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Crisi: il piano di Obama non è minimamente adeguato. Parola di Paul Krugman.

Il piano obama non basta

«Non credo che sia troppo tardi per cambiare direzione, ma lo sarà se non adotteremo quanto prima provvedimenti drastici. Se non faremo nulla, questa recessione potrà durare anni».Questo è ciò che ha dichiarato giovedì scorso il presidente eletto Barack Obama, spiegando perché l’ America ha bisogno che il governo reagisca alla depressione economica in modo estremamente aggressivo. Ha ragione.
Questa è la crisi economica più pericolosa dai tempi della Grande Depressione, e potrebbe facilmente trasformarsi in una prolungata recessione. Tuttavia la ricetta di Obama non è all’ altezza della sua diagnosi. Il piano da lui suggerito non è energico come le parole che ha usato per la minaccia economica. In realtà, esso è al di sotto di quanto sarebbe necessario. Consideriamo quanto è grande l’ economia americana. In presenza di una domanda adeguata alla capacità produttiva, nei prossimi due anni l’ America potrebbe produrre beni e servizi per un valore di oltre 30 miliardi di dollari. Ma con la flessione dei consumi e degli investimenti si sta aprendo un enorme divario tra ciò che l’ economia americana è in grado di produrre e ciò che è in grado di vendere.
E il piano di Obama non è minimamente adeguato a riempire questo “scarto produttivo”. Agli inizi di questa settimana, il Congressional Budget Office (CBO) ha reso nota la sua ultima analisi del bilancio e del panorama economico. Il CBO ha spiegato che, in assenza di un piano di stimolo, il tasso di disoccupazione potrebbe salire al di sopra del 9 per cento già agli inizi del 2010 e rimanere elevato per gli anni successivi. Per quanto tetra, tuttavia, questa previsione, è in realtà ottimistica, se paragonata ad alcune previsioni indipendenti.
Obama stesso ha ripetuto che, senza un piano di stimolo, il tasso di disoccupazione potrebbe diventare a due cifre. Nondimeno, anche il Congressional Budget Office afferma che “nei prossimi due anni la produzione economica sarà mediamente del 6,8 per cento al di sotto del suo potenziale”. Ciò si traduce in una perdita di produzione di 2,1 trilioni di dollari.
«La nostra economia potrebbe rimanere di un trilione di dollari al di sotto della sua piena capacità», ha dichiarato giovedì scorso Obama. Bene, in realtà egli ha sottostimato la situazione. Per ridurre uno scarto di oltre 2 trilioni di dollari -forse molti di più, se le previsioni del CBO dovessero rivelarsi troppo ottimistiche – Obama presenta un piano da 775 miliardi di dollari. E ciò non è sufficiente. A volte, lo stimolo fiscale può avere un effetto “moltiplicatore”: oltre agli effetti diretti degli investimenti nelle infrastrutture sulla domanda, per esempio, ve ne può essere anche un altro, in quanto profitti più elevati portano ad una maggiore spesa destinata ai consumi. Le valutazioni medie suggeriscono che un dollaro di spesa pubblica aumenta il Pil di circa 1 dollaro e mezzo. Tuttavia, solamente il 60 per cento del piano di Obama consiste in spesa pubblica. Il resto è composto da tagli fiscali – e molti economisti sono scettici sulla misura in cui molti di questi tagli, in particolare quelli destinati alle attività economiche, potranno effettivamente incoraggiare la spesa (numerosi senatori Democratici condividono questi dubbi).
Howard Gleckman, dell’ organismo indipendente Tax Policy Center, li ha riassunti nel titolo di un recente post del suo blog : “molti dollari, non un grande affare”. La sostanza è che non è probabile che il piano di Obama possa ridurre di più della metà l’ incombente scarto produttivo, e facilmente potrebbe svolgere meno di un terzo del compito che è chiamato ad assolvere. Perché Obama non cerca di fare di più? E’ il timore di far aumentare il debito a limitare il suo piano? Vi sono dei pericoli collegati al prestito governativo su vasta scala – e il rapporto del CBO di questa settimana per l’ anno in corso prevede un deficit di 1,2 trilioni di dollari. Tuttavia, sarebbe ancora più pericoloso intervenire in modo inadeguato nel salvataggio dell’ economia.
Giovedì scorso, il presidente eletto ha parlato in modo eloquente e preciso circa le conseguenze dell’ inazione -esiste un rischio reale di scivolare in una prolungata trappola deflazionistica di tipo giapponese- ma le conseguenze di un’ azione inadeguata non sono molto migliori. E’ la mancanza di opportunità di spesa a limitare il suo piano? Esiste soltanto un numero limitato di progetti di investimento pubblico “shovel-ready”, vale a dire, progetti a cui può essere dato inizio abbastanza rapidamente da riuscire ad aiutare l’ economia nel breve termine. Tuttavia, vi sono altre forme di spesa pubblica, specie nel campo dell’ assistenza sanitaria, che possono fare del bene e allo stesso tempo favorire l’ economia nel momento del bisogno. Oppure il piano è limitato dalla prudenza politica? Lo scorso dicembre alcuni servizi giornalistici indicavano che gli assistenti di Obama erano ansiosi di mantenere il costo finale del piano economico al di sotto della soglia, politicamente sensibile, del trilione di dollari.
C’ è stato anche chi ha suggerito che l’ inclusione nel piano di ampie riduzioni fiscali per le attività commerciali , che vanno ad aggiungere il loro costo ma che faranno ben poco per l’ economia, sia un tentativo di conquistare voti Repubblicani al Congresso. Qualunque sia la spiegazione, il piano di Obama non sembra adeguato alle necessità dell’ economia. Certo, un terzo di pagnotta è meglio di niente. Ma in questo momento abbiamo di fronte due gravi divari economici: quello tra il potenziale economico e il suo probabile rendimento e quello tra l’ austera retorica economica di Obama e il suo deludente piano. (Beh, buona giornata).
Copyright New York Times (Traduzione di Antonella Cesarini) 
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L’Antitrust e le banche italiane:”Un vero e proprio carattere nazionale che postula il prevalere della corporazione sulla concorrenza.”

Il conto al consumatore
 
di FRANCESCO MANACORDA da lastampa.it
E dunque – ci spiega l’Antitrust – i salotti buoni del capitalismo sono presumibilmente salotti dove ci si annoia parecchio: sempre le solite facce; sempre tutti assieme senza troppe distinzioni tra amici e nemici, concorrenti o alleati; sempre tante poltrone occupate da pochi noti e mai una ventata d’aria nuova.
Ci si annoia, ma – dato non secondario – si esercita un potere vero. E un potere tanto più forte perché autoreferenziale.

Basta mettere a confronto le tabelle dell’Autorità con le cronache finanziarie di questi anni – ma anche di qualche decennio fa, proprio a dimostrazione di un sistema bloccato – per vederlo con chiarezza. Sono le Assicurazioni Generali e Mediobanca i grandi gruppi dove si affolla il maggior numero di azionisti che sono anche concorrenti delle società, ossia che di lavoro fanno gli assicuratori o i banchieri. E ancora questi due nomi, assieme alla Premafin dei Ligresti, a Intesa Sanpaolo e alla roccaforte della finanza cattolica lombarda Ubi Banca, sono quelli che spiccano nella classifica delle società dove trionfano i recordmen delle cariche incrociate. Un’intesa cordiale che attraversa il fior fiore della finanza di casa nostra e il cui conto – questo l’indagine Antitrust non lo dice, ma i confronti internazionali sui costi dei servizi finanziari sono lì a dimostrarlo – lo paga il consumatore.

Certo, dopo le tempeste finanziarie che hanno spazzato via tanta finanza anglosassone con relativa pretesa di superiorità etica e funzionale, ci sarà anche chi cercherà di dimostrare che il rugginoso sistema italiano non è così malvagio: avremo pure banchieri inamovibili, ma da queste parti ancora non si è visto un Bernie Madoff. Il punto però non è questo, bensì il fatto che – patologie alla Madoff a parte – un sistema così bloccato è un sistema che in una certa misura assicura dai rischi, ma di sicuro elimina a monte molte opportunità: siano quelle di potenziali concorrenti che si vedono la strada bloccata da una concentrazione anche informale come quella che si crea nella riservatezza dei consigli d’amministrazione, e per questo ancor più difficile da affrontare, o quelle dei consumatori. E che il bilancio tra rischi evitati e opportunità perdute alla fine sia positivo è tutto da dimostrare.

Ma in fondo è miope anche gettare tutte le colpe sulle stanze chiuse del capitalismo. I risultati dell’indagine Antitrust si possono allargare ben oltre quei confini – per quanto significativi – arrivando a definire un vero e proprio carattere nazionale che postula il prevalere della corporazione sulla concorrenza, l’affermarsi della pura e semplice relazione su qualsiasi criterio di merito. Se ne trovano tracce ovunque, anche scendendo le scale che portano dall’empireo della grande finanza al mondo reale: dai piloti Alitalia sicuri che senza di loro non si vola, ai notai davanti ai quali si blocca ogni semplificazione burocratica, passando per farmacisti, tassisti, dinastie universitarie. E anche per i giornalisti, tuona chi propone di abolirne l’ordine professionale.

Poco da meravigliarsi, allora, se il tema civile prima ancora che politico del conflitto d’interessi è affondato in Italia per anni nella palude del dibattito a oltranza fino a scomparire definitivamente. L’affermarsi di quello che Guido Rossi ha chiamato il «conflitto endemico» nasce anche da un terreno assai propizio dove nessuno ha interesse a riconoscere il conflitto d’interesse altrui perché troppo spesso ne ha a sua volta un altro da difendere. E dove alla concorrenza si preferisce troppo spesso la connivenza: seduti nello stesso cda o magari in due botteghe o due scrivanie vicine. (Beh, buona giornata).

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Berlusconi:”Sulla questione Alitalia non c’e’ nulla di agghiacciante.”

L’italianità è già costata allo Stato 3,3 miliardi

di LUCA IEZZI da repubblica.it

«Le condizioni poste da Air France sul taglio del cargo e su Malpensa sono assolutamente irricevibili» diceva Silvio Berlusconi il 19 marzo scorso rimandando al mittente un’ offerta che dopo dieci mesi non è paragonabile a quella di Cai, ma nel senso opposto a quello inteso dal premier.

I francesi avevano messo 1,85 miliardi di euro, un miliardo subito per azzerare i debiti e 850 milioni d’ investimenti dal 2009 in poi. Ma soprattutto davano in cambio titoli Air France allo Stato e agli altri azionisti. Nel dicembre scorso, dopo quattro mesi di commissariamento, la cordata di 20 «patrioti», come li ha definiti lo stesso premier, ha pagato 427 milioni cash (solo 100 versati) per rilevare una parte di un gruppo con un passivo da 3,2 miliardi.

Il conto tra quanto incassato da Cai (427 milioni), il debito rimasto in capo alla bad company e il mancato incasso del pacchetto Air France, il primo bilancio del salvataggio dell’ italianità già segna un passivo di 3,3 miliardi per i contribuenti italiani. In attesa che il commissario Augusto Fantozzi recuperi qualcosa dalla vendita di quanto rimasto.

Ancor più negativo il bilancio occupazionale: la nuova Alitalia ha circa lo stesso personale (12.650 persone immaginato da Parigi, ma gli ex lavoratori della Magliana sono solo 10.150 perché a loro si aggiungono oltre 2 mila addetti Air One.

Gli esuberi sono raddoppiati (2.120 dicevano i francesi, contro i 4 mila del piano Cai) anche perché circa 3 mila persone della manutenzione e dei servizi di terra non saranno riassorbiti da Fintecna come previsto nel marzo scorso.

Tra le “vittime” del rifiuto ad Air France vanno anche considerati i circa mille lavoratori a tempo determinato di Air One cui non sarà rinnovato il contratto.

Non è finita: Air France era disposta a pagare il 20% del costo degli esuberi da lei provocati. Il piano francese è stato respinto perché chiudeva il trasporto merci, depotenziava Malpensa e dirottava i flussi turistici verso Parigi, direttive confermate dal piano industriale della cordata tricolore.

Complice l’ accordo che porterà Air France-Klm a rilevare il 25% del vettore rinato, Alitalia chiuderà il cargo nel 2009, ha scelto Fiumicino come aeroporto principale e Roma e Milano sommano circa cento voli a settimana con Parigi Charles de Gaulle.

Dal punto di vista delle prospettive future l’ Alitalia presieduta da Roberto Colaninno nasce con 300 milioni in cassa, poco meno di 600 milioni di debito operativo e 490 milioni di debiti sugli aerei acquistati da Air One.

Senza contare che nella flotta di 148 aerei della nuova Alitalia la quota dei velivoli in leasing (da pagare mensilmente al socio Carlo Toto) è ben più alta di quella cui avrebbe fatto affidamento la società guidata da Jean-Cyril Spinetta.

 I prossimi cinque anni, periodo che per statuto vede i soci italiani rimanere alla guida della società quindi saranno molto difficili. Forse il costo finale dell’ operazione “Alitalia agli italiani” lo potremo fare solo quando sarà finita, cioè quando Air France diventerà l’ unico proprietario. (Beh, buona giornata).

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Il sistema bancario italiano è solido? No, è sodale. L’Antitrust scopre che il conflitto di interessi tra concorrenza e corporate governance “interessa” l’80 per cento del settore finanziario.

da repubblica.it

Nel settore finanziario italiano ci sono intrecci personali e azionari fra concorrenti senza paragoni in Europa. Lo rileva l’Antitrust che ha chiuso l’indagine conoscitiva su banche, assicurazioni e sgw, rilevando che l’80% dei gruppi esaminati ha nei propri organismi soggetti con incarichi in società concorrenti. Secondo l’Autorità serve un'”attenzione alta sulla corporate governance” e occorre rivedere la governance per aumentare la trasparenza e recuperare la fiducia necessaria per superarare la crisi.

Così l’Antitrust descrive la grave situazione riscontrata: “Un azionariato, anche per le società quotate, spesso concentrato in capo a pochi soggetti e legato da patti, nonché una gestione caratterizzata da incarichi personali doppi o addirittura multipli in società concorrenti e da intrecci del tutto peculiari rispetto al resto d’Europa”.

