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Crisi dei quotidiani: il piano del NYT è vendere il grattacielo di Piano.

(Fonte: repubblica.it)

Il New York Times è con l’acqua alla gola e invece di ipotecare il nuovo grattacelo realizzato da Renzo Piano a fine 2007 (come annunciato ai primi di dicembre) il gruppo ha deciso di fare cassa vendendo la sede.

Affossata dal crollo della raccolta pubblicitaria (-21,2% nel solo mese di novembre 2008) il quotidiano più prestigioso d’America, ma solo il terzo per diffusione (1 milione di copie in media), ha annunciato di essere in fase di “avanzate trattative” per cedere al gruppo immobiliare W.P. Carey e Co. i 19 piani sui 52 dell’intero edificio dove lavorano i giornalisti e l’amministrazione del giornale.

Il Nyt resterà in affitto nello stesso edificio sull’Ottava Avenue con il diritto di riacquistare gli spazi entro 10 anni. Il gruppo ‘The Times. Co.’, che edita anche ‘Boston Globe’ e l’ ‘International Herald Tribune’, possiede il 58% del grattacielo. L’8 dicembre aveva annunciato di voler accendere un’ipoteca per 225 milioni di dollari con cui avrebbe fatto fronte a un debito di 400 in scadenza a maggio di quest’anno. Oggi la svolta senza fornire particolare sull’entita’ dell’operazione.

Lunedi’ il magnate delle tlc messicano Carlos Slim, che gia’ possiede il 6,9% del gruppo, aveva fornito al Nyt una linea di credito di 250 milioni di dollari che non sono bastati a tamponare la falla. All’inizio dell’anno pur di aumentare la raccolta pubblicitaria il Nyt aveva fatto cadere l’ultimo tabu’ accettando inserzioni pubblicitarie in prima pagina: una pratica comune in Italia e in altre testate Usa ma il Times era rimasto finora immune da tutto cio’ che non fosse “una notizia degna di essere pubblicata”. (Beh, buona giornata).

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Primo sì del Senato al federalismo: “non è questo il momento adatto per fare un salto nel buio di tale portata.”

IL COMPROMESSO VIRTUOSO

di Fabio Scacciavillani da lavoce.info

Una politica economica efficace dovrebbe dare un robusto stimolo fiscale oggi, in termini di ammortizzatori sociali e riduzioni di imposte, controbilanciato da risparmi strutturali nel medio periodo. Risultato che si può ottenere aumentando gradualmente l’età pensionabile già dal 2009 e riducendo i privilegi di cui godono ancora troppe categorie. Ma esistono le condizioni politiche per un simile compromesso? Un principio di equità intergenerazionale imporrebbe che chi beneficia oggi degli stimoli fiscali non trasferisca i debiti alle generazioni future.

L’articolo di Luigi Guiso del 3 dicembre 2008 coglie con molta efficacia le deficienze della politica economica del governo. Non so se Tremonti sia rimasto folgorato sulla via di Maastricht, dopo le regalie alla Cai e l’abolizione dell’Ici, ma in ogni caso il problema della sostenibilità del debito pubblico tenderà ad aggravarsi per le ripercussioni della crisi internazionale.

CONSEGUENZE DELLA CRISI

I governi che in tutto il mondo stanno accollandosi le passività del settore finanziario e tentano di sostenere l’economia reale con stimoli fiscali, immetteranno sul mercato una tale valanga di titoli da rendere lecito il dubbio se esista oggi al mondo un massa di risparmio sufficiente a coprire questo fabbisogno, a tassi ragionevoli. I paesi con forti surplus di partite correnti e quindi di risparmio, in primis Cina e paesi del Golfo arabico, devono fronteggiare i loro problemi interni e non saranno in grado di assorbire trilioni di dollari (o di euro) di nuovo debito pubblico. Per attirare risparmio i tassi a lunga dovranno, prima o poi, risalire dai livelli di oggi. Per di più gli investitori saranno estremamente selettivi con gli emittenti sovrani. Già oggi gli spread sul debito pubblico italiano sono a livelli preoccupanti, e dunque non è il caso di aggravare la posizione già precaria dei nostri conti pubblici, (visto anche il persistente nervosismo che accompagna le aste di bond in alcuni paesi di Eurolandia).
Il punto cruciale, tuttavia, come sottolineava Guiso, è che “il governo non ha né una politica fiscale proporzionata al ciclo che si sta attraversando né una politica fiscale di stabilizzazione strutturale per il medio termine adeguata al gravissimo indebitamento del paese”. In altri termini, una politica economica efficace e non estemporanea dovrebbe dare un robusto stimolo fiscale oggi controbilanciato da risparmi certi e strutturali nel medio periodo.

RIVEDERE IL SISTEMA PENSIONISTICO

Esiste un modo efficace e credibile per conseguire questo equilibrio inter-temporale: rivedere il sistema pensionistico. Una tale scelta certo richiederebbe notevole coraggio politico, dati i precedenti, ma i tempi e la gravità della crisi potrebbero indurre alla ragionevolezza. Gli oltranzismi potrebbero essere superati se si legasse questa riforma a un taglio robusto delle imposte dirette e a una estensione degli ammortizzatori sociali per chi ne è sprovvisto. L’aumento graduale dal 2009 dell’età pensionabile per arrivare ai livelli prevalenti nel resto d’Europa, nel giro di due o tre anni ad esempio, si potrebbe realizzare in tempi brevi. In seguito, si potrebbe procedere a eliminare i privilegi di cui ancora godono molte categorie e infine rivedere formule e coefficienti in modo da assicurare da subito l’equilibrio tra contributi e benefici. Un principio di equità intergenerazionale imporrebbe che chi beneficia oggi degli stimoli fiscali non trasferisca i debiti alle generazioni future, ma quantomeno contribuisca a pagare il conto.
Sembrerebbe che il sindacato si renda conto della gravità della situazione, visto che suoi autorevoli esponenti lanciano allarmi sui 400mila posti di lavoro precari a rischio immediato, e i molti altri il cui contratto scadrà nel 2009, quando la recessione dispiegherà gli effetti più gravi. Quindi si potrebbe azzardare che oggi esistano le condizioni politiche favorevoli a un compromesso, se al sindacato stesse effettivamente a cuore la situazione dei precari, e di tutti i lavoratori che rischiano il posto, e non si arroccasse nella difesa di un sistema pensionistico insostenibile. Oltretutto, la crisi non risparmierà certo chi è protetto dallo Statuto dei lavoratori. Quando le aziende falliscono non c’è articolo 18 che tenga.
Un ultima postilla sul federalismo fiscale e l’equilibrio dei conti pubblici: non è questo il momento adatto per fare un salto nel buio di tale portata. L’attuazione dei principi vaghi e contraddittori approvati dal governo rischia di innescare un contenzioso di durata imprevedibile tra vari pezzi dello Stato e di conseguenza introduce una forte incertezza circa le ripercussioni sul bilancio dello Stato. Non sembra proprio il caso di intestardirsi. (Beh, buona giornata). 

 

 
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Si stava meglio quando si stava peggio?

“La crisi non è così drammatica come tutti vogliono pensare e il meno 2 per cento del Pil previsto significa che torneremo indietro di due anni e due anni fa non stavamo così male”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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Dall’inizio dell’anno 6 “senza tetto” sono morti a Milano. Ecco una ricerca sugli homeless in Italia.

SENZA TETTO, MA NON SENZA SPERANZA

di Michela Braga  e Lucia Corno da lavoce.info

Il 14 gennaio è stato effettuato a Milano il primo censimento dei senzatetto. La ricerca è stata realizzata grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini che due anni fa ci lasciava. A lui sono anche dedicati i Dossier Grazie Riccardo, Ricordando Riccardo e Riccardo, un anno dopo. Sono stati censiti quattromila adulti che dormono in strada, nei dormitori o in baraccopoli, campi nomadi ed edifici dismessi. E’ una popolazione estremamente variegata, ma con caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che aprono alla possibilità di politiche di reinserimento e non solo di mera assistenza.

Dopo la recente bolla del mercato immobiliare, che ha colpito progressivamente a macchia di leopardo i paesi su entrambe le sponde dell’oceano, il dibattito e l’attenzione sul tema della casa si sono fatti sempre più caldi. L’enfasi, tuttavia, è quasi sempre su chi già possiede una casa o, al più, è in procinto di acquistarla. Raramente, e solo nei mesi invernali, si parla di coloro che la casa non l’hanno: i senza tetto.
Sembra esserci un consenso unanime sul fatto che il possesso della casa debba essere un diritto acquisito in tutte le società sviluppate che davvero possano essere definite tali. Al contrario, proprio laddove la ricchezza è maggiore, questo diritto primario, che è alla base del vivere sociale, è spesso disatteso.
In Italia, la quota di popolazione che possiede una casa di proprietà è tra le più alte del mondo, oltre il 73 per cento: un dato che sembra far passare in secondo piano il problema dell’assenza di una casa tout court. In ambito accademico, a non accendere neppure il dibattito concorre il fatto che i dati affidabili sul fenomeno sono estremamente limitati a livello internazionale, e pressoché nulli in Italia.

