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Crisi economica: una volta l’operaio voleva il figlio dottore, oggi anche il dottore ha il figlio precario.

L’INCHIESTA/ Il futuro impossibile degli under 35
Tre milioni di lavoratori a termine senza tutele

Giovani precari vittime predestinate
generazione a rischio per la crisi

Flessibilità significa che è più facile assumere. Il problema è che adesso
stiamo vedendo il rovescio della medaglia: è più facile anche licenziare
di MAURIZIO RICCI da repubblica.it

ROMA – “Una vita senza futuro, senza progetti. Del resto, chi si può permettere dei progetti, quando non puoi comprare un mobile a rate o fare un mutuo per la casa? Sei appesa al nulla”. Giovanna, quarantenne, precaria all’ufficio cassa di un ospedale abruzzese, campa da dodici anni di proroghe di tre, sei mesi del contratto: il presente le offre molto poco. Ma è molto, molto meglio del futuro, che è diventato un incubo.

L’incubo della tagliola: “Il contratto scade a fine gennaio. Chi sa cosa succederà? Io ho paura”. Gianluca, 29 anni, laureato in Scienze della comunicazione, tre anni nel call center di una grande azienda, il contratto l’ha già perso. Scade a fine dicembre e sa già che non glielo rinnoveranno. “Cosa faccio? Torno dai miei. Non ne ho nessuna voglia e la sento come una sconfitta. Ma non posso stare in mezzo alla strada. E poi? Boh. Ho provato a chiedere in giro, ma i miei amici stanno come me”.

La crisi economica, la recessione, stanno arrivando in queste settimane. Ma questa non è una crisi come le altre che l’hanno preceduta. E’ diversa, perché ha delle vittime predestinate. I sindacati lanciano un allarme a tutto campo. La cassa integrazione è cresciuta del 25% questa estate. In Lombardia è raddoppiata. I posti di lavoro a rischio, nei prossimi due anni, sono 900 mila solo nell’industria. Compresi commercio e servizi, potrebbero arrivare a un milione e mezzo.

Sono cifre enormi per un paese con 17 milioni di lavoratori dipendenti. Ma questa è la parte forte del mercato del lavoro, protetta da sussidi e garanzie che attutiscono l’impatto del taglio dei posti di lavoro. La mattanza dell’occupazione comincerà altrove, nella parte più debole ed esposta delle maestranze. Le vittime predestinate sono gli apprendisti, collaboratori, meglio noti come cococò, somministrati, interinali, a tempo determinato. L’esercito dei tre milioni di precari, che hanno monopolizzato il mercato del lavoro degli ultimi anni e per i quali non è necessario il licenziamento o l’anticamera della cassa integrazione: basta non rinnovare il contratto.

Perché questa è la prima crisi dell’era della flessibilità e tutto sta funzionando come prevedono i manuali. Flessibilità significa che è più facile assumere. Il problema è che, adesso, stiamo vedendo il rovescio della medaglia: è più facile anche licenziare. In teoria ? dicono sempre i manuali ? questo è un bene. Le imprese sono in grado di alleggerire rapidamente i costi, tagliando il personale. Così sgravate, reggono meglio la crisi e, non appena il vento dell’economia girerà, potranno riprendere più velocemente la corsa, tornando ad assumere. La teoria funziona, quando la crisi riguarda un’impresa o un gruppo di imprese. Quando è generale, l’impatto sociale è devastante, perché gente come Giovanna e Gianluca deve riuscire a galleggiare senza salvagente.

I numeri non sono facili da mettere insieme. Nel caso degli interinali (oggi si chiamano somministrati), Ebitemp, l’ente bilaterale per il lavoro temporaneo, calcola che il personale gestito dalle agenzie del lavoro in affitto, fra luglio e settembre sia calato del 7,6%. Soprattutto, sono scese di oltre il 21% le richieste di personale. Stefano Sacchi, Fabio Berton, Matteo Richiardi, in un articolo per lavoce.info stimano che solo metà degli interinali abbia qualche forma di protezione, quando resta senza lavoro.

Questa percentuale scende sotto il 40% per il milione e mezzo di lavoratori a tempo determinato: oltre 600 mila dipendenti a contratto rischia di restare in mezzo alla strada. Lo stesso vale per mezzo milione di cococò. In totale, oltre un milione di persone, per cui la crisi significa solo un buco nero. “Senza indennità, senza pensione, senza liquidazione: se non mi rinnovano il contratto, come mangio il prossimo mese” si domanda angosciata Giovanna?

Il momento della verità arriverà nei prossimi giorni, a spegnere, per molti, il Natale. Un precario su dieci balla, infatti, proprio adesso, sulla corda. Dicembre è un mese come tutti gli altri, ma, a fine anno, per motivi burocratici, viene a scadenza il 40% in più dei contratti, rispetto agli altri mesi. Sacchi e i suoi colleghi hanno calcolato che, il 31 dicembre, oltre 300 mila precari, sui 3 milioni totali, si troveranno a rinnovare i loro contratti: 193 mila tempi determinati, 10 mila apprendisti, 16 mila interinali, 64 mila cococò. In tempi normali, l’84% degli interinali e il 50% dei collaboratori coordinati ottiene automaticamente il rinnovo. Ma questi non sono tempi normali. Ancora: in tempi normali, un interinale aspetta 9 mesi per trovare un nuovo posto, un cococò anche 19. Ma ora? “Boh” come dice Gianluca.

Questa è una crisi diversa dalle altre perché non colpisce, come avviene di solito, alcuni settori, alcune categorie più di altre. Questa crisi colpisce una classe di età, come ai tempi del militare. E’ la crisi dei “bamboccioni”, per dirla con Padoa-Schioppa. O, meglio, di quelli che, in questi anni, hanno trovato un lavoro. E’ la crisi dei giovani, perché è la crisi dei precari e il precariato è l’unica forma di lavoro che i giovani hanno trovato. L’interinale tipo ha 32 anni. Uno su due ha meno di 30 anni. Se la crisi sarà dura come dicono, un’intera generazione rischia di essere ributtata indietro, espulsa dal mercato del lavoro.

In affitto come interinali o somministrati, collaboratori coordinati e continuativi o a progetto, a tempo determinato, questi, e non altri, sono i lavori che hanno trovato ragazzi e ragazze usciti, negli ultimi anni, dalla scuola. “Almeno due terzi dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro ? dice Sacchi ? in questi anni sono avvenuti con contratti atipici”. All’Istat sono appena più prudenti: “sia nel 2006, che nel 2007 ? spiega Mario Albisinni ? il 45% delle nuove assunzioni è stato a carattere temporaneo”.

I numeri, qui, aiutano a raccontare la storia di questi anni. Fra il secondo trimestre del 2004 e il secondo trimestre del 2008, gli occupati sono aumentati del 5% e, fra questi, i lavoratori dipendenti dell’8%. Quanti, di questi ultimi, con un contratto a tempo indeterminato, di quelli normali, con pensione, Cig e liquidazione? Ci sono state oltre 800 mila assunzioni di questo tipo: i contratti a tempo indeterminato sono cresciuti di quasi il 6%. Ma, attenzione, è una faccenda da adulti. Quanti di questi nuovi contratti permanenti riguardano, infatti, giovani under 35? La risposta è che il numero di lavoratori sotto i 35 anni con un contratto a tempo indeterminato è, in realtà, diminuito. I bamboccioni in rotta per la pensione, rispetto a quattro anni fa, sono quasi mezzo milione in meno: un taglio del 9%.

E dove sono finiti? Fra i precari. I lavoratori dipendenti a carattere temporaneo sono cresciuti, negli ultimi quattro anni, da 1 milione 900 mila a quasi due milioni e mezzo. Oltre metà di questo aumento è dovuto agli under 35. Poi c’è poco meno di mezzo milione di cococò, formalmente lavoratori indipendenti, ma, lo dice anche l’Istat, in concreto dipendenti a tutti gli effetti. Tre milioni di precari. Sei su dieci hanno meno di 35 anni. Saranno loro i primi a subire l’impatto di una crisi che, dicono gli economisti, può essere la più grave degli ultimi settant’anni. (Beh, buona giornata).

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La crisi non paga, il Governo non si spende.

da corriere.it

«Il governo riduca le tasse sui redditi da lavoro e pensione»

Cgil: «Retribuzioni ferme nel 2008»

L’aumento delle buste paga azzerato dall’inflazione. E aumenta il divario tra operai e imprenditori

ROMA – Retribuzioni al palo nel 2008: secondo le stime Ires Cgil – che anticipano i dati del rapporto sui salari che saranno diffusi a gennaio – l’anno in corso si chiuderà con una crescita delle buste paga del 3,4%-3,5%, sostanzialmente alla pari con l’andamento del tasso di inflazione. Per il segretario confederale della Cgil e presidente dell’Ires, Agostino Megale, «questo significa retribuzioni ferme».

CALA LA DISPONIBILITA’ REALE – «Le retribuzioni nel 2008 – spiega Megale – chiuderanno sostanzialmente alla pari con il tasso di inflazione: entrambi saranno probabilmente tra il 3,4% e il 3,5%. Questo significa che le retribuzioni saranno più alte solo nominalmente del 2007, ma più basse in termini di disponibilità reale. Nella sostanza ciò significa: retribuzioni ferme».

FORBICE – Non solo. Aumenta la forbice di reddito tra operai-impiegati e imprenditori-liberi professionisti: tra il 2002 e il 2008 le buste paga dei primi hanno fatto registrare una diminuzione di 1.600 euro mentre i redditi dei secondi sono aumentati di 9 mila euro. «Il segno dell’impatto della crisi sulle retribuzioni è evidenziato anche dalla forbice che si è prodotta nell’aumento delle disuguaglianze reali poiché tra il 2002 e il 2008, mentre le famiglie con capofamiglia imprenditore o libero professionista registrano un aumento del reddito di oltre 9 mila euro, le famiglie di impiegati o di operai subiscono una diminuzione di 1.600 euro» afferma Megale. «Ecco perché – continua – continueremo ad insistere affinché ciò che il governo non ha fatto fin qui, lo faccia a partire dal nuovo anno, riducendo le tasse sui redditi da lavoro e pensione in modo tale da poter rilanciare i consumi». (Beh, buona giornata).

 

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Venti (per cento) di crisi.

Il Paese virtuoso

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Il venti per cento in meno dei consumi per il Natale è un indubbio segno di sacrifici e di timore, ma vi si può leggere anche un segno di virtù delle famiglie italiane. Un’indicazione degli umori con cui il Paese si prepara ad affrontare la tempesta.Va detto che la stretta nei consumi non era affatto scontata. Come spesso ci ricordano gli economisti e come abbiamo imparato dalle esperienze di questi ultimi decenni, non c’è nulla di scontato nel comportamento collettivo. Nemmeno nella reazione a una crisi economica. In particolare se questa è – lo ha scritto su questo giornale il 22 dicembre Luca Ricolfi – una crisi che ha molte sfaccettature, come sfaccettato è del resto il profilo del reddito italiano. «È possibile che il 2009 sia un anno molto duro per molti, sia in basso (disoccupati, precari, piccoli esercenti), sia in alto (imprenditori, commercianti, lavoratori autonomi in genere). Però, attenzione a non generalizzare. Disoccupati, precari e lavoratori indipendenti non sono tutta la società», ricordava Ricolfi. A guardarla da vicino, senza paraocchi di pregiudizi, questa crisi è, come sempre succede, una realtà piena di differenze e sfumature, in cui accanto alla radicalizzazione della sofferenza di molti strati, permangono zone di stabilità se non di sicurezza.E’la differenza che sperimentiamo ogni giorno e che viene riflessa nell’informazione, che ci mostra da una parte spensierate vacanze e dall’altra famiglie in difficoltà. Ma, pur essendo la crisi una realtà a molti strati, il Paese ha avuto una reazione unanime: una frenata dei consumi, una scelta di parsimoniosa oculatezza che non era affatto scontata. Al bando il solito falò delle vanità italiane/occidentali, il culto del corpo, con i suoi annessi di creme, scarpe, borse e abbigliamento; decurtate le spese delle abbuffate, delle vacanze stravaganti, ma non quelle dell’interrelazione. Che si tratti di giocattoli, di sport o telefonini, l’elettronica non crolla perché è parte essenziale della vita.