L’indagine conoscitiva sui rapporti tra concorrenza e corporate governance è stata avviata oltre un anno fa. Ricostruisce il quadro aggiornato degli assetti di governo societario di banche, compagnie assicurative e società di gestione del risparmio, quotate e non quotate in Italia, evidenziando i punti di forza e i punti di debolezza del settore e suggerendo, anche alla luce dell’attuale crisi, i necessari interventi.

La situazione attuale, è l’ovvia conclusione degli esperti dell’Antitrust, impone “un’attenzione alta sulla corporate governance”. Emerge “l’esigenza di un nuovo processo – di regolazione, autoregolazione e di modifiche statutarie – che innovi, ad esempio, sotto il profilo della trasparenza nei processi decisionali, della chiarezza nella attribuzione delle funzioni e responsabilità dei vari organi/comitati, nella eliminazione dei cumuli di ruoli e incarichi tra concorrenti, nonchè nella definizione più puntuale dei requisiti per figure rilevanti come gli amministratori indipendenti”.  (Beh, buona giornata).

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Crisi: lo spettro della disoccupazione in Italia.

da repubblica.it

Un dipendente su due nel settore privato in Italia è senza ammortizzatori sociali. Un esercito di 7.141.300 persone, rileva un’indagine della Cgia di Mestre, pari al 50,9% del totale dei dipendenti italiani (escluso il pubblico impiego). Sono questi, assieme ai precari, sottolinea la Cgia, i lavoratori più a rischio in questa fase di crisi economica. Si tratta di dipendenti che nel caso di esplusione dall’azienda non hanno nessuna misura di sostegno al reddito, come la cassa integrazione ordinaria o straordinaria.

Quanto ai settori di appartenenza di questi lavoratori “senza ombrello”, spicca per numeri assoluti quello dei servizi. In questo comparto ci sono 2.336.400 lavoratori dipendenti. Seguono gli occupati del commercio alle dipendenze di aziende con meno di 200 dipendenti (1.968.000), quelli dell’artigianato (889.500, con l’esclusione degli edili che usufruiscono della Cigo), i dipendenti di alberghi e ristoranti (870.000), quelli del credito/assicurazione (544.400 unità) e quelli delle comunicazioni (338.100 dipendenti). Chiudono la classifica i trasporti con 194.800 dipendenti.

“Sono dei veri e propri lavoratori invisibili – dice Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre – che quando stanno a casa non se ne accorge nessuno. Per questo chiediamo al Governo di intervenire e di mettere in campo dei sussidi senza nessun aggravio per le imprese”. (Beh, buona giornata).

http://cgia.slowdata.com/

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Crisi: la disoccupazione negli Usa.

da repubblica.it

L’economia statunitense a dicembre ha perso 524.000 posti di lavoro, poco meno di quanto stimato dagli analisti, facendo salire il tasso di disoccupazione al 7,2% (a novembre era al 6,7%), un dato peggiore delle attese (ferme al 7%). Complessivamente nel corso del 2008 l’economia Usa ha perso 2,6 milioni di posti di lavoro, come non accadeva dal 1945, al termine della Seconda guerra mondiale.

Il calo degli occupati ha toccato quasi tutti i settori. Tra i peggiori quello manifatturiero (-149.000 posti), le costruzioni (-101.000) e la distribuzione (-23.900). Lieve incremento nel pubblico impiego (+7.000), mentre sale in modo consistente solo il settore sanitario (+32.000 posti di lavoro). Il costo orario medio, sempre secondo i dati diffusi dal Dipartimento del Lavoro Usa, è salito dello 0,3% mensile a 18,36 dollari, contro un previsto aumento dello 0,2%. Su base annua il costo orario medio è cresciuto del 3,7%.

L’apparente contraddizione tra il dato assoluto di dicembre (migliore delle attese) e la percentuale (peggiore delle previsioni) è spiegata con il fatto che il Dipartimento del Lavoro Usa ha rivisto in peggio il dato del mese precedente con 584.000 posti di lavoro in meno, circa 50.000 in più rispetto ai 533.000 comunicati nella prima rilevazione. Rivista in peggio anche la statistica di ottobre con 423.000 posti cancellati, vale a dire 183.000 in più di quanto comunicato nella prima lettura (che a sua volta era già stata rettificata al rialzo di 80.000 unità a quota 320.000). (Beh, buona giornata),

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Contro il terrorismo, Stato di polizia o Stato sociale?

I COSTI ECONOMICI DEL TERRORISMO

di José de Sousa , Daniel Mirza e Thierry Verdier da lavoce.info

Negli ultimi anni il terrorismo internazionale ha cambiato luoghi e motivazioni. Mira a colpire l’Occidente, ma gli attacchi dei fondamentalisti avvengono principalmente nei paesi in via di sviluppo con il risultato di peggiorare le condizioni economiche proprio di queste regioni. Una maggiore cooperazione internazionale è necessaria, ma non basta. Occorre adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale degli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di prospettive economiche.

Non passa giorno che non si abbia notizia di qualche attentato o di minacce da parte dei terroristi contro gli occidentali  (giornalisti, diplomatici o turisti), oppure contro i simboli e gli alleati dell’Occidente. Gli attentati di Bombay non costituiscono un’eccezione: si è trattato di attacchi concentrati contro i siti più occidentalizzati della città. Anche se, alla fin fine, la maggior parte delle vittime non è occidentale, gli attacchi erano principalmente indirizzati contro i cittadini dei paesi più ricchi. Uno dei principali moventi dei terroristi è quello di minare gli interessi dell’Occidente. Quali sono realmente le conseguenze economiche di tali attentati?
Il fenomeno non è nuovo. In base alle statistiche disponibili, si direbbe anzi che – da 40 anni a questa parte – è una costante: gli Occidentali sono il principale bersaglio dei terroristi transnazionali. Sono cambiati però i luoghi e le motivazioni. Da una quindicina d’anni avvengono principalmente nei paesi del Sud. Negli anni ’70, infatti, gran parte degli atti terroristici proveniva da gruppi separatisti o estremisti europei. A partire dagli anni ’80 invece è apparso il terrorismo religioso fondamentalista, con lo spostamento del centro di gravità del fenomeno verso i paesi del Sud.

PAESI PIU’ POVERI DOPPIAMENTE VITTIME

Gli attentati di New York (2001) Madrid (2003) e Londra (2005), anche se spettacolari, sono eccezioni. Non sono affatto rappresentativi dei circa 400 attentati transnazionali, perpetrati ogni anno nel mondo. Gli studi sull’argomento dimostrano che, a parte gli attentati compiuti nei periodi bellici come quelli che oggigiorno colpiscono l’Iraq, tre quarti degli attentati avviene nei paesi in via di sviluppo. Se le vittime di tali atti sono quasi sempre cittadini dei paesi più avanzati, le conseguenze economiche, però, si ripercuotono proprio sui paesi in via di sviluppo.
Gli Stati Uniti sono stati pesantemente colpiti dai fatti dell’11 settembre, ma la ripercussione sulla loro economia è stata solo transitoria. Solo se gli attentati colpissero ripetutamente uno stesso luogo, si registrerebbe un effetto duraturo. Secondo alcuni studi, il reddito globale dei paesi baschi sarebbe stato più elevato di almeno il 10% se, durante gli anni ’70 e ’80, l’ETA non avesse compiuto numerosi attentati.
I continui atti terroristici che avvengono in alcuni paesi in via di sviluppo, come Colombia e Pakistan, colpiscono duramente il loro commercio estero, frenando le transazioni di beni e servizi, sia a livello nazionale che internazionale. L’Occidente è, infatti, il loro principale mercato d’esportazione e gli attentati hanno effetti non trascurabili. Ad esempio, in Colombia, l’aumento dell’1% degli incidenti, che colpiscono spesso interessi americani, provoca la diminuzione dell’1% delle esportazioni verso gli Stati Uniti. Senza contare che la maggior parte dei turisti proviene dall’Occidente e che gli attentati perpetrati contro bersagli occidentali diminuiscono considerevolmente le attrattive del paese in seno al quale essi avvengono, perché creano un forte senso di insicurezza.
Le misure di sicurezza messe in atto dai governi occidentali per far fronte al terrorismo non fanno che rinforzare questi effetti nefasti. Rendono, infatti, più difficile il movimento di beni e persone, soprattutto alle frontiere. Ad esempio, a causa degli attentati compiuti in Grecia contro bersagli americani, i fuoriusciti greci ancor oggi possono godere solo di un visto turistico per recarsi negli Stati Uniti.
E infine, a coronamento di tutto ciò, esistono anche gli effetti indiretti sui paesi confinanti con quelli da cui provengono i terroristi. Negli ultimi due decenni, infatti, molte organizzazioni terroriste hanno ampliato la loro rete di contatti. Per esempio Al Qaeda si è recentemente radicata nell’Africa del Nord. Di conseguenza i paesi occidentali devono estendere e in un certo senso “globalizzare” le loro misure di sicurezza, se vogliono impedire la diffusione di tali organizzazioni. In un lavoro recentemente pubblicato mettiamo in evidenza questo processo di contagio: gli attentati avvenuti in un determinato paese possono ripercuotersi sugli scambi dell’Occidente con quei paesi, che simpatizzano culturalmente, geograficamente o religiosamente con le organizzazioni terroristiche.
I paesi del Sud sembrano essere entrati in un circolo vizioso. Demoltiplicando l’impatto negativo del terrorismo, le politiche di sicurezza generano il calo delle attività economiche nei paesi del Sud, che – a sua volta – genera un terreno fertile perché attecchisca il terrorismo. E così la protezione della vita al Nord peggiora sensibilmente le condizioni di vita al Sud.

POSSIBILI SOLUZIONI

Che fare per rompere questo circolo vizioso? Le misure di sicurezza unilateralmente decise dai paesi del Nord sembrano solo spostare il problema, non risolverlo. E’ invece urgente instaurare una cooperazione internazionale mirata a ridurre il verificarsi di attentati nei paesi del Sud e del Nord. A breve termine, sarebbe auspicabile trasmettere ai paesi del Sud le tecnologie di prevenzione più progredite, onde ridurre il verificarsi di tali eventi. A lungo termine, bisognerebbe elaborare una politica più volontaristica, al fine di estirpare le radici del terrorismo. Parimenti occorrerebbe aiutare i paesi in via di sviluppo ad adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale di quegli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come ad esempio i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di qualsivoglia prospettiva economica. Per conseguire tutto ciò è indispensabile che i contribuenti del Nord capiscano che la loro sicurezza dipende anche dal miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni del Sud. (Beh, buona giornata)

(traduzione dal francese di Daniela Crocco)

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Crisi:”La differenza di priorità fra Obama e Sarkozy promette scintille nel breve termine ma nulla toglie al fatto che strategicamente abbiano bisogno l’uno dell’altro.”

Due visioni della ripresa
 
di MAURIZIO MOLINARI da lastampa.it
Barack Obama espone da Fairfax, Virginia, il progetto di «ricostruire» l’economia nazionale e Nicolas Sarkozy da Parigi ribatte che l’America non è più l’unico leader del mondo e dovrà scendere a patti per realizzare il «nuovo capitalismo». Il dialogo a distanza fra il presidente eletto degli Stati Uniti e l’inquilino dell’Eliseo inaugura il confronto globale su che cosa bisogna costruire sulle ceneri del 2008 che, secondo quanto afferma uno studio degli economisti del «Council on Foreign Relations» di New York, «sarà ricordato come l’anno in cui il sistema finanziario moderno è crollato».

I due leader partono da bisogni differenti. Per Obama la priorità è scongiurare la depressione nazionale facendo leva su energie alternative, grandi opere, riforma sanitaria, tagli fiscali e sviluppo di Internet al fine di «trasformare l’America indirizzando la ricchezza verso la classe media», come suggerisce il rapporto «Progressive Growth» firmato dal co-presidente del team di transizione John Podesta.

Per Sarkozy invece la priorità è disegnare un nuovo sistema economico internazionale che metta al riparo l’Europa da nuovi terremoti.

Un sistema che getti le basi di una nuova stabilità e soprattutto impedisca il ripetersi di quanto avvenuto, creando regole finanziarie ed equilibri monetari nei quali «non sarà più un solo Paese e prevalere», come avvenuto nel caso degli Stati Uniti dopo gli accordi conclusi a Bretton Woods nel luglio del 1944.

La differenza di priorità fra Obama e Sarkozy promette scintille nel breve termine ma nulla toglie al fatto che strategicamente abbiano bisogno l’uno dell’altro. Lo stimolo economico che Barack chiede al Congresso di Washington, e che potrebbe sfondare il tetto di 1 trilione di dollari, avrà effetti assai parziali se non coinciderà con il varo di misure simili da parte degli altri Paesi più industrializzati, i cui investimenti e acquisti sono indispensabili alla crescita americana. Basti pensare che il rapporto Onu «World Economic Situation and Prospects 2009» suggerisce che l’aumento medio della spesa dei Paesi ricchi dovrà essere fra l’1,5 e il 2 per cento dei rispettivi Pil per tentare di archiviare la crisi di liquidità.

Sarkozy non può immaginare di scrivere le regole del «nuovo capitalismo», a partire dal summit del G20 in programma ad inizio aprile a Londra, senza raggiungere una solida intesa con Barack, che non solo sarà presto alla guida della nazione comunque più ricca del Pianeta ma è anche portatore di un progetto ambizioso di rivoluzione energetica destinato ad avere ripercussioni sulle bollette che si pagano a Marsiglia come a Genova. Senza contare i rischi inflazionistici e valutari per l’Europa connessi alla montagna di dollari che la Federal Reserve si appresta a stampare per riportare in fretta sufficiente denaro da spendere nelle tasche degli americani. Da qui la possibilità che Obama e Sarkozy abbiano iniziato, partendo da opposti estremi, a delineare il confronto che può portare a fare del 2009 l’anno-laboratorio del nuovo sistema economico. È una partita nella quale ogni potenza industriale è chiamata a fare la propria parte, mettendo sul piatto le idee che ha, e per l’Italia ieri è stato il ministro Giulio Tremonti a ipotizzare da Parigi «standard legali» per i sistemi finanziari del G8 come anche una moratoria lunga mezzo secolo per i prodotti tossici che impediscono ai mercati di risollevarsi.