LA DIMENSIONE DEL FENOMENO

Il primo censimento completo dei senza tetto in Italia è stato effettuato il 14 gennaio 2008, nel comune di Milano grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini promossa dall’Ere. In linea con la definizione internazionale, il censimento ha riguardato tutti coloro che nella notte di riferimento dormivano in luoghi non preposti all’abitazione. La rilevazione ha fotografato una popolazione di circa 4mila adulti privi di una casa: 408 erano in strada, 1.152 nei dormitori e circa 2.300 nelle baraccopoli, campi nomadi o edifici dismessi. La distribuzione spaziale della popolazione mostra una maggior concentrazione  nel centro città ma una distribuzione regolare su tutto il territorio cittadino.  (Figura 1 e 2)
La sola quantificazione del fenomeno è già di per sé un risultato interessante. L’unico dato esistente in Italia, infatti, risaliva al 2001 e stimava una popolazione di 17mila persone sull’intero territorio nazionale, pari quindi allo 0,03 per cento della popolazione nazionale. L’assenza di dimora sembrava un fenomeno estremamente marginale e ben lontano dalle dimensioni assunte negli Stati Uniti, dove la quota di senza tetto sul totale della popolazione si attesta nell’ordine dello 0,2 – 0,3 per cento.

CHI SONO I SENZA TETTO?

Il secondo risultato interessante è quello connesso alle caratteristiche della popolazione, emerse dall’indagine condotta su un campione casuale di circa mille individui. I tratti distintivi sono, infatti, ben diversi da quelli dell’iconografia tradizionale del clochard come di un individuo che rifiuta il mondo e le sue convenzioni ed è pertanto completamente avulso dal tessuto dalle reti sociali.
La popolazione è prevalentemente composta da uomini nella parte centrale della vita. L’età media è 40 anni, ma ci sono differenze significative tra strada e dormitori rispetto alle aree dismesse, la cui popolazione è formata in egual misura da uomini e donne relativamente più giovani (30,7 anni).
Le persone relativamente più anziane tendono a preferire la strada ai dormitori. E ciò porta a riflettere su un aspetto non neutrale rispetto alle politiche di reinserimento. Se infatti, da un lato, la vita e la sopravvivenza in strada è più difficoltosa, una simile scelta da parte delle persone relativamente più anziane sembra suggerire che all’avanzare dell’età si è relativamente meno propensi ad accettare il grado di socialità e il rispetto di regole connesse alla residenza nei centri di accoglienza notturna.
Lo status di street homeless appare più cronico rispetto a quello di chi dorme nei centri di accoglienza notturna. In media, gli intervistati sono in strada in modo continuativo da 4,5 anni, mentre nei dormitori da 3,2 anni. Preoccupante è il livello di cronicità che si riscontra nelle aree dimesse, dove la permanenza continuata supera abbondantemente gli 8 anni. (1) La strada e le baraccopoli, perciò, rappresentano la forma più estrema di homelessness: dopo un periodo più o meno lungo di permanenza le difficoltà di reinserimento nel tessuto sociale risultano maggiori.
La composizione etnica è variegata per effetto della netta maggioranza di stranieri (67 per cento) concentrati soprattutto nelle baraccopoli, mentre la quota scende al 60 per cento nei dormitori e al 44 per cento in strada. Le nazionalità di origine sono in linea con la popolazione straniera presente sul territorio nazionale e, per lo più, si tratta di immigrati di nuova generazione arrivati dopo il 2000.
Se gli italiani indicano come causa principale della loro situazione attuale problemi legati alle relazioni familiari e al mercato del lavoro, gli stranieri riconoscono nell’immigrazione con i connessi problemi di lingua, documenti, lavoro il motivo della mancanza di una casa. L’homelessness è quindi il punto di rottura di un percorso di vita per gli italiani: il risultato di un processo di impoverimento oggettivo progressivo i cui effetti si sommano a cause ed eventi di tipo soggettivo quali esperienze traumatiche, di tipo sia familiare (separazioni, lutti, abusi) sia istituzionale (problemi legali, mancanza di assistenza). Per gli immigrati, al contrario, l’assenza di una casa sembra essere accompagnata da un progetto migratorio, che consente di vivere in una condizione di privazione per un periodo di tempo sufficiente per realizzare i propri obiettivi e pervenire a un maggiore benessere.
La popolazione è mediamente istruita, con una quota non trascurabile di laureati (6 per cento), e attiva nel mercato del lavoro (74 per cento) (Tabella 1). Circa un terzo ha svolto un lavoro nell’ultimo mese. Di questi, oltre la metà ha operato nell’economia sommersa e non possiede alcun tipo di contratto, mentre circa un quarto ha contratti temporanei (Tabella 2).
La condizione di povertà materiale estrema non si riflette sul livello di conoscenza del tessuto sociale in cui i senza tetto vivono. Oltre il 57 per cento ha ascoltato un telegiornale o un radiogiornale il giorno della rilevazione, mentre il 15 per cento lo ha fatto al più nell’ultima settimana. Un’analoga proporzione si trova per la lettura di giornali (Tabella 1). Oltre i tre quarti degli intervistati sono informati sulla situazione politica del paese.

CHE COSA FARE?

Alla luce di questi risultati due riflessioni sono necessarie.
In relazione al quantum, sembrerebbe che il fenomeno sia notevolmente cresciuto negli ultimi anni anche in Italia. Usare il condizionale è d’obbligo poiché le metodologie di rilevazione adottate non consentono una perfetta comparabilità dei risultati.
La serietà del fenomeno è comprovata dal fatto che l’Unione Europea abbia incluso tra le priorità proprio l’individuazione di strategie tese ad aumentare la protezione e a favorire l’inclusione sociale di chi non possiede una casa.
Diventa quindi fondamentale la sistematicità e la periodicità delle rilevazioni sui senza tetto, al pari di quanto fatto con la popolazione generale. Solo se si hanno dati affidabili sul fenomeno, che consentano confronti intertemporali. è possibile attuare politiche pubbliche efficaci nel breve, ma soprattutto nel lungo periodo.
Realizzare sistemi integrati di rilevazione è meno difficile di quanto possa sembrare. La maggior parte delle realtà che operano con i senza tetto registrano quotidianamente informazioni sui loro utenti. In potenza, esiste quindi un patrimonio di dati amministrativi che se condiviso tra enti e messo al servizio della comunità scientifica consentirebbe di effettuare analisi più approfondite. Sarebbe sufficiente fissare poche linee guida e alcune direttive essenziali per creare banche dati da cui estrapolare le informazioni necessarie. (2)
Se si considerano invece i risultati qualitativi dell’indagine, emerge come l’homelessness non vada di pari passo con la hopelessness di reinserimento nel tessuto sociale. La popolazione è estremamente variegata, ma ha caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che sembrano suggerire la possibilità (e l’auspicabilità) del disegno di politiche di reinserimento piuttosto che di mera assistenza. Le politiche volte ad alleviare o attenuare il fenomeno, come gli interventi di emergenza e temporanei, sono sicuramente importanti, ma rischiano di accelerare fenomeni di cronicizzazione creando dipendenza: tanto è facile entrare nei circuiti di assistenza, quanto è difficile uscirne.
Viceversa, politiche di inclusione sociale che passino in primis dal mercato del lavoro e da quelo immobiliare, come interventi di supporto o di housing sociale, possono generare interessanti esternalità positive sulla società nel suo complesso e agevolare circoli virtuosi nel gruppo dei pari. (Beh, buona giornata).

Figura 1: La distribuzione spaziale dei senza tetto in strada (apri)

Figura 2: La distribuzione spaziale dei senza tetto nei centri di accoglienza (apri)

Tabella 1: La partecipazione al mercato del lavoro

  Tutto Maschi Femmine Italiani Stranieri
Tutto il campione 74.39 76.8 68.08 59.54 81.48
Strada 57.14 59.59 40.91 51.58 64.38
Dormitori 78.3 79.83 70.15 62.57 88.93
Aree dismesse 77.94 84.83 70.76 65.79 79.42

 

Tabella 2: La situazione contrattuale dei senza tetto attualmente occupati

  Tutto il campione Italiani Stranieri Strada Dormitori Aree dismesse
Contratto permanente 13.12 9.3 14.8 9.52 8.94 18.8
Contratto temporaneo 22.7 29.07 19.9 7.14 30.89 19.66
Non hanno un contratto 58.16 55.81 59.18 64.29 56.91 57.26
Non so 1.06 2.33 0.51 2.38 0.81 0.85
Non risponde 4.96 3.49 5.61 16.67 2.44 3.42

 

Tabella 3: Ultima volta in cui si è letto un quotidiano

  Tutto il campione Donne Uomini Italiani Stranieri
Oggi 56.22 31.92 65.49 64.59 52.2
1 settimana fa 14.24 20 12.04 10.49 16.04
1 mese fa 3.83 5 3.38 3.93 3.77
6 mesi fa 0.85 0.77 0.88 1.31 0.63
1 anno fa 0.11   0.15 0.33  
più di un anno fa 2.44 3.08 2.2 4.26 1.57
Mai letto un giornale 14.77 27.69 9.84 9.84 17.14
Non so 4.99 8.08 3.82 3.28 5.82
Non risponde 2.55 3.46 2.2 1.97 2.83

 
(1) La durata media è stata calcolata dal giorno di arrivo in strada/dormitorio/area dismessa al momento della survey. Quindi, non potendo osservare l’uscita dallo stato di homeless, il dato è sottostimato.
(2) Una metodologia informatizzata altamente sofisticata di questo tipo è l’Homeless Management Information System, utilizzata dal Department of Housing and Urban Development negli Stati Uniti su un campione di 80 città, in diverse aree geografiche del paese, che consente rilevazioni sistematiche cadenzate in modo regolare nel tempo.

