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La crisi finanziaria ha acceso la crisi economica che sta accendendo la crisi politica del governo Berlusconi.

“Se si votasse in questo momento, il Pdl non prenderebbe più del 22-25%, mentre la Lega si attesta tra il 7% e il 9%. I partiti di opposizione tengono perché guardano ai propri serbatoi di consensi e anche perché perdura la chiave anti-berlusconiana (punto sul quale Bossi ci sta mettendo del suo). Il Partito democratico si attesta attorno al 25% e molto probabilmente sarebbe la prima forza in caso di elezioni.” Roberto Weber, Swg, dixit. Beh, buona giornata.

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La crisi secondo Giorgio Napolitano: aver negato la portata e la gravità della crisi ha indebolito l’Italia in Europa, per uscire dalla crisi bisogna riscoprire il linguaggio della verità.

Intervento del Presidente Napolitano al Meeting per l’amicizia fra i popoli
Rimini, 21/08/2011 (da quirinale.it)

Colgo in questo incontro, nella sua continuità con l’ispirazione originaria e la peculiare tradizione del Meeting di Rimini, l’occasione per ridare respiro storico e ideale al dibattito nazionale. Perché è un fatto che ormai da settimane, da quando l’Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell’ansia del giorno dopo, in un’obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti. A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate, non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d’uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro. Ringrazio perciò voi che ci sollecitate a farlo.

D’altronde, anche nel celebrare il Centocinquantenario dell’Unità, abbiamo teso a tracciare un filo che congiungesse il passato storico, complesso e ricco di insegnamenti, il problematico presente e il possibile futuro dell’Italia. Ci siamo provati a tessere quel filo muovendo da quale punto di partenza ? Dal sentimento che si doveva e poteva suscitare innanzitutto un moto di riappropriazione diffusa – da parte delle istituzioni e dei cittadini – delle vicende e del significato del processo unitario. Si doveva recuperare quel che da decenni si era venuto smarrendo – negli itinerari dell’educazione, della comunicazione, della discussione pubblica, della partecipazione politica – di memoria storica, di consapevolezza individuale e collettiva del nostro divenire come nazione, del nostro nascere come Stato unitario. E a dispetto di tanti scetticismi e sordità, abbiamo potuto, nel giro di un anno, vedere come ci fosse da far leva su uno straordinario patrimonio di sensibilità, interesse culturale e morale, disponibilità a esprimersi e impegnarsi, soprattutto tra i giovani. Abbiamo visto come fosse possibile suscitare quel “moto di riappropriazione” di cui parlavo : e non solo dall’alto, ma dal basso, attraverso il fiorire, nelle scuole, nelle comunità locali, nelle associazioni, di una miriade di iniziative per il Centocinquantenario. Lo sforzo è dunque riuscito, e rendo merito a tutti coloro che ci hanno creduto e vi hanno contribuito.

Ma “l’esame di coscienza collettivo” che avevamo auspicato in occasione di una così significativa ricorrenza, non poteva rimanere limitato al travaglio vissuto per conseguire l’unificazione, e alle modalità che caratterizzarono il configurarsi del nostro Stato nazionale. Esso doveva abbracciare – e ha in effetti abbracciato – il lungo percorso successivo, dal 1861 al 2011 : in quale chiave farlo, e per trarne quali impulsi, lo abbiamo detto, il 17 marzo scorso, con le parole che l’on. Lupi ha voluto ricordare.

Si, con le celebrazioni del Centocinquantenario ci si è impegnati a trarre, senza ricorrere ad alcuna forzatura o enfasi retorica, ragioni di orgoglio e di fiducia da un’esperienza di storico avanzamento e progresso della società italiana, anche se tra tanti alti e bassi, tragiche deviazioni pagate a carissimo prezzo, e dure, faticose riprese. Ma perché abbiamo insistito tanto sulle prove che l’Italia unita ha superato, sulla capacità che ha dimostrato di non perdersi, di non declinare, né dopo l’emorragia e le conseguenze traumatiche di una guerra pure vinta, né dopo la vergogna di una guerra d’aggressione e l’umiliazione di una sconfitta, e quindi di fronte all’eredità del fascismo e alla sfida del ricostruire il paese nella democrazia ? Perché abbiamo sottolineato come l’Italia abbia poi saputo attraversare le tensioni della guerra fredda restando salda nelle sue fondamenta unitarie e democratiche e infine reggere con successo ad attacchi mortali allo Stato e alla convivenza civile come quello del terrorismo?

Ebbene, abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto.

Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo carico di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile. Nel messaggio di fine anno 2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si propagava all’Europa e minacciava l’intera economia mondiale, dissi – riecheggiando le famose parole del Presidente Roosevelt, appena eletto nel 1932 – “l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare – e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai giovani – il linguaggio della verità : perché esso “non induce al pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza”.

Abbiamo, noi qui, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità ? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni ? Stiamo attenti, dare fiducia non significa alimentare illusioni ; non si da fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno. Dell’impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo.

Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà, che come ha sottolineato il Presidente Vittadini e come documenta la Mostra presentata a questo Meeting, ha fatto, di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro Paese.

Si può ben invocare oggi una simile mobilitazione, egualmente differenziata e condivisa, se si rende chiaro quale sia la posta in giuoco per l’Italia : in sostanza, ridare vigore e continuità allo sviluppo economico, sociale e civile, far ripartire la crescita in condizioni di stabilità finanziaria, non rischiando di perdere via via terreno in seno all’Europa e nella competizione globale, di vedere frustrate energie e potenzialità ben presenti e visibili nel Paese, di lasciare insoddisfatte esigenze e aspettative popolari e giovanili e di lasciar aggravare contraddizioni, squilibri, tensioni di fondo.

Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall’interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d’urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.

Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea ? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge ? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. Anche nell’importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.

Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo. E’ da vent’anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia ; è da vent’anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali ; è da vent’anni che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività.

La recente pubblicazione di una lunga accurata ricerca sull’evoluzione del benessere degli italiani dall’Unità a oggi, ci consente di apprezzare pienamente il consuntivo – superiore a ogni immaginabile previsione iniziale – del prodigioso balzo in avanti compiuto dall’economia e dalla società nazionale dopo l’Unità e in special modo grazie all’accelerazione prodottasi nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale. Ma se i dati reali smentiscono i detrattori dell’unificazione, è innegabile che il divario tra Nord e Sud è rimasto una tara profonda, non è mai apparso avviato a un effettivo superamento ; e venendo a tempi più recenti è un fatto che da due decenni è in aumento la diseguaglianza nella distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in senso opposto, e lo stesso può dirsi per il tasso di povertà.

Si impone perciò un’autentica svolta : per rilanciare una crescita di tutto il paese – Nord e Sud insieme ; una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito ; una crescita ispirata a una nuova visione e misurazione del progresso, cui si sta lavorando ormai da anni, su cui si sta riflettendo in qualificate sedi internazionali. Al di là del PIL, come misura della produzione, e senza pretendere di sostituirlo con una problematica “misura della felicità”, in quelle sedi si è richiamata l’attenzione su altri fattori : “è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana”. E’ a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni, quelle già presenti sulla scena della vita e quelle future, potranno – in Italia e in Europa, in un mondo così trasformato – aspirare a progredire rispetto alle generazioni dei padri come è accaduto nel passato. La risposta è che esse possono aspirare e devono tendere a progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il motore del “desiderio”.

Sia chiaro, la situazione attuale di carenza di possibilità di lavoro, di disoccupazione e di esclusione per quote così larghe della popolazione giovanile, impone che si parta dal concreto di politiche per il rilancio della crescita produttiva, di più forti investimenti e di più efficaci orientamenti per la formazione e la ricerca, di più valide misure per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Ma si deve puntare a una visione più complessiva e avanzata degli orizzonti di lungo termine : e chi, se non voi, può farlo ?

Quell’autentica svolta che oggi s’impone passa, naturalmente, attraverso il sentiero stretto di un recupero di affidabilità dell’Italia, in primo luogo del suo debito pubblico. E qui non si tratta di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle improprie pretese delle autorità europee, come dicono alcuni, forse troppi. Si tratta di fare i conti con noi stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo ; ho detto e ripeto che lasciare quell’abnorme fardello del debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale. Faccia dunque ora il Parlamento le scelte migliori, attraverso un confronto davvero aperto e serio, e le faccia con la massima equità come condizione di accettabilità e realizzabilità.

Anche al di là della manovra oggi in discussione, e guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre un impegno categorico ; basta con assuefazioni e debolezze nella lotta a quell’evasione di cui l’Italia ha ancora il triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali e parziali risultati. E’ una stortura, dal punto di vista economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di accertamento e di intervento possibili.

L’Italia è chiamata a recuperare affidabilità non solo sul piano dei suoi conti pubblici, sul piano della cultura della stabilità finanziaria, ma anche e nello stesso tempo sul piano della sua capacità di tornare a crescere più intensamente. E questo è anche il contributo che come grande paese europeo siamo chiamati a dare dinanzi al rallentamento dello sviluppo mondiale, al rischio o al panico – fosse pure solo panico – di una possibile onda recessiva.
In questo quadro, è importante che l’Italia riesca ad avere più voce, in termini propositivi e assertivi, nel concerto europeo. Che da un lato appare troppo condizionato da iniziative unilaterali, di singoli governi, fuori dalle sedi collegiali e dal metodo comunitario ; dall’altro troppo esitante sulla via di un’integrazione responsabile e solidale, lungo la quale concorrere anche alla ridefinizione di una governance globale, le cui regole valgano a temperare le reazioni dei mercati finanziari.

Una svolta capace di rilanciare la crescita e il ruolo dell’Italia implica riforme : dopo l’avvio, in senso federalista, della concreta attuazione del Titolo V della Carta, riforme del quadro istituzionale e dei processi decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti inadeguati anche del mercato del lavoro. Ma non starò certo a riproporre un elenco già noto : mi piace solo notare come in queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più positiva il tema della riforma – in funzione solo dell’interesse nazionale – e del concreto funzionamento della giustizia. Anche perché alla visione del diritto e della giustizia sancita in Costituzione repugna la condizione attuale delle carceri e dei detenuti.

Comunque, più che ripetere un elenco di impegni o di obbiettivi, vorrei rispondere alla domanda se sia possibile realizzare, com’è indubbiamente necessario, riforme di quella natura su basi largamente condivise. E’, in sostanza, parte della stessa domanda postami in termini più generali da Eleonora Bonizzato e da Enrico Figini. Ai quali dico innanzitutto che ho molto apprezzato il metodo seminariale col quale, insieme con molti altri studenti, hanno esplorato i temi della Mostra dedicata al Centocinquantenario e in modo particolare l’esperienza della straordinaria stagione dell’Assemblea costituente, non abbastanza studiata nelle nostre scuole e Università.