Resta da vedere quale ruolo sceglieranno di giocare nella partita dei nuovi equilibri i giganti di Russia, Cina, India, Brasile e Messico come anche potenze regionali inquiete come Iran, Venezuela, Arabia Saudita e Indonesia. La sfida più difficile, per Obama come per Sarkozy, sarà trovare convergenze con questi nuovi attori che in comune hanno una forte aggressività. Lo dimostrano il monito di Pechino a Washington sulla possibilità di non acquistare più debito federale e la disinvoltura con cui Mosca gioca la carta delle forniture di gas contro l’Europa. (Beh, buona giornata).

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L’Obama-pensiero contro la crisi.

Obama: “Il mio attacco a più punte
contro il tracollo dell’America”

di JOHN HARDWOOD

Alla vigilia del suo discorso sull’economia, il presidente eletto degli Stati Uniti ha rilasciato un’intervista a John Hardwood per il New York Times e la CNBC. Ecco il testo integrale, da repubblica.it 

Pare che il suo pacchetto di incentivi all’economia si aggiri intorno ai 775 miliardi di dollari.
“È così”.
Il rischio è fare troppo poco… Perché dunque fermarsi a una cifra come 775 miliardi di dollari? Perché non arrivare a quell’1,2 trilioni di dollari che gli economisti hanno raccomandato? Forse perché crede che una cifra così sia troppo politicamente carica di significato? O pensa che spendere di più sarebbe più un finanziamento più che un incentivo? O crede di aver individuato la cifra esatta che serve?
“Penso che sia importante tener presente che ogni economista, conservatore o liberal che sia, a questo punto concorda sul fatto che dobbiamo predisporre un piano di recupero sostanziale, che ci aiuti a ridare slancio alla nostra economia, che sul breve periodo ci costerà caro, ma sarebbe estremamente più costoso veder l’economia avvitarsi su se stessa a vuoto come sta accadendo adesso.

“Abbiamo sentito parlare di fasce che vanno da 800 a 1,3 trilioni di dollari e il nostro approccio, considerato il processo legislativo nel quale ci troviamo è che se iniziamo dal basso, possiamo vedere come si evolvono le cose. Ci preoccupa…”.

Sicuramente (il pacchetto) aumenterà….
“Beh, ancora non lo sappiamo. Ma ciò che ci sta davvero a cuore è essere sicuri che i soldi siano spesi con saggezza, che ci sia controllo, trasparenza. Useremo questo denaro per alimentare temporaneamente l’economia, per creare o salvare tre milioni di posti di lavoro, ma anche per qualche anticipo per cose che avremmo già dovuto fare nel corso dei decenni passati che possono contribuire a creare un’economia statunitense più competitiva.


“Le faccio qualche esempio: accertarsi che raddoppiamo le energie alternative, creare edifici e sistemi di trasporto molto più efficienti dal punto di vista energetico, ridurre i costi dell’assistenza sanitaria utilizzando le tecnologie dell’informazione sanitaria, costruire scuole e classi all’altezza di quelle del resto del mondo, così che tutti i nostri bambini ne possano trarre giovamento e possano essere competitivi nell’economia globale.

“Vogliamo essere sicuri che il denaro che spendiamo sia, prima di tutto, utilizzato per creare posti di lavoro, stabilizzare l’economia, ma anche usato con prudenza, così che quando usciremo da questa fase difficile nella quale ci troviamo, vedremo un’economia più solida, migliore, più efficiente”.

Si sono fatti molti paralleli tra lei e John F. Kennedy, che ha anch’egli fatto la storia: era giovane, di una famiglia attraente e nella sua amministrazione si era circondato di cervelloni usciti da Harvard. Ma negli anni Sessanta abbiamo imparato che i migliori e i più intelligenti non sempre prevedevano correttamente le cose.
“Si deve stare attenti ai laureati di Harvard… ti sorprendono sempre!”.

Quanta fiducia ha che il suo piano funzioni davvero? Come eviterà il rischio di essere troppo fiducioso nelle sue possibilità?
“L’approccio che abbiamo scelto è quello di non limitarci a parlare con i soliti sospetti, ma di parlare con persone che di norma non sono d’accordo con me. Se l’ex consigliere economico di Ronald Reagan o l’ex consigliere economico di John McCain o l’ex consigliere economico di George Bush ti danno il medesimo consiglio di quello che i consiglieri di Bill Clinton o di Jimmy Carter ti stanno dando, allora puoi essere pressoché sicuro che in tutto lo spettro politico vi è del consenso.

“Certo, tutto ciò non avverrà nell’arco di una sola notte. La situazione è complessa e sappiamo che, indipendentemente da quanto riusciremo a fare dal punto degli investimenti e della ripresa, dovremo nondimeno fare molte altre cose per essere sicuri che l’economia sia in forma migliore. Una delle cose più importanti che dovremo fare è riformare il modo col quale funzionano i nostri sistemi finanziari. Dobbiamo far sì che il flusso del credito ricominci. Questo significa ripristinare la fiducia, ripristinare le aperture nel sistema. Significa che il nostro contesto normativo deve essere riformato profondamente…

“C’è un pacchetto consistente di riforme che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi renderò noto. Significa che dobbiamo occuparci molto più seriamente della crisi immobiliare che c’è al momento e stabilizzarla. Significa che dovremo pensare a quale approccio avere nei confronti della responsabilità fiscale. Ecco perché ho annunciato che nominerò un funzionario capo addetto alla performance, incaricato di attuare l’impegno che ho sottoscritto in campagna elettorale di andare a fondo nel budget federale, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e determinare quali programmi funzionano e quali programmi non funzionano, eliminando di conseguenza quelli che non funzionano e facendo sì che quelli che funzionano funzionino ancora meglio.

“Si tratta dunque di un attacco a più punte nei confronti di questo enorme tracollo al quale stiamo assistendo al momento. L’obiettivo a lungo termine è essere certi che salveremo e proteggeremo i posti di lavoro, e che le imprese e le famiglie americane siano in grado di beneficiare del flusso del credito nuovamente. Non voglio aumentare le dimensioni del governo a lungo termine: preferirei che fosse il settore privato a fare tutto ciò per conto suo. Ma credo che ci sia un consenso pressoché unanime tra le persone, anche quelle che non sono andate ad Harvard, e che è necessario varare iniziative coraggiose adesso per essere sicuri che facciamo il possibile per evitare che accada il peggio”.

 
Non ha preoccupazioni su questa eccessiva fiducia?
“No, anzi, mi sento schiacciato dalle sfide che ci stanno di fronte. Ma ho fiducia in una cosa: sono un buon ascoltatore, sono bravo a sintetizzare i consigli provenienti da prospettive e ottiche diverse e prenderò le migliori decisioni possibili pensando proprio a che cosa andrà bene per i comuni americani”.

Il presidente Bush ha dovuto per parecchi anni rispondere alle domande sulla sua strategia di disimpegno dall’Iraq. La stessa domanda vale per gli attacchi su più fronti ai quali lei accennava. Pertanto le chiedo: qual è la sua strategia di uscita dalla crisi dell’auto, delle assicurazioni, del settore finanziario? Come decide quando è tempo di smettere di concentrarsi sul breve periodo? Come deciderà che i suoi programmi hanno dato buoni frutti e che è giunto il momento di concentrarsi sulla responsabilità fiscale a lungo termine?

“Deve essere chiaro che non agiremo in fasi successive, ma agiremo su binari paralleli. Pertanto prepareò un budget che sottoporrò al Congresso a febbraio e quel budget conterrà proiezioni a medio termine, a lungo termine come pure a breve termine”.

“Non aspetteremo che passino due anni per iniziare a preoccuparci di quello che dobbiamo fare per il deficit. Vogliamo vedere tutte le cose che possiamo fare durante il mio mandato iniziare a influire riducendo il deficit. In sostanza, io credo che quando si vedrà che il settore privato riprenderà a erogare prestiti, quando il flusso del credito arriverà alle famiglie e alle aziende, quando si potranno acquistare automobili a rate, quando si potrà essere in grado di onorare le rate del mutuo, quando il mercato del lavoro si sarà stabilizzato allora piano piano ci tireremo indietro. Ed è per questo che è estremamente importante per noi monitorare i progressi con grande attenzione.

“Cerchiamo però di capire che le migliori previsioni che abbiamo al momento sono che malgrado tutti gli sforzi più grossi che possiamo fare ancora adesso abbiamo davanti la prospettiva di una disoccupazione considerevole. Non sarà pari a un numero a due cifre come accadrebbe se non facessimo assolutamente nulla… ma potrebbe occorrere buona parte del prossimo anno prima di vedere l’economia riprendere a funzionare come dovrebbe”.

Ci sarà una crescita nella seconda metà del 2009 secondo lei?
“Non ho una sfera di cristallo… ma sono fiducioso in una cosa: se non facessimo niente, le cose peggiorerebbero, e di molto. Con il piano che abbiamo predisposto, le cose andranno in ogni caso meglio di come sarebbero andate altrimenti. Sono fiducioso che potremo creare o salvare tre milioni di posti di lavoro.
Ne abbiamo già persi almeno due milioni. Alla fine di questa settimana potremo leggere un rapporto sui posti di lavoro, dal quale probabilmente emergerà che ne abbiamo persi quanto meno un altro mezzo milione. Se iniziamo a vedere che l’anno prossimo si perderanno tre, quattro, cinque milioni in più di posti di lavoro, allora possiamo stare certi che si tratta di una crisi come non ne abbiamo mai viste e dovremo intervenire e stroncare questo processo sul nascere”.

Parliamo di tasse: quando ci siamo incontrati a giugno lei mi disse che avrebbe potuto posporre alcuni aumenti di tasse che lei ha proposto per far fronte all’attuale situazione economica. Sappiamo che nel suo programma si parla all’incirca di tagli alle tasse pari a 300 miliardi di dollari, ma le chiedo: è pronto adesso a dirci che non procederà alla revoca immediata degli sgravi fiscali apportati dal presidente Bush ai contribuenti che guadagnano più di 250.000 dollari e lasciare la situazione così come è fino al 2010?

 

“Non posso in questo momento qui con lei prendere un impegno così importante e in modo così rapido, John, ma le ripeto che mi preoccupa meno se ciò accade quest’anno o l’anno prossimo. La cosa che più mi preme è riportare parità e equità nel sistema contributivo.

“Ecco perché abbiamo presentato precisi sgravi fiscali nell’ambito del pacchetto delle nostre proposte. Il 95 per cento delle famiglie che lavorano avranno uno sgravio fiscale. Vogliamo anche studiare altri modi con i quali far sì da rimettere quei soldi in tasca velocemente alle famiglie senza dover attendere la prossima dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo, perché altrimenti non si avrà quel genere di effetto incentivo che invece occorre.

“Ma vogliamo altresì essere sicuri che teniamo bene sotto controllo il deficit. Per persone come lei e come me, che guadagnano più di 200-250.000 dollari l’anno, i tagli alle tasse voluti da Bush non erano necessari…. non sono tuttora necessari e pertanto faremo sì che non continuino a essere parte del nostro codice tributario ancora a lungo”.

Non so che cosa intenda lei con i termini importanti e rapido, ma mi sembra che lei non procederà a modificare le cose quest’anno.
“Non ho ancora preso una decisione finale in proposito. Oltretutto ciò rientra tra le cose sulle quali dovremo consultarci con il Congresso”.

In tema di politiche bipartisan: mi sembra che almeno per un momento il dialogo tra i due partiti sia diverso. Quando conta per lei il dialogo bipartisan? È pronto ad accettare idee dalla controparte, anche se non pensa che quelle siano le idee migliori?

“Vede, io la penso in questi termini: la cosa più importante è che cosa serve a ottenere il risultato voluto. Questa è l’ottica dalla quale io considero ogni cosa. È creare tre milioni di posti di lavoro o salvare tre milioni di posti di lavoro? Ci stiamo preparando? Stiamo gettando le fondamenta della nostra indipendenza energetica? Stiamo riducendo le spese della nostra assistenza sanitaria, che sono di importanza cruciale per affrontare il nostro deficit sul lungo periodo? Stiamo creando un sistema scolastico di prima classe? Queste sono le mie priorità assolute.

“Quindi: io non reputo affatto che il partito democratico abbia il monopolio delle buone idee. I repubblicani hanno molto da offrire. Ciò che farò sarà ascoltare e imparare dai miei colleghi repubblicani. Ogniqualvolta saranno in grado di dimostrazione e addurre valide motivazioni a favore di qualcosa che sarà proficuo per il popolo americano, solo perché non ci hanno pensato prima i democratici ma lo promuovono i repubblicani non per questo ignorerò i loro suggerimenti.

“Ci saranno occasioni, naturalmente, nelle quali saremo in disaccordo. E se qualcuno mi presenta un progetto al quale è legato ideologicamente, ma non è in grado di persuadermi che sarà effettivamente buono e positivo per l’economia, allora non se ne farà nulla. Ci saranno anche altre occasioni nelle quali dovremo combattere. Ma dal mio punto di vista io non sono alla ricerca di battaglie: a me interessa quanta più cooperazione possibile. Sono aperto a qualsiasi idea che mi sarà presentata”.

Prevede che la quota di sgravi fiscali del suo piano aumenterà dopo le consultazioni con i repubblicani al Congresso, nel momento in cui lei cercherà di ottenere maggiore supporto per il suo programma?
“L’atteggiamento che intendo avere nei confronti degli sgravi fiscali è il medesimo che intendo applicare al pacchetto degli investimenti. Ovvero: si tratta di denaro speso bene? Questi sono soldi dei contribuenti, che vanno ad aumentare il deficit sul breve periodo. Se non saremo in grado di giustificarli, allora non si spenderanno decine o centinaia di miliardi di dollari soltanto per fare felice qualcuno. E la stessa regola l’applicherò anche a tutto il resto”.

Si concorda pressoché unanimemente che il settore immobiliare è alla radice del problema economico che oggi ci assilla. Pensa che la priorità più assoluta ora sia di far ripartire il settore immobiliare, forse tramite crediti fiscali, o di limitare i pignoramenti?

“Quando si parla di mercato immobiliare, il Consiglio della Federal Reserve ha fatto quello che poteva per abbassare i tassi, quanto più era possibile. Quindi abbiamo visto qualche attività sui rifinanziamenti. Questo non risolve certamente il problema del calo del valore degli immobili.