Questa unanimità di comportamenti è forse la novità più rilevante del momento. Perché ci può far pensare che non è solo il frutto obbligato della diminuzione del denaro da spendere, ma anche di decisioni «psicologiche». Insomma, a differenza di quel che abbiamo visto in passato in altre crisi – l’esempio più potente che mi viene in mente è quello dello scoppio della bolla della nuova economia – durante le quali le difficoltà sottolinearono le differenze di reddito, nella crisi di oggi sembra di poter leggere anche il segno di una turbata coscienza nazionale che, al di là dei propri mezzi, sceglie la cautela e la parsimonia. Naturalmente è del tutto possibile che queste osservazioni siano più che altro una speranza, un riflesso di ottimismo natalizio sul nostro Io collettivo. Ma in parte sono basate anche sulla memoria di quella che è poi la natura del nostro Paese.

Solo mezzo secolo fa eravamo una nazione di contadini, ci diciamo spesso, per poi dimenticarlo più spesso. Gli attuali capifamiglia, cioè la maggioranza di chi produce in Italia, hanno genitori contadini o operai, e i nostri preziosi figli, che all’apparenza sembrano viziatissimi principini, hanno i nonni la cui parlata ha profonde radici nei dialetti locali. Sulle nostre tavole natalizie questi legami sono ovvi. Meno ovvi sono invece nel corso della nostra vita quotidiana. Il merito maggiore dell’Italia del dopoguerra è proprio questo: aver saputo diventare in due generazioni un Paese benestante e colto, e questo cambio è stato possibile grazie alla prudenza, al realismo, alla flessibilità e al coraggio con cui gli italiani hanno sempre affrontato le proprie traversie.

In questo Natale il solido spirito del Paese sembra ritrovarsi. Uno stato d’animo che ci dice molto del pessimismo con cui i cittadini guardano oggi alle cose a venire, ma ci dice anche della virtù italica di saper sempre ritrovare la propria bussola in quella serietà di comportamenti che è la base di ogni rispetto degli altri. Non sarà certo un caso se il tema politico prevalente in queste feste siano i contratti di solidarietà. Il Palazzo invece sembra per ora assorbito come sempre dalla riforma della giustizia. Ma se possiamo fare un augurio anche ai nostri governanti e ai politici tutti, governo e opposizione uniti, auguriamogli di non sprecare con una gestione irrazionale, partigiana e opportunista della crisi questa disponibilità di fondo del Paese. (Beh, buona giornata):

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Sei mesi per stabilizzare la finanza, due anni per uscire dalla crisi: due appuntamenti che non sono nell’agenda della politica italiana.


di Anna Guaita da ilmessaggero.it
NEW YORK (27 dicembre) – L’economia è destinata a peggiorare, e l’impatto «si sentirà nel mondo intero». Ma se oggi «tutto appare molto cupo, entro un paio d’anni il panorama apparirà più rassicurante». Il premio Nobel per l’economia Michael Spence spiega al Messaggero che ancora moltissimo della crisi «deve essere chiarito», ma aggiunge che una cosa è chiara: «il capitalismo all’americana» che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni «non tornerà com’era», l’economia mondiale sarà più regolamentata, ma anche più sincronizzata e legata da accordi di collaborazione. Spence, che ha vinto il Nobel nel 2001 con Joseph Stiglitz e George Akerlof, è professore di management alla facoltà di Business della Stanford University, e presidente della ”Commissione per la Crescita e lo Sviluppo”.
Professore, lei dice che l’economia peggiorerà.
Cosa raccomanda per farla uscire dalla crisi?
«L’economia peggiorerà perché si è messa in moto una dinamica che non si può arrestare velocemente. Prevedo che il mercato finanziario sarà stabilizzato entro sei mesi, ma l’economia reale richiederà probabilmente un paio d’anni. Non parlerei di una recessione profondissima, ma comunque ci vuole l’intervento dei governi, indispensabile per ridurre la profondità e la lunghezza della crisi».
In che settore vorrebbe questi interventi?
«In qualsiasi settore che produca impiego e reddito, e generi consumo. Senza questi interventi, vedremo una continua riduzione della domanda e del consumo, con ulteriore contrazione dell’impiego».
In Europa ci sono vari Paesi con forti deficit, raccomanda anche ad essi di spendere?
«Bisognerebbe che in Europa si sospendessero temporaneamente le restrizioni sul tetto massimo di deficit. Quelli sono accordi fatti per tempi normali, ma siamo in una stagione eccezionale. E comunque, se i governi non investiranno, registreranno lo stesso un allargamento del deficit, perché la crisi causerà perdita di posti di lavoro, e di conseguenza il gettito fiscale precipiterà».
Si parla molto di ri-regolamentare l’economia. Dove, e quando?
«Nessuno vuole imporre eccessive regolamentazioni, e appesantire gli imprenditori e i consumatori. Ma si è innescata una dinamica di instabilità, e dobbiamo capire che cosa abbia causato questo rischio sistemico. Si pensa alla creazione di uno strumento che sia in grado di ”frenare” in presenza di nuovi rischi. Ma ancora non sappiamo dove dobbiamo agire. Una cosa è certa: il capitalismo american style, che diceva che i mercati si autoregolamentano, non ha funzionato e non gode più della fiducia della gente».
E non sappiamo dove saranno applicate le nuove regolamentazioni?
«Per adesso, il mondo dell’economia, della politica, dello studio, stanno ancora cercando la strada migliore per affrontare la crisi. Ci siamo nel bel mezzo, siamo tentando di reagire a delle dinamiche che cambiano con grande velocità. Solo quando avremo la crisi sotto controllo, quando avremo recuperato un po’ di stabilità, quando il capitale privato ricomincerà a muoversi e si sarà chiarito il mistero del reale valore delle aziende, allora ci dedicheremo tutti a cercare i punti cruciali su cui applicare maggiori controlli».

Professore che mondo verrà fuori da questa crisi?
«Spero un mondo in cui i Paesi abbiano deciso di non corazzarsi per navigare le acque della crisi da soli, ma abbiano accolto il progetto del G20 di Washington, cioè di realizzare un sistema di controllo e regolamentazione coordinato dell’economia mondiale. Un mondo in cui si avrà una visione più aperta dell’importanza dei governi nel prevenire e curare le crisi».
Cosa direbbe a un giovane che deve scegliere il suo futuro?
«Di guardare nel settore delle scienze biomediche, ingegneristiche e ambientali. E nel campo sociale specializzato, per esempio nella scienza del comportamento economico. Ma soprattutto raccomanderei di scegliere qualcosa in cui si creda, e in quello cercare di eccellere». (Beh, buona giornata)

 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Basta una telefonata per uscire dalla crisi.

Fonte AGI, Roma, 16:53

CRISI: BERLUSCONI, NIENTE ALLARMI CONSUMI NON CALATI
“Ho sentito il presidente dei commercianti, Carlo Sangalli, e mi ha detto che non c’e’ stato nessun calo per gli alimentari. E gli altri generi si sono mantenuti sui livelli degli altri anni”. Lo ha affermato il premier Silvio Berlusconi intervistato da Sky Tg24. Il Premier aggiunge: “tutto sta nelle nostre mani”. (Beh, buona giornata).

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Cosa significa il tonfo dei consumi di Natale.

 

Secondo i dati del Codacons i consumi italiani, nel periodo natalizio, sono scesi del 20% rispetto all’anno scorso e per i prossimi saldi le attese sono per un calo degli acquisti del 30% rispetto all’anno scorso. Secondo Federconsumatori-Adusbef, inoltre, per i regali di Natale, gli italiani hanno speso quest’anno 2 miliardi in meno rispetto all’anno scorso.  A questo dato si aggiunge il rilevamento del’Osservatorio del turismo, secondo il quale i viaggi per le vacanze invernali registrano una flessione del 15%.  Se confermati, il combinato disposto tra questi due dati ci dice che non solo i ceti meno abbienti, ma anche i ceti medi si sono trovati in grave difficoltà economica in questa fine d’anno.

Il tonfo dei consumi che si è registrato a Natale significa almeno tre cose.

La prima è che gli appelli all’ottimismo e le professioni di fiducia sono risultati del tutto vani, se non addirittura hanno peggiorato la percezione della crisi. In principio si è voluto sottacerne la portata, poi si sono fatte ammissioni a mezza bocca, infine si cercato di minimizzare. E’ sembrata la barzelletta del medico che chiama il suo paziente per annunciargli una brutta notizia e una pessima: “ la brutta notizia è che lei ha ventiquattro ore di vita, la pessima è che mi sono dimenticato di telefonare ieri.” Per una volta,  nello spazio di poche settimane, realtà e percezione della realtà sono arrivate in perfetta sincronia alle feste natalizie.

La seconda cosa che il tonfo dei consumi ha dimostrato è che le misure anticrisi si sono rivelate del tutto tardive e inefficaci. L’attitudine “compassionevole” ha deluso e preoccupato. Non si è avuto il coraggio di operare scelte coraggiose, come in altri paesi della Ue si è fatto per tempo. Bonus figli e social card sono scivolate via come l’acqua.  In proporzione, ha fatto meglio il cardinale Tettamanzi a Milano che il capo del governo a Roma. Chi diceva che il pacchetto anti-crisi era vuoto aveva ragione. Chi sosteneva e sostiene ancora la necessità di un forte intervento del welfare (Obama docet) ha visto per tempo la portata della crisi economica. Le ragioni dello sciopero generale indetto dalla Cgil, dai sindacati di base e dall’Onda degli studenti c’erano tutte. Avrebbero, per altro, fermato la tendenza alla messa in cassa integrazione generalizzata, nonché ai tagli pesanti e generalizzati degli occupati, scelte spesso proditorie, più politiche che economiche assunte da Confindustria per forzare la mano degli aiuti alle imprese. Ostinarsi a non favorire salari e stipendi, chiudere gli occhi di fronte al precariato ha materialmente depresso i consumi, oltre che frustrato i livelli economici delle famiglie, impoverendole sia di soldi che di futuro.

Il tonfo dei consumi ha un terzo risvolto, che riguarda l’inefficacia dimostrata della pubblicità durante questa crisi. La tv ha fallito. In Italia circa il 70% delle risorse pubblicitarie sono investite in televisione, a danno della carta stampata e degli altri mass media, compreso internet. Dunque, il fallimento della tv è ancora più clamoroso. C’è una vera e propria emergenza che colpisce la comunicazione commerciale in Italia. Allo strutturale ritardo nello sviluppo di forme più moderne e articolate di comunicazione pubblicitaria si è aggiunta la cecità di chi crede ancora che prendere a ceffoni il telespettatore con una gragnola di spot e di telepromozioni sia sufficiente per superare il crollo della propensione alla spesa di milioni di italiani.

Il comune denominatore dei tre significati del tonfo dei consumi natalizi è che le cure si sono rivelate peggiori del male. Bisogna cambiare medico (infermieri compresi).  Beh, buona giornata.

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E’ finita la pacchia.

I gruppi familiari con capitalizzazione superiore a mille milioni scesi da 20 a 11
I Rocca ancora in testa, Berlusconi perde 3 miliardi

La crisi colpisce anche i ricchi
dimezzati i Paperoni della Borsa

di ETTORE LIVINI


MILANO – La crisi dimezza il numero dei miliardari a Piazza Affari. La valanga dei subprime non ha risparmiato nemmeno i portafogli delle grandi dinastie del Belpaese che sotto l’albero di Natale si sono ritrovate quasi tutte con un patrimonio azionario dimezzato rispetto al 2007. I Paperoni con più di 1 miliardo in tasca sono oggi solo undici contro i venti dell’anno scorso, mentre le dieci famiglie più ricche hanno visto sparire dal loro portafoglio (virtuale) in dodici mesi ben 26 miliardi, bruciando qualcosa come 71 milioni di euro al giorno. Performance che riflettono, impietosamente, lo scivolone dell’indice Mibtel, crollato da gennaio del 49,6%, riportando l’orologio della Borsa di Milano indietro di 10 anni esatti.

A guidare la classifica dei super-ricchi sono ancora i Rocca (quelli della Tenaris) che però hanno visto andare in fumo in questo periodo la bellezza di 5 miliardi. Dal podio è sparito invece Romain Zaleski. Il raider franco-polacco aveva scalato la graduatoria un gradino alla volta fino al secondo posto del 2007. Un’ascesa, però, drogata dai debiti e legata a filo doppio ai capricci dei mercati. Tant’è che il suo “tesoretto” è stato vittima di una bella sforbiciata crollando a 3,4 miliardi, il 57% in meno del Natale 2007, costringendo le banche a stendere una rete di salvataggio per evitare il default della sua cassaforte Carlo Tassara.