E’ possibile, mi si chiede, che si riproduca quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune ? La mia risposta è che può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo. I contesti storici sono, certo, completamente diversi ; la storia, nel male e nel bene, non si ripete. Ma la storia che abbiamo vissuto in 150 anni di Unità, nei suoi momenti migliori, come quando sapemmo rialzarci da tremende cadute e poi evitare fatali vicoli ciechi, racchiude il DNA della nazione. E quello non si è disperso, e non può disperdersi. I valori che voi testimoniate ce lo dicono ; ce lo dicono le tante espressioni, che io accolgo in Quirinale, dell’Italia dell’impegno civile e della solidarietà, dell’associazionismo laico e cattolico, di molteplici forme di cooperazione disinteressata e generosa. E, perché si creino le condizioni di un rinnovato slancio che attraversi la società in uno spirito di operosa sussidiarietà, contiamo anche sulle risorse che scaturiscono dalla costante, fruttuosa ricerca di “giuste forme di collaborazione” – secondo le parole di Benedetto XVI – “fra la comunità civile e quella religiosa”.

Ma potrà anche l’apporto insostituibile della politica e dello Stato manifestarsi in modo da rendere possibile il superamento delle criticità e delle sfide che oggi stringono l’Italia ? Ci sono momenti in cui – diciamolo pure – si può disperarne. Ma non credo a una impermeabilità della politica che possa durare ancora a lungo, sotto l’incalzare degli eventi, delle sollecitazioni che crescono all’interno e vengono dall’esterno del Paese. Il prezzo che si paga per il prevalere – nella sfera della politica – di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia dell’alternanza ; altra cosa è lasciarla degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale. Ci fa riflettere anche quel che accade nel grande paese che è stato, con le sue peculiarità istituzionali, il luogo storico di una democrazia dell’alternanza capace di far fronte alle responsabilità anche di un determinante ruolo mondiale. Negli Stati Uniti vediamo appunto come, nell’attuale critico momento, il radicalizzarsi dello spirito partigiano e della contrapposizione tra schieramenti orientati storicamente a competere ma anche a convergere, stia provocando danni assai gravi per l’America e per il mondo, in una congiuntura difficile pure per quella causa della pace, dei diritti umani, dell’amicizia tra i popoli – si pensi alla tragedia del Corno d’Africa – che è iscritta nella stessa ragion d’essere del vostro Meeting.

Qui in Italia, va perciò valorizzato ogni sforzo di disgelo e di dialogo, come quello espressosi nella nascita e nelle iniziative, cari amici Lupi e Letta, dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ma bisogna andare molto oltre, e rapidamente. Spetta anche a voi, giovani, operare, premere in questo senso : e predisporvi a fare la vostra parte impegnandovi nell’attività politica. C’è bisogno di nuove leve e di nuovi apporti. Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni : chiusure, arroccamenti, faziosità, obbiettivi di potere, e anche personalismi dilaganti in seno ad ogni parte. Portate nell’impegno politico le vostre motivazioni spirituali, morali, sociali, il vostro senso del bene comune, il vostro attaccamento ai principi e valori della Costituzione e alle istituzioni repubblicane: apritevi così all’incontro con interlocutori rappresentativi di altre, diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza. E’ per tutto questo che rappresentate, come ha detto nel modo più semplice la professoressa Guarnieri, “una risorsa umana per il nostro paese”. Ebbene, fatela valere ancora di più : è il mio augurio e il mio incitamento.(Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Marx ed Engels.

Dio è morto, Marx no, da olivero.blogautore.repubblica.it

Il primo segnale che qualcosa di importante stava accadendo da quelle parti è stata una recensione apparsa sul Financial Times, non proprio un Quaderno rosso. Parlando del libro di Eric Hobsbawm Come cambiare il mondo. Perché scoprire l’eredità del marxismo, lo definiva poco meno di un capolavoro di accuratezza, profondità e rigore. Un testo in grado di “diradare le nebbie del Ventesimo secolo”. Nientemeno. Il giornale della City, tempio del capitale, del mercato e del liberismo riconosceva al vecchio nemico comunista qualcosa di più dell’onore delle armi. Forse come accade a certi personaggi dei film che, rimasti senza la loro nemesi, non riescono a rassegnarsi e non possono posare lo sguardo sul campo di battaglia ormai deserto.

Quale che sia la motivazione profonda, il Ft ha ragione: Hobsbawm, uno dei più grandi storici viventi, ha raccolto una serie di saggi sul marxismo che escono dal campo accademico e proiettano quelle dottrine, quelle istanze, quelle parole sull’oggi. Le grandi intuizioni di Engels, per esempio, restano sorprendenti quasi più ora che a metà dell’800 quando le scrisse: l’assorbimento della politica nell’economia; l’amministrazione delle cose che soppianta il governo degli uomini; la capacità di trovare regole quasi scientifiche nell’alienazione degli operai e della società laddove altri vedevano soltanto disordine mentale; l’idea che le crisi a periodicità regolare fossero un aspetto integrante del capitalismo; l’unificazione delle grandi istanze della Rivoluzione francese con quelle del nuovo proletariato britannico che avrebbe generato una dottrina più pura in vista di una contrapposizione sociale più pura, quella tra operai e padroni anziché tra borghesi e aristocratici; le difficoltà pratiche in cui si sarebbe trovato un partito di massa di fronte a decisioni epocali; la fine della famiglia tradizionale a opera del capitalismo (su questo punto il Vaticano potrebbe trovare inaspettati compagni di strada).

Tutto elencato, analizzato e ricostruito da Hobsbawm con chiarezza e metodo, lo stesso metodo mutuato da Marx ed Engels, che rimasero sempre in questo, nonostante le discipline a cui diedero vita, due filosofi. Perché, “solo un individuo libero dalle illusioni della società borghese può essere un valido scienziato sociale”. Infatti mai nelle loro analisi i due autori del Manifesto usarono parole di disprezzo contro i capitalisti o i borghesi, ma sempre contro il grande “ismo”, l’ideologia che trasforma gli sfruttatori in una classe “profondamente immorale, incurabilmente corrotta dall’egoismo, corrosa nel suo essere”. I più scientifici tra i pensatori, ricorda il libro, si sono lasciati andare a profezie da brivido (e con echi che richiamano certe pagine mistiche di Simone Weil) regolarmente avveratesi: “La società borghese ha prodotto mezzi di produzione così potenti che rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate; i rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi prodotta”.

Lo scenario è fin troppo evidente a tutti. Il mercato ha vinto su ogni cosa, la politica si è ridotta a specchio della finanza. Non si produce, si scommette. Non si progetta, ci si indebita. Non si assume, si affitta. Non si costruisce, si rimanda. Non si spera, si consuma. Tutto già detto, tutto già scritto. Tutto finito. Il campo di battaglia è vuoto. Nessun sol dell’avvenir risplende all’orizzonte. Nessuno spettro si aggira per l’Europa. O no? (Beh, buona giornata).

Eric Hobsbawm, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo (tr.it. L. Clausi, Rizzoli, 22 euro)

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La crisi secondo Piero Ottone: se si spegne la capacità creatività, comincia l’inesorabile declino.

I SEGNI DEL DECLINO, di PIERO OTTONE-la Repubblica

Viviamo tempi duri (i tempi facili sono sempre stati brevi ed effimeri). Per chiarire le idee propongo un breve glossario.

Declino americano. Vediamo ogni giorno i segni del declino americano. È passeggero, di corta durata? Difficile fare previsioni a breve.

Ma a lungo termine è probabile che il declino americano di cui vediamo i sintomi sia irreversibile. Gli americani sono infatti gli esponenti di punta della civiltà occidentale, e la civiltà occidentale è al tramonto.

Perché meravigliarsi? Tutte le grandi civiltà del passato si sono spente: si spegnerà anche la nostra. Numerosi i segni della decadenza: il debito pubblico di cui si parla in questi giorni è solo il più epidermico. La prova irrefutabile del declino è un’altra: la bassa natalità.

E gli europei? La civiltà americana non è isolata: è giusto parlare di civiltà euro-americana. Ma gli europei non stanno meglio degli americani: anzi, stanno un po’ peggio.

Tante sono le analogie con una civiltà antica, anch’essa bicipite come la nostra: la civiltà greco-romana. I greci erano raffinati e colti, come in seguito gli europei; e i romani erano la grande potenza militare, come gli americani del nostro tempo. Un’analogia fra le tante: anche le città greche volevano unirsi l’una con l’altra, e dare vita a un’unica grande potenza. Come le nazioni europee del nostro tempo. Non ci sono mai riuscite. E i cinesi? I cinesi moderni appartengono a quello che chiamiamo, genericamente, il “terzo mondo” (espressione impropria, nata ai tempi della guerra fredda). Non c’è alcuna continuità, né alcuna comunanza, fra i cinesi moderni e l’antica civiltà cinese, che è stata, non meno di quella occidentale, una grande civiltà. Ogni grande civiltà è un’isola fortunata in mezzo a popoli che di quella civiltà non fanno parte, e che possiamo chiamare (senza offesa) “i barbari”, “il terzo mondo,” o in tanti altri modi. I “barbari” talvolta stanno tranquilli nelle loro terre. Altre volte diventano aggressivi. Ma in questi ultimi anni è avvenuto un fatto clamoroso, senza precedenti nella storia: i cinesi, i coreani, gli indiani, tutti barbari secondo la nostra terminologia, invece di attaccare la nostra civiltà hanno deciso di copiarla (ci è andata bene). Impossibile prevedere se i “barbari” del nostro tempo continueranno a convivere pacificamente con noi (e coi nostri discendenti), sicuri che comunque prevarranno perché sono più numerosi, più prolifici, più pazienti, o se diventeranno ostili (la Cina sta rafforzandosi militarmente).

Scontro di civiltà.È sbagliato parlare di scontro di civiltà per definire gli eventi contemporanei. Per scontrarsi, le civiltà devono essere almeno due. Nel nostro tempo c’è invece una sola civiltà, sia pure maturae decadente: la nostra. Gli altri popoli, quelli del Terzo Mondo, cinesi, indiani e così via, non sono i portatori di una nuova civiltà, e non riesumano quelle antiche. Sono semplicemente imitatori della nostra.

E la tecnica? L’affermazione secondo cui la civiltà occidentale è in declino, e si trova nella fase finale, sembra contraddetta dai recenti progressi della tecnologia. Ma lo sviluppo della tecnica è tipico delle fase finale di una grande civiltà. È probabile che abbiamo raggiunto il culmine del progresso tecnico nell’ambito della civiltà occidentale. In questi giorni si parla per esempio della rinuncia alla conquista dello spazio con mezzi di trasporto extra-terrestri. Morte di una civiltà. Che cosa succede quando una grande civiltà muore? Si spegne la sua capacità creativa, nella vita dello spirito (le arti, la filosofia, la letteratura, la religione)e nella vita politica (l’articolazione in classi sociali, la volontà di conquista). Ma le istituzioni create quando la civiltà è vitale, se nessuno le distrugge, sussistono. Per molti secoli la Cina ha continuato a vivere tranquillamente dietro la Grande Muraglia, usufruendo delle istituzioni create dalla civiltà cinese quando era vitale.I cinesi dell’epoca post-civile, quando la loro grande civiltà era ormai spenta, credevano pur sempre di essere al centro del mondo. Altre grandi civiltà, invece, sono morte di morte violenta: è il caso della civiltà pre-colombiana quando arrivarono gli spagnoli.

