governance e un’influenza sproporzionatamente piccola sulla scena globale. Le sue prospettive economiche e sociali appaiono negative”.

A istruire il processo, l’establishment di Davos delega alcuni esperti e opinionisti autorevoli. Di fronte a loro, sul versante italiano, un parterre di imprenditori e banchieri. Nessun rappresentante di governo è all’appello: il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, pur presente a Davos, fissa una conferenza stampa altrove, nello stesso orario. Tocca a Michael Elliott, direttore del magazine Time, aprire il fuoco: “Contate molto meno di quel che dovreste nell’economia internazionale, i problemi del vostro governo vi precludono di svolgere il ruolo che vi spetta”. Segue l’economista Nouriel Roubini, una star di Davos da quando nel 2007 fu l’unico a prevedere con precisione la crisi mondiale: “Di solito parlo solo di economia ma nel vostro caso il problema del governo è diventato grave, è una vera distrazione che v’impedisce di fare quello che dovreste. Siete di fronte ad accuse di una vera e propria prostituzione di Stato, orge con minorenni, ostruzione alla giustizia. Avete un serio problema di leadership che blocca le riforme necessarie”. Roubini dà atto sia a Tremonti che a Mario Draghi di avere limitato i danni sul fronte della finanza pubblica e del sistema bancario. “Ma un contagio della sfiducia dei mercati è ancora possibile – aggiunge – perché il divario è enorme tra le riforme strutturali di cui avete bisogno, e ciò che è stato fatto”.

Un altro economista, Daniel Gros che dirige a Bruxelles il Centre for European Policy Studies, invita a non illudersi sul fatto che l’Italia possa a lungo sottrarsi al destino di Grecia, Portogallo, Irlanda: “La vostra situazione è preoccupante. Siete il paese più direttamente in competizione con la Cina, per la tipologia dei prodotti. Da dieci anni si sa quali riforme andrebbero fatte. Di questo passo l’Italia potrebbe diventare il prossimo grosso problema dell’eurozona”. Josef Joffe, editore e direttore del giornale tedesco Die Zeit: “Da dieci anni crescete meno della media europea, questo è il problema numero uno”. Segue Matthew Bishop, capo della redazione americana del settimanale The Economist, che nel 1997 fu l’autore di un rapporto sui nostri “esami d’ingresso” nella moneta unica: “Da allora – dice – il paese è rimasto troppo immobile. Le tendenze dell’economia globale rischiano di trasformarvi nell’anello debole dell’Unione europea. Se l’Italia non usa i prossimi cinque anni per un reale cambiamento, vi ritroverete dalla parte perdente dell’eurozona”. Quindi Bishop lancia la palla nel campo degli italiani: “I gravi reati di cui Silvio Berlusconi è accusato sono ben noti. Ma a voi sta bene lo stesso? E’ questo il governo che volete?”

La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nel replicare sottolinea quanto la forza del tessuto produttivo resti notevole: “Siamo il secondo esportatore europeo dietro la Germania, il quinto nel mondo, con punte di eccellenza non solo nei settori tradizionali ma nella meccanica, nella robotica, nei macchinari elettronici”. Anche lei però descrive un’Italia “introversa, ripiegata su se stessa, distratta rispetto a quel che accade nel resto del mondo, soprattutto per colpa dei suoi politici”. E conferma che “il mondo di Davos, quello delle nuove potenze come l’India e l’Indonesia, è ignoto ai nostri politici, perciò siamo assenti dai tavoli dove si decide il futuro”. Corrado Passera di Banca Intesa elenca gli handicap: “Scuola, infrastrutture, giustizia, burocrazia, bassa mobilità sociale, poca meritocrazia”. Voci ancora più critiche si levano tra i nostri top manager che hanno scelto una carriera all’estero. A loro il pianeta-Davos è familiare, nei nuovi scenari della competizione globale si muovono con sicurezza. Ma sono qui per conto di multinazionali straniere. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro

Gheddafi continua a fare shopping in Italia.

La Lybian Investment Authority, fondo di investimento pubblico della Libia ha acquistato una partecipazione del 2,01% nel capitale del gruppo Finmeccanica, azienda italiana che opera nella difesa.

I primi contatti tra la società italiana e il governo guidato da Gheddafi risalgono al 2007, quando Agusta Westland ha venduto al Paese nordafricano elicotteri Aw 109 e Aw 119 Koala che verranno assemblati in uno stabilimento appena finito di costruire in Libia.

Poi, nel luglio 2009, Finmeccanica ha firmato un memorandum d’intesa per varare una joint da 400 milioni proprio con la Lybian Investment Authority.

I frutti della collaborazione non si sono fatti attendere. Finmeccanica ha vinto una commessa da 541 milioni per l’ammodernamento (tramite la controllata Ansaldo Sts) della segnalazione ferroviaria nel Paese. Selex si è aggiudicata un ricco appalto per costruire i sensori di controllo del traffico alla frontiera mentre Roma fornisce già ai militari libici gli aerei spia Falco, in teoria per controllare gli spostamenti delle carovane di migranti nel deserto.

La Libia è in Italia attualmente il primo azionista di Unicredit, la maggiore delle banche italiane, ha una quota in Eni, il 7% della Juventus e ha allo studio altri dossier nel nostro Paese. Per salire oltre il 3% di Finmeccanica, la Libia deve ottenere l’ok del governo italiano. Ma sono più che noti i buoni rapporti tra Berlusconi e Gheddafi. Beh, buona giornata

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