Tiene – invece – un po’ meglio (si fa per dire) chi fa industria e lega i suoi profitti alle fabbriche più che all’andamento di Piazza Affari. Leonardo del Vecchio ha guadagnato una posizione piazzandosi alle spalle dei Rocca, seguito a ruota dai Benetton. Quasi 3 miliardi ha “perso” pure il premier Silvio Berlusconi, penalizzato dal crollo in Borsa di Mediaset, Mondadori, Mediolanum e tradito persino in termini di performance dall’ultimo gioiello di famiglia, il 2% di Mediobanca rastrellato dalla Fininvest.


Tra le vittime eccellenti ne brillano almeno due. Il primo è Luigi Zunino: penalizzato dal crollo degli immobili, dopo un po’ d’anni di gloria ha visto il suo patrimonio perdere quasi il 75% del valore. E poi gli Agnelli: l’anno nero della Fiat ha contagiato pure il valore delle holding del Lingotto, dall’Ifil fino all’Ifi. Tanto che gli eredi dell’avvocato hanno oggi in tasca partecipazioni azionarie per poco più di 250 milioni, un quarto di fine 2007. Malissimo è andata anche a Marco Tronchetti Provera che a causa della debacle della Camfin, capofila di Pirelli, ha visto la sua ricchezza azionaria ridimensionata dell’80% circa a poco meno di 50 milioni.

A sorridere a Piazza Affari sono in pochi visto che i titoli in attivo nel 2008 si contano sulle dita di una mano. Un Natale felice l’ha passato – ad esempio – la famiglia Landi. Il titolo della loro azienda attiva nei sistemi di alimentazione per auto ha sfidato la forza di gravità e i subprime guadagnando in dodici mesi quasi il 50%. Qualche spicciolo l’ha raggranellato anche il numero uno della Lazio Claudio Lotito visto che le azioni dei biancazzurri sono oggi in rialzo frazionale.

Se i privati piangono, anche lo Stato, nel suo piccolo, non ha molto da ridere. Le partecipazioni in portafoglio al Tesoro (che a tutt’oggi ha ancora la palma di investitore più ricco di Piazza Affari) valgono – tra Eni, Enel, Finmeccanica e Terna – un po’ più di 26 miliardi di euro. Un bel gruzzoletto, per carità, ma in ogni caso ben 15 miliardi in meno del patrimonio di azioni pubbliche a dicembre dell’anno scorso.  (Beh, buona giornata).

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La crisi economica e il modo migliore per affrontarla.

La crisi come occasione
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

La parola crisi è tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: più che una parola, è albero dai rami incessanti. In greco antico significa un gran numero di cose tra cui: separazione, scelta, giudizio. Il verbo, krino, vuol dire anche decidere. In medicina si parla di giorno critico o di giorni critici: per Ippocrate (e per Galeno nel secondo secolo dC) è l’ora in cui la malattia si decide: o precipita nella morte o s’affaccia alla ripresa. È il punto di passaggio, di svolta. Il termine riapparve nei sommovimenti enormi del ’700: nella rivoluzione francese, in quella industriale. La vera crisi, per Burckhardt, non cambia solo i regimi: scompone i fondamenti della società, come avvenne nelle migrazioni germaniche. Quel che la caratterizza è la straordinaria accelerazione del tempo: «Il processo mondiale d’un tratto cade in preda a una terribile rapidità: sviluppi che solitamente mettono secoli a crescere, passano in mesi e settimane come fantasmi in fuga» (Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale).

Il concetto di crisi fu evocato con affanno sempre più frequente dopo il primo conflitto mondiale. Lo storico Reinhart Koselleck la chiama «cataratta degli eventi» e sottolinea il suo volto ambiguo: è una condanna, ma anche un’occasione che ci trasforma. Nel Vangelo di Giovanni (5, 24) Gesù la raffigura come temibile: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita». Nella versione greca, andare incontro al giudizio è letteralmente «entrare nella krisis», nel processo. Al tempo stesso crisi è intelletto all’opera, che redime: «L’uomo che non ha alcuna krisis non è in grado di giudicare nulla», scrive Johann Heinrich Zedler nell’Universal-Lexikon del 1737.

Anche la crisi che traversiamo oggi è «vera crisi»: momento di decisione, climax d’un male, e se ne abbiamo coscienza, occasione. Uscirne è possibile, purché non manchi la diagnosi: secondo Galeno, i giorni critici sono valutabili solo se l’inizio del male è definito con precisione.
Gli economisti non bastano a tale scopo, e ancor meno i politici. Spesso vedono le cose più da vicino i letterati, i filosofi, gli storici, i teologi, i medici. Se la società è un corpo – dagli esordi è la tesi dei filosofi – questi sono i suoi giorni critici: può morire o guarire, mutando forma e maniere d’esistere.

Pietro Citati individua la radice del male nella passione dei consumi: frenesia che descrive con parole deliziose, ironiche, sgomente, evocando la telecamera americana che nel 1952 riprese una massaia che s’aggirava nel supermercato (Repubblica, 3 dicembre 2008). La camera registra i movimenti delle sue palpebre ed ecco d’un tratto i battiti crollano davanti agli scaffali, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto, da trentadue che erano: «Una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli». Sono decenni che nuotiamo come pesci, gli occhi sbarrati, consumando senza fiutare la crisi: scriteriati. Questo ci ha cambiati profondamente. In America ha distrutto il risparmio.

Ovunque, politici e responsabili finanziari sbigottiscono davanti all’incanto spezzato (alla bolla scoppiata). Vorrebbero che la stoffa di cui è fatto – l’illusione – non si strappasse mai: perché le campagne elettorali son cucite con quei fili, vivono della chimera d’un progresso ineluttabile, senza costi. L’America dopo il Vietnam respingeva le guerre: le voleva «a zero morti». Poi ricominciò a volerle, ma «a zero tasse». Importante nell’ipnosi è accaparrare sempre più, anche se mancano i mezzi: l’ipnosi, restringendo la coscienza, è il contrario della crisi. In America finanza e politica estera sono «entrate nella crisi» simultaneamente. Il 7 agosto inizia la guerra georgiana, e pure i ciechi scoprono che Washington non può alcunché: ha aizzato Saakashvili, ma senza mezzi per sostenerlo. Esattamente un mese dopo, fra il 7 e il 16 settembre, scoppia la bolla finanziaria (salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, poi bancarotta di Lehman Brothers, poi salvataggio di Aig). Per decenni si è sentito dire: ci sono compagnie troppo grosse per fallire. Era menzogna: non erano troppo grandi né Lehman, né l’impero Usa. Le bolle esistono nella finanza, in politica, nelle teste. Sono i giorni critici della nostra mente.

La trance ipnoide ha stravolto modi di vivere, di convivere con l’altro in casa e nel mondo. Ci ha chiusi nella sfiducia. Lo storico Andrew Bacevich lega tutte queste esperienze, e racconta come dall’impero della produzione l’America sia passata, ancor prima di Reagan, all’impero dei consumi (The Limits of Power, Metropolitan Books 2008). Nel tragitto si son perse (specie in America) nozioni fondanti: la nozione del debito, che nella nostra cultura non è senza colpa ed è divenuto un fine positivo in sé, incondizionato. La nozione della fiducia, senza cui ogni debito degrada. La nozione del limite. Il Padre nostro dice, in Luca 11, 2-4: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». In ebraico peccato e debito sono un’unica parola. La poetessa Margaret Atwood ricorda come il concetto di debito – essenziale nel romanzo dell’800: Emma Bovary si suicida perché un creditore non ripagato minaccia di rivelare il suo adulterio – sia oggi vanificato (Payback: Debt and the Shadow Side of Wealth, Toronto 2008). Soprattutto in America, le banche spingono all’indebitamento, più che a prudenza e risparmio. Scrive Zygmunt Bauman che un debitore che vuol restituire puntualmente (che «pensa al dopo») è sospetto: è «l’incubo dei prestatori». Non è «di alcuna utilità», perché il debito riciclato è fonte prima del loro profitto costante.

Ma il debito sconnesso da fiducia non è pungolato solo da banche o Wall Street. È un ottundersi generale dei cervelli, è l’ebete pensare positivo che il governante invoca con linguaggio sempre più pubblicitario, sempre meno politico. Main Street – che poi siamo noi, cittadini e consumatori – è vittima tutt’altro che innocente di Wall Street. Come nel Grande Crollo del ’29 descritto da John K. Galbraith, siamo affetti da una follia seminale (seminal lunacy) che accomuna potenti e milioni d’impotenti. Per questo è così vacuo il politico che incita a ricominciare i consumi come se niente fosse. Il suo dichiarare, i linguisti lo definiscono performativo: basta dire «la crisi non c’è», e la crisi smette di essere (le dichiarazioni performative sono predilette da Berlusconi). I politici sono responsabili, avendo ceduto a un mercato senza regole. Ora intervengono, ma senza curare la fonte del male. La crisi, cioè la svolta trasformatrice, è rinviata.

Naturalmente hanno le loro ragioni: il crollo dei consumi farà male. Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley Asia, ricorda che comporterà disoccupazione dilatata, ulteriori cadute dei redditi e del valore delle case, aumento dei debiti, credito scarso. Ma qualcosa di non negativo può nascerne: un rapporto col debito più realistico e leale, una fiducia riscoperta, un consumo adattato alle possibilità (New York Times, 28 novembre).
Crisi vuol dire decidere, a occhi non sbarrati come la massaia del ’52 ma aperti: sul peggio sempre possibile, sulle bugie del pensare positivo, sulla duplice responsabilità verso la Terra che roviniamo, e verso i figli cui addossiamo i nostri debiti. Terra e figli sono i nostri discendenti: ignorarli perché i loro tempi son più lunghi dei nostri e perché non abiteremo il loro mondo (un mondo con meno petrolio, meno automobili) è senza dignità e chiude speranze altrui. Crisi è sottoporsi al giudizio, al processo. È ora che il processo cominci. (Beh, buona giornata).

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La cena che si è fatta beffe dei lavoratori di Alitalia.

In gran spolvero, l’altra sera a Villa Madama sono convenuti i nuovi padroni della Cai, la cordata dei “patrioti”, come sono stati definiti dal presidente del consiglio gli industriali italiani che hanno rilevato Alitalia. Ignari anche del solo senso della decenza, auto di lusso con autisti e scorte al seguito sono sfilate di fronte a un paio di centinai di lavoratori, andati lì a protestare contro questo sfoggio di ottimismo sulla loro pelle, questa sfacciata esibizione di potere politico ed economico. Un pessimo esempio di tracotanza, in periodo di crisi che consiglierebbe, almeno, un poco di sobrietà. Uno schiaffo umiliante sulla faccia di undicimila lavoratori, ai quali si stanno recapitando le lettere di messa in cassa integrazione a zero ore.

Mentre si procrastina di data in data la partenza della nuova compagnia e quindi le lettere di assunzione ancora non sono state spedite, la condizione materiale e psicologica dei lavoratori di Alitalia è molto vicina al dramma. Proprio mentre si alzavano i calici a Villa Madama, migliaia di persone si stanno chiedendo che razza di Natale passeranno loro, i loro figli, i loro famigliari.

Ho parlato al telefono con Paolo Maras, segretario di Sdl, uno dei sindacati di base che si è opposto al famigerato “Lodo Letta”. Mi ha detto cose che mi hanno messo di cattivo umore: mi parlava di uomini fatti e di donne con figli a carico visti piangere lacrime di rabbia e impotenza, agitando quelle lettere, come fossero tante sentenze di condanna definitiva all’ espulsione dal mercato del lavoro.

Mentre il capo del governo prometteva ai suoi ospiti tanti futuri guadagni dall’operazione Cai, e forse ha calcato la mano proprio perché qualcuno di loro non si sfili all’ultimo momento, come pare sia intenzionato a fare, ai piloti, agli assistenti di volo, ai tecnici, agli impiegati, agli operai e agli addetti aeroportuali non rimane che prendere atto di essere stati le cavie di un laboratorio, il cui esperimento politico e sociale rischia di essere esportato anche in altri settori imprenditoriali.