“Penso che la cosa più importante sia, in tema di calo del valore degli immobili, evitare ulteriori pignoramenti. Ecco perché penso che quanti tra noi stanno ancora pagando un mutuo…. sì, insomma si sente talvolta qualcuno nel Paese che dice: ‘Bene, io sono stato responsabile, perché dovrei dare aiuto a chi forse ha sottoscritto un mutuo che non poteva permettersi?’.

“Questa domanda ci riporta a un adagio secondo il quale se la casa del tuo vicino sta bruciando, la tua prima preoccupazione deve essere quella di spegnere le fiamme, anche se il tuo vicino ha agito irresponsabilmente. Penso che questo è vero anche per i pignoramenti. Dobbiamo evitare questo continuo deterioramento del mercato immobiliare. E ciò inizia proprio con i pignoramenti. Questo non significa che non possiamo anche fornire assistenza, magari non sarà tutta sotto forma di assistenza ai mutui.

“Una delle cose che reputo molto importante nel nostro piano di reinvestimento è fornire gli incentivi per coibentare le case di tutto il Paese. Si tratta di un tipo di investimento a lungo termine che può tagliare drasticamente le bollette energetiche del Paese, aumentare la nostra indipendenza energetica, ridurre i gas serra globali. Quindi, come vede, ci sono alcune aree nelle quali possiamo fare progressi, fornendo sollievo alle famiglie, aiutando i proprietari di casa.

“Ma occuparci della crisi dei pignoramenti dei beni ipotecati è qualcosa che dobbiamo assolutamente fare. Prevedo di rendere noti i miei piani su come evitare i pignoramenti dopo essermi consultato con Barney Frank e Chris Dodd, che hanno fatto un ottimo lavoro da questo punto di vista, in un periodo imprecisato entro il prossimo mese o i prossimi due”.

Nell’ambito della seconda parte del suo pacchetto di interventi di salvataggio finanziari?
“Nell’ambito del nostro attacco a più punte alla crisi”.

Si è molto parlato di Larry Summers, l’ex segretario del Tesoro che dirige la sua commissione economica nazionale e si ipotizza che lei lo sceglierà per sostituire Ben Bernanke come presidente della Federal Reserve, quando il suo mandato scadrà nel 2010. È questa la sua intenzione o lei intende rinnovare la nomina ancora a Ben Bernanke?
” Larry Summers non ha ancora ottenuto questo posto… Io ho fatto il suo nome ma non è ancora iniziata la nostra amministrazione. Penso che sia del tutto prematuro per me fare congetture e speculare sulle nomine di qui a due anni, nel momento in cui ancora non ho la mia squadra pronta”.

Mi permetta una domanda sugli enti di controllo. Ci troviamo oggi in un edificio che un tempo ospitava la Sec. Quanto grosso è l’intervento di riforma dell’apparato normative finanziario che lei propone e appoggia? Quando lo varerà? Pensa che vi sia la necessità di creare un apparato normativo globale? Ad aprile dovrà prendere parte al G-20 a Londra…

“Per quando dovrò prendere parte al G-20 credo che di sicuro avrò presentato il nostro approccio alle normative finanziarie. Penso che una certa coordinazione internazionale ci voglia. Ma al momento noi dobbiamo occuparci della nostra. Wall Street non ha funzionato come doveva, e il nostro sistema normativo di controllo non ha funzionano come si supponeva dovesse fare. Quindi si impone un intervento drastico e sostanziale.

“Dovremo occuparci di farlo applicare meglio, di avere migliori controlli, migliore chiarezza, migliore trasparenza. Dovremo controllare questo insieme di sigle di agenzie varie e escogitare come farle funzionare più efficacemente. Dobbiamo smettere di spezzettare le varie funzioni in modo tale che il capitale sotto una forma è trattato in un modo e il capitale sotto un’altra forma è trattato in un altro, perché in questi tempi di mercati finanziari globali, sono tutti fungibili .

“Ci sono rischi sistemici in agguato, sia sotto forma di derivati, sia di assicurazioni sia di depositi bancari tradizionali. Quindi dobbiamo aggiornare il nostro intero sistema per rispondere alle esigenze del XXI secolo. Questo è un compito sul quale il mio team sta già lavorando e credo che avremo, in tempi abbastanza brevi, un pacchetto da presentare al popolo americano al quale ho lavorato insieme a Barney Frank e Chris Dodd”.

Dick Parsons sarà il suo prossimo segretario del Commercio?
“Non ho ancora preso una decisione finale su chi sceglierò per essere il prossimo segretario del Commercio. Quando lo saprò, te lo farò sapere, John”.

Ma Parsons è un candidato?
“Non farò commenti in proposito. Dick Parsons è una persona in gamba ed è anche mio amico”.

E’ fiducioso di avere ormai alle spalle questo breve periodo di controversia sulla scelta di Lon Panetta come capo della Cia? Quanto crede che sarà difficile per lei cercare di tradurre in pratica il suo impegno a porre fine al concetto che gli Stati Uniti ammettono la tortura?
“Prima di tutto io non ho fatto alcuna dichiarazione ufficiale su Leon Panetta. Quando lo farò sarà perché avrò qualcosa di più da dire in proposito. Posso soltanto dire che Leon Panetta è un funzionario pubblico eccezionale, che ha un’integrità impeccabile. È una persona che ha lavorato ai più alti livelli per la sicurezza nazionale e se dovessi sceglierlo penso che svolgerebbe meravigliosamente il suo lavoro.

“C’è una questione più ampia di cui occuparsi, però. Come ricominciamo, come rietichettiamo le nostre operazioni di intelligence? Nella Cia, nel nostro Dipartimento dell’Intelligence Nazionale ci sono persone straordinarie che hanno fatto un lavoro incredibile e voglio che abbiano tutto ciò di cui necessitano per poter lavorare in modo efficiente. Voglio anche essere sicuro che tutte queste persone che lavorano così duramente per fornire le migliori intelligence all’apparato della nostra sicurezza nazionale, che operano nel segreto e conformemente alle politiche scelte, non si trovino sotto i riflettori e accusati, o finiscano col portare il peso delle conseguenze di quello che facciamo se non dovessimo vivere all’altezza dei nostri ideali e dei nostri valori più alti”.

Prevede che sarà difficile cambiare queste cose?
“Sì”.

Ci vorrebbe qualcosa di preciso che stabilisse che cosa esattamente è etichettabile come tortura, non crede?
“Mi permetta di farle un esempio. Io credo che ci siano alcune cose che non sono difficili. Noi ottemperiamo alle Convenzioni di Ginevra: questo non dovrebbe essere difficile. Noi abbiamo contribuito a redigerle. Le abbiamo sostenute e ci sono servite bene.

“Penso che chiuderò Guantanamo. Come lo faremo non è facile a dirsi, perché ci saranno persone che sono state recluse lì, e molte di loro di fatto potrebbero essere molto pericolose. Dovremmo averle processate , prima di ogni altra cosa, ma adesso a causa delle circostanze nelle quali ci siamo trovati per svariati anni, è molto più difficile perché alcune delle prove contro di loro possono essere alterate dalle modalità con le quali sono state ottenute. Quindi dovremo procedere a una revisione molto attenta di come procedere.

“Tuttavia il mio impegno è questo: nessuna tortura, adesione totale alla legalità, adesione totale alla nostra Costituzione, adesione totale alle Convenzioni di Ginevra. Queste cose sono state messe a punto non soltanto per farci sentire bene, ma sono state concepite per essere sicuri che continueremo a comunicare che noi abbiamo una solida morale, che l’America vive secondo standard più elevati. Questo nel lungo periodo ci porterà sicuramente benefici, e ci renderà più sicuri”.

Lei ha spesso instaurato confronti…. O meglio, le sfide alle quali lei deve far fronte hanno fatto sì che si instaurassero paragoni anche con Franklin Roosevelt…
“Esatto”.

… con i tempi della peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Quando Franklin Delano Roosevelt fece il suo discorso inaugurale egli disse al popolo americano: “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”.
“Esatto”.

Quando il 20 gennaio lei farà il suo discorso inaugurale crede che dovrà ricoprire questo medesimo ruolo? Rassicurare il popolo americano? Come bilancerà questo messaggio con la necessità di trasmettere l’urgenza di ciò che si dovrà fare?
“È interessante…. Come può immaginare di recente ho letto vari discorsi inaugurali. Se si legge il primo discorso di Franklin Delano Roosevelt l’unica frase che ci si ricorda è quella, “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”, ma di fatto il grosso del suo discorso si incentrava sulla necessità di agire e agire subito. Poi Roosevelt spiegava, credo, la natura della crisi, sia nel suo discorso inaugurale, sia nelle sue famose chiacchierate accanto al caminetto, tanto quanto chiunque altro.

“Questo è un consiglio che ho ricevuto da un ex presidente, che mi ha detto: “Barack, parte del tuo successo e di come stai agendo bene al momento è che tu non parli con mezzi termini con il popolo americano, tu dici le cose come stanno, spiegando ciò che sta accadendo e come sta accadendo”. Io ho fiducia nel popolo americano: se gli si parla chiaramente, se ci si spiega chiaramente, dicendo testualmente “Questa è la nostra sfida, siamo arrivati a questo punto perché abbiamo fatto questo, e questa è la direzione che secondo me dobbiamo imboccare”, allora io sono assolutamente fiducioso che il popolo americano sarà all’altezza della sfida. Quindi il mio compito, sia nel discorso inaugurale, sia nei mesi che seguiranno, sarà semplicemente quello di spiegare quanto più onestamente e sinceramente possibile quali sono le circostanze, quali sono le idee migliori che abbiamo per far fronte a queste sfide. Se ci riuscirò sono sicuro che saremo uniti per risolvere questi problemi”.

Girano un sacco di voci nella cultura americana contemporanea. Si discute della sinistra, della destra, in televisione, continuamente, e anche del sistema finanziario. Per lei è importante o è più importante astrarsi da tutto ciò e decidere ancora prima che non avranno peso?
“Io credo che sia importante non vivere in una bolla. Quindi bisogna essere aperti alle informazioni che arrivano da fuori, in particolare le critiche. Io leggo di rado la stampa, ma spesso leggo la “cattiva” stampa, non perché sia d’accordo con quella, ma perché voglio capire in quali aree sto agendo male e dove posso migliorare”.

Finora non ci sono stati articoli cattivi su di lei…
“Sono sicuro che arriveranno… per quanto riguarda i mercati, però, la situazione è leggermente diversa. Per il momento, considerata la sua vulnerabilità, dovrò prestare attenzione all’aspetto psicologico del mercato, perché parte di ciò a cui stiamo assistendo nasce da una perdita di fiducia sia nel mercato sia nel governo che ripristina tale fiducia.

“Pertanto ripristinare la fiducia è una prima cosa estremamente importante. Quello che farò sarà essere sicuro di comunicare a scadenze regolari con gli attori più importanti del mercato e di spiegare loro con esattezza quali sono i nostri piani chiedendo loro di mettere a disposizione i loro suggerimenti migliori. Nel complesso, comunque, una delle cose dell’essere presidente che mi sono abbastanza chiare è che dovrò guardare oltre l’orizzonte. Non posso guardare i titoli dei notiziari di oggi perché se lo facessi allora probabilmente non prenderei le decisioni sulla base di ciò che è meglio per il Paese. Sprecherei molto tempo a preoccuparmi della politica di tutti i giorni, giorno dopo giorno, e questo è qualcosa che devo cercare di evitare”.

Visto che parliamo di come evitare i problemi legati al fatto di vivere in una bolla, ha ancora in tasca uno di questi? (Estrae dalla tasca un BlackBerry).
“In realtà l’ho messo da parte per questa intervista, ma mi porto ancora dietro il mio BlackBerry. Dovranno strapparmelo dalle mani!”.

Riuscirà ad accettare questa idea anacronistica, forse, di un presidente che non può utilizzare i mezzi più moderni?
“Ecco quello che sono giunto a capire: credo che riuscirò ad avere accesso a un computer, da qualche parte. Non sarà proprio nello Studio Ovale! La seconda cosa che spero è di vedere se in qualche modo riusciranno a consentirmi di continuare ad avere accesso al mio BlackBerry. So che…”

In questo momento lei ha ancora il BlackBerry?
“In questo momento ancora sì. Ma devo aggiungere che crea preoccupazione non soltanto ai Servizi Segreti, ma anche agli avvocati. Come sa, questa città pullula di avvocati. Non so se se ne è accorto…”.

Sì!
“E tutti questi avvocati hanno un sacco di opinioni diverse. Quindi, sto ancora lottando… ma senta, forse è la cosa più difficile dell’essere presidente: come rimanere in contatto con il flusso della vita quotidiana? Sa quando eravamo in vacanza alle Hawaii mi sono sentito molto scoraggiato dall’essere tenuto d’occhio costantemente dalle guardie del corpo. Anche solo andare a prendere una granita è stata un’impresa…”

E le hanno detto di non andarsene in giro senza maglietta?
” Quello l’ho imparato sin dal primo giorno, ma credo che… ”

E’ stato imbarazzante per lei? Se ne è preoccupato? Ci sono stati molti commenti su questo.
“Lo so, è stato sciocco, ma si sa, in questo lavoro ci sono molti aspetti sciocchi”.

Ha ricevuto bei complimenti, però.
“Mia moglie ha ridacchiato quando sono arrossito. In ogni caso… di che cosa stavamo parlando? Siamo usciti fuori argomento, John…”

Stava dicendo che pare proprio che dovrà lottare per tenersi il suo BlackBerry…
“Non so se la spunterò, ma mi sto battendo ancora… Ma il punto è un altro… Immagino che non è solo il flusso di informazioni. Voglio dire, potrò sempre chiedere a qualcuno di stamparmi le notizie di agenzia e potrò leggere i giornali. Quello che mi sta a cuore è avere meccanismi con i quali interagire con le persone che sono fuori dalla Casa Bianca in modo significativo.

“Dovrò cercare ogni opportunità possibile per farlo…. modi che non sono complicati, che non sono controllati, in cui la gente non cerchi solo di farti i complimenti o di alzarsi in piedi quando entro in una stanza, modi di stare con i piedi per terra. Se riuscirò a gestire questa cosa nei prossimi quattro anni, credo che mi aiuterà a servire il popolo americano meglio, perché sarò in grado di sentire quello che dice, la voce di tutti. Non dovranno tacere per il fatto che io sono alla Casa Bianca”.