PER SAPERNE DI PIU’:

Primo censimento dei senza dimora a Milano, Risultati preliminari e progetto di ricerca da www.frdb.it

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Oggi si insedia Barak Obama. Paul Krugman: “Signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale.”

di PAUL KRUGMAN da lastampa.it
Caro Signor Presidente, come FDR (Franklin Delano Roosevelt) tre quarti di secolo fa, Lei sta entrando in carica in un momento in cui tutte le vecchie certezze sono svanite, tutta la saggezza acquisita si è rivelata fallace. Viviamo in un mondo che né Lei né nessun altro si aspettava di vedere. Molti Presidenti devono fare i conti con una crisi, ma pochi sono stati costretti a fare i conti dal primo giorno con una crisi al livello di quella che l’America affronta ora. Perciò, che cosa dovrebbe fare? In questa lettera non cercherò di offrire consiglio su tutto. Per lo più mi atterrò all’economia, o ad argomenti che si basano sull’economia. La misura del successo o del fallimento della sua amministrazione dipenderà in larga misura da che cosa accadrà nel primo anno, e soprattutto, dalla sua capacità o meno di capire come gestire l’attuale crisi economica.

Quanto brutta è la prospettiva economica? Peggiore di quanto la maggior parte di noi possa immaginare. La crescita economica degli anni di Bush, o cosiddetta tale, è stata alimentata dall’esplosione del debito nel settore privato; ora i mercati del credito sono in confusione, le attività commerciali e i consumatori sono in ritirata e l’economia è in caduta libera.

Quello che stiamo affrontando, essenzialmente, è una voragine di disoccupazione. L’economia statunitense ha bisogno di aggiungere più di un milione di posti di lavoro l’anno per tenere il passo con una popolazione in crescita. Anche prima della crisi, sotto Bush la crescita dell’occupazione viaggiava su una media di soli 800 mila posti di lavoro l’anno, e durante lo scorso anno, invece di guadagnare più di un milione di posti, ne abbiamo persi due milioni. Oggi continuiamo a perdere posti di lavoro a un ritmo di mezzo milione al mese.

Non c’è niente, nei dati a disposizione o nella situazione sottostante, che suggerisca che il crollo dell’occupazione rallenterà in tempi brevi. Il che significa che verso la fine dell’anno potremmo ritrovarci con 10 milioni di posti di lavoro in meno rispetto a quanti ne dovremmo avere. Ciò si tradurrebbe in un tasso di disoccupazione superiore al 9%. Se poi a questi si aggiungono gli individui che non vengono presi in considerazione dal tasso standard perché hanno smesso di cercare lavoro, più quelli costretti ad accettare lavori part time anche se vorrebbero avere un lavoro a tempo pieno, probabilmente stiamo parlando di un tasso di disoccupazione reale del 15% circa: più di 20 milioni di americani i cui sforzi per trovare lavoro vengono resi vani.

I costi umani di una caduta così grave sarebbero enormi. Il Center on Budget and Policy Priorities ha di recente previsto i possibili effetti di un picco del tasso di disoccupazione al 9%: uno scenario che sembrava il peggiore possibile e che ora sembra fin troppo probabile. Quindi, che cosa accadrà se la disoccupazione salirà, o supererà il 9%? Almeno 10 milioni di americani appartenenti al ceto medio finiranno in povertà, e altri sei milioni saranno spinti in «profonda povertà», lo stato che definisce le severe privazioni alle quali si va incontro quando il salario è pari a meno della metà della soglia di povertà. Molti degli americani che perderanno il lavoro perderanno anche l’assicurazione per le cure mediche, peggiorando lo stato già deplorevole della salute pubblica statunitense, e i pronto soccorso si affolleranno di persone che non hanno nessun altro posto dove andare. Nello stesso tempo, qualche altro milione di americani perderà la propria casa, e le amministrazioni statali e locali, private di buona parte delle loro entrate, saranno costrette a tagliare perfino i servizi più essenziali.

Se le cose vanno avanti seguendo l’attuale traiettoria, signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale. Ed è suo compito – un compito che nessun altro Presidente ha dovuto svolgere dai tempi della Seconda Guerra Mondiale – fermare questa catastrofe… L’ultimo Presidente ad affrontare un disastro simile è stato Franklin Delano Roosevelt, e Lei può imparare molto dal suo esempio. Questo non significa, tuttavia, che lei dovrebbe fare tutto quello che ha fatto FDR. Al contrario, dovrà stare attento a emulare i suoi successi, evitando però di ripetere i suoi errori. Per quanto riguarda quei successi, il modo in cui FDR ha gestito il disastro finanziario della sua epoca offre un modello molto buono. Allora, come oggi, il governo ha dovuto impiegare il denaro dei contribuenti per salvare il sistema finanziario. In particolare, la Reconstruction Finance Corporation (Società per la ricostruzione finanziaria) inizialmente ha giocato un ruolo simile a quello del Troubled Assets Relief Program dell’amministrazione Bush (il programma da 700 miliardi di dollari che tutti conoscono). Come il Tarp, la Rfc ha irrobustito la situazione monetaria delle banche nei guai usando fondi pubblici per acquisire quote finanziarie in quelle banche.

C’è però una grande differenza tra l’approccio di FDR al salvataggio finanziario foraggiato dai contribuenti e quello dell’amministrazione Bush: in particolare, FDR non era timido nel pretendere che il denaro pubblico fosse usato per servire il bene pubblico. All’inizio del 1935 il governo statunitense possedeva circa un terzo del sistema bancario, e l’amministrazione Roosevelt usò quella quota di proprietà per insistere sul fatto che le banche aiutassero davvero l’economia, facendo su di loro pressioni perché prestassero il denaro che stavano ricevendo da Washington. Oltre a questo, il New Deal uscì allo scoperto e prestò moltissimo denaro: direttamente alle aziende, agli acquirenti di case e alle persone che possedevano già una casa, aiutandole a ristrutturare il proprio mutuo in modo che potessero rimanere nelle loro abitazioni. Può Lei fare qualcosa del genere oggi? Sì, Lei può. L’amministrazione Bush potrà anche avere rifiutato di allegare delle clausole all’aiuto che ha fornito agli istituti finanziari, ma Lei è in grado di cambiare tutto questo. Se le banche hanno bisogno di fondi federali per sopravvivere, li fornisca, ma pretenda che le banche facciano la loro parte, prestando quei fondi al resto dell’economia. Dia più aiuto ai proprietari immobiliari.

I conservatori la accuseranno di nazionalizzazione del sistema finanziario, e alcuni la chiameranno marxista (a me succede sempre). E la verità è che in qualche modo Lei sarà davvero impegnato in una nazionalizzazione temporanea. Ma va bene: a lungo termine non vogliamo che il governo gestisca le istituzioni finanziarie, ma per ora è quello di cui abbiamo bisogno per fare ripartire il credito. Tutto questo aiuterà, ma non abbastanza. C’è bisogno di dare una sferzata all’economia reale del lavoro e dei salari. In altre parole, si deve affrontare per il verso giusto la creazione di occupazione, cosa che FDR non ha mai fatto. Questa può sembrare una cosa strana da dire. Dopotutto, quello che ci ricordiamo dagli Anni 30 è il programma Works Progress Administration (Wpa), che al suo apice impiegava milioni di Americani per costruire strade, scuole e bacini artificiali. Ma i programmi di creazione di posti di lavoro del New Deal, seppure abbiano certamente aiutato, non erano né abbastanza grandi né abbastanza sostenibili da mettere fine alla Grande Depressione. Quando l’economia è profondamente depressa, bisogna mettere da parte le normali preoccupazioni che riguardano i deficit di bilancio; FDR non ce l’ha mai fatta.

Di quanta spesa stiamo parlando? Forse è meglio che si sieda prima di leggere quello che segue. Bene, ecco qui: «Piena occupazione» significa un tasso di disoccupazione del 5% al massimo e forse anche meno. Nello stesso tempo, al momento siamo su una traiettoria che spingerà il tasso di disoccupazione al 9% o più. Perfino le stime più ottimistiche indicano che ci vogliono almeno 200 miliardi di dollari l’anno in spesa governativa per tagliare il tasso di disoccupazione di un punto percentuale. Faccia i conti: Lei dovrà probabilmente spendere 800 miliardi di dollari l’anno per ottenere un completo risanamento economico. Qualsiasi cifra al di sotto dei 500 miliardi l’anno sarà davvero troppo piccola per produrre una vera inversione economica. Il più possibile, dovrebbe spendere in cose di valore durevole, cose che, come le strade e i ponti, ci renderanno una nazione più ricca.