Alitalia era un azienda a partecipazione statale, la nuova compagnia è una azienda a “partecipazione governativa”, che ha violentato le relazioni industriali, ha messo alla gogna il sindacato, ha spazzato via diritti acquisiti dai lavoratori, compreso il riconoscimento dell’anzianità del servizio prestato in Alitalia. Se in tutto il mondo l’economia globalizzata sta cercando di uscire dalla crisi economica, riformando, in tutto o in parte il teorema “meno stato, più mercato”, in Italia si sperimenta una nuova formula: “meno stato, più Berlusconi”. Questo laboratorio politico e sindacale si è avvalso di una enorme macchina propagandistica, di complicità oggettive di gran parte dei media, di un tacito, quando non smaccatamente esplicito consenso trasversale, fin dentro le forze dell’opposizione parlamentare per far passare i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali come corresponsabili e complici del fallimento della compagnia.

Oggi che quei lavoratori sono stati decimati dal plotone d’esecuzione di norme e regole del nuovo contratto, che non si sono neppure volute discutere con i sindacati, alla maggioranza degli esclusi non si riconosce nemmeno l’onore di aver fatto per anni il loro dovere di professionisti, di essere stati il vero legame con la clientela di Alitalia. Quella clientela che verrà trattata con la stessa moneta con cui si sono trattati i dipendenti, come dimostrano le deboli raccomandazioni dell’Antitrust in materia di tariffe e di tratte.

Nella cena di Villa Madama si è consumato un pasto macabro, il conto salato lo pagheranno i cittadini, i passeggeri, i futuri dipendenti della nuova compagnia. Ma soprattutto il conto lo pagherà la democrazia sindacale del nostro paese, l’intero movimento dei lavoratori italiani. In un paese che vanta più di mille morti sul lavoro nel 2008, si è voluto aggiungere il sovrapprezzo della pulizia etnica contro i lavoratori del trasporto aereo, i lavoratori precari in prima fila.

Il presidente del consiglio ha detto ai suoi ospiti di Villa Madama che la Cai sarà un nuovo asset capace di intercettare lo sviluppo del turismo da e verso l’Italia: parole “patriottiche” che nascondono, neanche poi tanto, l’augurio che l’esperimento Cai tracci la nuova rotta che dovranno prendere in futuro le relazioni tra Capitale e Lavoro. Si tratta di un piano di volo che prevede una precisa rotta di collisione, dalla quale i lavoratori ne escano con le ossa rotte, la dignità offesa, il futuro inesistente.

Alla cena di Villa Madama si è inaugurata in Italia la teoria della lotta di classe al contrario. Beh, buona giornata.

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Perché il governo di destra non è all’altezza della crisi.

Pubblico un ampio stralcio di un articolo del fondatore de La Repubblica, tratto da repubblica.it. Mi sembra la fotografia molto nitida dell’atteggiamento politico del governo italiano di fronte alla crisi economica attuale. La domanda è: perché l’attuale governo non è all’altezza della crisi? Credo la risposta sia: chi è politicamente figlio del neoliberismo, chi ha creduto fermamente nel paradigma “meno stato, più mercato”, chi praticato la “finanza creativa”, chi ha osannato il susseguirsi delle “bolle speculative” come contributo alla crescita economica, chi ha fatto degli stilemi del capitalismo senza regole la sua idea-forza non può guidare il Paese fuori dalla crisi, senza creare ulteriori disastri politici, sociali ed economici. Chi è parte del male, può essere la medicina contro la malattia? Beh, buona giornata.

Campane d’allarme
e trombe stonate
di EUGENIO SCALFARI

NON c’è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.

Due hanno dimensioni nazionali e sono l’allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell’economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.

La stampa americana parla ormai correntemente di “great depression, part 2” riferendosi a quella del ’29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l’Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l’industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell’Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.

Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.

L’effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull’occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un’accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.

Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l’apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.

Tra tanti germi negativi che l’America ha già disseminato nel resto dell’Occidente, l’effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?

Joseph Stiglitz in un’intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.

Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all’opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.

Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all’interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.

Ricordo a chi non lo sapesse o l’avesse dimenticato che fu l’allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un’imposta unica basata sui consumi e un’imposta patrimoniale di successione che al di là d’una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un’aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?

* * *

Il nostro governo e il nostro ministro dell’Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici “sono in sicurezza”. Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.

Quest’ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l’euro senza il quale staremmo da tempo sott’acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.

Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell’evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l’abolizione dell’Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l’anno; l’Alitalia tricolore è costata all’erario 3 miliardi (se basteranno).

Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un’elemosina di 6 miliardi “una tantum” alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all’Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).

Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po’ meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).

Il peggio deve venire dice Tremonti e ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c’è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell’Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all’opposizione. Per Tremonti la via d’uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.

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La crisi e le imprese. Allegato 3° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

Un primo concreto passo avanti.

Di Alberto Orioli, da sole24ore.com

 

Se l’algido linguaggio legislativo lasciasse spazio ai sentimenti, il decreto varato ieri si intitolerebbe: «Disposizioni urgenti sulla fiducia e l’ottimismo di Stato». Almeno questo è l’obiettivo del progetto neo-keynesiano messo a punto da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Ma i fatti e il contesto rendono molto difficile forzare le cose dell’economia e tantomeno le emozioni collettive anche per chi, con tenacia, persegue la politica della positività (e del consumo).
L’Europa ha scelto la via di un semi-bluff, ben presto smascherato. Il piano Ue, un agglomerato di fondi nazionali – il cui totale rischia di diventare meno della somma degli addendi – invece di creare speranza rischia di indurre l’effetto contrario e di innescare una guerra tra poveri nei Paesi di Eurolandia. La scelta di Londra di abbattere l’Iva e la tentazione di Berlino di aiutare l’auto tedesca rischiano di dare un pericoloso segnale di “liberi tutti” proprio mentre servirebbe una politica coordinata per gestire la svolta verso quella green economy che diventerà, invece, il vero cantiere dell’America di Obama. Una possibile crisi nella crisi di cui l’Europa porta tutta la responsabilità.Il Governo di Roma, con l’annuncio fatto a Washington di un maxi-piano da 80 miliardi che univa passato, presente e futuro, ha reagito d’impulso con una risposta mediatica a uso del G-20 (dove peraltro Sarkozy ha esibito dati su una crescita del Pil assai “sospetta”). Per coerenza ieri Berlusconi e Tremonti l’hanno ricordato, anche se hanno dovuto spiegare che si tratta di interventi diversi e non direttamente sommabili. Il decreto, in realtà, più pragmatico e consono a questi tempi di economia della sobrietà, mette in campo 6 miliardi “reali” immediati e ne promette 25-30 per grandi interventi entro il 2013 se andrà a buon fine l’operazione (storica) di riprogrammazione dei fondi per le aree sottoutilizzate. Con il piano Barroso se ne rimettono in gioco ancora 5, altrimenti persi.

Il Governo ha rinunciato a forzare i margini sul deficit che la Ue comunque ci consentirebbe: risorse in più per mezzo punto di Pil (pari a 8 miliardi) non avrebbero destato scandalo e non è certo che avrebbero nemmeno causato i paventati contraccolpi sugli spread dei titoli di Stato. Ma tant’è. Tremonti, con coerenza da uomo delle istituzioni tanto più rispettabile perchè scomoda, rimane attestato sul deficit zero nel 2011. E disegna il canone aureo dell’economia sociale di mercato cui, da qualche tempo, si ispira: un mix tra misure assistenziali e per la famiglia (3,6 miliardi), programmi di sviluppo e investimenti (16,5 miliardi) e azioni fiscali per le imprese (2,4 miliardi).

Il Governo ritiene di avere risorse sufficienti. È augurabile che sia nel giusto, altrimenti ci troveremo presto senza benzina. L’Iva è in calo e anche il gettito Ires prevedibilmente fletterà; la Robin Hood tax non ha portato nelle casse pubbliche tutto il gettito previsto, ma probabilmente la metà. Il decreto promette sconti sull’Irap e limature agli acconti Ires (non Irpef), un sistema di recupero dei crediti delle imprese verso lo Stato e risparmi virtuali dovuti a un nuovo pacchetto di semplificazioni burocratiche. Non c’è molto di più. Tantomeno la detassazione degli utili reinvestiti in ricerca e tecnologia: sarebbe stato un altro importante segnale di sistema su quale dovrà diventare il modello di sviluppo dell’Italia. Forse arriverà in futuro, forse no.

L’evidente sbilanciamento a favore del capitolo infrastrutture – scelta comunque positiva – sarà anche il campo di sperimentazione del nuovo ruolo dello Stato. Il motore principale è la Cassa depositi e prestiti che cambia natura e capacità di azione perché userà senza vincoli il risparmio postale. La Cdp, poi, è stata candidata a diventare fondo di garanzia pubblica per l’azione calmieratrice sul credito e, forse in un secondo tempo, anche testa di ponte nelle partecipazioni ex bancarie al capitale della Banca d’Italia. La Repubblica diventerà poi compratore di ultima istanza per i bond delle banche necessari a riportare su ratio più competitivi il patrimonio degli istituti italiani. È chiara la nuova impronta interventista, ma nella visione tremontiana c’è un’idea di fondo di un soggetto pubblico di supporto e di correzione, senza interferenze (apparenti) nella gestione di mercato delle imprese, senza esercizio diretto (apparente) di poteri operativi. Come dire: una moral suasion “armata” o “spintanea”, come quella che sarà esercitata – parola di Tremonti e Calderoli – per fermare la dinamica delle tariffe.

L’accelerazione delle procedure di investimento per le grandi infrastrutture è una delle novità più rilevanti. Ci hanno provato in tanti, con poco successo. Si vedrà se l’aggiramento dei ricorsi blocca-opere, previsto dal decreto, andrà a buon fine. È più che auspicabile.
È comunque anche questa la via migliore per ritrovare la fiducia smarrita; per paradosso infatti non sono i provvedimenti eccezionali a infondere l’ottimismo dei comportamenti (anzi confermano l’idea dell’emergenza e lasciano scorie di ansia) ma i segnali di una nuova ordinarietà prosperosa. Per tradurre poi la fiducia in consumi (non sono la stessa cosa) serve il reddito, che passa anche da investimenti pubblici e privati e dalle aspettative positive sull’occupazione. E si alimenta anche con i bonus e le elargizioni strettamente assistenziali – pure presenti nel provvedimento – anche se non è chiaro se queste finiranno a risparmio o a consumo. L’impatto più duro della crisi si dovrebbe sentire nella prima metà del prossimo anno. Per quell’evenienza dovrebbero essere attivati gli ammortizzatori sociali rifinanziati: se però le conseguenze saranno mezzo milione di posti di lavoro persi, anche il nuovo sforzo si rivelerà poca cosa. Sarà allora, probabilmente, che il cosiddetto “fondo Sacconi” dovrà essere rabboccato o con parte dei fondi per il Sud o con nuove risorse. Magari tentando un’ulteriore riforma che porti finalmente a un sistema di ammortizzatori sociali universali, non più legati a scelte discrezionali politico-sindacali e semmai ancorati a reali programmi di riqualificazione e reinserimento.
Sarebbe un’altra di quelle riforme “normali” che permettono a un Paese di generare fiducia duratura. Per non parlare di quale effetto tonificante potrebbe avere la firma dell’accordo sulla riforma della contrattazione, unico strumento adatto ad accrescere e redistribuire la produttività, vera lacuna di sistema dell’Italia. È fondamentale, a questo scopo, l’arricchimento della dote finanziaria destinata agli sgravi fiscali per il salario di secondo livello per i quali è stato fatto un primo passo.

Si riapre – ed è un bene – il capitolo sull’evasione fiscale. Le risorse, in effetti, sono lì, sommerse da sempre. Ci sono 100 miliardi su cui esercitarsi. In attesa di risultati a sei zeri magari si può cominciare vigilando sulla social card: sarebbe grave se una tessera destinata ai più poveri finisse ai più furbi. (Beh, buona giornata).

 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi e il ceto medio. Allegato 1° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

“Ceto medio in crisi, alla ricerca
della cittadinanza sociale perduta”

Negli Usa il piano di salvataggio della middle class è tra i principali impegni di Obama
E in Italia? E’ difficile già tracciare i confini e identificare le ragioni del malessere
di ROSARIA AMATO da Repubblica.it

Il presidente neoeletto degli Stati Uniti ha garantito che “un piano di salvataggio della classe media” sarà tra le sue priorità, una volta insediato alla Casa Bianca. Ma di “malessere del ceto medio” si parla da anni in tutti i Paesi occidentali, anche se le soluzioni stentano ad arrivare. “Ceto medio. Perché e come occuparsene”, è il titolo del volume, edito da Il Mulino, che raccoglie i primi risultati delle ricerche condotte da un gruppo di lavoro costituito presso il Consiglio italiano per le Scienze Sociali, del quale fanno parte 12 ricercatori e 18 borsisti. Il progetto è coordinato dal sociologo Arnaldo Bagnasco.