Ne nasceranno altre? Nessuno lo sa: la nascita delle grandi civiltà nel corso della storia è misteriosa. Tipicamente ottocentesca la visione di un miracoloso filo conduttore che segna, attraverso popoli diversi e in diverse regioni, un progresso costante del genere umano. Oggi ci si crede un po’ meno. La grande civiltà egizia e quella cinese per esempio, non avevano rapporti l’una con l’altra. Ciascuna è nata per conto suo.

Sa il cielo se nascerà una nuova civiltà in avvenire. (Beh, buona giornata).

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I ricchi vogliono pagare le tasse e scavalcano a sinistra la sinistra.

Questo articolo è uscito su “La Repubblica”, (dal blog di GAD LERNER).

E’ impazzito il plurimiliardario Warren Buffett, re degli speculatori, che spiattella sui giornali gli scandalosi benefici fiscali di cui gode negli Usa? Soffrono forse di masochismo, qui in Italia, un finanziere come Pietro Modiano e gli imprenditori Carlo De Benedetti (azionista di questo giornale), Luca Cordero di Montezemolo, Anna Maria Artoni, favorevoli alla promulgazione di un’imposta sui grandi patrimoni di cui sono detentori? Perché mai, di fronte al concreto rischio di collasso del sistema, non viene richiesta dai politici di sinistra una vera tassa sulla ricchezza, nell’interesse delle classi subalterne che dovrebbero rappresentare?

E’ davvero singolare questo mondo alla rovescia in cui sembrerebbe toccare ai “ricconi” occidentali illuminati pure il privilegio di indicare la retta via della perduta giustizia sociale. Non bastasse il loro dominio sull’economia, possibile che abbiano sequestrato pure la leadership dell’analisi sull’iniqua distribuzione delle risorse cui la politica sarebbe chiamata a porre rimedio?
Nessuno come loro è consapevole della sproporzionata ricchezza accumulata da pochi, nei decenni in cui la finanza ha assoggettato l’economia reale. Se dunque auspicano un inasprimento del prelievo fiscale sui detentori di grandi patrimoni, è innanzitutto per un motivo –diciamo così- pratico: l’aumento delle tasse negli Usa, o il pagamento di una cospicua “una tantum” in Italia, non inciderebbero significativamente sul loro tenore di vita, sui loro consumi, e neanche sulle loro attività imprenditoriali.

Suppongo poi che i “ricconi illuminati” favorevoli all’imposta patrimoniale traggano dalla personale autocoscienza di cui ci rendono compartecipi altri motivi di riflessione: uno morale e uno esistenziale.
Sul piano morale, credo siano ben consci di avere goduto di un boom tutt’altro che armonico, caratterizzato dal patologico acuirsi delle disuguaglianze di reddito. Se in passato potevano illudersi che la ricchezza crescesse anche intorno a loro, se non grazie a loro, oggi è evidente il contrario.

Sul piano esistenziale, mi spiego il favore manifestato da finanzieri e capitalisti illuminati per un’imposta patrimoniale come estrema forma di attaccamento al sistema che li ha generati prima di degenerare. Nessuno come loro, che ne sono gli emblemi, desidera il suo salvataggio.
Sconcerta la modesta attenzione prestata in Italia, dove lo scandalo dell’evasione fiscale rende ancora più evidente l’ingiustizia, e il debito pubblico rende più stringente la necessità, ai buoni argomenti della patrimoniale. Quasi nessuno ha riflettuto sui calcoli esposti l’8 luglio scorso, in una lettera al “Corriere della Sera”, dal finanziere Pietro Modiano (che pure si autocandidava a “vittima” della medesima imposta).

Un prelievo del 10% sui patrimoni (escluse le case e i titoli di Stato) degli italiani più ricchi, il 20% della popolazione, fornirebbe un gettito di circa 200 miliardi. Quasi cinque volte la manovra biennale del governo. Riporterebbe il debito in rapporto al Pil vicino al 100%, conseguendo un obiettivo irraggiungibile da molteplici leggi finanziarie. Gli interessi sul debito godrebbero di una riduzione di 8 miliardi l’anno. E gli italiani ricchi chiamati a sopportare questo sacrificio –non tale da intaccare il loro benessere- potrebbero essere ricompensati con detrazioni fiscali negli anni successivi.
Fantaeconomia? Ma non è forse già un’apocalittica sequenza di fantaeconomia quella che stiamo vivendo dall’estate del 2008?

Resta da capire come mai tale istanza di drastica redistribuzione degli oneri fra la minoranza dei ricchi e la maggioranza dei meno abbienti, non stia in cima ai programmi della sinistra. E’ vero che ora il Partito democratico propone un supplemento di tassazione sui capitali scudati da Tremonti a quote di mero realizzo. Ma, a parte la dubbia costituzionalità di un tale provvedimento, esso continua a rivolgersi solo agli esportatori della ricchezza, non al suo complesso.

Parrebbe che un leader progressista, sia pure il presidente degli Stati Uniti, figuriamoci il segretario di un partito della sinistra italiana, si senta condannato a escludere come temerario ciò che invece ha osato sbattergli in faccia Warren Buffett. Hanno paura di passare per socialisti (o comunisti). Si illudono che la loro autorevolezza derivi ancora dalla sottomissione alle regole di un sistema giunto allo sfascio, solo perché i rapporti di forza sono tuttora dominati dagli hedge funds e dalle banche d’affari che hanno contribuito a salvare. Restano al di fuori della loro immaginazione soluzioni radicali prospettate invece da chi in passato ha saputo approfittare della fragilità della politica.

Lo scetticismo con cui i mercati hanno accolto la manovra economica italiana, ma soprattutto i conflitti sociali che scaturiranno dalla crisi dell’economia reale, ben presto si incaricheranno, ahimè, di spazzare queste cautele. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Meno stato più mercato? Basta non sia lo Stato del Vaticano.

Marcia laica degli indignados spagnoli contro la Gmg, Giornata Mondiale della Gioventù che si tiene in questi giorni a Madrid, dove e’ atteso l’arrivo del Papa.
La protesta nasce contro le ingenti somme di denaro che verranno investite nell’evento, nonostante la grave crisi economica. 

Si calcola che il costo complessivo sia di oltre 50 milioni di euro, a cui andranno ad aggiungersi le spese riguardanti polizia e servizi di sicurezza.
“Il tuo zainetto lo pago io, mettici i preservativi” ha gridato una indignada a un Papa boy.
” Zero delle mie tasse al Papa” era scritto su un striscione.

Gli indignados giudicano “scandaloso” che il governo “contribuisca con 25 milioni di euro alla visita del Papa e alla celebrazione di un atto confessionale, concedendo esenzioni fiscali alle grandi imprese che si sono impegnate con altri 25 milioni”.

In Italia come e’ noto abbiamo lo stesso problema, ma non abbiamo ancora indignati che lo gridino nelle piazze.
La Chiesa cattolica costa ai contribuenti italiani almeno quanto costa la politica. Oltre quattro miliardi di euro all’anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale.

Con 4 miliardi di euro all’anno, per i prossimi anni quanti servizi sociali si potrebbero salvare dalle forbici di Tremonti? Quanti precari si potrebbero stabilizzare? Quante pensioni minime si potrebbero innalzare? Quanti stipendi aumentare? Quante ricerca scientifica rifinanziare? Quanta cultura valorizzare?

Sono domande retoriche. Infatti, meno stato più mercato va bene per tutti meno che per lo Stato del Vaticano. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Far pagare la crisi ai meno abbienti e’ anticostituzionale.

Nella seconda perte, l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana c’e scritto: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

In realtà gli ostacoli di ordine economico non solo non sono stati rimossi, ma, almeno dal 1985, addirittura sono stati innalzati, diventando una vera e propria barriera di classe.

Il divario tra ricchi e poveri è sempre più marcato in Italia: stando ai dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) il nostro è uno dei Paesi industrializzati con la maggiore disparità dei redditi, al quinto posto tra i 17 che hanno segnato un ampliamento del gap tra il 1985 e il 2008, davanti a Messico, Stati Uniti, Israele e Regno Unito.

In questo contesto, arriva un’ulteriore spinta alle disuguaglianze e all’iniquità, attraverso la manovra economina varata dal governo, che sta andando in discussione nei due rami del Parlamento. Beh, buona giornata.

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democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro

E il neoliberismo economico portò l’attacco finale al cuore dello Stato.

di NADIA URBINATI – la Repubblica

La sudditanza della politica ai mercati: le opinioni sembrano convergere su questa diagnosi al di là degli schieramenti partitici in questi giorni di angoscia per temuti default e manovre finanziarie “lacrime e sangue”.

Il mercato finanziario, non il mercato semplicemente, sembra essere la nuova sorgente di sovranità, una sorgente che per di piú è insindacabile anche perché impossibile da localizzare, impersonale e soggetta a leggi che vengono concepite e applicate come se fossero naturali.
Di fronte a questa quasi divinità o naturalità la decisione politica sembra impotente: incapace di imporre le sue ragioni che dovrebbero essere quelle di una vita decente e liberamente progettata da parte degli uomini e delle donne che vivono in società. Eppure la politica non è un terreno neutro e, diciamo pure, non è incolore rispetto al sovrano mercato.
Evidentemente esiste una politica organica o funzionale a questa fase del dominio dei mercati finanziari che è disposta a ordinare le scelte secondo la logica della rendita.

La politica neoliberale (ciò che da noi si chiama liberismo) è l´ideologia che caratterizza questo tempo e le manovre dei governi – con più o meno resistenza – ne sono il segno. La lotta negli Stati Uniti tra due modelli di intervento statale sono il segno forse più esplicito che non è la politica in sé a soccombere ma una visione dello Stato e quindi dell´economica: o come scienza che si dovrebbe occupare del benessere della società o al contrario come una tecnica di rastrellamento delle fonti di rendita finanziaria.

Il dominio del denaro, più che il dominio del mercato, è il centro del problema, e la trasformazione della scienza economica in scienza del business e applicazione del calcolo matematico ai fattori numerici dei movimenti di borsa ne è il segno distintivo.
È sufficiente affacciarsi alla porta dei dipartimenti di economia di tutte le università del pianeta per comprendere la dimensione di questa trasformazione; la trasformazione di questa scienza da scienza umana a scienza matematica è il riflesso del potere insindacabile del mercato finanziario sulla società.

E la politica, una parte di essa, si sente a suo agio con questa trasformazione. Si tratta di quella particolare coniugazione del liberalismo che, soprattutto a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, ha creato il “fatto semplice” dell´interesse individuale (self-interest), facendone un attributo che appartiene a ciascuno di noi come una qualità sostanziale che determina la nostra razionalità e il calcolo dei costi e dei benefici che in ogni momento della giornata guida le nostre azioni, siano esse di tipo sentimentale o economico appunto.