Migliori l’infrastruttura che sta dietro Internet, migliori la rete elettrica, migliori l’information technology nel settore della salute pubblica, un’area cruciale per qualunque riforma di questo settore. Fornisca aiuti alle amministrazioni statali e locali, per prevenire che taglino le spese in investimenti nel momento più sbagliato. E ricordi, nel momento in cui fa questo, che tutto questo esborso serve a un duplice scopo: serve al futuro, ma aiuta anche nel presente, generando posti di lavoro ed entrate per compensare la crisi.

Tutto questo, tuttavia, non sarà abbastanza per risolvere la profonda crisi nella propensione alla spesa dei singoli. Perciò, sì: ha anche senso tagliare le tasse su base temporanea. Gli sgravi fiscali per le famiglie che lavorano, delineati da lei in campagna elettorale, appaiono un veicolo ragionevole. Ma siamo chiari: i tagli alle tasse non sono lo strumento d’elezione per combattere una crisi economica. Per prima cosa, producono meno ritorni per l’investimento rispetto alle spese per l’infrastruttura.

Ora, il mio onesto parere è che perfino con tutto ciò, lei non sarà in grado d’impedire che il 2009 sia un anno molto brutto. Se riuscirà a far sì che il tasso di disoccupazione non superi l’8%, lo considererò un grande successo. Ma per il 2010 dovrebbe riuscire a ottenere di avere un’economia in via di ripresa. Che cosa dovrebbe fare per prepararsi a quella ripresa?

La gestione della crisi è una cosa, ma l’America ha bisogno di molto più di questo. FDR ricostruì l’America non solo facendoci uscire dalla depressione e dalla guerra, ma anche rendendoci una società più giusta e al sicuro. Da una parte creò programmi di assicurazione sociale, prima su tutti la Social Security, che proteggono i lavoratori americani ancora oggi. Dall’altra si prese a carico la creazione di un’economia molto più equa, dando vita a una società borghese che durò per decenni, fino a quando le politiche economiche dei conservatori condussero alla nuova epoca di ingiustizia che prevale oggi. Lei ha l’opzione di emulare i traguardi raggiunti da FDR, e il giudizio ultimo sul suo governo si baserà su come saprà gestire questa opzione. La più importante eredità che potrà lasciare alla nazione sarà quella di darci finalmente ciò che ogni altro stato avanzato ha: l’assistenza sanitaria garantita a tutti i cittadini. La crisi attuale ci ha dato una lezione obiettiva sulla necessità dell’assistenza sanitaria universale su due versanti: ha evidenziato la vulnerabilità degli Americani la cui assicurazione sulla salute è legata a un posto di lavoro che può così facilmente scomparire; e ha messo in chiaro che il nostro attuale sistema è anche negativo per l’economia – le tre principali case automobilistiche non sarebbero in così grave crisi se non dovessero pagare i conti medici dei vecchi e attuali impiegati. Lei ha un mandato per il cambiamento, e la crisi economica ha appena evidenziato quanto il sistema richieda un cambiamento. Quindi, è giunta l’ora di approvare una legislazione a favore di un sistema che garantisca la sicurezza sanitaria per tutti.

L’assistenza medica universale, quindi, dovrebbe essere la sua massima priorità dopo avere salvato l’economia. Fornire copertura per tutti gli Americani può essere per la sua amministrazione quello che la Social Security è stata per il New Deal. Ma il New Deal ha ottenuto qualcos’altro: ha reso l’America una società borghese. Sotto FDR, l’America ha attraversato quello che gli storici del lavoro chiamano Grande Compressione, un forte aumento degli stipendi per i lavoratori ordinari che ridusse enormemente l’ineguaglianza salariale. Prima della Grande Compressione, l’America era una società di ricchi e poveri; dopo, è stata una società in cui le persone, a ragione, si sono considerate ceto medio. Può essere difficile raggiungere quel risultato oggi, ma lei può, almeno, far muovere il Paese nella giusta direzione. Il futuro è ciò che importa di più. Questo mese festeggiamo il suo arrivo alla Casa Bianca; in un’epoca di grande crisi nazionale, Lei porta la speranza di un futuro migliore. Ora tocca a Lei far materializzare la nostra speranza. Mettendo in atto un piano di rinascita anche più coraggioso ed esaustivo del New Deal, Lei può non solo cambiare il corso dell’economia, può mettere l’America su un sentiero, quello che porta a una più grande uguaglianza per le generazioni a venire.(Beh, buona giornata).

*dalla lettera che il premio Nobel per l’Economia ha indirizzato al presidente Obama. Il testo integrale sarà pubblicato sul sito di «Rolling Stone Italia»

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Ecco articolo di Prodi citato da Tremonti.

di ROMANO PRODI da Il Messaggero del 31.12.08

Facendo un bilancio dell’economia mondiale del 2008, l’unica conclusione possibile è che prima finisce l’anno meglio è. Non c’è un indicatore che vada bene. Non la crescita, non il commercio internazionale, non l’occupazione.
Solo il calo dell’inflazione è un elemento positivo, ma l’inflazione cala proprio perché tutto il resto va male. Si tratta di una crisi generalizzata e imprevista. Nessuno l’aveva immaginata così profonda e diffusa.
Qualcuno aveva previsto tensioni nei mercati finanziari, altri lo scoppio della bolla immobiliare, ma nessuno pensava che l’intreccio di tutti questi fatti potesse portare ad una caduta così rapida e diffusa dell’economia mondiale.

Non potendo quindi considerare buone le previsioni fatte in passato, non mi sento di avere un maggior grado di fiducia nemmeno nei confronti di coloro che oggi ci presentano raffinati e complicati grafici rispetto al futuro. Previsioni su quando comincerà la ripresa è meglio non farne. I ragionamenti sulla politica più opportuna da adottare sono invece d’obbligo.

Per costruire questi ragionamenti partiamo naturalmente dalla constatazione (non è più una previsione) che, globalmente preso, il 2009 sarà un anno di recessione tanto per l’Europa che per gli Stati Uniti. L’Oriente (pur con una sensibile diminuzione dei precedenti tassi di crescita) conoscerà uno sviluppo positivo, ma non a sufficienza per bilanciare la crisi del resto del mondo.Se non conosciamo i tempi di uscita dalla crisi, conosciamo almeno gli errori da evitare e le decisioni da prendere perché se ne possa al più presto venir fuori più forti e soprattutto più puliti. Il primo errore è quello di sperare che una soluzione nazionale (di qualsiasi paese) posa risolvere una crisi che ha cause mondiali. Chi pensa di poterlo fare con il protezionismo, con i sussidi all’esportazione o con estemporanei aiuti alle imprese si sbaglia, perché gli altri Paesi non potranno che reagire con analoghe misure. La recessione si trasformerebbe fatalmente in grande depressione.

Diverso è il caso del salvataggio delle banche (anche se non sono certo esenti da colpe) perché la certezza che il proprio denaro sia al sicuro è condizione del funzionamento stesso di ogni economia. Se si fosse intervenuti a salvare la Lehman Brothers, avremmo certamente evitato momenti di panico in tutto il mondo.
Nell’anno che sta iniziando non vi sono solo errori da evitare, ma anche azioni da compiere. Tra queste non basta iniettare capacità di acquisto nei sistemi economici (come è stato già positivamente compiuto da moltissimi paesi negli ultimi mesi), ma soprattutto occorre stabilire nuove regole per i mercati e gli operatori finanziari.
Regole valide per tutto il mondo.

Mi limito a parlare di regole finanziarie perché stiamo riflettendo sull’economia, ma il mondo è ormai globale in tutti i sensi. Certo non si può vincere la sfida del terrorismo, dell’energia e dell’ambiente senza regole che coinvolgano tutti i grandi attori che agiscono sulla scena mondiale.
Tornando all’economia, bisogna partire dalla constatazione che l’economia globale non è la somma delle economie di tutti i paesi, ma è qualche cosa di diverso, perché le diverse nazioni, se non agiscono in armonia, si distruggono reciprocamente. Un primo passo in questa direzione è stato compiuto con la sostituzione del G8 con il G20, un’assise in cu,i accanto all’Europa, all’America e al Giappone, sono presenti i nuovi protagonisti dell’economia mondiale, a partire dalla Cina e dall’India.

Bisogna però che il G20 non sia solo una riunione di emergenza, ma il luogo in cui si propongano e si impongano le riforme dei mercati finanziari e monetari di cui il mondo ha urgente bisogno. Ci vorrà tempo, perché anche la riforma di Bretton Woods era stata preceduta da due anni di intenso lavoro tecnico e politico, ma non vi è altra strada per mettere lo sviluppo del mondo su un binario virtuoso.
Se infatti rimarranno regole nebulose e frammentate, mercati grigi in cui tutto si ricicla, istituzioni finanziarie che non rendono conto a nessuno della propria attività, non potremo che passare da una crisi a un’ altra crisi.