Professore, ma perché è così importante salvare il ceto medio?
“Quello che sappiamo è che una crisi pesante del ceto medio ha sempre giocato contro la democrazia. Certo, è rischioso fare confronti con il passato, ma per esempio quando in Germania c’è stata una forte deriva in senso totalitario, negli anni che portarono Hitler al potere, certamente erano coinvolte fasce di contadini e operai, ma il punto fondamentale era che c’era un ceto medio diseducato politicamente, che non era in grado di fornire alcun appiglio culturale. Dobbiamo avere paura di un ceto medio culturalmente e politicamente disorientato”.

Cosa ha innescato la crisi del ceto medio?
“Abbiamo avviato le nostre indagini circa un anno fa. La nostra idea è stata quella secondo la quale si capisce molto dei cambiamenti attuali se si comincia a guardare nel mezzo della scala sociale. La questione del ceto medio è stata sollevata innanzitutto da inchieste giornalistiche, e non solo in Italia, soprattutto negli Stati Uniti, dove la middle class è il perno non solo della società, ma anche dell’idea di società. Il sogno americano consiste proprio in questo, nella possibilità per tutti di acquistare una posizione sicura e ragionevole nella società. Negli Stati Uniti questa prospettiva è andata in crisi soprattutto con lo sfrenato liberismo di mercato. Per cui c’è stato un allungamento della parte della struttura sociale che era nel mezzo: molti sono scesi verso il basso, pochi sono schizzati verso l’alto. E’ successo anche in Italia. Per cui è entrata in crisi l’idea di ceto medio come condizione di piena cittadinanza sociale”.

Chi fa parte del ceto medio oggi?
“Il ceto medio costituiva il 60 per cento della popolazione; adesso questa percentuale è un po’ scesa, è tra il 50 e il 60. Include autonomi o dipendenti, del pubblico o del privato. Un insieme di popolazione che, sulla base di risorse proprie o con il contributo dei sistemi di welfare, rispetto al passato ha raggiunto condizioni di sicurezza, un buon reddito, la garanzia sulla cura della propria salute e la tranquillità per quando si diventa anziani. Una parte di questa popolazione adesso si considera a rischio, è in difficoltà. Ed è difficile ricollocarla, perché non può essere definita come classe popolare o classe operaia: si tratta di ceto medio in difficoltà. Il problema riguarda soprattutto i giovani, che avvertono un ingresso difficile nella vita adulta”.
Ma è soltanto lo status economico che definisce il ceto medio, e in questo caso le soluzioni alla crisi sono quindi solo di tipo economico?
“Quando si ragiona sul ceto medio, si fa riferimento non soltanto a livelli di reddito e di consumo, ma anche a scelte precise. C’è un’importante questione di status, abitudini alle quali il ceto medio difficilmente rinuncia: le vacanze, gli spettacoli, uscire a cena fuori, le dimensioni culturali sono molto importanti, per questo vanno studiate bene a fondo”.

E dunque quali dovrebbero essere le linee fondamentali di una politica a favore del ceto medio? Se negli Stati Uniti il nuovo presidente Obama sembra saperlo molto bene, in Italia si attendono proposte.
“Con questi nostri primi risultati intendiamo orientare delle discussioni pubbliche che possano aprire prospettive in relazione alla politica. Nei prossimi mesi abbiamo in programma una serie di iniziative pubbliche, nel corso delle quali discuteremo con vari interlocutori delle implicazioni delle nostre ricerche. Tenendo presente che nel ceto medio c’è di tutto: Sylos Labini parlava di ‘topi nel formaggio’ per indicare le classi chiuse in se stesse. Ma c’è anche un ceto medio di sviluppo, fatto soprattutto da artigiani e piccoli imprenditori. Ci sono gli immigrati di ceto medio, o che lo stanno diventando. Nella classe media sono entrati anche gli operai. Linee diverse, ma che possiamo ricomporre in una politica complessiva”. (Beh, buona giornata).

 

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Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male.

Il pacchetto anticrisi varato in dieci minuti dal governo italiano venerdì scorso è irritante, più che deludente. Di fronte a una crisi finanziaria ed economica di dimensioni ciclopiche, il governo ha fatto quello che gli è riuscito meglio fare: ha fatto finta. C’è una sproporzione spaventosa tra la realtà reale e la realtà raccontata durante la conferenza stampa del capo del governo e del ministro del Tesoro, dopo la riunione lampo del consiglio dei ministri. Basta confrontare nel concreto quello che succede nel mondo dell’economia globale per rendersi conto di come e quanto il governo italiano non si è dimostrato all’altezza della crisi.

Barak Obama si appresta a prendere la guida degli Usa, e già sappiamo qual è la sua visione della politica economica e delle misure che la sua amministrazione intende adottare per fronteggiare la crisi. Abbiamo visto la mole e la complessità delle misure adottate dal governo cinese. Abbiamo guardato come ha immediatamente operato il primo ministro inglese Gordon Brown. Abbiamo ascoltato la cancelliere Merkell e il premier Sarkozy indirizzare la Ue al superamento dei rigidi parametri, al fine di recuperare risorse da immettere nelle economie. Si vede che quando i nostri vanno in giro per summit politici ed economici mondiali proprio non capiscono quello che sentono dire dagli altri capi di stato e di governo, sono troppo occupati a fare cucù, a divellere leggii, a fare le corna o a confezionare gaffe di dubbio gusto. Prestare attenzione ai contenuti, quello non è il loro forte.

Se prendiamo in esame le cosiddette misure ci sarebbe da ridere, sembrano la parodia di uno di quei cominci di cui tanto ci si lamenta. Ma c’è poco da ridere: provate a dividere i bonus per le famiglie per i componenti e poi per 365 giorni: a ciascuno rimane in tasca neanche la somma per prendere un caffè al giorno al bar. E’così che si rilanciano i consumi? O attraverso la social card, tanto compassionevole, quanto insultante e umiliante? I versamenti dell’Iva solo a fattura pagata non è una misura, è una proposta che deve essere approvata dalla Commissione europea. Il finanziamento delle grandi opere: quanto è rimasto in cassa di quegli stanziamenti europei accantonati? E fra quanti anni partiranno quei cantieri? Il 5% calcolato su uno stipendio mensile di bonus una tantum per i lavoratori precari che hanno perso il lavoro è un ammortizzatore sociale o una beffa ai danni di chi ha gli stipendi più bassi d’Europa? Il tetto del 4% per i mutui al tasso variabile rischia di essere virtuale, visto che già è al 3,25 e ci aspetta una altro taglio di mezzo punto dalla Bce. E quelli a tasso fisso, che sono la maggioranza?

Non può apparire fuori luogo che il più importante sindacato italiano abbia confermato lo sciopero generale: il pacchetto anticrisi, paradossalmente ne ha rafforzato le ragioni. Mentre ne escono nettamente indebolite le confederazioni che si erano dimostrate più disponibili col governo: oggi sono semplicemente spiazzate dalla pochezza del pacchetto. Anche Confindustria sembra delusa e scettica che queste misure siano un volano per resistere ai morsi della crisi. C’è da aspettarsi che le lame del saving incidano ancora più in profondità nelle aziende italiane, con dure conseguenze occupazionali, oltre che sulle strategie di espansione dei mercati.

Le organizzazioni sindacali di base, forti in alcuni settori, come i trasporti, la scuola e il pubblico impiego hanno già annunciato l’adesione allo sciopero generale. E’facile prevedere che anche l’Onda, il nuovo movimento degli studenti confluirà nelle piazze il 12 dicembre, giorno dello sciopero generale. Non potrebbe essere altrimenti: il pacchetto del governo, che arriva dopo i tagli, rischia di essere una palese conferma dello slogan degli studenti: la crisi non la paghiamo noi. Sarà forse una manifestazione episodica, ma molto fa pensare che si verificherà una saldatura tra lavoratori dipendenti, studenti, operai e ceti medi impoveriti: una risposta politica alla politica che non sa dare risposte sociali alla crisi.

Il combinato disposto dagli avvenimenti mette ancora più sotto i riflettori l’incapacità dell’opposizione parlamentare e del Pd, il partito più numeroso tra i banchi del Parlamento: incapaci di prefigurare uno scenario che guardi oltre la pochezza del governo nel gestire la crisi, si dimostra allo stesso tempo incapace di immaginare una sintesi politica delle proteste contro la politica economica del governo.

Patetici sono i peana all’ottimismo dei consumatori e alla fiducia nel mercato. Suonano poco convincenti, sembrano sermoni fideistici, soprattutto quando vengono pronunciati come chiosa del pacchetto anticrisi, già vuoto di suo e, in questo modo, incartato male dalla demagogia.
Se non si spendono soldi per far girare l’economia, vuol dire che non si ha fiducia nella ripresa economica. La domanda è: se il governo non si fida del mercato, perché dovrebbero fidarsi i consumatori? Non è che uno va in un negozio paga il conto col proprio ottimismo.

Ci sono limiti oltre i quali la propaganda perde la sua efficacia: i sorrisi del governo diventano presto il ghigno del potere. Il fatto è che chi è stato eletto ha pensato di andare al potere, più che di andare al governo. Confondere le due cose è facile e divertente quando le vacche sono grasse. Ma se è vero come è vero che questa non è una crisi ciclica ma è la crisi verticale del neo-liberismo su scala globale, accorgersi di non saper governare la crisi rischia di diventare di colpo un’esercitazione autoritaria, inversamente proporzionale all’inefficacia dell’azione di governo. L’arroganza non colma l’impreparazione. Semplicemente la peggiora. Dalla Storia vengono brutti esempi per la democrazia, bisogna stare attenti quando non si tengono in conto le sofferenze dei ceti medi.

La linea di confine tra disagio sociale e furore collettivo è sottile come un capello, ha scritto John Steinbeck, in “Furore”, romanzo ambientato negli anni della Grande Depressione, che gli valse il Nobel per la letteratura. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

G 20, il summit che convocò un altro summit.

Che hanno deciso i venti capi di stato e di governo riuniti a Washington lo scorso week end? Niente. Anzi no. La riunione ha deciso di convocare una altra riunione, alla fine di Marzo 2009.

Di fronte alla peggiore crisi finanziaria ed economica mai vista, il G 20 ha dimostrato di avere le carte in regola: chiacchiere, distintivi e arrivederci a Pasqua. Delusi? Ma no. A parte Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia in Italia, ma che a Washington rappresentava una importante organismo internazionale, a nome del quale ha detto, papale papale, che non è che l’inizio, perché la crisi sarà ancora peggio delle previsioni, tutti i rappresentanti dei paesi detentori dell’80 per cento della ricchezza mondiale sono usciti dal G 20 abbastanza rinfrancati: nella dichiarazione finale si legge un franco e leale “mal comune, mezzo gaudio”.

La qual cosa è comprensibile. Fatte le debite differenze, tutti i venti del G 20 sono rappresentanti di paesi che li hanno mandati al governo nell’era matura del neoliberismo economico, hanno vinto elezioni con lo slogan “meno stato, più mercato”. Non è che adesso, così, di punto in bianco possono cambiare idea. Ognuno aspetta che siano gli altri a fare la prima mossa: va avanti tu, che a me scappa da ridere.

Il più sorridente di tutti era il padrone di casa: Bush sembrava Totò nella famosa gag, che finiva con la celebre frase: “Che me ne frega a me, che sono Pasquale, io?”. La crisi può attendere: il 20 Gennaio si insedia Barak Obama. Ha voluto la bicicletta, che se la pedàli lui.

Nel frattempo, consumatori di tutto il mondo, unitevi: stringete la cinghia e sperate in bene.

Da noi, sono stati annunciati 80 miliardi di euro di misure anticrisi. Annunciati, mica stanziati. In queste ore si sta facendo il processo alle intenzioni dello stanziamento annunciato. Siamo alle solite: io annuncio, tu discuti sull’annuncio e alla fine io faccio quello che mi pare, con la “gagliardia di un ventenne”.