La concezione dottrinaria dell´interesse sulla quale il pensiero neo-liberale (in gergo liberista) si è posizionato nel corso dei decenni ha avuto di mira un obiettivo centrale: quello di tenere la legge fuori dalla sfera dei beni e la formazione della ricchezza. La legge, ovvero lo Stato, è chiamato a intervenire quando l´irrazionalità delle passioni o dell´errore di conoscenza interrompono il fluire delle scelte: quindi Stato gendarme e regolatore delle relazioni sociali per contenere i conflitti e sostenere al massimo chi è sconfitto nella lotta per la vita.
Quello a cui stiamo assistendo in questi mesi (anni) è più o meno la vittoria di questo paradigma, una vittoria che è andata insieme alla sconfitta di altri modelli di ordine sociale e che ha stravinto su tutti i potenziali rivali. È questa la fine della storia di cui ha scritto Francis Fukuyama.
È la fine, ovviamente, non della storia ma certo della storia della lotta contro un modello economico, quello per difendere il quale oggi le nostre società democratiche stanno soccombendo.

Il liberalismo conservatore del nostro tempo è nato all´interno della società democratica come una gemmazione del liberalismo economico; si è manifestato come una reazione a ogni forma di società che vuole programmare le sue scelte economiche per poter distribuire oneri e beni più equamente; non è un caso se insieme alla stretta sulla spesa dello Stato i mercati finanziari chiedano di lasciare a loro tutti i servizi che in questi ultimi sessant´anni sono stati finanziati, regolati e gestiti dai governi. Il neo-liberalismo è la politica di oggi.

Ma è politica. È comunque un uso del potere dello Stato per attuare piani e progetti che hanno committenti e scopi specifici e razionali. E la sua dottrina è la seguente: tutti i beni che le società producono e dai quali si può estrarre un profitto devono essere lasciati al mercato – se necessario anche la coercizione (in alcuni stati degli Stati Uniti anche i servizi carcerari sono gestiti da società private).
Ciò che si chiama declino della sovranità degli Stati sembra dunque rassomigliare più a un riassestamento del rapporto tra Stato e sfera economica in una direzione che va verso uno Stato socialmente irrilevante e coercitivamente forte. Lo Stato non scompare, né la sua sovranità si erode, si ridefinisce invece in funzione di un ruolo solo che è essenzialmente quello di gestire l´uso della violenza.

Come aveva ben visto Norberto Bobbio, la sfera del diritto penale si espanderà in proporzione diretta al restringimento delle politiche sociali. È lo stato minimo del quale parlavano liberali antichi come Herbert Spencer o il Barone von Hayek; uno Stato al servizio di una società che è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere coercitivo, ma il cui potere coercitivo è ben funzionate e arcigno e duro se necessario. (Beh, buona giornata).

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La manovra ammazza-turismo: la ministra del turismo fa la turista al Consiglio dei Ministri?

Il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca, parla del capitolo “ponti” della manovra come di “un colpo basso per il turismo”. Una cospicua fetta di fatturato per le strutture turistiche, come spiega Bocca: “Le vacanze brevi durante l’anno sono una grossa fonte economica per il settore. Storicamente, i vacanzieri che si muovono per il ponte del 25 aprile così come per quello del 2 giugno restano in Italia”.

E le cifre in ballo sono importanti. “Cancellare questa possibilità”, aggiunge Bocca “significa tagliare di netto un fatturato significativo”.Cifre nel dettaglio.

Sulla base dell’andamento degli ultimi tre anni, Federalberghi rileva come per il ponte del 25 aprile si muovano in media 6 milioni di italiani con un fatturato di due miliardi, per quello del primo maggio altri 6 milioni e mezzo di turisti per un fatturato di un miliardi e mezzo, mentre per quello del due giugno i vacanzieri sono 8 milioni e mezzo per 2 miliardi e 200 di fatturato.

“Pur coscienti che è giusto tirare la cinghia”, aggiunge Bocca, “prevedere per legge una perdita sicura per l’economia del Paese ci sembra quasi come ‘pagare più la salsa che il pesce”.

“L’Italia – conclude Bocca – è un Paese che dovrebbe vivere di turismo, molto spesso ciò non viene tenuto in debita considerazione”. (Beh, buona giornata).

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L’affondamento del Titanic, la metafora della manovra secondo Paolo Ferrero.

Tremonti e’ stato di parola: cerca di affondare l’Italia come il Titanic- da paoloferrero.it

Questa volta il governo è stato di parola e ha dato luce ad una manovra che di cerca di affondare l’Italia come il Titanic: un disastro. Del Titanic la manovra rispetta anche i privilegi di classe: Forse non tutti sanno che su 708 passeggeri che si salvarono dalla tragedia, si salvò il 60% dei passeggeri di prima classe (200), il 42% di quelli di seconda classe (120), il 25% di quelli di terza classe (174) e il 24% dei membri dell’equipaggio. La manovra del governo porterà all’affondamento dell’Italia, ma come sul Titanic, quelli di prima classe si salveranno molto di più e i lavoratori avranno la peggio. Per questo contro questa manovra faremo le barricate.
(Beh, buona giornata).

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La manovra varata dal Governo contiene misure «inique», «inadeguate e poco credibili rispetto alla sfida che il paese ha di fronte». Lo dice il Pd che presenta 7 poposte di una contro-manovra.

(Fonte: Il Sole 24 Ore).
La manovra varata dal Governo contiene misure «inique», «inadeguate e poco credibili rispetto alla sfida che il paese ha di fronte». Per questo il Partito Democratico propone un «contro piano, un progetto responsabile e alternativo per il bene del Paese». Un piano articolato in sette punti: da un prelievo sui capitali scudati, alla tracciabilità per importi superiori ai mille euro fino al dimezzamento dei parlamentari, alle liberalizzazioni e alla dismissione di immobili pubblici.

«Per affrontare l’emergenza si prevede un prelievo straordinario una tantum sull’ammontare dei capitali esportati illegalmente e scudati – si legge nel testo presentato dal Pd -, in modo da perequare il prelievo su questi cespiti alla armonizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie al 20% e di adeguare l’intervento italiano alle medie delle analoghe misure prese nei principali paesi industrializzati.

Gran parte di questi 15 miliardi – si legge nel programma – dovrà essere utilizzata per i pagamenti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese e per alleggerire il patto di stabilità interno così da consentire immediati investimenti da parte dei comuni».

Il partito di Bersani ritiene poi necessario «un pacchetto di misure efficaci e non solo di facciata contro l’evasione fiscale, tali da produrre effetti immediati, consistenti e concreti. Si propongono dunque alcuni interventi, tra i quali figurano le misure anti-evasione che in parte riprendono quelle dolosamente abolite dal governo Berlusconi: tracciabilità dei pagamenti superiori a 1.000 euro (pensare a somme più elevate significa lasciare di fatto tutto come è oggi) ai fini del riciclaggio e soglie più basse, a partire dai 300 euro, per l’obbligo del pagamento elettronico per prestazioni e servizi; obbligo di tenere l’elenco clienti-fornitori, il vero strumento di trasparenza efficiente; descrizione del patrimonio nella dichiarazione del reddito annuo con previsione di severe sanzioni in caso di inadempimento».

Al terzo punto il Pd suggerisce l’introduzione «di una imposta ordinaria sui valori immobiliari di mercato, fortemente progressiva, con larghe esenzioni e che inglobi l’attuale imposta comunale unica sugli immobili, in modo di ricollocare l’Italia nella media e nella tradizione di tutti i maggiori paesi avanzati del mondo». Si deve poi attuare un «piano quinquennale di dismissioni di immobili pubblici in partenariato con gli enti locali (obiettivo minimo 25 miliardi di euro)».

Capitolo liberalizzazioni: il Pd propone «di realizzare immediatamente almeno una parte delle proposte di liberalizzazione che il partito ha già preparato e presentato: ordini professionali, farmaci, filiera petrolifera, RC auto, portabilità dei conti correnti, dei mutui e dei servizi bancari, separazione Snam rete gas, servizi pubblici locali. Il Pd è contro la privatizzazione forzata, ma non contro le gare e la liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Tutto questo si può fare immediatamente senza bisogno di riforme costituzionali.

Il sesto punto del progetto è dedicato alle politiche industriali per la crescita. Il Pd propone «di adottare subito misure concrete per alleggerire gli oneri sociali e un pacchetto di progetti per l’efficienza energetica, la tecnologia italiana e la ricerca, con particolare riferimento alle risorse potenziali e sollecitabili del Mezzogiorno.
Sarebbe un errore imperdonabile intervenire sul controllo dei conti pubblici senza mettere in campo, sia pure limitatamente alle risorse disponibili, un pacchetto di stimoli alla crescita e per l’occupazione. In questo contesto rientra anche l’implementazione dei più recenti accordi tra le parti sociali senza intromissioni che ledano la loro autonomia».

Infine la parte dedicata a pubblica amministrazione, istituzioni e costi della politica. «In Italia – spiega il testo – la riduzione della spesa deve riguardare non tanto sulla spesa sociale, ma l’area della Pubblica Amministrazione, le istituzioni politiche e i settori collegati. A Cominciare dal Parlamento: il primo passo è il dimezzamento del numero dei parlamentari. Il Pd ha presentato da tre anni proposte specifiche su questo punto. Su sollecitazione dei gruppi parlamentari del Pd la discussione su questi progetti è stata calendarizzata in Parlamento per settembre. Si agisca immediatamente. Da lì in giù, bisogna intervenire su Regioni, Province, Comuni con lo snellimento degli organi, l’accorpamento dei piccoli comuni, il dimezzamento o più delle province secondo l’emendamento presentato dal Pd e dall’Udc alla manovra di luglio o, in alternativa, riconducendole ad organi di secondo livello, accorpamento degli uffici periferici dello Stato, dimezzamento delle società pubbliche, centralizzazione e controllo stretto per l’acquisto di beni e servizi nella pubblica amministrazione».

Secondo il Partito Democratico si deve inoltre riprendere «un vero lavoro di spending review, interrotto dal governo Berlusconi, dal punto di vista di una politica industriale per la pubblica amministrazione. Il Pd ha proposte specifiche su ciascuno di questi punti. In particolare sui costi della politica il riferimento è il programma contenuto nell’ordine del giorno presentato due settimane or sono in Parlamento». (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Niente rigore, equità e futuro: la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata».

di LUCA RICOLFI- La Stampa

Lì per lì, sentite le prime notizie sulla super-manovra, mi sono detto: saranno pure sacrifici, e sacrifici alquanto impopolari, ma meglio tardi che mai. In fondo erano almeno tre anni, dal fallimento di Lehman Brothers nel 2008, che quasi tutti gli analisti indipendenti scongiuravano il governo di non mettere la testa sotto la sabbia, di smetterla con gli annunci e le dilazioni (vedi l’annacquamento del federalismo), di agire subito e con determinazione. Ora anche Berlusconi e Tremonti l’hanno capita, e si apprestano ad affrontare i gravissimi problemi della nostra economia. Spiace riconoscerlo, ma ai mercati è riuscito quello che alle menti illuminate dei riformisti di destra e sinistra non era mai riuscito: convincere un governo immobilista (come gli ultimi cinque, dal ‘98 a oggi) che non si può restare oltre con le mani in mano, paralizzati dalle divisioni e dagli interessi privati del premier. Poi però, accanto a questo sentimento di relativa soddisfazione, se ne è installato un altro, di segno opposto. Che cosa mi ha fatto cambiare atteggiamento?