Un’ultima domanda: la Florida domanica gioca in Ocklaohoma in quella che da tutti è considerata la partita determinante del campionato nazionale. Lei ha parlato della necessità di un playoff nel football universitario. Pensa che l’Utah, che ha terminato il campionato senza essere sconfitta dalla squadra dell’Alabama che ha sconfitto tutti, abbia buoni motivi per dichiararsi campione di questo campionato nazionale?
“Penso che l’Utah abbia ottimi motivi. Penso che gli USC, che hanno un grande Rose Bowl, hanno battuto di brutto Penn State. Hanno ottimi motivi per dichiararsi vincitori. Florida e Ocklahoma, penso l’abbiano entrambi. Il Texas a questo punto deve sentirsi un po’… come dire … ‘Beh, ci siamo comportati bene anche noi’. Insomma, io credo che il sistema dei playoff nel football sia utile… Ne ho parlato e ne parlo già da un pezzo e credo che se chiede a chi se ne intende di sport ed è un tifoso ne troverà molti d’accordo con me. Ma io posso scegliere e decidere in quali battaglie lanciarmi: credo che probabilmente mi concentrerò a creare tre milioni di posti di lavoro in più!”.  (Beh, buona giornata).

Copyright New York Times News Service/CNBC – Traduzione di Anna Bissanti

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Alitalia: vi ricordate “Oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri(*)”?

ALITALIA: PARADOSSI TRA LE NUVOLE

di Andrea Boitani da lavoce.info (segnalato da hans suter).

Diventa operativa il 13 gennaio la nuova Alitalia. Non siamo alla conclusione dell’estenuante telenovela perché rimangono le polemiche intorno al partner straniero e al destino di Malpensa. Gli errori, la cattiva gestione e le indebite intrusioni della politica sono l’esempio di una pessima conduzione di crisi d’impresa. Ne pagano il prezzo altissimo i cittadini italiani, sia come contribuenti sia come utenti del servizio aereo. Esce sconfitta l’autonomia dell’autorità Antitrust.

Dopo oltre un anno, fiumi di parole, estenuanti trattative, offerte vincolanti, veti sindacali, penultimatum di ogni genere, proclami politici, vessilli nazionali sventolati e poi cautamente riposti, cordate di capitani coraggiosi a lungo invano invocate, sollecitate e poi robustamente aiutate, scioperi veri e scioperi bianchi, una catastrofica caduta dei passeggeri, la nuova Alitalia dovrebbe diventare operativa il 13 gennaio, con un partner straniero che dovrebbe essere Air France, salvo sorprese dell’ultimo minuto. Sarà una compagnia piccola: inizialmente opererà 670 voli a settimana contro i 1050 operati nel 2008 dalla somma della vecchia Alitalia e di Air One (una riduzione del 36%).

PICCOLA, POTENTE, COSTOSA (PER I CITTADINI)

Alitalia piccola, ma con maggior potere sulla rotta Milano-Roma, che verrà presidiata con 290 voli settimanali, di cui 255 su Linate (il 38% di tutti i voli della nuova compagnia). L’Antitrust – il cui potere d’intervento nella vicenda era stato sostanzialmente ridotto per decreto governativo – ha assunto un atteggiamento così minimalista da rasentare il ridicolo. Il prevedibile incremento delle tariffe sulla Milano Linate – Roma ha subito spinto Trenitalia ad aumentare sostanziosamente le tariffe ferroviarie sulla stessa tratta, approfittando dell’inaugurazione dell’alta velocità tra Milano e Bologna.
Si può obiettare che, una volta definita l’alleanza con Air France, i clienti della nuova Alitalia potranno beneficiare della vastissima offerta di uno dei maggiori network mondiali (Skyteam). Ma va pur detto che se si fosse accettata l’offerta di Air France-Klm del marzo scorso, il beneficio del network internazionale sarebbe stato identico, mentre Air One sarebbe rimasta indipendente o sarebbe stata acquisita da Lufthansa (della cui “galassia”, Star Alliance, faceva già parte), con il conseguente beneficio della maggior concorrenza. Per non parlare dei maggiori costi sociali (maggiori esuberi) e per lo Stato (quindi per tutti i cittadini) che ha prodotto la decisione di ammainare la bandiera a gennaio 2009 invece che nell’aprile 2008 (1). Vale solo la pena di ricordare che gli stimati (complessivi) 4 miliardi di euro equivalgono a 333.333 sussidi di disoccupazione da 1000 euro al mese per un anno.

MALPENSA E FIUMICINO: IL DERBY CHE NON C’È

Salta agli occhi che, nonostante l’impegno di tanti “nordisti”, la nuova compagnia avrà come (semi) hub Roma Fiumicino: le destinazioni intercontinentali da Malpensa saranno solo 3 contro le 13 da Fiumicino. Ancora di più salta agli occhi che – nonostante la privatizzazione totale di Alitalia – molti politici continuino a pensare che sia la politica a dover decidere le alleanze della compagnia, in funzione delle esigenze del territorio. Non è possibile dire, a priori, se la scelta di Air France si rivelerà migliore della scelta di Lufthansa. Dipende anche dalle concrete offerte finanziarie che le due compagnie avranno fatto (si sa che Air France ha offerto 300 milioni per il 25% della nuova Alitalia). Ma è certo che la scelta deve essere compiuta dagli azionisti della nuova Alitalia, valutando solo ciò che è bene per la compagnia. Resta da notare il singolare argomento di alcuni vocali paladini del fronte del Nord, secondo i quali se l’alleato sarà Air France, allora bisognerà procedere rapidamente alla revisione degli accordi bilaterali per consentire a compagnie diverse da Alitalia di volare da Malpensa sulle rotte intercontinentali non liberalizzate (cioè tutte, salvo quelle verso gli Usa). La liberalizzazione dei voli andrebbe fatta se l’alleato sarà Air France che favorisce Fiumicino, ma non andrebbe fatta se verrà scelta Lufthansa, che favorirebbe Malpensa! In realtà, la revisione dei bilaterali va fatta comunque, perché una maggiore concorrenza nei servizi aerei intercontinentali è un vero interesse nazionale e garantisce lo sviluppo di Malpensa (così come di altri aeroporti italiani, al Sud per esempio), indipendentemente dal fatto che Cai “sposi” una francese o una tedesca. Ma non risulta che il governo italiano si sia mosso o si stia muovendo in questa direzione, che certo non fa piacere agli azionisti di Cai. L’impresa, infatti, vuole riservarsi la possibilità di riattivare le rotte ora dismesse senza ritrovarsi tra i piedi scomodi concorrenti. Dato che la revisione dei bilaterali non si fa in un giorno, sarebbe il caso di darsi da fare subito, a prescindere dalle decisioni della nuova Alitalia. È troppo chiedere autonomia dell’impresa dalla politica e autonomia della politica dalle imprese?

IL PREZZO DI AIR ONE

Infine, la questione della valutazione di Air One da parte di Cai. Si tratta di 790 milioni, 300 in contanti e 490 per i debiti di Air One, contro i 1052 pagati per Alitalia, al netto dei debiti di quest’ultima (che sono rimasti in capo alla “bad company”). Ma Air One ha un fatturato che è un quinto (20%) di quello di Alitalia. Quindi, considerando soltanto i 300 milioni “freschi”, sembra che pagare Air One oltre il 28% di quanto si è pagata Alitalia, accollandosi anche i debiti, sia un bel pagare: in totale Cai sborsa per Air One il 75% di quanto ha sborsato per Alitalia. Rocco Sabelli (l’aamministratore delegato di Cai) aveva giustificato la supervalutazione con le “sinergie derivanti dal mettere insieme due reti sovrapposte, che stimiamo 150-200 milioni all’anno per alcuni anni”(2). Qualcuno ha però osservato: “ma è chiaro che su Colaninno e sulla valutazione finanziaria (a meno Toto non avrebbe venduto) ha pesato il pressing di Intesa San Paolo, decisa a rientrare dai crediti vantati verso Air One, che stavano diventando un problema per la banca guidata da Corrado Passera” (3). Sarebbe interessante sapere se le cose stiano proprio così o se Carlo Toto abbia soltanto potuto esigere un premio per le “sinergie” e – verrebbe da aggiungere – per il monopolio sulla Milano-Roma che l’acquisizione di Air One ha consentito alla nuova Alitalia di riconquistare. (Beh, buona giornata).

(1) Si vedano i sintetici conti presentati da Tito Boeri su Repubblica del 2 gennaio 2009.
(2) Dichiarazione riportata da Gianni Dragoni su Il Sole 24 Ore del 13 dicembre 2008.
(3) Marco Alfieri su Il Sole 24 Ore del 30 dicembre 2008.

(*) “Alitalia: oggi trattano male i dipendenti, domani i passeggeri” è stato pubblicato su “Beh, buona giornata “il 1.11.08, nelle categorie Attalità, Finanza e Economia, Lavoro.

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“Non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse.”

 
La carta della fiducia
LUCA RICOLFI da lastampa.it
Se ripensiamo alle notizie economiche delle ultime settimane c’è da restare sconcertati. La maggior parte dei mezzi di informazione ha prima annunciato un crollo dei consumi (-20% a Natale) e un aumento della povertà (il 15% della famiglie «non ha i soldi per mangiare»), per poi accorgersi che i consumi erano sostanzialmente stabili e le notizie sulla crescita della povertà erano un po’ vecchiotte, visto che risalivano al biennio 2006-2007, ossia alla scorsa legislatura. Prima l’idea sconsolata del Natale povero, poi le immagini delle fiumane di gente in coda per le strade davanti ai negozi, pronta a spendere centinaia di euro a testa in saldi.

Ma non si tratta solo di dati detti e contraddetti. Quando non è il dato ad essere controverso, è la sua interpretazione che diventa ballerina. Nei giorni scorsi abbiamo appreso che il deficit dello Stato nel 2008, il cosiddetto fabbisogno, è risultato di quasi 8 miliardi superiore al previsto. Per alcuni è l’ennesima conferma che Tremonti sa solo sfasciare i conti pubblici, per altri è segno che il governo ha già fatto quello che l’opposizione da tempo gli chiede di fare, ossia allargare i cordoni della borsa per combattere la crisi.

Questa altalena di fatti e contro-fatti, interpretazioni e contro-interpretazioni, rende estremamente difficile orientarsi per capire quel che realmente sta succedendo nel nostro Paese. A mio parere, in questo momento, l’errore di prospettiva più grande che stiamo commettendo è quello di proiettare le nostre paure per eventuali guai futuri sulla realtà, più modesta e meno allarmante, dei segnali che attualmente ci stanno arrivando. Il fatto che nei prossimi mesi possa esserci qualche nuovo crack (come Lehman Brothers), o una crisi di panico dei risparmiatori, o una guerra nucleare fra Israele e Iran, non autorizza a pensare che già ci siamo dentro, né a ignorare i segnali positivi che continuano ad affiancare quelli negativi.

I segnali negativi sono ben noti e ribaditi ad ogni piè sospinto: aumento dei disoccupati e delle ore di cassa integrazione, difficoltà di accesso al credito, crollo della borsa, caduta della produzione industriale e più in generale dell’attività economica. A questi segnali, tuttavia, si affiancano anche parecchi segnali di segno opposto, che tendiamo a ignorare ma su cui sarebbe invece opportuno riflettere.

Primo, e più importante: negli ultimi 6 mesi, soprattutto grazie alla diminuzione dei prezzi (confermata giusto ieri dall’Istat), il numero di famiglie che non riescono a quadrare il bilancio si è ridotto di circa il 30% (indagini Isae di luglio-dicembre 2008), riportandosi al livello del 2006, ossia dell’anno migliore dai tempi dell’introduzione dell’euro (2002). Secondo: finora, le domande per la social card sono poco più di 1/3 del previsto, un fatto che è difficile spiegare solo con i ritardi delle istituzioni e la «vergogna» dei potenziali beneficiari. Terzo: nel corso del 2008 i bandi di gara per le grandi opere hanno avuto un incremento record, pari al 26,9% (dati Crem diffusi pochi giorni fa). Quarto: nonostante la crisi, fra il 2007 e il 2008 l’occupazione dipendente è aumentata di oltre 300 mila unità (ultima indagine Istat, 18 dicembre). Quinto: benzina, gasolio, energia elettrica, mutui, case stanno diminuendo di prezzo. Sesto: a dicembre, per la prima volta da 9 mesi, l’indice Pmi del settore manifatturiero, che misura le aspettative dei responsabili acquisti delle imprese, è salito anziché continuare la sua corsa verso il basso.

Bastano questi segnali a convertire il nostro pessimismo in ottimismo? No, e non solo perché in qualsiasi momento lo tsunami può piombarci addosso dall’esterno, ma perché vi sono rischi strettamente interni che, al momento, paiono sottovalutati dal governo. Il primo, ben noto, è il rischio di un aumento della disoccupazione dovuto al licenziamento di operai e impiegati non tutelati dalla legislazione e dai sindacati: non solo lavoratori atipici, ma anche semplicemente dipendenti in imprese medie e piccole. Il secondo rischio, assai meno noto, è che il rallentamento dell’attività economica costringa a chiudere centinaia di migliaia di artigiani e di piccole imprese, oltre alle più di 200 mila che hanno già chiuso nell’ultimo anno e di cui nessuno parla. Il terzo rischio, forse il più importante, è che anche chi non perderà il posto ma semplicemente teme di perderlo, sia indotto a comportamenti di consumo e di investimento eccessivamente prudenti, contribuendo così, senza volerlo, ad aggravare la recessione in corso. È paradossale, ma dal punto di vista macroeconomico, ovvero del sostegno della domanda, è più importante tranquillizzare i 20 milioni di occupati che si salveranno, che aiutare 1 milione di occupati che il posto lo perderanno davvero.