Una cosa, fin qui è chiara: il governo italiano aveva promesso misure entro Natale. Per il momento le ha annunciate, ha mantenuto la promessa dell’annuncio annunciato. Che è la cifra stilistica che va per la maggiore, non solo in Italia, stando a quanto pare sia successo anche al G 20.

E allora, suvvia, bando alle ansie, basta analisi catastrofiche, finiamola con le fosche tinte. Temi per il tuo posto di lavoro? Non ce la fai a pagare i mutui? Stai riducendo ai minimi storici la tua capacità di consumare? Hai la sensazione che ti stiano rubando il futuro? Fa come hanno fatto al G 20: rimanda tutto a fine marzo 2009.

Siate ottimisti, per dio: quest’anno, invece che i regali di Natale, scambiatevi direttamente gli auguri di Buona Pasqua. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La recessione? Tranquilli che “mo’ viene Natale”.

Domenica scorsa, a borse chiuse, la Cina ha tirato fuori 586 miliardi di dollari di risorse statali per i prossimi due anni, l’equivalente del 20% del Pil cinese. Secondo Federico Rampini di Repubblica il paragone non va fatto coi 700 miliardi del piano Paulson destinati a ricapitalizzare le banche, ma coi 200 miliardi di dollari di sostegno alla crescita varati quest’anno negli Usa. Secondo Pino Longo, corrispondente Rai da Pechino, la cifra stanziata dal governo cinese, paragonata al tenore di vita dei cittadini cinesi, equivarrebbe a 2000 miliardi di dollari.

 “Negli ultimi due mesi – si legge nel comunicato diffuso ieri a Pechino – la crisi finanziaria globale ha avuto un’accelerazione giorno dopo giorno. Di fronte a questa minaccia dobbiamo aumentare gli investimenti pubblici in modo energico e rapido”.

Si  preannuncia una “politica fiscale aggressiva” fatta di maggiore spesa pubblica e sgravi d’imposte, insieme con una “politica monetaria espansiva” (nuovi tagli dei tassi, dopo che la banca centrale ha già ridotto per ben tre volte il costo del denaro da metà settembre). La terapia shock sarà mirata anzitutto a “migliorare le condizioni di vita della popolazione, perché possa aumentare i consumi”.

 

La terapia d’urto includerebbe nuovi investimenti pubblici nell’edilizia popolare, l’accelerazione della costruzione di ferrovie e aeroporti; investimenti nelle energie rinnovabili; spese sociali a favore delle fasce più indigenti; prestiti alle piccole e medie imprese; detassazione sugli acquisti di macchinari industriali. Insomma, un vero e proprio New Deal, in salsa cinese.

Mentre negli Usa si contano i giorni dell’insediamento di Barak Obama, e nel frattempo si cerca di capire se anche la sua nuova amministrazione vorrà e saprà prendere di petto la situazione economica, come il neo presidente ha già detto nella sua apparizione pubblica dopo la vittoria elettorale, il resto del mondo sembra intontito, come la lepre abbagliata dai fari di un’auto. L’ubriacatura neoliberista sembra dura da digerire.

E’ il corso il G20, ma finora l’unica notizia degna di nota è il richiamo in patria del ministro dell’economia cinese domenica scorsa, per varare appunto il piano cinese anti-recessione.

In Italia? A parte tagli alla spesa pubblica, che stanno facendo protestare il mondo della scuola e i dipendenti pubblici; a parte la vicenda Alitalia, che caricherà il contribuente di ulteriori enormi oneri, e che al contempo ha creato una situazione libanese tra i dipendenti; a parte i tagli alla sicurezza e alla giustizia; insomma, a parte i tagli che scopriremo quando la Finanziaria sarà varata,  il governo italiano sembra imbambolato.

Cala la produzione industriale, calano i consumi, si stanno perdendo migliaia di posti di lavoro, si stanno abbandonando al loro destino migliaia e migliaia di lavoratori precari, proprio mentre il Parlamento si accinge all’esame della legge Finanziaria discussa in nove minuti e mezzo al Consiglio dei ministri, nove settimane e mezzo fa, prima della crisi dei mutui, prima dell’arrivo della recessione, prima della misure straordinarie prese negli Usa e in Cina.

Il ministro Tremonti ha detto: “Da qui a Natale tutti i paesi europei prenderanno i loro provvedimenti”. Ci fa piacere.

Nel frattempo, per ingannare la recessione, potremmo metterci  a cantare: “Mo’viene Natale, nun tengo denare, me leggo ‘o giurnale e me vaco a curcà! . Beh, buona giornata.

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La crisi economica? Prima le donne e i bambini.

Nel suo intervento al convegno celebrativo la giornata del risparmio, Giulio Tremonti ha detto: “Dobbiamo portare al primo posto l’etica e puntare sui valori e non sugli interessi”. Bello a dirsi, però in Italia sta succedendo l’esatto contrario.

 

La legge 133, “la legge Gelmini” taglia fondi e personale alla scuola primaria. Sordi a ogni istanza non solo di modifica, ma nemmeno di dibattito il governo ha deciso, il Parlamento ha ratificato. Considerando che la stragrande maggioranza delle maestre, costrette a diventare “maestro unico” sono appunto donne, ecco chi sono le prime vittime del taglio del personale docente. Contemporaneamente, altre donne, cioè le mamme lavoratrici  subiranno il taglio da 40 a 24 le ore scolastiche nelle elementari. I loro bambini, a parte la decurtazione delle ore dedicate alla loro istruzione,  dunque alla qualità della loro crescita, subiranno il prevedibile scompaginamento della loro vita: chi lo va a prendere a scuola? Chi me lo tiene nel primo pomeriggio? Quanto mi costa una baby sitter? Ecco che in un colpo solo, a maestre, mamme e ai loro bambini è stata rovinata la vita, oltre che colpita la loro economia. Dunque, si è puntato sugli interessi di bilancio, niente affatto su l’etica e sui valori.

 

Nel comparto dell’editoria e della pubblicità soffiano venti di crisi, a causa proprio della crisi, che riduce copie vendute, raccolta pubblicitaria, come conseguenza del taglio della spesa nella comunicazione commerciale. In questi settori le donne sono in maggioranza, anche se, come è noto, con ruoli quasi mai dirigenziali. Chi sta lasciando il posto di lavoro, o si appresta ad essere costretto a farlo, per via dei tagli al personale? Loro, le donne, con buona pace dell’etica e dei valori.

 

La Cai, la compagnia aerea italiana, quella cordata di industriali italiani che ha “coraggiosamente” salvato Alitalia, secondo i dettami delle promesse elettorali del governo in carica, ha in animo di non procedere all’assunzione delle donne con prole, perché, proprio per questo,  avrebbero l’esenzione dal lavoro notturno. Ancora una volta, le prime vittime degli interessi economici sono le donne e i loro bambini. Ancora una volta gli interessi prevalgono, senza curarsi degli aspetti più odiosi, quelli che contrastano palesemente con l’etica e i valori.

 

Secondo Giuliano Amato, politico italiano di lungo corso, già presidente del consiglio e più volte ministro, grazie alla recessione avremo presto un milione di disoccupati, contemporaneamente la cassa integrazione guadagni è in riserva, per non dire a secco. Quante saranno le donne coinvolte?

 

Dovrebbe potercelo dire il ministero delle pari opportunità, ma  la ministra competente non può, ha altro da fare e da pensare.  Si deve occupare della sua immagine, deve fare la portavoce di un governo di neodestra, neodecisionista e neoliberista, che aiuta banche e grandi imprese, oltre che se stesso e i propri interessi e abbandona piccole imprese, famiglie e lavoratori dipendenti al ruolo di agnelli sacrificali della recessione economica. A cominciare proprio dalla donne e dai bambini. Caro signor ministro dell’economia, invece che a un consesso di banchieri, glielo vada a dire a loro che “dobbiamo portare al primo posto l’etica e puntare sui valori e non sugli interessi”. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Alitalia: oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri.

Dopo mesi in cui la “cordata” ha giocato al tiro alla fune, finalmente Cai, compagnia aerea italiana ha  presentato il 31 ottobre la sua offerta di acquisto al Commissario straordinario di Alitalia. Tra le condizioni dell’esecuzione sono indicate (fonte: Agenzia Ansa del 1 novembre):

 

1) L’ottenimento da parte della competente Autorità Antitrust di un provvedimento che confermi la compatibilità dell’operazione notificata ai sensi della normativa vigente, ovvero che non abbia prescritto impegni o misure diversi da quelli proposti dall’Acquirente o che risultino sostanzialmente incompatibili con il piano industriale presentato dall’Acquirente o che comportino una sostanziale variazione delle pattuizioni del contratto;

 

(*) Traduzione: sono le norme antitrust che si devono piegare alle esigenze della Cai, non Cai che deve comportarsi secondo le norme antitrust.

 

2) L’ottenimento di provvedimenti da parte della Commissione europea con cui si attesti che eventuali aiuti di Stato, istituiti a beneficio del Gruppo AZ prima della stipula del contratto, non comportino a carico dell’Acquirente alcun obbligo di restituzione;

 

(*) Traduzione: la restituzione del prestito ponte di 300 milioni di euro non è a carico di Cai

 

3) Nessun elemento di aiuto, sia riconducibile alle previsioni e/o esecuzione del contratto;

 

(*) Traduzione: tutto quello che il governo ha promesso a Cai, a cominciare dalla decontribuzione per la riassunzione dei dipendenti in cassa integrazione, non va imputato a Cai come aiuto alla nascita della nuova compagnia.

 

4) A seguito dell’eventuale nomina da parte della Commissione europea di un Monitoring Trustee non venga sollevata alcuna contestazione, obiezione o riserva nei riguardi dell’operazione oggetto del contratto o di sue specifiche modalità o condizioni, tale da comportare un significativo pregiudizio per l’Acquirente”.

 

(*) Traduzione: il governo protegga Cai dalle nuove regole che stanno per essere varate in materia di trasparenza sulle tariffe.

 

Se tutto questo è vero, la rottura delle trattative con i sindacati avvenuta lo scorso mercoledì è stata una messa in scena, per drammatizzare la situazione e spingere il governo ad assumere ulteriori impegni a tutela di Cai.

 

La pantomima dell’ennesimo ultimatum di venerdì a palazzo Chigi altro non era che forzare la mano: e infatti, il piano, che in un primo momento si diceva sarebbe stato ritirato da Cai è stato invece presentato, dopo una telefonata tra Colaninno, presidente Cai e Berlusconi, presidente del consiglio.

La storia dei soliti  sindacati autonomi che non vogliono firmare l’accordo è stata un’invenzione teatrale.

 

Le organizzazioni sindacali confederali, che avevano probabilmente mangiato la foglia, essendo intercorsi incontri informali, ai quali non hanno preso parte le altre organizzazioni, hanno siglato non un accordo, ma una lettera di intenti del sottosegretario alla presidenza del consiglio, passato alla cronaca con il nome di “lodo Letta”, con la quale si faceva garante di accordi futuri, con l’impegno personale che  avrebbe vigilato sulla corrispondenza con le intese già sottoscritte nelle faticosa vertenza dei mesi scorsi.

 

Quella dei sindacati confederali, dunque è apparso più un placet politico all’operazione Cai-Governo, che un accordo sindacale.

 

Scrivono le cinque sigle che non hanno firmato “il Lodo Letta”, in un comunicato congiunto diffuso il 1 novembre:

1) Le sigle che non hanno sottoscritto non sono rappresentative soltanto di piloti e assistenti di volo come qualcuno vuol far credere, ma sono fortemente presenti anche tra il personale di terra.

 

2) E’ assolutamente falso che il No sia motivato da pretese riguardanti i permessi/distacchi sindacali ed è bene chiarire che proprio Cgil, Cisl, Uil e Ugl “godono” di un trattamento speciale in termini di diritti sindacali. Rispetto a questa strumentalizzazione diffidiamo chiunque a continuare con tali calunnie, passibili di denuncia per diffamazione.

 

3) Le motivazioni sono invece tutte concentrate sul numero enorme di esuberi previsti, sulle condizioni di stesura contrattuale che penalizzano i lavoratori oltre quanto era stato concordato a settembre a Palazzo Chigi, sulla condizione dei precari, sulle incertezze per il futuro di migliaia di lavoratori che dopo l’utilizzo degli ammortizzatori sociali si troveranno senza lavoro e senza pensione: questa condizione riguarda tutti i lavoratori coinvolti nel progetto CAI, personale di terra, piloti, comandanti ed assistenti di volo.