In primo luogo, la faccia tosta di Berlusconi e Tremonti, che – dopo aver per anni disprezzato e sbeffeggiato chiunque osasse mettere in dubbio la solidità dei conti pubblici italiani – ora ci raccontano la favoletta secondo cui «la situazione è cambiata», la tempesta che ha investito borse e titoli di Stato «non era prevedibile», e via cadendo dalle nuvole.

Eh no, tutto si può dire ma non che non foste stati avvertiti. La stragrande maggioranza degli studiosi, in questi anni, mesi, settimane e giorni era assolutamente concorde sulla diagnosi di base: i conti pubblici italiani non sono affatto in sicurezza, l’entità del nostro debito pubblico ci rende permanentemente vulnerabili, la manovra varata un mese fa era una presa in giro dei mercati e delle istituzioni europee, perché rimandava l’85% dell’aggiustamento al 2013-14, quando non si sa nemmeno chi governerà, né di conseguenza si può avere la minima garanzia che rispetterà gli impegni presi oggi.

Ricordate lo «scalone» delle pensioni? Anche allora, eravamo nel 2004, Tremonti lo varò per legge rimandandone però l’applicazione al 2008, e il governo successivo – come si poteva facilmente prevedere – se lo rimangiò in un sol boccone. E anche per quanto riguarda la manovra di luglio, che il governo si è finalmente deciso ad anticipare di un anno, vorrei ricordare quello che Roberto Perotti e Luigi Zingales scrivevano più di un mese fa, quando era già del tutto evidente che i mercati non credevano alle vaghe promesse del nostro governo: «Esiste quindi una sola via d’uscita, che ci metta al riparo dalla volatilità del mercato: raggiungere il pareggio di bilancio nell’arco diciamo di un anno».

Se anziché accontentarsi della solidarietà e dell’approvazione dei colleghi europei, i nostri governanti avessero preso un po’ più sul serio i mercati, avrebbero agito molto prima, e oggi il prezzo che sono costretti a chiedere ai cittadini sarebbe minore. Insomma, aver rimandato i sacrifici significa averli aggravati. Questa è una gravissima responsabilità, un errore che una classe dirigente degna di questo nome non avrebbe fatto. Anche se va aggiunto, per amore di verità, che la timidezza del governo è anche il risultato dell’immaturità dell’opposizione: se Tremonti e Berlusconi avessero agito in tempo e con il rigore richiesto dalla situazione, opposizioni e parti sociali li avrebbero massacrati.

E’ paradossale, e duro da accettare, ma la lezione di questi giorni è anche questa: la paura suscitata dai mercati rende possibili oggi al governo scelte che – senza quella paura – sarebbero state semplicemente impraticabili, perché avrebbero richiesto un’opposizione seria, disponibile al dialogo sulle riforme economico-sociali anziché ossessionata dall’incubo della democrazia in pericolo.

Ma non è solo la sfrontatezza del governo che mi ha fatto cambiare atteggiamento sulla manovra. E’ la lettura dei suoi contenuti che mi ha lasciato alquanto perplesso. E questo sotto almeno tre profili: equità, rigore, futuro.

Equità. Ci sono anche cose ragionevoli, per non dire sacrosante, ma la misura centrale, il «contributo di solidarietà» sui redditi superiori a 90 mila euro, è profondamente ingiusta. Essa infatti colpisce una minoranza di cittadini (poco più dell’1%) che ha due sole colpe: guadagnare più di 4000 euro netti al mese, e pagare le tasse. A parte l’ipocrisia della parola solidarietà (la solidarietà non può essere coatta), un prestito semantico necessario per ingraziarsi i sindacati e nascondere che si tratta – né più né meno – di un innalzamento dell’aliquota marginale Irpef, la misura è iniqua perché i ricchi «nominali» sono una piccola frazione (tra il 5% e il 10%) dei ricchi «reali».

Bastano pochi elementari confronti – ad esempio sui consumi di lusso, o sui patrimoni finanziari e immobiliari – per capire che almeno il 90% dei veri ricchi sono evasori fiscali, che vivono nell’abbondanza ma dichiarano redditi da ceto medio. Meglio, molto meglio anche sotto il profilo del gettito, sarebbe stato agire con una piccolissima imposta sul patrimonio (tipo il 5 per 10.000). Almeno avrebbero pagato anche gli evasori.

Così, sempre sotto il profilo dell’equità, sarebbe stata doverosa una esplicita differenziazione fra territori-formica, che producono molto ed evadono poco, e territori-cicala, che producono poco ed evadono molto. Alle amministrazioni più virtuose, proprio perché hanno già razionalizzato la spesa, non si possono imporre gli stessi tagli che si chiedono alle amministrazioni che hanno ancora un lungo cammino di risanamento da compiere.

Rigore. Qui le obiezioni sarebbero moltissime, per cui mi limito a quattro esempi: manca un piano di dismissioni del patrimonio pubblico; manca un intervento incisivo sulla previdenza (in particolare su chi è andato in pensione prima dei 50 anni); diverse misure, a partire dal contributo di solidarietà, non hanno carattere strutturale; l’idea di togliere le tredicesime ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche che spendono troppo è peregrina in assenza di obiettivi di budget ben studiati e se prima non si ristabilisce il «comando» nei pubblici uffici, due precondizioni che mancano del tutto.

Futuro. Ma è soprattutto sulle prospettive future del Paese che la manovra, così come si profila in queste ore, appare più deludente. Il nostro problema centrale, la nostra palla al piede, è il debito pubblico. Pensare di risolvere questo problema senza accelerare la crescita, senza portarla dallo stentato 1% attuale ad almeno il 2%, è pura illusione. Se non torneremo a crescere a un ritmo decente non ci saranno né posti di lavoro per i giovani e per le donne, né soldi per completare il nostro stato sociale, che è ipertrofico dal lato delle pensioni ma rachitico su tutto il resto.

Ma nella manovra, per riconoscimento unanime, quel che manca sono proprio le due misure fondamentali per la crescita: riduzione della pressione fiscale sui produttori, abbattimento del numero di adempimenti per le imprese. E al loro posto, incredibilmente, compaiono ulteriori aggravi per lavoratori autonomi e società: dalla «rimodulazione» degli studi di settore per i primi, alla riduzione – per le seconde – della possibilità di abbattimento delle perdite.

Può darsi che quel che non si vede oggi spunti domani dalla delega fiscale. Può darsi che il governo si decida ad alzare l’Iva sui beni di lusso, a ridurre la selva delle esenzioni ed agevolazioni dei regimi fiscali. Ma se una parte cospicua di questi risparmi non verrà usata per dare ossigeno all’Italia che produce e che compete, se – come purtroppo è avvenuto finora – ogni centesimo di gettito recuperato andrà a finire nel calderone del bilancio pubblico senza alleggerire la pressione fiscale sui produttori, allora temo che anche i sacrifici che ora ci vengono richiesti finiranno per essere stati vani. (Beh buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

E’ inefficace, inutile, dannosa, classista: ecco la “manovra-schifezza” secondo Eugenio Scalfari.

di EUGENIO SCALFARI-laRepubblica
Sintesi della manovra per Berlusconi: “Il mio cuore gronda sangue, ma ho dovuto farlo per il bene del Paese”.

Sintesi della manovra per Tremonti: “La mia coscienza è tranquilla perché ho operato per il bene del Paese”.

Sintesi della manovra per noi commentatori cattivi secondo il ministro Sacconi: “È una tardiva e inutile schifezza”.

Queste sono le sintesi, ma ora andiamo alle analisi. Questo decreto-manovra che modifica dopo appena due settimane il decreto approvato in tre giorni dal Parlamento, rappresenta il combinato disposto d’un asprissimo conflitto tra Berlusconi e Tremonti nel corso del quale l’uno e l’altro si sono paralizzati a vicenda. Il primo aveva come sponda e come scusante Mario Draghi e la Bce, il secondo combatteva da solo e con un braccio legato da una catastrofe incombente da lui non prevista.

Berlusconi avrebbe voluto aumentare l’Iva di uno o due punti, Tremonti gliel’ha impedito dimostrandogli che il gettito sarebbe stato insufficiente e il rischio di inflazione elevato.

Tremonti voleva un’imposta di scopo sulla ricchezza, analoga a quella che fu varata da Prodi per l’entrata nell’euro. Berlusconi gliel’ha impedito. Berlusconi voleva sbloccare 15 miliardi che i concessionari di beni pubblici erano in grado di mobilitare subito per investimenti in infrastrutture a cominciare dalle autostrade, porti, aeroporti, ferrovie. Tremonti gliel’ha impedito.

Tremonti voleva tassare la prima casa. Berlusconi gliel’ha impedito. Bossi, terzo incomodo,

non voleva che fossero manomesse le pensioni d’anzianità. In parte c’è riuscito ed ora ne mena vanto.

Il decreto esce oggi in “Gazzetta Ufficiale” ed è il risultato di questa singolarissima collaborazione tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia. Una collaborazione perversa che non è mai avvenuta in nessun Paese del mondo dove, quando si manifestano dissidi e versioni così contrapposte uno dei due contendenti (di solito il ministro) rassegna le dimissioni. Da noi no, dimettersi non si usa, c’è sempre uno Scilipoti a tenerli a galla.

Domani in tutto il mondo riaprono i mercati perché il ferragosto è una vacanza solo italiana. Noi commentatori cattivi speriamo di tutto cuore che questo aborto di manovra sia preso sul serio a Francoforte, a Parigi, a Londra, a Wall Street. Ma se così non sarà, saranno guai terribilmente seri.

* * *

C’è stato un preludio alla manovra-schifezza. Il ministro dell’Economia era profondamente offeso da come i giornali della famiglia regnante (ma non solo loro) l’avevano trattato. E ancor più offeso dal fatto che il presidente del Consiglio aveva pubblicamente assunto come sua guida il governatore Draghi che lui vive come un trave in un occhio. Chiese perciò, a tutela della sua reputazione, l’immediata nomina di Vittorio Grilli, attuale direttore generale del Tesoro e suo fidato seguace, a governatore della Banca d’Italia. Berlusconi chiamò Letta e l’incaricò di darsi da fare: voleva evitare che Tremonti si dimettesse in uno dei suoi sempre più frequenti attacchi di rabbia.

Letta non trovò di meglio che chiedere l’aiuto di Bersani, ma aveva scelto molto male l’eventuale aiutante o forse l’aveva scelto benissimo. Bersani fece quello che onestamente riteneva giusto: informò Napolitano di quanto gli veniva chiesto. La nomina del governatore è un atto complesso e il presidente della Repubblica ne è uno degli attori principali. Perciò dal Quirinale avvertirono Letta che una richiesta del genere in un momento così agitato sarebbe stata respinta. Come preludio alla manovra non c’è male.