Non bisogna nascondere il fatto che questa riforma è un compito difficilissimo. Così difficile che, quando si è cercato di promuoverla nell’ambito dell’Unione Europea, gli interessi e i veti dei diversi Paesi hanno trasformato il progetto di un leone in un disegno di un gattino.
Se questo avviene nell’ambito europeo, figuriamoci come sarà difficile riscrivere queste regole di comportamento e di trasparenza a livello mondiale !

Concludendo con alcune telegrafiche riflessioni possiamo dire che i governi stanno generalmente agendo nella direzione giusta per uscire alla crisi, ma non sappiamo quando queste azioni daranno frutto, perché nessuno conosce ancora le dimensioni della crisi. Ma soprattutto dobbiamo riconoscere che, se non si riscrivono nuove regole comuni per il funzionamento dei mercati, la ripresa sarà soltanto la preparazione della prossima crisi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Il ministro Tremonti e la crisi economica: d’accordo con Prodi, non del tutto con Berlusconi.

da ilmessaggero.it

A casa o in galera: per i responsabile della crisi economca, dice il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ci sono solo queste due possibilità. «I responsabili di questa crisi fosse per me dovrebbero andare o a casa o in galera. Non possono continuare a tenere in ostaggio il mondo in nome di una illusione. Bisognerebbe mandare a casa i responsabili di tutto questo disastro», ha detto Tremonti alla trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio.

Il ministro ha puntato nuovamente il dito contro la finanza «speculativa e irresponsabile» ed in particolare contro l’uso dei derivati «che valgono 30-40 trilioni di dollari mentre il piano di Obama non arriva neanche ad un trilione». «Bisogna dire comunque che quello che è stato fatto finora, in particolare negli Stati Uniti, non è servito e si rischia di fare solo più debito. Speriamo che Obama, grazie anche alla forza simbolica e politica che ha, possa ottenere un risultato migliore di Bush. Abbiamo però bisogno di una “uscita di sicurezza” in caso di insuccesso e quindi confermo che è necessario
creare una “bad bank” in cui mettere tutta la finanza derivata e isolarla per 50 anni». «Salvare tutto – dice Tremonti- è una missione divina, salvare il salvabile è una missione umana ed è questo il nostro obiettivo. Salvare le famiglie e le industrie e staccare il resto».

Tremonti ha poi definito l’economia «una disciplina ausiliaria. In tempi normali i numeri hanno un senso, in questo momento invece chi non ha previsto nulla non è autorizzato a prevede qualcosa. C’è stata una follia della finanza che ha avuto anche molti sacerdoti. Ora dobbiamo intervenire su questa follia e proprio per questo è necessario isolare i derivati e le altre speculazioni. Se una persona ha un infarto bisogna intervenire sul cuore, e questo è il punto su cui noi dobbiamo intervenire».

L’invito all’ottimismo del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è giusto, ma secondo Tremonti «non è una questione di stimolo e consumi ma di regole, se non cambi le regole non fai altro che preparare una nuova crisi». Tremonti ha citato poi un articolo uscito sul Messaggero di Romano Prodi («anche se – ha detto – mi spiace farlo») sul tema della crisi, condividendone le argomentazioni. «Bisogna per un po’ lasciar stare la finanza fine a se stessa», ha spiegato, sottolineando che il richiamo alle regole non è «un limite al mercato, ma alla follia del mercato. E questo è stato un periodo di grande follia».

L’Italia «è più forte di quanto si pensava perché da noi i bisogni sono stati finanziati più con il lavoro e il risparmio che non col debito». «L’eccesso di debito – ha ripetuto Tremonti – non si cura con nuovo debito, privato o pubblico che sia, non è la cura». 

Quanto all’invito del premier a non diminuire i consumi, per Tremonti «Berlusconi ha ragione quando dice che i pessimisti non fanno mai nulla di importante. Da parte mia aggiungo che non basta però detassare e stimolare l’economia se poi uno guarda la tv e si spaventa. È necessario che ci sia un
clima generale migliore». (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Una nuova puntata del Brunetta-Show.

Il ministro Brunetta, come il Papa, parla molto volentieri di domenica. Stavolta si cimenta con la cassa integrazione, non perché sia il ministro del lavoro, ma perché lui è Brunetta, quindi esterna il suo pensiero su tutto quello che potrebbe metterlo in mostra, anche solo per un dispaccio d’agenzia.

Accade così che l’Agenzia Ansa batta la seguente notizia, ripresa da ilmessaggero.it: <La cassa integrazione non puo’ essere interpretata ‘solo come un reddito che consente un secondo lavoro in nero’, afferma Brunetta.Il ministro della Funzione Pubblica sottolinea che la cig e’ ‘una garanzia del lavoro perso. Bisogna responsabilizzare il lavoratore che, quando va in cassa integrazione, ha l’obbligo di riqualificarsi in modo da avere un’altra chance per un altro lavoro’>.

E Bravo Brunetta, bravo, bravo e bravo Brunetta (sulle note del jingle dello spot Palombini, quello cantato e suonato da Pippo Baudo). Però c’è un però: se un lavoratore viene pagato in nero, vuol dire che il datore di lavoro ha nero da gestire, e se ha nero da gestire, vuol dire che non paga, almeno in parte  le tasse. Insomma, è un fannullone del Fisco. Gli mettiamo i tornelli?  Alla prossima puntata del Brunetta-Show. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Alitalia: “I debiti li dovevano pagare chi aveva gestito Alitalia prima.”

“I nuovi acquirenti di Alitalia non li ho definiti capitani coraggiosi ma patrioti perche’ hanno messo li’ una montagna di soldi. Hanno comprato tutto cio’ che e’ Alitalia. I debiti li dovevano pagare chi aveva gestito Alitalia prima, lo stesso avrebbe fatto Air France”. Berlusconi dixit. Che dimentica (!?) che i debiti, circa 4 miliardi non li pagherà “chi aveva gestito Alitalia prima”, ma chi paga le tasse adesso e nel prossimo fututo. Beh, buona giornata

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Berlusconi dice che dobbiamo avere fiducia, Tremonti dice che non crede alle previsioni pessimiste. Intanto, ecco quello che ci manda a dire L’Europa.

“L’esperienza dimostra che le recessioni economiche provocate da una crisi finanziaria tendono ad essere gravi e prolungate”: è quanto si legge nel documento preparatorio dell’Ecofin, che si svolgerà martedì, all’indomani dell’annunciato taglio delle previsioni di crescita per il 2009 da parte della Commissione europea.

“Attualmente – si sottolinea nel documento del Consiglio Ue anticipato dall’agenzia Ansa – la fiducia dei consumatori e delle imprese si trova al livello più basso da decenni e la situazione rischia di deteriorarsi ulteriormente”. Questo nonostante le misure anticrisi adottate “siano già in via di attuazione”. Ma, si legge ancora, “bisognerà pazientare, perché ci vorrà del tempo per vederne gli effetti sull’economia reale”.

Inoltre, si legge ancora nel documento, le condizioni del credito in Europa continuano a essere “difficili” e la priorità assoluta deve essere “ristabilire il normale funzionamento” di tale mercato, “ripristinando la fiducia” di imprese e consumatori. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Signore e signori, ecco a voi la crisi in tutto il suo splendore./2.

Il Pil italiano crollerà del 2% nel 2009 prima di risalire di appena lo 0,5% nel 2010. La previsione è della Banca d’Italia che segnala anche come “la dinamica del prodotto potrebbe essere ancora più negativa se prendessero corpo i rischi di un ulteriore indebolimento dell’economia mondiale”. Dal Bollettino economico di via Nazionale emerge un quadro a tinte fosche: la recessione è destinata ad approfondirsi e prolungarsi. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume

Social card: bidonati 200 mila nonni. Dal governo.

di ANTONELLO CAPORALE da repubblica.it

Si dice: morire di vergogna. “Avevo il Dixan in mano, anche una confezione di orzo e una scatola di tonno ma mi è venuto un presentimento: vuoi vedere che non funziona? Allora ho preso la tessera e ho chiesto alla commessa di digitare i numeri, io non vedo bene. Non era stata caricata. Avevo i soldi stretti nell’altra mano, già tutti contati, e glieli ho dati e così è finita. Non l’ho più usata”. Maria Pia, 67 anni, è fuggita via dal supermercato di Viareggio rossa in viso, e meno male che non c’era nessuno in fila. Comunque in quel supermercato non ci tornerà più.

La tessera di Tremonti è di un bel azzurro sereno. Come il cielo di Forza Italia, quello di una volta. Un tricolore ondulato la attraversa da sinistra a destra e sembra la scia delle mitiche frecce. “E’ anonima naturalmente per non creare imbarazzo”, commentò Silvio Berlusconi il giorno dell’inaugurazione della campagna dei 40 euro mensili ai bisognosi d’Italia.