 

4) Sui criteri di “esclusione” dalle assunzioni c’è da sottolineare che essi godono di una eccessiva discrezionalità che non tiene in conto neanche delle consuete previsioni di legge, nonostante CAI usufruisca di ingenti finanziamenti dallo Stato anche in termini di decontribuzione per l’assunzione di personale in cassa integrazione.(circa 200 milioni in tre anni). Oltre quindi a “pretendere” di operare come azienda privata con i soldi dello Stato, CAI non vuole assumere neanche chi è gravato da condizioni sociali particolari o di evidente disagio (Legge 104, astensione facoltativa per maternità, esonero da lavoro notturno).

 

5) E’ assolutamente falso che il confronto tra azienda e sindacato si sia sviluppato in questo ultimo mese in modo coerente con gli impegni sottoscritti a settembre insieme al Governo: l’azienda non è mai entrata in una vera e concreta stesura tecnica ed ha sistematicamente stravolto tali impegni, producendo un risultato finale del tutto diverso dalle condizioni contrattuali che erano state concordate e sottoscritte.

Nello specifico, mentre a Palazzo Chigi gli accordi prevedevano il recepimento della disciplina contrattuale vigente in AirOne, integrata da quanto concordato in quella sede, CAI ha “imposto” una soluzione che non recepisce tale contratto di riferimento e lo peggiora sostanzialmente in molti istituti contrattuali fondamentali, contravvenendo quindi a quanto pattuito e garantito dal Governo.

 

Se questa è la situazione, c’è poco da rallegrarsi per la nascita di Cai, come compagnia di bandiera, sorta sulla macerie di Alitalia.

 

L’operazione era, è, e quel che è peggio sarà una mera operazione propagandistico-politico-affaristica, con costi alti per le casse dello Stato, da cui verranno sottratte molte risorse, altrimenti impiegabili per sostenere stipendi, consumi e piccole imprese.

 

L’operazione ha anche altri risvolti: permette di forzare le regole del mercato (vedi le condizioni poste da Cai); consente insensate relazioni industriali (vedi quanto denunciato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative del personale);  non dà alcuna garanzia di correttezza nei confronti della clientela futura della nuova compagnia (vedi il punto 4 delle garanzie chieste da Cai al Governo).

 

Perché è chiaro che quando si trattano male i dipendenti, si tratteranno male anche i clienti, cioè i passeggeri. A cominciare dal semplice fatto che sono previsti pesanti tagli di aeromobili e di tratte, senza contare la scomparsa della concorrenza sui prezzi delle tariffe tra due compagnie, Alitalia e AirOne, confluite in un una sola azienda, la cui somma è invece una sottrazione di uomini e mezzi, ma non di prezzi.

 

A questo punto, ci sono tre domande: riuscirà il governo italiano a far passare in Europa questo modo di fare una compagnia aerea, nonostante il prevedibile appoggio del Commissario ai trasporti Eu, che è un italiano e molto amico di Palazzo Chigi? Riuscirà Cai ad essere all’altezza del know-how del prossimo partner europeo, avendo scarse conoscenze in tema di trasporto aereo, non che dimostrando nei fatti poca responsabilità ed etica d’impresa? E, infine, non appaia paradossale, siamo sicuri che criminalizzare le organizzazioni sindacali di base dei piloti, degli assistenti di volo, dei tecnici e degli operai aeroportuali, al di là delle convenienze politiche e sindacali, non sia uno spreco di talenti, non solo in tema di capacità professionali acquisite in anni di esperienza, ma anche di relazione con la clientela, cioè dei passeggeri, vera grande risorsa di ogni azienda?   Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro

Shock ‘n roll.

 

La domanda pressante che ci stiamo rivolgendo in questi giorni è: che ne sarà di noi, durante, ma soprattutto dopo la più shoccante crisi  mai conosciuta dalle economie occidentali? Come al solito in Italia il dibattito è stato finora gestito male. La crisi finanziaria che ha fatto crollare tutti i mercati è stata trattata dai media alla stessa stregua del delitto di Cogne. Sulle poltroncine dei talk show televisivi, economisti di varia caratura hanno preso il posto dei criminologi che ci volevano spiegare i misteri della mente di una donna accusata di infanticidio. Come se si trattasse di colpevolisti o innocentisti, abbiamo sentito pronunciare condanne o assoluzioni del sistema capitalistico globale. In queste ore sembra prevalere la linea “garantista”:  il sistema è sano, e solo colpa di qualche “avido” banchiere, non cambiate banca, rimanete con noi. Temo, come temono milioni di risparmiatori, che le cose siano un bel po’ diverse da come vorrebbero apparire, credo anzi che gli effetti della crisi finanziaria impatteranno violentemente sull’economia reale, quella fatta dalla produzione di merci, dalla loro commercializzazione, quella dalla quale si ricavano redditi per le aziende e stipendi per gli addetti, quella che produce consumi e risparmi per le famiglie. Non si tratta di essere catastrofisti: qui la fantasia ha di gran lunga superato la fantasia. Siamo in presenza di una crisi che costerà, secondo le stime del FMI, mille e quattrocento miliardi di dollari; siamo in presenza di un effetto domino che ha attraversato l’intera rete globale dei mercati, che ha messo in discussione la tenuta dei mercati nazionali, che sta mettendo in discussione lo stile di vita attuale e futuro di milioni di famiglie nei cinque continenti.

Ad uso e consumo dell’immaginazione dei telespettatori è stato spesso invocato lo spettro della Crisi del ’29 negli Stati Uniti, dalla quale si uscì con la nascita del New Deal, varato da Roosevelt, teorizzato da Keynes e che è passato alla storia con l’esperienza del Welfare, lo stato sociale. Il fatto è che quello shock finanziario non solo ridusse sul lastrico milioni di famiglie americane, scaraventandole nella povertà, ma produsse in Europa la nascita di regimi totalitari, nonché lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la più bestiale opera di distruzione di massa, che si concluse con il bilancio di 25 milioni di morti. Noi in Italia lo stato sociale lo conoscemmo solo a partire del ‘45, anno in cui fini la guerra, fu sconfitto il Fascismo, e nacque la nostra democrazia. Dal quel momento, si sono alternati periodi di straordinaria crescita e momenti di crisi profonde, tanto che è difficile dire se lo sviluppo della nostra economia di mercato sia stato una continua crescita, intervallata da momenti di depressione ciclica, o il suo esatto contrario, cioè la continua distruzione di regole, norme, canoni, intervallata da momenti di serenità economica. Fatto sta che le classi sociali medie, che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale avevano via via ingrossato lo sterminato esercito dei consumatori di beni e servizi, a cavallo tra la fine del ‘900 e l’inizio del XXI secolo sono entrate in una spirale di sofferenza. La globalizzazione dell’economia con l’ingresso sulla scena mondiale delle potenze asiatiche ha turbato i mercati, ha condizionato la produzione di beni e la distribuzione delle merci, ha spaventato i consumatori.  L’insicurezza “percepita” è diventata reale con la crisi energetica degli ultimi mesi: l’inflazione ha ripreso a salire, erodendo i redditi, deprimendo la propensione alla spesa. E infine, eccoci allo tsunami odierno.

Chi ha ascoltato attentamente le parole di Barak Obama alla Convention democratica di Denver non può che essere rimasto profondamente colpito dal passaggio del suo speech in cui ha apertamente dichiarato la crisi che vivono i ceti medi americani: perdita del lavoro, perdita materiale della casa, fagocitata dall’impossibilità di onorare i mutui, addirittura l’abbandono delle auto nuove, per via dei costi parossistici del carburante.  E dire che non era ancora esplosa in tutta la sua virulenza la crisi, che ha provocato il fallimento a catena di molte banche americane, il tonfo storico di Wall Street e la conseguente caduta di tutte le Borse del mondo. Come nella famosa “Teoria del Caos”, quella che mette in relazione il battito d’ala di una farfalla con il tifone che devasta da un’altra parte del mondo, è successo molto semplicemente che almeno dieci milioni di famiglie americane si sono accorte che, crollando il mercato immobiliare, il valore della casa stava diventando di gran lunga inferiore al costo del mutuo acceso per acquistarla e ha semplicemente smesso di pagare le rate. Ma siccome quei mutui erano nel frattempo diventati prodotti finanziari, i famosi subprime, venduti sul mercato globale,  l’insolvenza delle rate, proditoriamente inserite nei titoli di tutto il mondo, come pezzetti di carne marcia in una salsiccia apparentemente sana ha avvelenato il mercato e  provocato il crollo dei valori di Borsa.

 

Adesso, non è che si possa rovesciare la “Teoria del Caos”, sperando che il tifone che ha investito gli Usa provochi da noi un semplice battito di ali di una farfalla.

E’vero che la crisi che ha investito l’economia americana ha insistito su una struttura sociale che è andata via via prima teorizzando, poi mettendo in pratica la quasi completa disarticolazione dello stato sociale. Alla progressiva polverizzazione delle regole dei mercati è corrisposta l’eliminazione dei pilastri del Welfare: quell’assioma che è andato sotto il titolo “Meno Stato, più mercato”.

 

E’ vero, altresì che l’Europa e quindi l’ Italia hanno ancora una rete di protezione sociale delle fasce più deboli della società. E che, nonostante tutti i tentativi di disarticolare la stato sociale, alcuni dei quali andati a segno, è proprio questa rete che tiene insieme le barriere alla crisi finanziaria di questi giorni.

 

Cionondimeno, l’impatto c’è stato e gli effetti si vedranno per un periodo per niente breve. Ha detto Alessandro Profumo, in un’intervista a cuore aperto, raccolta da Massimo Giannini e pubblicata su La Repubblica dello scorso  martedì 7 Ottobre:

“ (La crisi) riguarda tutti noi banchieri. Siamo chiamati a un profondo esame di coscienza. Oggi abbiamo un incredibile problema di reputazione. Dobbiamo farci i conti e capire come fare a non essere più criminalizzati dall’opinione pubblica. Solo così usciremo in positivo da questa crisi.”

 

Mi pare che i problemi che abbiamo di fronte siano sostanzialmente di due ordini: il primo, sul lungo periodo è quale modello di capitalismo possa essere immaginato, dopo le macerie della crisi attuale. In sostanza , si tratta di capire se le teorie “neoliberiste” abbiano trovato la loro fine, dopo vent’anni di “meno Stato, più mercato.” Il secondo ordine di problemi è invece urgente, impellente, immediato: si chiama fiducia. Nessuno dei due può essere affrontato senza tenere conto dell’altro.

 

Senza fiducia, appare incomprensibile capire perché lo Stato debba intervenire per “salvare” le banche, quando in questi anni non è voluto intervenire per “salvare” i cittadini dalla privatizzazione di servizi essenziali, dalla sanità all’acqua; per “salvare” salari e stipendi, per “salvare” la propensione al consumo. Senza fiducia,  la stessa pubblicità crepa d’inedia, come ha dimostrato Enrico Finzi qualche giorno fa. Intervenendo al Consumer &Retail Summit, promosso dal Sole 24 Ore, Finzi ha detto:”Siamo di fronte a un grande fallimento collettivo, tutti noi che operiamo nella comunicazione abbiamo lavorato per costruire qualcosa che ora è crollato”.

 

D’altra parte, senza la presenza dello Stato nei gangli vitali della vita e dell’economia, non si capirebbe come alimentare la fiducia nei cittadini e nei consumatori. Questo intervento non può limitarsi ad essere “d’emergenza”, per tamponare le crisi provocate dalla new economy dieci anni fa, passando dallo shock petrolifero dei mesi scorsi, fino alla crisi dei mutui di oggi, e chi sa da quale altre diavoleria in un prossimo futuro.

Dice Naomi Klain in “Shock economy” (Rizzoli, 2007), libro che sembra essere stato premonitore della crisi attuale: “E’ assolutamente possibile, certo, avere un’economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell’economia, come una compagnia petrolifera pubblica, saldamente in mano statale. E’ parimenti possibile richiedere che le grandi aziende paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi tassino e  ridistribuiscano la ricchezza, cosi che le aspre diseguaglianze che affliggono lo Stato corporativo siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.”