Ma ci fu anche un altro preludio, passato quasi sotto silenzio benché gravido di presagi: la Banca d’Italia diramò venerdì la notizia che il nostro debito sovrano aveva toccato la sua punta massima, pari a 1.900 miliardi, un rapporto del 120 per cento rispetto al Pil valutato per quest’anno all’1,1. Se il Pil dovesse ulteriormente scendere come probabilmente avverrà, quel rapporto sarà ancor più elevato.

* * *

Di buono nel decreto-schifezza c’è una sola cosa e ci sembra doveroso darne atto: l’abolizione d’una trentina di Provincie e dei relativi Prefetti e Questori, più i loro cospicui “indotti”. E l’accorpamento dei Comuni piccoli e piccolissimi.

Era un progetto da tempo allo studio, dall’epoca del governo Prodi del ’96, ma mai approdato in Parlamento. È stato tirato fuori dal ministro Calderoli col forcipe dell’emergenza. Si tratta d’una riforma vera e strutturale. Bravo Calderoli. A sentirlo ieri nella conferenza stampa con Tremonti e Sacconi, sembrava uno statista al punto da farci dimenticare il ministro che disse d’aver abolito 476mila leggi semplificando lo Stato. Di quella semplificazione nessuno si è accorto, nessun cittadino, nessun contribuente, nessun utente e nessuna istituzione. Il ministro che ieri parlava da statista ha avuto la dabbenaggine di ricordarcelo. Dia retta: non ne parli mai più, consideriamolo un videogame e cerchiamo di scordarci tutti di quella pagliacciata.

Una parola viene qui acconcia a proposito del ministro Sacconi il quale durante la conferenza stampa di ieri ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché postergarla l’età dei pensionati. Mancava però il contesto in cui quell’attacco andava collocato. Prodi si era trovato di fronte allo “scalone” di Maroni e l’aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.

Egregio ministro, lei appartiene ad un governo di cui c’è solo da vergognarsi. Ma noi, commentatori cattivi, cerchiamo di collocare nel contesto perfino lei. Pensi dove arriva la nostra pietà cristiana e cerchi – se può – di fare altrettanto.

* * *

La manovra-schifezza per anticipare il pareggio del bilancio ha bisogno di almeno 20 miliardi subito e li ha trovati in questo modo: 8 miliardi e mezzo di tagli ai ministeri nel biennio 2011-12; 10 miliardi e mezzo di tagli a enti locali e Regioni; 1 miliardo dalle rendite tassate al 20 per cento, un altro miliardo dal contributo dei redditi oltre i 90mila e i 150mila euro. Il totale fa 21 miliardi, dei quali 19 da ministeri ed enti locali. Questi ultimi significano semplicemente altre tasse locali e/o azzeramento dei servizi.

Non parliamo della macelleria sociale, per altro notevole; parliamo del fatto che, dopo questi 21 miliardi ne restano ancora da reperire 27 per arrivare al totale dell’operazione. Dove andarli a cercare? La risposta c’è: nella delega assistenziale, nello sfoltimento delle detrazioni, nelle pensioni di invalidità, di reversibilità, nei costi della Sanità.

Tutto spremuto e ridotto all’osso si arriva sì e no a 7-8 miliardi. Ne restano altri 20, sui quali c’è il buio assoluto.
Schifezza perché pagano solo i meno abbienti e i soliti noti. Insufficienza perché questa schifezza non basta. E infine non c’è assolutamente niente che finanzi provvedimenti di crescita. Il Tremonti della conferenza stampa rispondendo alla domanda di un giornalista ha detto: “Io sto alle previsioni dell’Istat: il Pil crescerà quest’anno dell’1,1 per cento. Le liberalizzazioni che faremo potranno aumentare questa cifra dello 0,1 nel breve periodo. E poi la crescita non dipende da noi ma dall’America e dall’Europa”.

Questa è l’analisi della manovra.

* * *

La sorpresa di ieri è il contropiano di Bersani. Fatti salvi i suoi giudizi politici su un governo irresponsabile, sugli errori macroscopici di previsione, sul mancato ascolto di quanto da molti mesi propongono le opposizioni e le parti sociali, giudizi sui quali coincidono quelli dei cattivi commentatori, il contropiano si articola così:

1) prelievo “una tantum” sui capitali illecitamente esportati e poi rientrati in Italia con uno scudo fiscale ottenuto pagando soltanto il 5 per cento dell’ammontare. Negli altri paesi europei che fecero analoghe operazioni il prelievo fu mediamente del 30 per cento. Il Pd propone ora una tassa del 20 per cento che frutterebbe all’erario 15 miliardi.

2) Una lotta all’evasione seguendo lo schema che fruttò, quando Visco era ministro delle Finanze, 30 miliardi in un anno, basati sulla tracciabilità dei pagamenti e sull’elenco dei fornitori.

3) Una descrizione del patrimonio da effettuare ogni anno come allegato alla dichiarazione dei redditi.

4) Un’imposta ordinaria sui cespiti immobiliari ai valori di mercato, con ampie esenzioni sociali e inglobando le imposte comunali relative agli immobili.

5) Dimezzamento dei parlamentari dalla prossima legislatura.

Questi sono solo alcuni dei punti ai quali si affiancano liberalizzazioni negli ordini professionali, della Rc auto, dei mutui e dei conti correnti bancari, dei servizi pubblici locali (acqua esclusa) nonché la separazione della Rete gas dalla Snam.

Il pacchetto poggia interamente sul presupposto che debbano esser messi a contributo i ricchi e gli evasori e non le famiglie, i lavoratori e le imprese che sono già oberati oltre misura.

* * *

Sarà interessante assistere al confronto tra queste due filosofie. Berlusconi ha fatto molte aperture all’opposizione. È la prima volta. Se accettasse di ritassare i “patrimoni-scudati” sarebbe una vera bomba.

L’accetterebbe anche Tremonti? E come l’accoglierebbero i mercati?

Maledetti benedetti mercati. Avete svegliato i dormenti, ridato l’udito ai sordi e la vista ai ciechi. Ma purtroppo non possedete la magia di evitare la recessione ed è questa la vera minaccia che grava su tutto l’Occidente e non solo.

Sta calando la domanda globale e il rigore che i mercati pretendono aggraverà quel calo. Della crescita questo governo se ne infischia. A noi sanguina il cuore. A Sacconi no, lui sogna di poter mandare la Camusso in galera e solo allora si addormenterebbe in pace nella convinzione d’aver operato per il bene del paese. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Ancora Mario Monti sul Corsera a palle incatenate contro il governo: «tassa per i ritardi italiani malgrado l’Europa» e non certo «tassa dell’Europa».

di MARIO MONTI-Il Corriere della Sera

Venerdì il governo ha preso decisioni che avranno notevole impatto sull’economia e la società italiana e questa volta, come era atteso da tempo, anche sul settore pubblico. Le singole misure sono analizzate e commentate in altre parti del giornale. Qui vorrei mettere in luce una scelta di fondo di cui non si è parlato, ma che non deve essere stata facile per il Presidente del Consiglio. Una scelta che, per le sue implicazioni, potrebbe cambiare l’impostazione di politica economica del governo Berlusconi nella parte restante di questa legislatura.
Di fronte alle perentorie richieste dell’Europa e dei mercati, il governo ha dovuto scegliere tra la via dell’irredentismo e la via della redenzione.

Avrebbe potuto cercare di sottrarsi alle indicazioni del «podestà forestiero» (l’articolo di domenica scorsa, 7 agosto, ha dato luogo a un dibattito sul quale tornerò prossimamente) e rivendicare con spirito irredentista un maggiore spazio, quello che l’Unione Europea normalmente riconosce, per le scelte politiche nazionali. Invece ha deciso, con lucidità e rapidità, di imboccare una strada di redenzione o, in termini più asettici, di modifica di alcuni connotati di fondo che avevano caratterizzato, fin dall’inizio, l’impostazione di politica economica del governo.

E’ comprensibile che l’inversione di rotta venga ora attribuita per intero all’aggravamento, innegabile, della crisi internazionale. Ma quei limiti – di natura politica, non tecnica – erano evidenti da molto tempo ed erano stati segnalati da più commentatori.

Il ministro dell’Economia, di cui molti tendono oggi a dimenticare il merito di aver saputo mantenere un certo rigore di bilancio con un governo e una maggioranza poco inclini a tale virtù, non ha affrontato, né forse valutato, adeguatamente i problemi della competitività, della crescita, delle riforme strutturali indispensabili per rimuovere i vincoli alla crescita (il federalismo fiscale, oggi oggetto di dibattiti accesi, è stato spesso presentato come la riforma strutturale introdotta da questo governo).

Il Presidente del Consiglio, da parte sua, non ha mai mostrato di considerare l’economia – tranne l’agognata riduzione delle tasse – come una vera priorità del suo governo, né ha mai assunto un visibile ruolo di coordinamento attivo e di impulso della politica economica, come fanno da tempo gli altri capi di governo. Essi lo esercitano soprattutto nel promuovere la crescita, assistiti da un ministro dell’economia reale o dello sviluppo di alto profilo, oltre che nel garantire copertura politica al ministro finanziario, nella sua azione rivolta prioritariamente alla disciplina di bilancio. Negli ultimi tempi, invece, Berlusconi pareva spesso infastidito dall’arcigno Tremonti e dai suoi «no» agli altri ministri, più che dedicarsi alla guida strategica dello sviluppo, in raccordo con l’Europa (due responsabilità a lungo lasciate scoperte di titolari).

Negli ultimi giorni, tutto pare cambiato. Il Presidente del Consiglio ha preso visibilmente la guida. Si è schierato, per amore o per forza, dalla parte del rigore. Almeno su questo, non dovrebbero più esserci contrapposizioni con il ministro dell’Economia.
Entrambi, dopo avere prestato scarsa attenzione alle raccomandazioni rivolte loro per anni dalla Banca d’Italia, si premurano di seguire ora le indicazioni – molto simili! – della Banca Centrale Europea.

È una svolta positiva e importante, pur se avvenuta nella precipitazione e perciò con due conseguenze negative. Le misure adottate, che potrebbero ben chiamarsi «tassa per i ritardi italiani malgrado l’Europa» e non certo «tassa dell’Europa», non hanno potuto essere studiate con il dovuto riguardo all’equità e gravano particolarmente sui ceti medi. Inoltre, la priorità crescita, pur sottolineata dalla Commissione europea e dalla Bce, rischia di essere vissuta come «meno prioritaria», nella situazione di emergenza in cui l’Italia, soprattutto per sua responsabilità, è venuta a trovarsi.

Crescita ed equità. Come molti osservatori hanno notato, è ora su questi due grandi problemi, trascurati nei primi tre anni della legislatura, che l’azione del governo, delle opposizioni e delle parti sociali dovrà concentrarsi, con un comune impegno come auspica il Presidente Napolitano. E ciò, ben inteso, non a scapito della finanza pubblica, ma anzi per rendere duraturi i progressi realizzati in quel campo.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

L’Unione Sindacale di Base a testa bassa contro la manovra.