È dunque su questo versante, quello delle garanzie a chi rischia di perdere il lavoro, che i nostri governanti – ma anche un’opposizione costruttiva – hanno una grande responsabilità. I provvedimenti finora varati, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali, vanno senz’altro nella direzione giusta, ma sono largamente insufficienti se il loro scopo non è semplicemente di tappare qualche falla futura, ma di creare fin da ora un clima di serenità e di fiducia generalizzato. Se si vuole che i comportamenti economici tendano a normalizzarsi, non basta invitare gli italiani a spendere e consumare come se nulla fosse, ma occorre dare un chiaro segnale di attenzione nei confronti di chi teme di perdere il lavoro, sia esso lavoratore atipico o normale, dipendente o indipendente. E l’unico segnale che può funzionare, lo sappiamo tutti, è che gli ammortizzatori sociali diventino automatici, permanenti e universali. Non a caso, nel giro di pochi mesi, il lavoro è divenuto di gran lunga la preoccupazione centrale degli italiani (vedi l’ultimo sondaggio pubblicato da Mannheimer sul Corriere della Sera).

Certo, un’operazione del genere avrà un costo elevato, né potrà essere condotta in pochi mesi o senza fare qualche sacrificio su altri versanti. Ma sono certo che, se il punto di arrivo sarà chiaro, per governo e opposizione sarà più facile trovare un ragionevole accordo, e a quel punto la fiducia, premessa cruciale della ripresa economica, lentamente ma inesorabilmente tornerà a scorrere nelle vene della società italiana. (Beh, buona giornata).

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A Est della crisi economica globale/2.(Fine).

di SIMONE SANTINI – www.clarissa.it

Nelle province rurali ad est della Cina si moltiplicano le manifestazioni di rivendicazione di condizioni di vita più eque e contro la corruzione. L’affermazione di un ceto sociale di nuovi miliardari contro l’impoverimento complessivo attuale è sempre più avvertito come profondamente ingiusto.

Negli ultimi venticinque anni, da quando Deng Xiao Ping annunciò che arricchirsi non era più un peccato contro il socialismo, lo scarto tra ricchi e poveri è aumentato del 50% e in questo campo le politiche del governo per un maggiore bilanciamento del benessere sono fallite. Un rapporto di polizia di inizio dicembre lanciava l’allarme: “I rischi di sommosse su larga scala sono reali”.
Mentre nella regione più produttiva del paese, il Guangdong, le fabbriche chiudono e si licenzia massicciamente, il governo cerca di correre ai ripari. Il presidente della Commissione economica, massimo organo del partito comunista nel settore, ha chiesto alle imprese di stato di non licenziare nessuno nel corso del nuovo anno, le imprese “dovranno mantenere la stabilità dei propri effettivi”. Gli ha fatto eco il presidente della Commissione per le riforme: “Se non gestiremo al meglio le difficoltà attuali, potremmo correre dei seri rischi”.

È la situazione dell’occupazione che si fa grave, ed in modo paradossale. Il tasso di sviluppo per il 2009 è previsto all’8%, straordinario rispetto agli altri paesi industrializzati ma in netto calo rispetto alle due cifre cui era abituata la Cina. Questo non permetterebbe al sistema economico di svilupparsi per assorbire tutti i lavoratori di cui avrebbe bisogno e che potenzialmente potrebbe impiegare. E i nodi vengono al pettine tutti insieme. Le imprese lamentano i lacci anti-inquinamento dovuti alle riforme ambientali che non erano più rinviabili e l’export frena perché lo yuan si sta apprezzando sul dollaro come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale. A questo si deve aggiungere che la crisi recessiva in occidente potrebbe anche determinare politiche protezionistiche nei confronti della Cina: il partito democratico americano, tornato alla Casa Bianca, ha tra i suoi massimi esponenti dei noti fautori di questa linea (come Nancy Pelosi e Hillary Clinton).

La crisi economica del colosso asiatico è dunque strutturale e rischia di esplodere in crisi sociale anti-sistema. La situazione internazionale può diventare così una formidabile arma di destabilizzazione ed eventualmente ricatto nei confronti della classe dirigente cinese da parte di forze che sapessero controllare e indirizzare la crisi mondiale. La domanda da cui siamo partiti si colora di una luce rivelatoria: qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi per ottenerne un vantaggio geopolitico di straordinario valore? Alcuni analisti prevedono che il nuovo equilibrio del pianeta post-guerra fredda, che prevedeva la divisione ideologica tra occidente ed oriente del blocco eurasiatico sotto il controllo della “isola” nordamericana, sarà determinato dalla integrazione tra il grande debitore (gli Usa) e i grandi creditori (Cina e Giappone).

Ovvero, dal secolo Atlantico al secolo Pacifico, in cui la zona eurasiatica non sarà più tenuta sotto controllo attraverso la divisione ma attraverso l’accerchiamento. E, ovviamente, questa architettura, come la precedente, sarà plasmata dal potere finanziario transnazionale: il caos economico mondiale, dunque, come fucina del nuovo ordine mondiale. (Beh, buona giornata).

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A Est della crisi economica globale.(Continua).

di Simone Santini – www.clarissa.it

Qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi economica globale? Se la “crisi terminale del capitalismo” sembra essere stata scongiurata con la socializzazione delle perdite del sistema finanziario internazionale e il suo essere riversata in termini di recessione sulla economia reale (ovvero su imprese e lavoratori), dal punto di vista geopolitico dinamiche parallele appaiono altrettanto chiare.

La globalizzazione, negli ultimi quindici anni, ha avuto questo motore fondamentale: la Cina produceva e gli Stati Uniti consumavano; la Cina vendeva e gli Stati Uniti compravano a debito. Il fenomeno è estremamente più complesso e con molti altri attori, ma questa sintesi essenziale ne svela il meccanismo più vero e cruciale.
Il risultato è che il colosso asiatico è stato il protagonista assoluto della crescita mondiale in questi anni, al punto che l’Asia (o più precisamente la “Cindia” come la chiama Federico Rampini) potrebbe essere il motore dell’umanità di questo secolo e soppiantare la civiltà occidentale.Ma c’è un rovescio della medaglia. La Cina è diventata anche il più grande creditore degli Stati Uniti, avendo sopravanzato in termini assoluti il Giappone nel corso del 2008 detenendo 1.200 miliardi di dollari del debito pubblico americano (seguono in questa classifica, dopo il paese del Sol Levante, i paesi arabi produttori di petrolio del Golfo). Questo elemento apparentemente di forza è in realtà il punto debole centrale della Cina. L’economia di Pechino è legata a filo doppio con Washington e il collasso degli Usa non farebbe che trascinare con sé il Paese del Dragone.

Non è un caso che i cinesi abbiano promesso 600 miliardi di dollari, il 20% del PIL, per salvare il sistema monetario internazionale (il piano Paulson americano ne prevede 700 e la BCE ne ha erogati 550).
La Cina, dunque, nel momento di sua massima espansione si trova anche nel momento di sua massima vulnerabilità e debolezza. Gli americani hanno tutto l’interesse strategico a mantenere legato, e dunque in una dimensione di controllo e dipendenza, l’amico/nemico cinese; questi non può fare altro che cercare di sfuggire alla tutela a stelle e strisce per provare a giocare la sua sfida al mondo voluta dalla sua odierna leadership.

La partita si delinea attualmente su due livelli nevralgici: Pechino ha assoluta necessità di avere un accesso stabile, sicuro ed indipendente, alle materie prime, in particolare alle fonti energetiche. Questo aspetto viene contrastato dagli americani sul piano militare con l’occupazione diretta di Asia centrale e Medio Oriente di cui le guerre di Afghanistan e Iraq sembrano essere solo il preludio.
Sotto un altro aspetto, la crisi economica mondiale sta avendo effetti dirompenti sul fragile equilibrio della società cinese. Nel paese si è innescata una bomba sociale che ora rischia di deflagrare.

Il capitalismo di stato si era retto finora su alcune variabili molto vantaggiose rispetto l’occidente. Da una parte una grande disponibilità di manodopera a basso prezzo, con livelli di produttività altissimi e una possibilità quasi illimitata di sfruttamento. D’altro lato pochi vincoli ambientali e conseguente abbattimento dei costi di produzione, almeno dal punto di vista strettamente economico. Infine, il mantenimento del valore della moneta nazionale, lo yuan, artificialmente basso rispetto al dollaro per favorire l’esportazione.
Ma l’equilibrio si è rotto. Il risultato dello sviluppo tumultuoso di questi anni è stato lo spopolamento delle campagne.

Si calcola ormai che la migrazione interna, l’inurbamento dei contadini che divengono operai, assommi a 230 milioni di persone. In termini assoluti, se 730 milioni di cinesi vivono ancora nelle zone rurali, sono ormai 570 a vivere e lavorare in città. In settori come l’edilizia ed il tessile, i nuovi migranti rappresentano il 70-80% della forza lavoro.
Questo ha determinato la creazione di grosse sacche di povertà e disagio sociale.

Nel 2009 saranno oltre 40 milioni i cittadini che beneficeranno del programma di aiuto statale per gli indigenti nonostante i parametri della soglia di povertà siano un terzo di quelli fissati dalla Banca mondiale (0,31 euro giornalieri contro 0,90). E nonostante tutto, la migrazione interna non si arresta poiché se un contadino guadagna mediamente 425 euro l’anno, un operaio impiegato nei cantieri dei giochi olimpici arrivava ad oltre 200 al mese. (beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume Teatro

I soldi tagliati al cinema e al teatro andranno per allestire uno altro spettacolo: il G8 costerà 400 milioni. Presenta Silvio Berlusconi. Dall’8 al 10 Luglio non cambiate canale (di Sardegna), rimanete con noi.

di Sergio Rizzo, da laderiva.corriere.it

Non è uno scherzo: avete capito bene. Per il G8 in programma sull’Isola della Maddalena, dirimpetto a villa Certosa, residenza privata del premier, dall’ 8 al 10 luglio 2009 si spenderanno 400 milioni di euro.

Quattrocento milioni, per intenderci, è l’entità dei tagli apportati dal governo di Silvio Berlusconi ai fondi per lo spettacolo e il cinema che metteranno in ginocchio un bel pezzo delle cultura italiana.

Questa somma sarà spesa per le opere accessorie al vertice, come una nuova strada che collegherà Olbia a Sassari (ma che c’entra con il vertice?), i lavori per il palazzo della conferenza (58 milioni), l’hotel sede del vertice (59 milioni), la riconversione dell’ospedale militare (73 milioni) e perfino la rete fognaria dell’isola. Siccome il G8 è classificato come Grande evento, la sua gestione sarà curata dalla Protezione civile nella persona del commissario straordinario Guido Bertolaso, sottosegretario alla presidenza. Quanto costerà l’organizzazione: “soltanto” 30 milioni.

“Soltanto”, dicono gli esperti, considerando che giapponesi e tedeschi per i vertici internazionali spendono molto di più. Bene. Ma ammesso che sia giusto che pure Giappone e Germania spendano una barca di soldi in questo modo, per i paragoni è meglio restare in Italia.

L’ultimo G8 è stato quello tragico del 2001 a Genova. Per l’organizzazione vennero stanziati 20 miliardi di lire, cioè un terzo di quello che verrà messo a disposizione per la Maddalena. Per le opere accessorie, invece, lo Stato stanziò 90 miliardi (meno di 47 milioni di lire) in quindici anni.

Considerando tutti gli altri fondi, compresi quelli del Comune, il conto fu di 200 miliardi. Poco più di un quarto di quello che si spenderà nel 2009.

Perché, signori, 400 milioni di euro sono sempre 774 miliardi di lire. Ma ha un senso spendere una somma del genere per un vertice alla Maddalena? (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./4.

Crisi, il Nobel Solow: «Garantire credito
alle imprese e difendere i posti di lavoro»

di Anna Guaita da ilmessaggero.it
NEW YORK (2 gennaio) – Salvare i posti di lavoro, creandone di nuovi e proteggendo quelli ancora esistenti: per il premio Nobel Robert Solow questo deve essere il «primo comandamento» a cui i governi devono ispirarsi per avviare la ripresa economica: «Chi è senza lavoro, chi ha paura di perderlo, vive in una condizione di incertezza. Non è solo ingiusto per la persona stessa, è sbagliato per l’economia: l’incertezza affonda i consumi».

Professore, quanto sarà lunga la crisi?
«Gli ottimisti dicono che finirà entro il 2009, mentre i pessimisti la allungano fino alla metà del 2010. Io mi pongo a metà, penso che cominceremo a uscirne fra la fine dell’anno e l’inizio dell’anno nuovo. Ma bisognerà lavorare per arrivare a questa soluzione. Nel mondo è scomparsa la fiducia, se non la recuperiamo, non ne usciamo».

Tre anni fa, in un’intervista con il nostro giornale, lei esprimeva preoccupazione per le politiche aggressive delle banche, per l’eccessivo indebitamento degli americani, in particolare dei meno abbienti. Era il settembre del 2006 quando disse: ”Chi sta bene finanziariamente cadrà in piedi, ma le classi più povere soffriranno”. E’ successo quel che temeva?
«Mi dispiace dire che avevo ragione. Ma adesso i governi che hanno lasciato che questo succedesse, nella convinzione che i mercati si autoregolamentano, devono trovare delle vie d’uscita. E la prima è di proteggere i posti di lavoro. Sono convinto che Barack Obama intenda muoversi proprio in questa direzione, almeno nei primi tempi della sua presidenza. Sono altrettanto certo che non appena l’economia si sarà rimessa in moto, passerà alla seconda parte del suo programma, che è quello di avviare una riforma che riporti controlli più seri e affidabili».

Lei è stato consigliere di Obama durante la campagna. E il presidente eletto ha scelto vari suoi studenti nella nuova Amministrazione. Quali consigli gli state dando?
«Riguardo alla crisi io la vedo così: è necessario rimettere in moto il credito ed è necessario ridare fiducia alla gente. Il credito è compito della Federal Reserve, che sta facendo del suo meglio per aiutare le istituzioni finanziarie insolventi o con scarsità di liquidi. Qui negli Usa vediamo che qualcosa si sta muovendo. Il congelamento del credito dà i primi segni di scongelamento. La nostra prosperità dipende dalla possibilità delle aziende di avere credito, sia per investire che per pagare i salari. Credo che la Bce stia facendo lo stesso, o almeno me lo auguro».