 

Antonio Negri, intervenendo a Parigi a “L’infedele”, trasmissione condotta da Gad Lerner su La 7, ha detto che è troppo presto capire la sorte del neoliberismo, ma è al contempo assolutamente necessario comprendere come il capitalismo finanziario abbia operato un vero e proprio sfruttamento sui  risparmi di  milioni di famiglie e individui, uno sfruttamento paragonabile a quello operato dal capitalismo reale sugli operai e i lavoratori nel 900.  Dopo il crollo del Comunismo è arrivato il crollo del Consumismo? Come a volergli fare eco, Zygmunt  Bauman, sulle pagine del quotidiano La Repubblica dell’8 ottobre scorso, scrive: “Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni, anni di apparente prosperità senza precedenti, del 22 per cento. L’ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15 per cento. E, cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione è raddoppiato. L’insegnamento dell’arte di “vivere indebitati” per sempre è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali.”

 

Dal che si può facilmente evincere come la fiducia riposta nelle istituzioni bancarie e nei suoi prodotti finanziari siano state la spinta propulsiva che ha incalzato il capitalismo finanziario dove finora non aveva osato, quell’indebitamento di massa che è stata poi la causa stessa della crisi di fiducia e del crack epocale. Tradita, frustrata e sfruttata può la fiducia essere di nuovo in grado di portarci fuori dalla crisi, come molti oggi vorrebbero?

 

Nella intervista già citata, Alessandro  Profumo dice: “ Molti mi prendono in giro perché parlo di creazione di valore e non di profitto. Ma c’è un motivo, che oggi rivendico. Per me creazione di valore significa profitto sostenibile nel tempo, che a sua volta significa legittimazione sociale rispetto ai tre soggetti di cui parlavo prima, cioè clienti, dipendenti e azionisti. Creare valore significa rispondere al meglio a tutti questi tre soggetti. Non mi sembra affatto un concetto demodè. Anzi, oggi mi sembra ancora più attuale.” La cifra di questa intervista è l’autocritica dell’ad dell’istituto bancario italiano, più colpito dalla crisi dei mutui, per aver sottovalutato l’imminente avvento della crisi globale. Alla quale autocritica mi permetto di suggerire anche un ripensamento sulla comunicazione commerciale, sulla pubblicità: perché non esplicitare apertamente, fin da subito, fin dalla fusione delle banche che diedero vita a Unicredit l’idea della creazione di valore, invece che nascondersi dietro la foglia di fico di quel “puoi contarci”, che, alla luce degli avvenimenti odierni, suona come un motto di spirito beffardo e autolesionistico?

 

Ma torniamo sul terreno della fiducia. Nel già citato intervento su La Repubblica, Bauman dice: “Il pianeta bancario è a corto di terre vergini, avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile. La reazione finora per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria, per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita: il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, di indebitarsi e mantenersi indebitato potrebbe tornare alla “normalità”. Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina, dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega,  per evitare invidiosi paragoni.”

 

Se il cittadino è diventato un consumatore di prodotti finanziari, in grado di finanziare i consumi, un posto d’onore nel ragionamento sulla fiducia se lo è conquistato la pubblicità. C’era una volta una grande marca di automobile europea che sotto il marchio scriveva “c’è da fidarsi.” Famosa è quella marca italiana di prodotti caseari che “vuol dire fiducia”.  

 

Che ne è della fiducia stimolata dalla pubblicità italiana ce lo ha detto Enrico Finzi, che ha anche presentato dati terrificanti al Consumer &Retail Summit, promosso dal Sole 24 Ore. E’ una catastrofe, dice Finzi senza mezzi termini. Un lento ma inesorabile declino che parte da lontano: se nel 1992 infatti la percentuale di quanti dichiaravano di fidarsi delle marche dei produttori era del 76%, e nel 1998 ha toccato il 78%, già nel 2003 questa percentuale era scesa al 52% e oggi è ferma al 41%. L’affermazione “le marche sono innovazione” era condivisa dal 57% della popolazione nel 2003, dal 46% nel 2008. “Diverse marche mi sono care, quasi amiche”: lo diceva il 68% nel 1992, il 49% nel 2003, ma nel 2008 il 40%.

 

Secondo Finzi, un motivo della disaffezione alle marche potrebbe essere rappresentato dalla scarsa differenziazione dei prodotti. Infatti, se nel 1992 concordava con l’affermazione “molti prodotti di marca sono uguali a quelli non di marca” il 28% degli intervistati, nel 2003 tale percentuale è salita al 43% per balzare oggi al 56%. Di contro, “preferisco prodotti di marca” era vero per il 60% degli intervistati nel 1992, ma appena per il 36% oggi.

Dice Finzi, rincarando la dose:”C’è anche un problema di comunicazione, i nostri copy test mostrano che non ci sono punte creative e che il voto medio assegnato alla pubblicità è inferiore al 6: insomma la pubblicità italiana, compresa quella online, è considerata sotto la sufficienza. “. Questo è il quadro della situazione, all’epoca “dell’orgia dell’offerta”. Di fronte al fatto incontrovertibile che le marche  hanno perduto la loro “capacità felicitante”, per Finzi  l’alternativa è riscoprire “un approccio laico e non idoleggiante”.

E’ bene tener presente che questi dati sono stati presentati in concomitanza con l’attuale crisi dei mutui, ma le rilevazioni sono molto probabilmente antecedenti i gravi fatti degli ultimi giorni, il che può autorizzare a pensare che la situazione sia ben peggiore. Anche perché questa terribile crisi di fiducia nelle marche, dunque nella pubblicità, arriva in un momento molto critico per l’advertising italiano. La grave crisi dei mutui arriva in un momento in cui si era già registrato un pesante arretramento.

Recentemente, ma prima della attuale crisi finanziaria che ha investito le Borse, il presidente di Upa, l’associazione che racchiude i “clienti” italiani ha reso noto che il saldo di fine 2008 si attesterebbe intorno a una crescita dell’0,1%, ma che, a fronte del combinato disposto con l’inflazione  al 3,8%, il vero risultato del comparto pubblicità alla fine di quest’anno avrebbe più di due punti in negativo. Secondo queste stime, la ripresa si appaleserebbe solo alla fine del 2009. Campa cavallo: il presidente del consiglio ha detto di stare tranquilli, che la crisi dei mutui si risolverà in 18 o 24 mesi. Se ne parla fra un paio d’anni. Comunque,  questi dati sono gli stessi resi noti da Assocomunicazione, l’associazione che racchiude le agenzie di pubblicità.

Ecco un caso lampante in cui si vede la crisi profonda della fiducia: il consumatore perde fiducia nelle marche, che perdono fiducia nelle agenzie di pubblicità, che perdono fiducia nella creatività.  Personalmente, sono sempre più convinto che molti clienti italiani della pubblicità sostengono che tutto sommato non c’è più una sostanziale differenza tra un’agenzia e l’altra. Per questo non è raro vedere un budget passare di mano, continuando la stessa creatività, la stessa pianificazione media, ma molto probabilmente venir remunerata con una percentuale più bassa. O vedere gare-ammucchiata, in cui mettere in competizione lo sconto, invece che l’idea di marketing, l’intuizione creativa, la soluzione brillante alle problematiche del cliente e del suo mercato. Le difficoltà finanziarie delle agenzie di pubblicità sembrerebbero in realtà l’ultima spiaggia di un arretramento culturale, organizzativo, pedagogico, culturale, sempre più spesso etico. La crisi dell’agenzia  di pubblicità sembra una crisi strutturale, più che congiunturale. 

 

La forma-agenzia sembra  non corrispondere più alla realtà . Sembrerebbe che mentre l’Agenzia vive  il Cliente come un problema di redditività, il Cliente chiede, anche inconsapevolmente,  un  sistema integrato di informazione e di comunicazione, cui corrisponda un mondo di riferimento dai connotati ben definiti, permeabile all’innovazione, con una sostanziale e sostanziosa autorevolezza, in gran parte già proiettata nel futuro prossimo. Siamo alla creazione del valore, e non semplicemente del profitto, così come l’ha descritta Alessandro Profumo.

 

Che cos’è  la fiducia in pubblicità ce lo dice Pirella: “La pubblicità deve essere tangibile, criticabile, condivisibile. Un prodotto andrebbe scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.” (cfr pag.111, del mio “Il Naso Fuori”, Editrice ADC, Milano, 2004). La qual cosa mi pare faccia il paio con quanto affermato recentemente da Enrico Finzi : “un approccio laico e non idoleggiante.”

 

Occuparsi della fiducia significa che la pubblicità italiana deve sapersi dotare di una diversa, nuova e più efficace capacità organizzativa, per dare vita a quella che in altra sede ho definito “l’agenzia di nuova generazione”: convergenza e integrazione di talento e capacità, di saperi e di strumenti, un vero e proprio contents provider, che a partire dal web costruisca piattaforme di comunicazione commerciale, usando tutti i veicoli, per dare vita a relazioni stabili e durature tra marca e consumatore.

Le marche italiane, fra le quali le banche, hanno la necessità vitale di risalire il più velocemente ed efficacemente possibile la china della fiducia dei loro rispettivi mercati. E’ l’ultimo appello per la pubblicità italiana. Non ha più alibi né paracadute. E’ la dura legge dello “shock’n roll. Beh, buona giornata.

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E il cliente rapinò la sua banca.

Aveva chiesto un prestito per coprire altri debiti e al rifiuto ha rapinato una banca. La donna 36enne, operaia a tempo indeterminato e madre di 3 figli, a Legnano aveva contratto debiti con finanziarie per affrontare le necessità della famiglia. Non potendo onorare i ratei aveva chiesto un prestito a un’altra banca che le è stato negato.

Ha quindi deciso di rapinare la sua banca armata di coltello. Bottino: 7.800 euro. Scoperta dai carabinieri ha confessato di non riuscire ad andare oltre il 22 di ogni mese.

“Quei soldi mi servivano per pagare i debiti. Avevo troppo bisogno di quei soldi, non arrivo a fine mese con la paga da operaia. Quando alla banca di Vanzago mi hanno detto di no, beh, allora ho deciso di svaligiare la mia banca.”

La donna è stata denunciata a piede libero, qualcosa deve aver fatto capire ai carabinieri che la donna non era un rapinatrice di professione e che questo non è un caso da cronaca nera.

Questa notizia, infatti dovrebbe essere pubblicata nelle pagine di economia e finanza dei quotidiani, che si occupano di credito, di banche, di questioni sindacali e del costo del lavoro.

Questa notizia dovrebbe essere attentamente esaminata dal ministro dell’Economia, non solo perché potrebbe dirgli qualcosa di interessante a proposito della prossima Finanziaria, ma anche perché potrebbe far venire qualche felice idea per la riforma del credito, vale a dire del rapporto tra risparmio e spese bancarie.

Dovrebbe essere pubblicata sui bollettini dell’Abi, l’associazione bancaria italiana che si ostina a negare che i costi del conto corrente in Italia sono i più alti in Europa.

Infine, questa notizia dovrebbero essere seriamente presa in considerazione dagli uffici marketing della banche italiane. La pubblicità delle banche ha insistito sui prestiti, si sono promossi prestiti personali, come se gli interessi bancari non fossero un problema.

C’è una banca italiana che sta facendo una campagna pubblicitaria che dice di assaggiare il costo del conto. Ecco, la signora di Legnano lo ha assaggiato il suo conto corrente: aveva un cattivo sapore. E non ha rapinato una banca qualsiasi, la donna ha rapinato la sua banca.

Tutte le banche dicono che il cliente è al centro, il sospetto è che troppo spesso venga messo in mezzo. Beh, buona giornata,

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Finanza - Economia - Lavoro

Poveri noi.

Chi ce l’ha dice che i soldi non fanno la felicità. Pare che il detto ha ora una validità scientifica: lo dice uno studio realizzato dal Ceis-Tor Vergata. Il Centro per gli studi internazionali della crescita economica ha stilato la classifica di 65 paesi per la felicità dichiarata in cui primeggiano i paesi poveri.

Secondo loro, il paese più felice del mondo è la Nigeria, seguono la Tanzania e il Messico. Il primo paese ricco felice è il Canada (9/o). L’Italia sesto paese più sviluppato, è al cinquantesimo posto nella graduatoria dei paesi più felici. 50 su 65: praticamente siamo infelici, tendenti all’incazzato nero.

La morale della ricerca dice che il portafoglio aiuta, ma non è determinante senza relazioni umane soddisfacenti. La verità è che se i soldi non fanno la felicità, figuriamoci la miseria. Beh buona giornata.

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