(riceviamo e pubblichiamo)
USB: LEONARDI: RESPINGERE LA PIU’ PESANTE MANOVRA DEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI
SCIOPERO DI DUE ORE DI TUTTO IL PUBBLICO IMPIEGO IL 9 SETTEMBRE, POI SCIOPERO GENERALE NAZIONALE.

Leonardi USB: “Una vera e propria manovra contro la gente comune, i lavoratori, il Paese. Dentro c’’ e’di tutto meno quello che davvero servirebbe, cioè sganciare l’Italia dalla morsa della speculazione finanziaria e dai diktat dell’Europa. 79 Miliardi di euro a luglio, 45 ad agosto e non è detto che ci si fermi qui riuscendo a non toccare i veri ricchi, quel 10% delle famiglie che detiene oltre il 50% della ricchezza del Paese e quelli che evadono per oltre 120 miliardi di euro l’’anno.”

“Il Governo se la prende ancora con i lavoratori a reddito fisso- – prosegue Leonardi- come i lavoratori pubblici che saranno chiamati a pagare con le loro scarne tredicesime ( quelle con cui si paga il mutuo!) l’’inettitudine di una dirigenza lottizzata ed incapace, che saranno ridotti (licenziati?) in ragione del 10% del personale delle amministrazioni centrali e che vedranno il proprio TFR, scampato grazie ad una forte resistenza alla trappola dei fondi pensione, erogato dopo due anni.

I nuovi enormi tagli, dopo quelli di luglio, agli enti locali e il via libera alle privatizzazioni di ogni servizio pubblico produrranno un aumento esponenziale della tassazione locale e un attacco mortale a ciò che rimane del welfare.

L’’attacco definitivo e per legge al contratto nazionale di lavoro è un altro regalo ai padroni che potranno così disporre, assieme ai sindacati complici, della vita dei lavoratori nei luoghi di lavoro”.

USb CHIAMA IMMEDIATATAMENTE TUTTI I LAVORATORI ALLA MOBILITAZIONE E INDICE UN PRIMO SCIOPERO DI DUE ORE PER TUTTO IL PUBBLICO IMPIEGO IL 9 SETTEMBRE E RINNOVA L’APPELLO ALLE FORZE DEL SINDACALISMO CONFLITTUALE A COSTRUIRE AL PIU’ PRESTO ASSIEME LO SCIOPERO GENERALE E GENERALIZZATO
Roma, 13 agosto 2011 (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Una manovra senza prospettive di crescita, ecco quello che pensa Confindustria.

Da Rainews 24

Sfruttare il passaggio parlamentare per riformare le pensioni di anzianita’ e fare un “piccolo aumento dell’Iva”. E’ l’invito del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, a maggioranza e opposizione
sulla manovra appena varata dal Governo. Lo chiede la leader degli industriali in un’intervista al direttore del Sole 24 Ore in edicola domani.

“Faccio una proposta a maggioranza e opposizione – spiega Marcegaglia – il decreto verra’ discusso in Parlamento, si sfrutti questo passaggio per modificare il punto essenziale di questa manovra unendo insieme rigore e sviluppo: si riformino le pensioni di anzianita’. In questo modo si recuperano in modo strutturale risorse fino a 7 miliardi di euro in due anni e si puo’ ridurre il prelievo di solidarieta’ sul ceto medio, che rischia di avere una funzione depressiva superiore al previsto e dare una spinta allo sviluppo, a partire dalle infrastrutture”.

“Si puo’ fare anche di piu’ – avverte poi la presidente di Confindustria – con un piccolo aumento dell’Iva, anche un solo punto, che puo’ valere fino a 6,5 miliardi di euro, si recuperano altre risorse strutturali per ridurre le tasse sul lavoro, in primis quelle che riguardano i giovani. Bastano, come vede – dice rivolgendosi a Roberto Napoletano – pochi aggiustamenti per cambiare la faccia di questa manovra”.(Beh,buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Una bella idea dello Herald Tribune: poter inviare da iPad articoli via e- mail. Qualcosa che i nostri giornali dovrebbero subito imitare.

Invece l’idea che con una campagna pubblicitaria si possa combattere l’evasione fiscale in Italia e’ un pessimo esempio di come si possa usare la pubblicita’. Sarebbe molto meglio fare pubblicita’ ai fatti, piuttosto che alle intenzioni. La pubblicita’ alle intenzioni e’ pura propaganda, e come tale rischia di trasformare un gesto inutile in un’azione sbagliata. Secondo i dati ufficiali “ogni anno in Italia abbiamo 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi di corruzione, e 350 miliardi di economia sommersa, pari ormai al 20% della ricchezza nazionale”. Lo ha scritto Nunzia Penelope, in “Soldi rubati” (Adriano Salemi Editore, Milano 2011). Un libro da leggere, proprio di questi tempi, per sapere che “60 miliardi di corruzione e 120 miliardi di evasione ogni anno, moltiplicati per 10 anni sarebbero 1800 miliardi: esattamente quanto l’intero stock del debito pubblico”. Beh, buona giornata.
E adesso ecco la buona notizia: qui di seguito l’articolo dello Herald Tribune inviato tramite e-mail da iPad. Alla fine trovere i links pet scarcera l’applicazione da Apple Store. Sto facendogli pubblicita’? Si’, ma questo e’ un fatto concreto, proprio quello che serve alla pubblicità” per essere concreta e, se permettete, onesta con i lettori.

From The International Herald Tribune:

Italy hopes ads will cast tax cheats in a harsh light

BY ELISABETTA POVOLEDO
ROME — An advertising campaign for Italy’s revenue agency that starts Tuesday has set itself a lofty goal: to get Italians to pay taxes.

In the television and print campaign, created by Saatchi & Saatchi, tax evaders are described as parasites that live at the expense of others, undermining the foundation of the social state.

Coming as Italy has been called on to make significant sacrifices to weather the debt crisis that has stormed European financial markets, the campaign’s message may actually hit home in a country where little social stigma has ever been attached to evading taxes.

‘‘The point is to increase tax compliance by changing the mentality,’’ said Antonella Gorret, spokeswoman for the revenue agency, the Agenzia Delle Entrate. ‘‘It used to be that tax evaders were seen as crafty, but in a moment of economic crisis, demands have increased for more effective crackdowns to avert the possibility of taxes being raised.’’

‘‘We want to get through the idea that tax evaders are a parasite to society and that to pay taxes is to guarantee services,’’ Ms. Gorret added. ‘‘We hope that we will be able to get through to people and make them more aware of the consequences’’ of tax evasion.

Italians have been accused by some of making tax evasion a national sport. But now that the country must finance the national debt and is likely to cut pensions and services like health care so that the budget can be balanced, calls have grown to ensure that every citizen pay his or her way.

A poll commissioned by the association of Italian Banking Foundations and Savings Banks, released in October, found that 48 percent of Italians said that fighting tax evasion should be the country’s priority for stimulating growth, more important than reducing public spending or lowering taxes.

The ad campaign was conceived this year as part of the revenue agency’s long-running battle against tax cheats, which has netted about €37 billion in the past five years. On Monday, Luigi Magistro, the director of tax assessment for the revenue agency, estimated that increased controls would yield an additional €11 billion in taxes in 2011.

‘‘The numbers so far this year have been encouraging,’’ Mr. Magistro told the news agency ANSA.

Saatchi & Saatchi was chosen, Ms. Gorret said, because it had designed an campaign for the Agenzia del Territorio, the Italian agency that monitors properties and real estate. It sought to convince Italians to register undeclared homes in the land registry so that taxes could be levied on them.

‘‘The Agenzia del Territorio said that every time the ad was aired many people would go to their Web site, so we decided to use the same advertising agency because it was an effective campaign,’’ she said.

Though this is the first time the internal revenue agency had invested in an ad campaign, it had been actively working to teach fiscal responsibility for some time. Each year, Ms. Gorret said, officials from the revenue agency visit some 1,200 schools to teach elementary and middle school children the basics of fiscal responsibility

The campaign, created with the Italian Government’s publications department, will run on national state television and radio until the end of August. Print ads will begin in September, when tax returns for self-employed Italians are due. That month, ads will also be placed in airports and rail stations in Rome and Milan.

‘‘People will be returning from their holidays,’’ and will begin thinking about more serious matters, Ms. Gorret said. ◼

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

I tagli al welfare infiammano gli animi, gli incendi di Londra potrebbero facilmente dilagare in tutta Europa.

“La gente non decide da un giorno all’altro di appiccare le fiamme. È un lungo processo. Sono tutti gli abusi subiti, tutto il malcontento covato per anni a scoppiare. Ecco cosa succede quando una comunità viene abbandonata a se stessa, quando la politica non se ne fa carico. Condanno le violenze, ma solo in parte. Condanno molto di più la violenza economica: la disoccupazione, la mancanza di opportunità che nega ai giovani un futuro. È una violenza che non viene riconosciuta. Ci si sofferma sul sintomo e non sulla patologia: il sintomo sono le violenze di sabato, ma la patologia è l’alienazione di un’intera comunità lasciata a se stessa”. (Lee Jasper, attivista per i diritti delle minoranze in UK-dichiarazione raccolta da Rosalba Castelletti per la Repubblica)- Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro

Crisi del debito: la politica non e’ capace.

“Il downgrading non è un giudizio sulla nostra economia ma sul nostro sistema politico, è necessario ritrovare lo spirito di unità nazionale di una volta”, Barak Obama dixit. Il che e’ esattamente il problema dell’Europa, problema che ha in Italia la piu’ penosa rappresentazione, dove, come ha scritto Mario Monti e’ scattato il downgrading politico da parte di Francia e Germania sulle capacita’ del governo italiano di affrontare la crisi. Dunque, parafrasando Obama, i timori della Bce non riguardano l’economia del nostro Paese, riguardano il sistema politico italiano. Se il governo non governa la crisi, e’ la crisi a governare il Paese. Il che e’ esattamente quello che sta succedendo. La politica e’ troppo importante per lasciarla fare a questo sistema politico. O la riprendono in mano i cittadini o restera’ in balia dei poteri finanziari. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi secondo Scalfari: “C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street.”

di EUGENIO SCALFARI- la Repubblica

LE TEMPESTE non vengono mai sole, ma una ne porta appresso un’altra. Si pensava che nella giornata finanziaria di domani il sole si sarebbe aperto un varco tra le nuvole nere dei giorni scorsi e che i mercati avrebbero respirato. Ma probabilmente non sarà così: l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha declassato il debito americano. Non era mai avvenuto e gli operatori si aspettano il peggio in tutto il mondo a cominciare dal governo cinese che ha chiesto ad Obama con toni ultimativi di prendere drastiche decisioni per ridurre il disavanzo federale americano.

Non si era mai visto prima d’ora che uno Stato estero desse ordini alla Casa Bianca. Semmai accadeva il contrario. C’è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street. A quell’ora Piazza degli Affari a Milano sarà già da sei ore sull’Ottovolante. Forse ci sarebbe stata in tutti i casi perché la conferenza stampa di venerdì sera a Palazzo Chigi non era stata affatto rassicurante. Se l’America ha il raffreddore – si diceva un tempo – in Europa abbiamo la polmonite. Ma se la polmonite ce l’ha l’America, che cosa può accadere qui?
* * *

In attesa degli eventi e per capire meglio i fatti nostri bisogna rievocarla quella conferenza stampa, i suoi antecedenti e quello che dovrebbe avvenire nel nostro piccolo ma per noi essenziale cortile di casa. Non è un insulto ma una constatazione: sembravano tre zombi quei personaggi appiccicati l’uno all’altro dietro quel tavolo, con l’aria imbambolata di pugili suonati dai pugni che hanno ricevuto.