E come si ridà fiducia alla gente?
«Ripeto: proteggendo il loro posto di lavoro. Ma qui negli Usa Obama ha anche un’altra carta: avviare una riforma sanitaria. Uno dei grandi incubi per i lavoratori americani, che voi fortunatamente non avete, è che con il licenziamento perdono l’assicurazione medica. Spesso quando trovano un altro lavoro, è di qualità inferiore, con meno benefici. Quindi per limitare il senso di insicurezza, bisogna che il lavoratore sappia che anche se per un certo periodo è disoccupato, potrà continuare a curare se stesso, sua moglie e i suoi figli».

Professore lei ha ancora fiducia nel capitalismo americano?
«Ho fiducia che abbiamo imparato la lezione, che abbiamo capito finalmente che il laissez faire non funziona, che dobbiamo accettare un progetto di riforma, e che Obama si sforzerà di realizzarlo».

Lei fu un sostenitore dell’euro. Nel decimo anniversario della sua introduzione, ne è soddisfatto?
«Penso che il mondo, e l’Europa in particolare, abbiano tratto un grande vantaggio dall’euro, che ha portato stabilità nel vostro continente, e una valida alternativa al dollaro sui mercati mondiali. Penso tuttavia che in questo momento anomalo di crisi mondiale, l’Ue dovrebbe permettere ai Paesi in difficoltà dei margini di manovra nel patto di stabilità. Essere rigidi in presenza di una crisi così vasta è da miopi. Garantire una flessibilità, magari temporanea, è saggio. E anche chi si oppone oggi potrebbe finire per averne bisogno presto».
(Beh, buona giornata).

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Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./3.

Dalla crisi allo sviluppo

di Mario Monti da corriere.it

 

«Possiamo limitare le conseguenze economiche e sociali della crisi mondiale per l’Italia, e creare anzi le premesse di un migliore futuro, se facciamo leva sui punti di forza e sulle più vive energie di cui disponiamo ». L’auspicio del Presidente Giorgio Napolitano trova fondamento nelle prove che l’Italia ha saputo dare in passato di fronte a gravi crisi: la terribile eredità della seconda guerra mondiale e in seguito il terrorismo, come ricorda Napolitano, ma anche, negli anni Novanta, le crisi della lira prima dell’approdo nell’euro.

Si è spesso notato che il nostro Paese riesce a dare il meglio solo in condizioni di emergenza, quando non è più possibile rinviare decisioni impopolari. Nei casi citati, si trattava però di emergenze specificamente italiane. Sapremo dare prova della stessa capacità di reazione ora che l’Italia è afflitta da una crisi grave, ma non specificamente italiana?

Perché la risposta sia positiva, occorre evitare due atteggiamenti. Nella diagnosi, non si deve trovare troppo conforto in distinzioni che paiono, per una volta, a favore dell’Italia. Nella terapia, non è prudente ritenere che la pesante eredità del passato, incontestabile, impedisca interventi di ampia portata per contrastare la crisi.

E’ vero che l’economia italiana — rispetto a quella britannica, irlandese, spagnola o americana — è meno sbilanciata verso i due settori (finanziario e immobiliare) dai quali si è scatenata la crisi; che le famiglie italiane hanno risparmi elevati e indebitamenti modesti; che la nostra industria manifatturiera, in alcuni settori, è ancora un punto di forza. Ma rimane il fatto che l’Italia, prima della crisi, era uno dei paesi «avanzati» in corso di «arretramento», con differenziali negativi in termini di competitività e di crescita. La crisi è come un’ orribile marea che copre e offusca tutto. Il suo effetto immediato è stato sì, per noi, meno dirompente che per altri. Ma non dobbiamo credere che, una volta ritiratasi la marea, il nostro sistema produttivo emerga più competitivo di prima.

«Dobbiamo considerare la crisi come grande prova e occasione per aprire al Paese nuove prospettive di sviluppo», ha indicato il Presidente Napolitano. Alla stessa ora, il Presidente Nicolas Sarkozy rivolgeva ai francesi parole molto simili: «Dalla crisi nascerà un mondo nuovo, al quale dobbiamo prepararci lavorando di più, investendo di più. Non aspettatevi che io fermi le riforme strutturali intraprese all’interno della Francia, esse sono vitali per il nostro avvenire, per diventare più competitivi ».

L’Italia affronta la crisi con una duplice pesante eredità, di cui il governo è ben consapevole: l’alto debito pubblico e riforme strutturali non ancora sufficienti. Il debito pubblico consiglia prudenza, ma oggi sarebbe imprudente non prendere misure espansive, reversibili nel tempo, adeguate alla gravità della crisi. Una simultanea accelerazione delle riforme strutturali, meglio se sostenuta da un impegno bipartisan e dall’adesione delle forze sociali, sarebbe ben colta dai mercati ed eviterebbe che il temporaneo maggiore disavanzo renda più gravoso il rifinanziamento del debito.

In questo modo, la durata e la profondità della crisi sarebbero minori. E l’economia italiana ne uscirebbe più moderna, meglio attrezzata per le sfide della competitività mondiale. (Beh, buona giornata).

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Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./2.

Uguaglianza e sviluppo
di FRANCO BRUNI da lastampa.it
La crisi come opportunità: su questo insiste il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica. E auspica, fra l’altro, che sia colta l’occasione per ridurre le disparità dei redditi e delle condizioni di vita. È davvero possibile? Si può diminuire l’ingiustizia sociale mentre si è affannati dall’emergenza macroeconomica internazionale? Si può accentuare la funzione ridistribuiva della finanza pubblica quando il bilancio è stressato dalle conseguenze del rallentamento produttivo, come mostrano i dati forniti ieri dal governo?La crisi è esplosa in una fase della crescita globale caratterizzata da crescenti disuguaglianze. Esse sono una ragione di fragilità dello sviluppo e rendono la recessione socialmente e politicamente più preoccupante. Combattere la crisi facendo attenzione agli aspetti distributivi e di giustizia sociale sembra l’unica via per ottenere risultati duraturi. Come si fa?Il cattivo funzionamento e l’inadeguata regolazione di alcuni mercati hanno favorito lo scoppio della crisi. È diffusa la tentazione di dedurne che dalla crisi e dall’ingiustizia si esce andando «contro il mercato». È un’idea sbagliata. Va invece migliorato il quadro di regole e politiche pubbliche.All’interno di quel quadro funzionano liberamente i mercati, permettendo ai loro meccanismi di ottenere sia una ripresa della crescita dei redditi che una loro miglior distribuzione.

Lo strumento principale per influenzare la distribuzione del reddito rispettando i mercati sono le imposte progressive. Una riduzione delle imposte e degli oneri sociali sui redditi da lavoro medio-bassi, migliorerebbe la distribuzione, oltre a stimolare la domanda e ad abbassare i costi del lavoro. È però arduo tagliare le aliquote proprio quando già la crisi contrae il gettito fiscale allargando il fabbisogno. Perché la crescita del debito pubblico non appaia insostenibile ai mercati finanziari, la riduzione immediata delle tasse andrebbe associata a una credibile contrazione, graduale e futura, di molte spese pubbliche. Di quelle inutili e di quelle, come alcuni trattamenti pensionistici, che sono, proprio loro, gravi cause di ingiustizia distributiva fra categorie e generazioni di lavoratori. Occorre inoltre insistere nella riduzione dell’evasione fiscale. Ovvio da dire e difficile da fare: ma la spudoratezza con cui l’evasione continua, per alcune categorie di operatori e di transazioni, rende precaria e artificiale la condizione apparentemente migliore di chi evade, è fonte di distorsioni competitive, di ingiustificate disuguaglianze, ed è insopportabile, soprattutto in tempi di crisi.

Per favorire, insieme, il mercato e la giustizia distributiva, è indispensabile, soprattutto in Italia, arricchire e migliorare gli ammortizzatori sociali. In una fase di profonde ristrutturazioni produttive, gli aiuti per chi perde il posto vanno messi a disposizione, senza ingiusti privilegi per le categorie di lavoratori più protette, in forme che aiutino a chiudere le imprese meno efficienti e spostare i lavoratori verso nuovi impieghi. Le regole devono avere applicazione generale e vanno evitati trattamenti ad hoc, come quelli proposti per il caso Alitalia, che sono fonte di maggiori, anziché minori disuguaglianze.

Complementare all’assistenza alla disoccupazione è l’adozione di salari minimi e imposte negative per i più poveri. Inoltre, quando gli ammortizzatori sono adeguati, una forte decentralizzazione della contrattazione salariale può migliorare, insieme, l’allocazione di mercato delle risorse, la velocità di crescita dei redditi e la giustezza della loro distribuzione. Una giustezza che deve riflettere la crescente importanza e diversità delle competenze e delle abilità dei singoli lavoratori.

È stato calcolato, in molti Paesi, che una parte considerevole dell’aumento della disuguaglianza dei redditi dell’ultimo decennio è dovuta alle retribuzioni fuori misura dei dirigenti di imprese e banche. Non è demagogico sperare che la crisi sia occasione per rimediare alle anomalie di sistemi di fissazione dei compensi che, oltre a eccessive disparità distributive, hanno creato incentivi per comportamenti manageriali arrischiati e inopportuni. I rimedi vanno decisi soprattutto all’interno delle imprese, anche se la politica può facilitarne e sollecitarne l’adozione.

Il contenimento delle disparità dei redditi e delle condizioni di vita, oltre al risultato di provvedimenti specifici, è prezioso sottoprodotto di diverse altre politiche utili a gestire la crisi. Esse non sono contro i meccanismi di mercato ma, anzi, li rendono più fluidi e produttivi. Le politiche in difesa della concorrenza, contro i privilegi oligopolistici e i protezionismi corporativi, rafforzano i mercati e hanno ovvie implicazioni di giustizia distributiva. Parlare oggi di liberalizzazioni può apparire stonato: eppure si tratta di provvedimenti che, oltre a rilanciare la crescita, servono proprio a far giustizia. Il miglioramento dell’efficienza e la riduzione degli sprechi nella produzione dei servizi pubblici, dalle scuole alla sanità alla giustizia al verde delle città, beneficia molto di più i meno fortunati e i più deboli. Il drastico ridimensionamento del numero e dei privilegi della casta politica libera risorse per la crescita dei mercati e fa giustizia, nel senso più elementare del termine.

Ha dunque ragione il Presidente: non c’è affatto contrasto fra le politiche per riprendere a crescere e l’attenzione alla giustizia distributiva. Il nostro Paese, come tanti altri, può svincolarsi meglio dalla morsa della crisi se ha anche l’ambizione di uscirne più giusto. (Beh, buona giornata).

franco.bruni@unibocconi.it

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Affrontare la crisi economica oltre il mantra dell’ottimismo.