Anonima. Infatti ieri, supermercato Sma di Roma, commessa indaffarata alla cassa, signore anziano in fila: “Ha per caso la social card?”. Il no è asciutto e risentito. “Scusi, ma era per capire come pagava”.
Lusy Montemarian non ha pagato, anzi è scoppiata in un pianto dirotto quando le hanno comunicato, come fa il medico alla famiglia del congiunto morente, che non ce l’aveva fatta. Un pianto raccolto da una microtelecamera di “Mi manda Raitre” e unito ad altri pietosi casi. Un mattone sull’altro, e un altro ancora. Alla fine si edifica questo incredibile muro della vergogna che attraversa la penisola e la trafigge senza colpa.

La Social Card, il circuito Mastercard. Protagonisti di una favola. Una strisciata e via. La pensionata indigente che alla cassa del panificio, come la donna chic di via Condotti, apre il borsello, non tocca i soldi sporchi, ma sfila la carta di credito. Un secondo magnetico. Se la carta è piena. Se è vuota – e lo sono un terzo delle circa 500 mila distribuite – la pensionata deve restituire il pane e ritirare l’umiliazione pubblica.

Era il 19 giugno, era estate, e il ministro Giulio Tremonti annunciava una vecchia novità: la carta di credito per i poveri. Vecchia perché l’aveva pensata Vincenzo Visco, nell’arcaico ’97: sconti sulla spesa, sugli affitti, sui beni di prima necessità. Vecchia perché l’aveva apprezzata Ermanno Gorrieri, comandate partigiano, fondatore del movimento Cristiano Sociali. Gorrieri è morto nel 2004. Nel 2008 è Tremonti a presenziare e presentare la svolta: una manovrina da 450 milioni di euro, 200 coperti dall’Eni, 50 dall’Enel, altri dalla Robin Tax. Togliere ai ricchi, dare ai poveri: 40 euro al mese, 80 euro accreditati ogni due mesi. Per un anno intero. Quattro mesi di annunci, di serrata organizzazione. Pronti. Si parte il primo dicembre. Attenzione: chi conserva 15 mila euro, in banca o alla posta, pensionato o disoccupato, non ha diritto alla carta di credito dello Stato.

Sono in 520 mila a dicembre a chiedere la social card, pensionati con reddito dai 6 mila euro agli 8 mila, coppie di anziani, famiglie con figli a carico, non oltre i tre anni però. Con una sola casa di proprietà, un’automobile e un’utenza elettrica attiva. In fila, per ore, davanti ai 9 mila uffici postali. Perché chi completava le pratiche entro il 31 dicembre, aveva diritto a 120 euro (ottobre, novembre e appunto dicembre) di partenza. Una corsa verso il nulla. Perché il 30 dicembre, con ottimismo natalizio, l’Inps – che doveva accertare il reddito – dichiarava di aver ricaricato 330 mila tessere. Le altre erano vuote.

Migliaia di italiani si sono ritrovati in mano una patacca. Una carta azzurra, di plastica, con il retro magnetico, il numero, il logo giallo e rosso della Mastercard. Belle, eccome. E di valore: si stima costi almeno 50 centesimi l’una, più 1 euro per la ricarica bimestrale, più il 2 per cento per le spese del circuito bancario. Uno scherzetto da 8 milioni e 500mila di euro, a pieno regime. Una lotteria per il mezzo milione di italiani che, soltanto alla cassa e davanti al commesso, saprà se la sua carta annonaria è buona oppure è uno scherzo del destino, se può permettere di fare la spese oppure di annunciare la propria povertà a tutti.

Duecentomila tessere vagano scoperte di tasca in tasca, sospese o respinte. Duecentomila italiani, forse di più, le possiedono senza poterle utilizzare. Alcuni (pochi) lo sanno. Altri, molti altri, che non sanno, vanno incontro alla sciagura.

Ci vuole del metodo per ideare una così lunga e inutile fatica. Prima fila: farsi certificare la povertà, la disgrazia assoluta. Seimila euro all’anno. In fila, naturalmente per vedersi attestata dal patronato la sospirata povertà. Poi l’Inps, le Poste, sempre in fila, sempre allo stesso modo. Infine, coraggio, andare al supermercato ed esibirla questa maledetta povertà. E poi, duecentomila volte finora, vederla svergognata: “La tessera non è carica”. Ma ha letto bene?

Per la social card un poveretto di Catania è ricoverato (coma farmacologico) in ospedale a seguito di furiosa lite, recita un dispaccio dell’Ansa del 3 gennaio scorso, generata “dalla discussione per l’ottenimento della social card”. Giovanni Spatola, imbianchino di 47 anni, si è costituito ai carabinieri confessando di aver fracassato il cranio del conoscente con una chiave inglese. Chi dei due doveva ottenere la social card? A Verona boom di ritiri. Il dato, riferisce la direzione delle Poste, è connesso alla presenza nel luogo di molti istituti religiosi. Trecento tra suore e frati si sono presentati all’incasso. Nullatenenti. Perciò potevano. A Castelletto di Brenzone, minuscolo villaggio sul lago di Garda, ne sono state elargite più di cinquanta. Come mai? Lì ha sede l’istituto delle piccole suore della Sacra Famiglia. Amen.

“Disagi e umiliazioni di ogni genere. Accreditategli questi benedetti quaranta euro sulle pensioni, così risparmierete dei soldi anche voi”, ha consigliato Pierluigi Bersani ieri alla Camera al ministro dell’Economia. “E’ la truffa del secolo, un flop, il più grande bluff tremontiano”, dice Franco Laratta, il deputato calabrese del Partito democratico mentre raccoglie le firme per un’interpellanza urgente sulla precoce agonia di questa tesserina azzurrissima, molto patriottica con quel fascio tricolore. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Signore e signori, ecco a voi la crisi in tutto il suo splendore.

Nel 2009 ci saranno 1,9 milioni di disoccupati, un picco massimo rispetto a poco più di 1,5 mln nella media del 2007. Sono le nuove stime dell’Ufficio studi di Confcommercio, che prevede dunque per il 2009 e il 2010 un incremento inferiore all’8%.

Come se non bastasse, se il dato dovesse però superare la soglia dell’8%, questo “implicherebbe una riduzione del reddito disponibile reale che impatterebbe sui consumi e questo potrebbe indurre a rivedere al ribasso le previsioni”.

Come è noto, la pubblicità è l’anima del commercio, ma in Italia la pubblicità è nel comparto del commercio. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

C’era una volta l’ottimismo del premier.

Secondo i dati Istat, la produzione industriale italiana è crollata a novembre 2008. L’indice, segnala l’Istat, ha registrato una diminuzione di -12,3% su base annua e di -3,6% nel confronto sui primi undici mesi. Il calo su base mensile è pari a – 2,3%. Il mercato dell’auto è andato a -46%. Negli stessi giorni di novembre 2008, in un comizio elettorale a Teramo per le elezioni in Abruzzo, Berlusconi disse:“Io dico ai cittadini: solo voi potete, non cambiando le vostre abitudini di vita e il vostro stile di acquisti, evitare che si precipiti in una crisi reale”. Eravamo già nella merda fino al collo, perché fare l’onda? Beh, buona giornata.

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Alitalia: anche con un poco di zucchero la pillola non va giù.

Dice Bonaiuti, il ventriloquo di Berlusconi:
“Con il centrosinistra, Air France si sarebbe presa tutta l’Alitalia, ora solo una quota. E’ stato rispettato l’assunto fondamentale, è cioè l’italianità è stata mantenuta”. Lo afferma Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ai microfoni di Rainews 24.

 

Scrive Le Figaro:

Air France domina i cieli europei”, è il grande titolo in prima pagina di Le Figaro questa mattina. Il quotidiano francese celebra l’acquisizione del 25% di Alitalia e il fatto che, “con 99 milioni di passeggeri trasportati ogni anno nel mondo, la compagnia francese supera i suoi concorrenti British Airways e Lufthansa”.

Dice Gasparri, altro ventriloquo di Berlusconi:

“Mi auguro che senso di responsabilità e soprattutto fiducia nella nuova compagnia prevalgano presto sull’incoscienza di alcuni agitatori che oggi, limitando i servizi essenziali con proteste e scioperi, stanno causando gravi disagi per i viaggiatori. La soluzione che si è profilata per Alitalia era l’unica possibile per mantenere la nostra compagnia di bandiera e soprattutto per darle una prospettiva”. Lo dichiara il presidente del Pdl al Senato Maurizio Gasparri.

Scrive le Figaro:

“La compagnia franco-olandese sborserà 323 milioni di euro per acquistare il 25 per cento del capitale della sua omologa italiana, ottenendo tre sedie nel consiglio d’ amministrazione”. Lo scrive Le Figaro, sottolineando che “questa volta la notizia è veramente ufficiale”. Al suo fianco, prosegue il quotidiano francese, ci saranno “gli imprenditori italiani mobilizzati dal premier Silvio Berlusconi”. Per Le Figaro questa rappresenta “una bella vittoria per Air France-Klm”, ma soprattutto “per il suo presidente”.