Berlusconi spiegava alla platea dei giornalisti che l’Italia, cioè lui, erano tornati al centro dell’attenzione mondiale ed enumerava le telefonate ricevute da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Cercava le parole per spiegare le decisioni prese, in totale contrasto con quelle comunicate al Parlamento appena 48 ore prima. Ma non le trovava. Si capiva soltanto che per rassicurare i mercati aveva deciso di accelerare d’un anno la manovra. Il pareggio del bilancio previsto per il 2014 sarebbe avvenuto nel 2013. Così, con un colpo di bacchetta magica. I partner europei erano stati informati e anche gli americani e tutti avevano applaudito. I mercati erano un orologio rotto ma stavano producendo un sacco di guai. “Tremonti vi spiegherà i dettagli” così aveva concluso dopo dieci minuti.

Tremonti, poveretto, era più imbarazzato e incespicante di lui. Non sembrava più quel ministro sicuro di sé, sprezzante, arrogante che conosciamo da tempo. Faceva lunghe pause, arruffava le frasi, si correggeva, tradiva continui vuoti di memoria. A un certo punto Letta l’ha interrotto. In realtà non aveva nulla da dire Gianni Letta, ma voleva comunque far sentire la sua voce affinché fosse chiaro che esisteva anche lui. Ma dopo quell’improvvida interruzione Tremonti non trovava più il filo per riprendere il discorso.

Una scena pietosa, conclusa nel modo più involontariamente comico dal presidente del Consiglio il quale, annunciando che il governo non sarebbe andato in vacanza, ha detto: “Palazzo Letta resterà aperto per tutto agosto”.

Il giorno dopo è partito per la sua villa di Porto Rotondo. Un week-end rilassante evidentemente si imponeva.

* * *

La verità è che il governo italiano, dopo il nerissimo giovedì con Piazza Affari a meno 5,16 maglia nera delle Borse mondiali e lo “spread” a quota 389, è stato commissariato. In un paese normale il premier e il suo governo si sarebbero dimessi, ma poiché la maggioranza Scilipoti esiste ancora, la soluzione dettata dall’Europa d’intesa con la Casa Bianca è stata il commissariamento.

Abbiamo ora un governo che deve eseguire gli ordini che gli vengono dati da Berlino e da Parigi tramite Barroso da una parte e Trichet dall’altra. Soprattutto quest’ultimo perché la Bce è il solo braccio operativo che l’Europa può usare nel tentativo di raffreddare i mercati.

Del resto è ormai ufficiale che l’atto di commissariamento è stato scritto e inviato al nostro presidente del Consiglio la mattina di venerdì con una lettera di Trichet controfirmata da Draghi che sarà a novembre il suo successore. In quella lettera sono fissate le condizioni: anticipare di un anno il pareggio del bilancio, iniziare da subito gli interventi per tagliare la spesa, avviare con decorrenza immediata interventi di stimolo per la crescita del reddito e dell’economia reale.

Per questa ragione quei tre personaggi dietro quel tavolo la sera di venerdì sembravano burattini mossi da fili tenuti da altre mani; appena due giorni prima avevano esposto con sussiego una politica economica che non si spostava d’un centimetro dal rovinoso immobilismo d’una manovra che aveva rinviato tutto di quattro anni. La maggioranza parlamentare aveva punteggiato di fragorosi applausi il discorso del premier. Il ministro dell’Economia, seduto alla sua sinistra, batteva anche lui le mani, felice della ritrovata armonia con il “boss”; il ministro degli Esteri, seduto alla sua destra, sottolineava gli applausi battendo la mano sul tavolo dei ministri.

Dopo un giorno e mezzo tutto ciò è stato capovolto. “È passato un mese e il mondo è completamente cambiato” ha detto Tremonti venerdì. È vero, è passato un mese, ma lui e tutta la banda mercoledì non se n’erano ancora accorti. Meno male che – non potendo dimissionarli – li hanno almeno commissariati. Ma purtroppo non basterà, polmonite americana a parte.

* * *

Dal balbettio di Berlusconi e di Tremonti si è capito che proporranno nei prossimi giorni alle commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge di riforma costituzionale da essi ritenuti fondamentali: la modifica dell’articolo 41 e quella dell’articolo 81.

Il primo stabilirà, una volta modificato, che i cittadini sono liberi di assumere ogni tipo di iniziativa salvo quelle vietate dalle leggi. Si tratta di una pura ovvietà ma il veleno sta nella coda: spetta agli interessati autocertificare che non vi sono leggi che vietano le iniziative intraprese. La pubblica amministrazione farà controlli ex post. Dire che si tratta d’un potente incoraggiamento all’illegalità è dir poco.

Quanto all’articolo 81, si tratta di introdurre in Costituzione il pareggio del bilancio come principio inderogabile “salvo specifiche condizioni di emergenza” (terremoti, guerre, eccetera). Non si spiega però se il pareggio riguarda il bilancio preventivo o quello consuntivo o tutti e due. Ma c’è un’altra condizione non ancora detta però ventilata: che la spesa non possa superare il 45 per cento del Pil salvo un voto parlamentare a maggioranza qualificata.

Se passasse una riforma costituzionale del genere il tetto alla spesa che Obama ha a stento superato per evitare il default sarebbe uno scherzo: scomparirebbe ogni politica economica, ogni programma di investimento, ogni politica fiscale di redistribuzione del reddito, ogni politica estera, ogni politica della difesa ed ogni autonomia locale. Il governo sarebbe affidato non al Parlamento ma alla Corte dei conti e alla Ragioneria dello Stato.
Non credo che iniziative del genere troveranno appoggio nell’opposizione e faciliteranno coesione sociale. Comunque ci vorrà un anno prima che l’iter parlamentare sia completato e ancor più se sarà necessario il referendum confermativo. Pensate che i mercati nei prossimi giorni si calmeranno per l’effetto di annuncio di questi due sgorbi di riforma costituzionale?

* * *

Questi sono i preamboli, poi viene la sostanza: un anno di anticipo per realizzare nel 2013 l’obiettivo del pareggio del bilancio, ferma restando la manovra così come fu approvata in tre giorni un mese fa (ma forse bisognava esaminarla meglio invece di guardare soltanto l’orologio).

La manovra ammonta a 48 miliardi così distribuiti: tre miliardi nel 2011, cinque nel 2012, venti e venti nel biennio successivo. Se tutto viene anticipato d’un anno il nuovo calendario dovrebbe prevedere otto miliardi immediati in quest’esercizio, venti e venti nel biennio successivo. È realizzabile questo programma? I tre zombi venerdì non sono entrati nel dettaglio. I poteri esteri che li hanno commissariati neppure, i mercati nulla sanno e i contribuenti meno ancora, ma è evidente che nelle prossime 48 ore questi dettagli dovranno essere forniti.

La logica suggerisce che i tagli per otto miliardi del 2011 e i venti del 2012 debbano essere effettuati con un’unica visione. L’esercizio in corso è agli sgoccioli ma lo sfoltimento delle prestazioni assistenziali è già previsto nella manovra. Si tratta di renderlo operativo con l’immediata approvazione della legge delega su quei trattamenti.

Nel totale ammontano a 160 miliardi. La macelleria sociale accennata da Tremonti prevede riduzioni discrezionali del 5 per cento il primo anno e il 10 nel secondo con speciale attenzione alle pensioni di invalidità, agli accompagnamenti degli invalidi e alla reversibilità pensionistica. Il 15 per cento di 160 miliardi fa 24 miliardi. Più i ticket già operativi e le accise già in corso. Su quali ceti si scarica questo peso?

In tempi di buriana una dose di macelleria sociale è inevitabile purché sia affiancata dall’equità. È evidente che se tutto il peso è concentrato sul capitolo dell’assistenza, l’equità scompare. Dunque colpire solo l’assistenza è impensabile. Altrettanto impensabili sono le baggianate alternative di Di Pietro che pensa all’abolizione delle Province come un toccasana. Quanto a Casini, ha detto che se le proposte sono efficaci le voterà. Nei prossimi tre giorni ne conoscerà anche lui i dettagli e vedremo la sua risposta.

Ma la vera domanda è questa: si arriverà al pareggio del bilancio entro il 2013? Bisognerà affrontare la seconda “tranche” della manovra, cioè gli altri 24 miliardi. Si può mettere in esecuzione la prima tranche senza nulla sapere della seconda, basata interamente sulla riforma fiscale?

Lo chiederanno le opposizioni, le parti sociali, le Regioni e i Comuni. Ma lo chiederanno soprattutto i mercati e finché non lo sapranno è difficile sperare che si fermeranno. Sempre polmonite americana a parte.

* * *

Torniamo ancora un poco alla polmonite americana. Riguarda la diminuzione del debito federale? Riguarda il tasso di cambio del dollaro? Riguarda gli spintoni della Cina?

Soltanto in parte. Vorrei dire in piccola parte. La polmonite americana proviene dai segnali di recessione, dalla caduta della domanda. Ma quella caduta sta avvenendo nel mondo intero e in Italia più che mai.

Per questo i mercati si sentono insicuri e picchiano sui debiti sovrani. Ma se al necessario rigore non si affianca la crescita, la polmonite non guarisce, diventa acuta, purulenta e alla fine attacca il cuore.

Infatti i nostri “lord protettori” hanno chiesto rigore e crescita. Ma la crescita ha bisogno di risorse. Si cresce alimentando il potere d’acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti. Si cresce abbassando l’Irpef dei redditi medio-bassi e l’Irap sulle imprese. Si cresce spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l’evasione, generalizzando lo scarico dell’Iva in tutti i passaggi. L’articolo 41 della Costituzione non è la madre delle liberalizzazioni ma soltanto un aborto propagandistico.

Si cresce tassando il patrimonio non con un “una tantum” ma con un sistema fiscale adeguato.
Non illudetevi che sia sufficiente l’intervento della Bce a sostegno dei titoli italiani (e spagnoli). Soltanto un altro zombi come Bossi può pensarlo.

La Bce è intervenuta nei mesi scorsi e ancora l’altro ieri acquistando titoli greci, irlandesi e portoghesi, per 74 miliardi. Equivale all’incirca al 20 per cento di quei debiti. Se dovesse applicare quella stessa percentuale per l’Italia dovrebbe acquistare titoli per 400 miliardi e arriverebbe a 700 con la Spagna. È impossibile. Equivarrebbe a europeizzare un quinto dei debiti sovrani d’Italia e di Spagna. E gli altri paesi resterebbero a guardare?
Bisogna battere la recessione e rilanciare la crescita. Il resto sono chiacchiere e non bloccano i mercati.(Beh, buona giornata)

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