La scienza della felicità nell’anno più buio.
di TIMOTHY GARTON ASH, da repubblica.it
Buon Anno? State scherzando, vero? Il 2009 inizierà con lamenti che col passare del tempo non potranno che aggravarsi. Milioni di persone in tutto il mondo sono già state licenziate, per colpa di questa prima crisi davvero globalizzata del capitalismo, e decine di milioni di altre resteranno molto presto anch’ esse senza lavoro. Quanti tra noi saranno abbastanza fortunati da continuare ad avere un lavoro, si sentiranno più poveri e meno sicuri. Per festeggiare il suo Premio Nobel per l’ economia, Paul Krugman ci garantisce “mesi di inferno economico”. Grazie, Paul, e buon anno anche a te.
I problemi economici esacerberanno le tensioni politiche ovunque. Malgrado tutto, le voci che circolano sulla morte dell’ economia sono però esagerate: io non credo che il 2009 sarà per il capitalismo ciò che il 1989 è stato per il Comunismo. Forse, il 1 gennaio 2010 sarò costretto a rimangiarmi queste parole: fare previsioni è tempo sprecato. (Nell’ almanacco di previsioni e considerazioni dell’ Economist “The World 2009” è stato pubblicato un coraggioso e divertente articoletto intitolato “Per quanto riguarda il 2008, scusateci”).
Ora che inizia un nuovo anno, non vedo però un altro avversario sistemico all’ orizzonte, come invece c’ era – o per lo meno pareva esserci – nei giorni del Comunismo sovietico antecedenti al 1989. Il modello di socialismo alla Hugo Chavez è dipendente in tutto e per tutto dai capitalisti che acquistano il suo petrolio, mentre se vi appare appetibile il modello nordcoreano fareste bene a farvi visitare da un medico.
Sarebbe nondimeno un errore marchiano se in occasione del loro ventesimo anniversario non si rivedessero e riesaminassero le premesse di quel tipo di capitalismo del libero mercato – talora denominato “neoliberal” – che a partire dal 1989 appare trionfare da due decenni.
Prima di tutto e palesemente l’ equilibrio tra Stato e mercato, pubblico e privato, mano visibile e mano invisibile. Anche prima del tracollo del settembre scorso, Barack Obama aveva cercato di esortare i suoi compatrioti ad accettare l’ idea che il governo non sempre è una parolaccia.
Nei mesi successivi si è assistito a un plateale spostamento verso un più importante ruolo dello Stato, di solito con iniziative di improvvisazione governativa a dir poco disperate, in altri casi (come nella Londra di Gordon Brown) ideologicamente legittimate come Keynesianesimo, e in altri ancora (per esempio nella Washington di George Bush), come puro e semplice Disperazionismo.
Quanto di questo spostamento sia temporaneo e quanto sia invece destinato a durare più a lungo non potremo saperlo entro la fine di quest’ anno: quantunque la maggior parte di questo spostamento stia attualmente avendo luogo in direzione di un rafforzamento della mano visibile del governo, potrebbe anche non continuare a essere così.
Un illustre riformista economico cinese poco tempo fa mi ha detto che la crisi finanziaria asiatica di dieci anni fa ha catalizzato una riforma maggiormente orientata al mercato dell’ economia cinese, e che anche questa farà altrettanto. Se ha ragione, si potrebbe arrivare a ipotizzare addirittura una sorta di convergenza globale su qualche variante di economia di mercato sociale in stile europeo, con Stati Uniti e Cina più vicini rispetto alle attuali posizioni in contrasto tra loro. è importante tuttavia tener presente che ho usato le seguenti parole: “qualche variante”.
Anche in Europa, infatti, ci sono notevoli varianti tra le combinazioni possibili di Stato e mercato e il modo col quale esse funzionano. Ciò che si rivela adeguato a un piccolo Paese del Nord, può non essere efficace per un grande Paese del Sud. Non esiste una formula universale. Ciò che conta davvero è che cosa va bene per voi.
Una seconda considerazione per il 2009 riguarda ciò che serve a una crescita sostenibile, verde, a bassa emissione di anidride carbonica, indispensabile a prevenire l’ imminente punto di non ritorno del riscaldamento globale. In discussione, adesso, ci sono due cose: quanta crescita e quale tipo di crescita. Ancora una volta, Obama sta cercando di individuare le chance che questa crisi offre, orientando parte del suo incentivo fiscale keynesiano verso investimenti in energie alternative. Nel suo complesso, però, verosimilmente il 2009 pare prospettarsi come un altro pessimo anno, dal punto di vista della lotta al riscaldamento globale. Orientarsi verso un’ economia sostenibile, a ridotta emissione di anidride carbonica, impone sia alle aziende sia ai governi di accollarsi spese a breve termine per benefici a lungo termine.
Quando le aziende e i governi si ritrovano con le spalle al muro, di solito fanno il contrario.
Quasi certamente, il meglio che possiamo augurarci è che i nostri leader stiano alla larga dal nazionalismo economico-rubamazzo degli anni Trenta: per consentir loro di andare oltre, si renderà inevitabile uno spostamento più incisivo delle aspettative nei loro confronti da parte degli elettori e degli azionisti. Pertanto fino a quando noi, la popolazione, saremo guidati nelle nostre scelte finanziarie e politiche dalla stella polare dei profitti economici a medio termine, non dovremmo biasimare i nostri leader di adoperarsi per darci ciò che chiediamo.
Una terza, essenziale presa di coscienza ci obbliga dunque a guardare alle nostre personali stelle polari: quanti più soldi e “cose materiali” ci occorrono? Siamo sicuri che chi si accontenta gode? (“No”, dicono all’ unisono i pubblicitari). Potremmo farcela con meno? Che cosa vi sta davvero a cuore? Che cosa contribuisce in misura maggiore alla vostra felicità personale? Che lo crediate o meno, esiste ora un intero sottocampo di studi accademici sulla felicità: l’ economista Richard Laynard ha scritto un libro molto interessante che si intitola “Happiness, Lessons from a New Science”.
Sarà questa ciò di cui parlava Nietzsche, alludendo alla “gaia scienza”? Uno studioso olandese, Ruut Veenhoven, ha creato un database mondiale della felicità che annovera classifiche nazionali: ha illustrato i risultati delle sue ricerche su un sito web canadese in un articolo intitolato “Il Canada supera gli Stati Uniti nell’ indice di felicità globale”, nel quale ovviamente è la vittoria sugli Usa a contribuire in buona parte alla felicità materiale dei canadesi.
Una classifica diversa e una “mappa mondiale della felicità” a quanto pare sono state messe a punto dall’ università britannica di Leicester. La Danimarca si colloca in entrambe al top della classifica. Infine, esiste anche un “Giornale di studi sulla felicità” (il cui editore molto verosimilmente se la ride per tutto il tragitto che compie fino alla banca).
Indipendentemente da ciò che pensate del valore sostanziale di questa roba – scusatemi, di questa scienza – potete trascorrere tranquillamente un’ oretta a navigare in Rete per leggerne di più e chiedervi quanto di ciò sia inventato di sana pianta. Tornando a questioni più serie, invece, alcune scelte effettivamente ricadono sui singoli cittadini della middle-class dei Paesi più ricchi. Deve essere chiaro che il pianeta non può tollerare che 6,7 miliardi di persone vivano come vive oggi la middle-class in America settentrionale e in Europa occidentale, per non parlare delle previsioni entro la metà del secolo di arrivare a nove miliardi di abitanti del pianeta: o una più ampia parte del genere umano dovrà essere escluso dai benefici del benessere, o il nostro stile di vita dovrà necessariamente cambiare.
Il mantra col quale la maggior parte dei nostri leader politici e del mondo degli affari entra nel 2009 è “torniamo alla crescita economica, costi quel che costi”. Similmente all’ equipaggio di una barca in piena tempesta, si ripropongono di tenerla a galla e in moto sui marosi, senza curarsi di quale sia la rotta da seguire, ma mentre ci dirigiamo verso l’ epicentro della tempesta, che ancora non ci ha colpiti, dovremmo dare enorme importanza alla rotta che seguiamo.
Ciò rende inevitabile una leadership di alto livello, ma anche cittadini in grado di esigere una tale leadership. Per quanto mi riguarda, sarei felice di apportare al mio stile di vita i cambiamenti che dovessero rendersi necessari? Quasi sicuramente no, ma quanto meno mi piacerebbe sapere quali dovrebbero essere. (Beh, buona giornata)
Traduzione di Anna Bissanti
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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Oui, je suis Alitalia.

di TITO BOERI da repubblica.it


DIECI mesi dopo, con quasi lo 0,3 per cento di pil sottratto ai contribuenti e 7.000 posti di lavoro in meno, Alitalia torna a parlare francese. Era il 14 marzo 2008 quando Air France-KLM depositava la propria offerta vincolante, subito accettata dal Consiglio di Amministrazione di Alitalia. Sono stati 10 mesi da incubo per i viaggiatori, presi ripetutamente in ostaggio in una battaglia senza esclusioni di colpi in cui la politica ha occupato un ruolo centrale, dimentica della recessione che ci stava investendo. In questi 300 giorni gli italiani hanno visto franare il prestito ponte di 300 milioni di euro concesso quasi all’unanimità dal Parlamento italiano. Oltre a perdere così un milione al giorno, i contribuenti si sono accollati i debiti contratti dalla bad company per quasi tre miliardi.

Ci sono poi circa 7.000 posti di lavoro in meno nella nuova compagnia rispetto all’offerta iniziale di Air France, che comporteranno, oltre ai costi sociali degli esuberi (soprattutto di quelli che riguardano i lavoratori precari), oneri aggiuntivi sul contribuente legati al finanziamento in deroga degli ammortizzatori sociali, per almeno un miliardo di euro. Il conto pagato dal contribuente è, dunque superiore ai 4 miliardi di euro, più o meno un terzo di punto di pil, quasi due volte il costo della social card e del bonus famiglia messi insieme.

Sarà Air France-KLM l’azionista di maggioranza, in grado di decidere vita, morte e miracoli della compagnia sorta dalle ceneri di Alitalia. Poco importa che sia italiana la faccia, che si chiami ancora Alitalia la nuova compagnia. Sarebbe stato così comunque, anche con il 100 per cento del capitale nelle mani di Air France-KLM. Come canta Carla Bruni, chi mette la faccia “non è nulla”, chi mette la testa “è tutto”.


La composita cordata italiana ha dovuto subito rinunciare all’italianità della compagnia perché non era da sola in grado di far decollare neanche il primo aereo, previsto in volo sui nostri cieli il 13 gennaio prossimo venturo. Air France rileva il 25% della nuova compagnia, versando 300 milioni. Questo significa che il 100 per cento del capitale viene oggi valutato 1200 miliardi, circa 150 milioni in più dei 1052 pagati a Fantozzi da Colaninno e soci solo un mese fa. Questo sovrapprezzo si spiega col fatto che CAI ha nel frattempo acquisito Air One. Si tratta di una compagnia in crisi, con un debito verso i soli fornitori valutato attorno ai 500 milioni di euro, ma il valore dell’acquisizione di Air One è tutto nella soppressione dell’unico concorrente sulla tratta Milano-Roma, consumatosi con il beneplacito della nostra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Anche questi 150 milioni vanno aggiunti al conto pagato dagli italiani. E’ sono sicuramente una sottostima dei costi che dovremo pagare per la mancata concorrenza.

Conti fatti, è soprattutto Air France dunque ad aver fatto un affare. Rileva una compagnia più leggera di 7000 dipendenti rispetto a quella che avrebbe acquisito nel marzo scorso, che ha nel frattempo assunto una posizione di monopolio nella tratta più redditizia versando molto meno di quel miliardo su cui si era impegnata solo 10 mesi fa.

Dopo avere subìto un danno ingente in conto capitale e avere assistito alla beffa finale di vedere documentata, nero su bianco, la svendita della loro compagnia di bandiera allo straniero da parte dei “patrioti” della Cai, i cittadini italiani rischiano ora di vedere salire ulteriormente le tariffe aeree, in barba alla deflazione. Per scongiurare questo pericolo l’Autorità Antitrust dovrà assicurarsi fin da subito che gli slot lasciati liberi da Alitalià vengano venduti sul mercato. Le speranze di concorrenza in Italia riposano ormai solo sull’ingresso di Lufthansa-Italia nella tratta Milano-Roma. Varrà senz’altro molto di più della moral suasion esercitata da chi, dopo aver benedetto la fusione fra CAI e Air One il 3 dicembre scorso, oggi promette di monitorare da vicino le tariffe della nuova compagnia.  (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Pubblicità e mass media

La fiducia delle imprese italiane è ai minimi storici.

Dopo il crollo dei livelli occupazionali e il crollo dei consumi, ecco che il crollo della fiducia delle imprese arriva a coronare lo sconfortante quadro economico di fine anno. Secondo l’ ISAE Istituto di studi e analisi economiche (*) la fiducia delle imprese crolla ancora a dicembre e scende ai minimi storici. E vengono confermate anche le difficoltà di accesso al credito, emerse già a novembre: l’indice della fiducia delle imprese cala da 71,6 a 66,6, «attestandosi sui minimi storici della rilevazione», come recita il rapporto ISAE.

Dall’inchiesta emerge un forte calo sia dei giudizi sul livello corrente della domanda sia delle attese a breve termine sulla produzione, mentre tornano ad accumularsi le giacenze di prodotti finiti. La crisi, spiega l’ISAE, si estende a tutti i principali settori produttivi: l’indice scende infatti da 65,7 a 62 nei beni d’investimento, da 82,5 a 78,9 in quelli di consumo e da 66,3 a 60,7 negli intermedi.

Su base territoriale, l’indice scende da 67,6 a 63,8 nel Nord Ovest, da 71,4 a 63,1 nel Nord Est e da 80,0 a 75,8 nel Centro; una sostanziale stabilità si registra invece nelle regioni meridionali, dove l’indice passa da 75,9 a 75,5.

Peggiorano anche le previsioni sull’andamento degli ordini, dei livelli di produzione e della liquidità, contemporaneamente si segnala  un forte peggioramento, nei giudizi e le previsioni sull’andamento del fatturato all’esportazione.

Le imprese confermano le difficoltà di accesso al credito emerse già nell’indagine dello scorso mese: circa il 13% di quelle che hanno avuto recenti contatti con le banche non hanno ottenuto il finanziamento sperato (era poco più del 14% a novembre). Nella maggior parte dei casi, il mancato finanziamento è dovuto a un esplicito rifiuto da parte degli operatori finanziari.

Le banche hanno, dunque, una precisa responsabilità nell’aggravarsi del quadro economico del paese. Nonostante gli fossero stati garantiti aiuti statali in caso di difficoltà, le banche italiane fanno quello che da sempre gli riesce meglio: agiscono sulla leva del credito secondo logiche interne, niente affatto compatibili col sistema delle piccole e medie imprese. Alla faccia di quelli che sostengono che il nostro sistema bancario è sano, è più che chiaro che il sistema bancario è sfacciatamente egoista: sa solo prendere, non intende rischiare. Come si fa ad avere fiducia delle banche?

La politica ha una responsabilità precisa e non più rinviabile. Governo e opposizione si rincorrono su una agenda che non ha all’ordine del giorno la reale condizione dell’economia del paese. Che senso hanno polemiche su Giustizia e Federalismo, quando il paese versa in gravi condizioni sociali ed economiche? Il Governo pensa davvero di essersela cavata col pacchetto delle misure anticrisi? L’opposizione pensa davvero a qualcuno importi un fico delle beghe sulla questione morale? Le priorità sono i redditi, il precariato, i consumi, il credito alle piccole imprese, mentre l’agenda della politica italiana è ferma a quindici anni fa. Come si fa ad avere fiducia nella politica?

L’informazione ha la sua parte di responsabilità. I giornali, frustrati dalla invadenza dell’informazione-spettacolo fornita dalle tv (tranne rare quanto vituperate eccezioni). I giornali perdono copie, raccolta pubblicitaria e progressivamente autorevolezza. Per questo l’opinione pubblica italiana è frastornata. Non riesce a trovare la consapevolezza di una forte pressione sulla politica perché adotti subito le misure necessarie a non fare del 2009 un anno orribilis.  Gli italiani stanno per pagare il prezzo salato della mancanza di una informazione pluralistica, svincolata dalle alchimie politiche. Come si fa ad avere fiducia nella libertà di stampa?

La pubblicità vive uno dei momenti peggiori dal dopoguerra. In ritardo su tutti i livelli del’innovazione degli strumenti e dei linguaggi, la pubblicità italiana, abbarbicata al totem della tv come veicolo principe della comunicazione commerciale ha finito per delegittimare se stessa, agli occhi delle imprese e a quelli dei consumatori. Quando i consumi crollano, nonostante la forte pressione televisiva, vuol dire che messaggi e veicoli pubblicitari sono nettamente inadeguati alla domanda che proviene dal mercato della comunicazione. Come si fa ad avere fiducia nella pubblicità?

Il fondamentalismo neoliberista, che crede il mercato sia il demiurgo del benessere nazionale e globale  mostra tutta la sua inconsistenza proprio di fronte alla peggiore crisi dal ’29.

Quando crolla la fiducia nelle banche, nella politica, nell’informazione e nella pubblicità crolla la fiducia stessa in questo nostro modello di sviluppo. Allora diventa urgente cambiare le regole, non solo del gioco, ma anche dei giocatori. Beh, buona giornata.

 

(*)L’ISAE, Istituto di studi e analisi economica  è un ente pubblico di ricerca che svolge principalmente analisi e studi a supporto delle decisioni di politica economica e sociale del Governo, del Parlamento e delle Pubbliche Amministrazioni. L’ISAE effettua, anche attraverso accordi e convenzioni con soggetti pubblici e privati, indagini presso imprese e famiglie, previsioni macroeconomiche, analisi nazionali ed internazionali e studi di macro e microeconomia della finanza pubblica. Vengono esaminate inoltre le politiche economiche di regolamentazione e le tematiche ambientali.

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