 Dice Sacconi, altro ventriloquo di Berlusconi:

“Tutti i profeti di sventura sono stati smentiti: ce l’abbiamo fatta, la nuova Alitalia c’è” dice il ministro del Welfare Maurizio Sacconi. Di fronte alle agitazioni che hanno interessato alcuni aeroporti, per il ministro bisogna usare gli strumenti opportuni: “credo che si debba garantire la continuità del servizio – ha spiegato Sacconi – penso che sia davvero giunta l’ora di riformare la regolazione del diritto di sciopero nei servizi di pubblica utilità”.

A proposito di strumenti opportuni per “garantire la continuità del servizio”:

La terza sezione del tribunale civile di Roma si è riservata in merito alla possibilità di inviare gli atti alla Corte costituzionale, per decidere di una eventuale questione di legittimità costituzionale del decreto 138 del 2008, che ha modificato la legge Marzano e ha permesso il commissariamento e la vendita di Alitalia. Lo comunica il Codacons, che ha promosso un giudizio di fronte al tribunale civile per veder annullata “l’ammissione della società Alitalia alla procedura di amministrazione straordinaria”.

Beh, buona giornata.

 

 

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La sfiducia nella fiducia.

 

 Secondo quanto reso noto da Isae, l’Istituto di studi e analisi economica (www.isae.it), la fiducia  è crollata ai minimi storici in Europa sia tra i consumatori che tra le imprese. E’ quanto emerge dalla rilevazione relativa al mese di dicembre, nella quale si  sottolinea che l’indice di fiducia dei consumatori è sceso da -25 a -30 che è il minimo storico dal 1985, anno di inizio della serie storica di riferimento.

In particolare peggiorano le previsioni sulla situazione economica generale e aumentano fortemente le preoccupazioni sull’occupazione. “L’indice continua a calare in Germania, Francia e Spagna” mentre al di fuori dell’area euro “la fiducia si deteriora anche nel Regno Unito”, si legge nel comunicato stampa diffuso da Isae.

La fiducia delle imprese manifatturiere nell’area euro si attesta a -33 da -25 del mese precedente, segnando anche in questo caso un record negativo dal 1985. “Il peggioramento è diffuso ovunque- sostiene Isae- pur essendo particolarmente sensibile in Germania, Spagna e Francia; al di fuori dell’area euro la fiducia migliora, seppur leggermente, nel Regno Unito”.

 

Anche negli Usa, gli indici della fiducia sembrano migliorare leggermente. Per quanto riguarda la fiducia nei consumatori, Isae rileva che l’indice elaborato dal Conference Board subisce un nuovo sensibile calo e si riporta al minimo storico registrato ad ottobre (a 38 da 44,7); peggiorano sia il sottoindice relativo alla situazione corrente (a 29,4 da42,3) sia quello relativo alle aspettative ( a 43,8 da 46,2)

 

Di segno opposto, appare l’indicatore elaborato dall’Università del Michigan, che invece risale a 60,1 (da 55,3); contemporaneamente migliora il sottoindice che raccoglie i giudizi sulla situazione presente (a 69,5 da 57,5), mentre è quasi stabile quello relativo alla situazione futura (a 54 da 53,9).

 

Poiché la politica e le politiche anticrisi giocano un ruolo determinante sull’andamento degli indicatori della fiducia, è evidente il ruolo positivo giocato da Gordon Brown in Uk e, per quanto riguarda gli Usa, il prossimo atteso insediamento alla  Casa Bianca di Barak Obama.

 

Della situazione italiana, Isae si era occupato il 30 dicembre scorso, rilevando il preoccupante crollo  del clima di fiducia tra le imprese italiane. Dalle costruzioni, al commercio ai servizi di mercato l’indice di fiducia registrato dall’Isae a dicembre risulta  in calo, e in alcuni casi scende ai minimi da dieci anni.

L’Istituto di Studi e Analisi Economica aveva diffusi tre diverse inchieste dalle quali emergeva lo stesso dato: le imprese continuano a vedere nero. In particolare, per le costruzioni a novembre l’indice di fiducia delle imprese diminuisce per il terzo mese consecutivo e “si posiziona sul livello più basso registrato da dicembre 1998”.

“In forte caduta”, secondo l’Isae anche la fiducia dei commercianti (in questo caso il dato è di dicembre e non sembrano aver avuto effetto positivo i tradizionali acquisti di Natale): l’indice, considerato al netto della componete stagionale, continua a scendere e, portandosi da 96,9 a 88,8, raggiunge il valore minimo dall’ottobre del 2001″.

Male anche il clima di fiducia nei servizi di mercato: a dicembre l’indice è sceso a -26 da -23 dello scorso mese “a causa del marcato peggioramento – spiega l’Istituto – dei giudizi sugli ordini”.

 

Su base territoriale, l’indice èsceso da 67,6 a 63,8 nel Nord Ovest, da 71,4 a 63,1 nel Nord Est e da 80,0 a 75,8 nel Centro; una sostanziale stabilità si registra invece nelle regioni meridionali, dove l’indice passa da 75,9 a 75,5.

Peggiorate anche le previsioni sull’andamento degli ordini, dei livelli di produzione e della liquidità, contemporaneamente si segnala  un forte peggioramento, nei giudizi e le previsioni sull’andamento del fatturato all’esportazione.

Le imprese hanno confermato le difficoltà di accesso al credito emerse già nell’indagine dello scorso mese di novembre: circa il 13% di quelle che hanno avuto recenti contatti con le banche non hanno ottenuto il finanziamento sperato (era poco più del 14% a novembre). Nella maggior parte dei casi, il mancato finanziamento è stato dovuto a un esplicito rifiuto da parte degli operatori finanziari.

Le banche italiane hanno, dunque, una precisa responsabilità nell’aggravarsi del quadro economico del paese. Nonostante gli fossero stati garantiti aiuti statali in caso di difficoltà, le banche italiane fanno quello che da sempre gli riesce meglio: agiscono sulla leva del credito secondo logiche interne, poco compatibili col sistema delle piccole e medie imprese. Alla faccia di quelli che sostengono che il nostro sistema bancario è sano, è più che chiaro che il sistema bancario è sfacciatamente egoista: sa solo prendere, non intende rischiare. Come si fa ad avere fiducia delle banche se le banche non hanno fiducia nelle famiglie e nelle piccole e medie imprese?

La politica ha una responsabilità precisa e non più rinviabile. Governo e opposizione si rincorrono su una agenda che non ha all’ordine del giorno la reale condizione dell’economia del paese. Che senso hanno polemiche su Giustizia e Federalismo, quando il paese versa in gravi condizioni sociali ed economiche? Il Governo pensa davvero di essersela  già cavata col pacchetto delle misure anticrisi? L’opposizione pensa davvero a qualcuno importi un fico delle beghe sulla questione morale? Le priorità sono i redditi, il precariato, i consumi, il credito alle piccole imprese, mentre l’agenda della politica italiana è ferma a quindici anni fa. Come si fa ad avere fiducia nella politica se la politica non si accorge del crollo di tutti gli indicatori sulla fiducia?

L’informazione ha la sua parte di responsabilità. I giornali appaiono frustrati dalla invadenza dell’informazione-spettacolo fornita dalle tv (tranne rare quanto vituperate eccezioni). I giornali perdono copie, raccolta pubblicitaria e progressivamente autorevolezza. Per questo l’opinione pubblica italiana è frastornata. Non riesce a trovare la consapevolezza di una forte pressione sulla politica perché adotti subito le misure necessarie a non fare del 2009 un anno orribilis.  Gli italiani stanno per pagare il prezzo salato della mancanza di una informazione pluralistica, svincolata dalle alchimie politiche. Come si fa ad avere fiducia nella informazione se l’informazione non ha fiducia nella sue capacità di dire con chiarezza come stanno davvero le cose?

La pubblicità italiana  vive uno dei momenti peggiori dal dopoguerra. In ritardo su tutti i livelli del’innovazione degli strumenti e dei linguaggi, la pubblicità italiana, abbarbicata al totem della tv come veicolo principe della comunicazione commerciale ha finito per delegittimare se stessa, agli occhi delle imprese e a quelli dei consumatori. Quando i consumi crollano, nonostante la forte pressione televisiva, vuol dire che messaggi e veicoli pubblicitari sono nettamente inadeguati alla domanda che proviene dal mercato della comunicazione. Come si fa ad avere fiducia nella pubblicità se la pubblicità rinuncia a costruire fiducia nelle marche da parte dei consumatori?

Il fondamentalismo neoliberista, che crede il mercato sia il demiurgo del benessere nazionale e globale  mostra tutta la sua inconsistenza proprio di fronte alla peggiore crisi dal ’29.

Ha scritto recentemente Zygmunt Bauman:” Molto prima che l’ultima bolla del mercato esplodesse, c’erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca – il fatto di credere nella serietà, nell’affidabilità e nella buona volontà altrui – non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra”. (“Così cambia il nostro stile di vita”, Repubblica 10 gennaio).

Quando crolla la fiducia nelle banche, nella politica, nell’informazione e nella pubblicità crolla la fiducia stessa in questo nostro modello di sviluppo. Allora diventa urgente cambiare le regole, non solo del gioco, ma anche dei giocatori in campo. Beh, buona giornata.



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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Italia, paradiso capitalista.

di Hans Suter.

I nuovi azionisti di Alitalia hanno guadagnato, prima ancora che si fosse alzato in volo un solo aereo, il loro bel aggio per la vendita del 25% ad Air France. E questo dopo che lo stato italiano è rimasto con la bad company. Fantastico. Aspettiamo di leggere le lodi dell’operazione sul foglio della Confindustria. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“Socializzare le perdite, privatizzare i profitti.”

NON TOCCA A NOI PAGARE LA LORO CRISI! PDF Stampa E-mail
da sdlintercategoriale.it 
 

Appello internazionale già sottoscritto da 30 organizzazioni sindacali tra cui SdL intercategoriale

Partita dagli Stati Uniti, la crisi finanziaria si è estesa al mondo intero, per due ragioni. Innanzitutto, tutti i meccanismi che avrebbero potuto arginarla sono stati distrutti dalla deregulation finanziaria attuata dai governi, che hanno rimosso ogni ostacolo alla libera circolazione dei capitali.

Inoltre, poiché quasi tutte le istituzioni finanziarie del mondo hanno partecipato alla corsa alle speculazioni in ambito finanziario, nessun paese è stato protetto dalla deflagrazione.

 

Questa crisi è la prova del fallimento totale dell’ideologia neoliberista e delle politiche che mirano a mettere le sorti dell’umanità nelle mani del mercato.

Se non fosse in gioco il destino di miliardi di esseri umani, verrebbe da ridere a vedere quelli che erano gli adoratori beati della libera concorrenza, come i nostri governanti, trasformarsi in apostoli dell’intervento dello Stato. Ma questa apparente inversione di tendenza non deve ingannare nessuno.

Perché l’invocato intervento dello Stato è finalizzato a salvare interessi privati, secondo la ben nota regola “socializzare le perdite, privatizzare i profitti”.

Così migliaia di miliardi di denaro pubblico, i nostri soldi, vengono oggi riversati senza batter ciglio nelle tasche di banche e grandi azionisti da salvare, mentre è “impossibile” destinare la minima risorsa a far fronte ai bisogni sociali.

Ma non è tutto. La crisi finanziaria ha colpito l’economia reale, c’è la recessione con il suo strascico di licenziamenti; padroni e governi sono ben decisi a continuare ad attaccare i diritti sociali di lavoratrici e lavoratori, soprattutto sul terreno della previdenza sociale, del welfare e del diritto del lavoro.

Il loro obiettivo è di far pagare la crisi a lavoratrici e lavoratori, predicando l’“unità nazionale” in ogni paese per cercare di indorare la pillola.

In quanto sindacaliste e sindacalisti, noi costruiamo invece la solidarietà internazionale di lavoratrici e lavoratori per contrastarli! Padroni e azionisti si sono ingozzati di dividendi, sgravi fiscali di ogni genere, remunerazioni demenziali e si sono assicurati delle fortune la cui entità supera la comprensione.

Tocca a loro pagare la loro crisi.

A noi tocca il compito di imporre le nostre esigenze sociali. Più che mai, la mobilitazione di lavoratrici e lavoratori è all’ordine del giorno. Per salvare il loro sistema capitalista, loro si sono organizzati internazionalmente: Il movimento sindacale deve agire al di sopra delle frontiere per imporre un sistema alternativo a quello che sfrutta chi lavora, saccheggia i paesi sottosviluppati, pianifica a tavolino la carestia in gran parte del pianeta… Ovunque ci troviamo, sviluppiamo il conflitto sociale e costruiamo la resistenza comune!

Union syndicale Solidaires (Francia) 

  • Sindacato dei Lavoratori Intercategoriale SdL Intercategoriale (Italia) 
  • Union Syndicale des Travailleurs Kanaks et Exploités USTKE (Kanaky) 
  • Syndicat National Autonome des Personnels de l’Administration Publique SNAPAP (Algeria) 
  • Confederazione Unitaria di Base CUB (Italie) 
  • Confederazione Italiana di Base Unicobas (Italia) 
  • Confederazione COBAS (Italia) 
  • Conseil des Lycées d’Algérie CLA (Algeria) 
  • Syndicat des Travailleurs Corses STC (Corsica) 
  • Syndicat indépendant des écoliers, des étudiants et des apprentis SISA (Suisse) 
  • Syndical libre Agosto 80 (Polonia) 
  • La Fragua (Argentina) 
  • Confederazione Intersindacale (Stato Spagnolo) 
  • Coordinadora Sindical (Stato Spagnolo) 
  • Sindacato dei Lavoratori Andalusi STA (Andalusia) 
  • Intersindacale Canarie 
  • Intersindacale Aragona 
  • Intersindacale Baleari 
  • Intersindacale Valencia 
  • STEE-EILAS (Paesi Baschi) 
  • Corrente sindacale di sinistra Asturia 
  • Confederazione Intersindacale Alternativa d Catalogna IAC (Catalogna) 
  • Central de los Trabajadores Argentinos CTA (Argentina) 
  • Central Unitaria de los Trabajadores CUT (Colombia) 
  • Confédération des Syndicats Autonomes CSA (Sénégal) 
  • Renouveau de l’Action Syndicale RAS (Congo) 
  • Fédération SUD service public (cantone del Vaud, Svizzera) 
  • Syndicat unique des travailleurs des transports aériens et activités annexes du Sénégal SUTTAAAS (Sénégal) 
  • Organisation Démocratique du Travail ODT (Maroc) 
  • Confederacion General del Trabajo CGT (Etat espagnol)

 

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Di seguito la versione in francese, inglese e spagnolo dell’appello

NOUS N’AVONS PAS À PAYER LEUR CRISE !

Partie des Etats-Unis, la crise financière s’est étendue au reste du monde et ce pour deux raisons. Tout d’abord, tous les pare-feux qui auraient pu permettre de la contenir ont été détruits par la déréglementation financière mise en œuvre par les gouvernements, aucune entrave n’étant plus mise à la libre circulation des capitaux. Ensuite, la quasi totalité des institutions financières du monde ayant participé à la course spéculative engagée dans la finance, aucun pays n’a été protégé de la déflagration. Cette crise marque l’échec absolu de l’idéologie néolibérale et des politiques qui visent à confier au marché le sort de l’humanité. Si le sort de milliards d’êtres humains n’était pas en jeu, il serait comique de voir ceux qui, comme tous nos gouvernants, étaient des adorateurs béats de la libre concurrence, se transformer en apôtres de l’intervention de l’Etat. Mais ce changement de posture ne doit tromper personne. Car s’ils décident que l’Etat intervienne, c’est pour sauver des intérêts privés suivant le précepte bien connu : “socialiser les pertes et privatiser les profits”. Ainsi des milliers de milliards d’argent public, notre argent, sont aujourd’hui déversés, sans discuter, pour sauver les banques et les actionnaires, alors qu’il est « impossible » de trouver le moindre sou pour répondre aux besoins sociaux. Mais ce n’est pas tout. La crise financière a touché l’économie réelle, la récession est là avec son cortège de licenciements ; patrons et gouvernements sont bien décidés à continuer à s’attaquer aux droits sociaux des salarié-e-s, notamment en matière de protection sociale ou de droit du travail. Leur objectif est de faire payer la crise aux salarié-e-s en prônant dans chaque pays « l’unité nationale » pour essayer de faire passer la pilule. Syndicalistes, nous construisons la solidarité internationale des travailleurs/ses pour leur répondre ! Les patrons et les actionnaires se sont gavés de dividendes, de cadeaux fiscaux de toutes sortes, de rémunérations démentielles avec, à la clef, des fortunes qui dépassent l’entendement. C’est à eux de payer leur crise. A nous de leur imposer nos exigences sociales. Plus que jamais, la mobilisation des salarié-e-s est à l’ordre du jour ! Pour sauver leur système capitaliste, ils sont organisés internationalement : le mouvement syndical doit agir à travers les frontières pour imposer un autre système que celui qui exploite les travailleurs/ses, pille les pays sous développés, organise la famine d’une partie de la planète, … Partout, développons les luttes sociales, et construisons la résistance commune !

 

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WE DON’T HAVE TO PAY FOR THEIR CRISIS!

Originated in the US, the financial crisis spread to the rest of the world for two reasons. The first of them is that all the firewalls that could have been able to contain it had been destroyed by the financial deregulation put in force by the governments, with no more interference with the free circulation of capital. The second one is that because of the involvement of the world financial institutions into the financial speculative run, no country had been protected from the explosion. This crisis shows the absolute failure of both the neoliberal ideology and policies whose aim is to entrust to the market the future of the humanity. If the destiny of billions of human being were not at stake, it should be comical to see those who, as for example our governments, were blessed worshippers of free competition, transformed into apostle of State intervention. But this move in the posture must not mislead anyone. Because if they decide that the State has to intervene, it’s only in order to save private interest according to the well-known precept: “socialize the losses and privatize the profits”. Thus, thousands of billions of public money, i.e. our money, are to-day poured, without any bargaining, in order to save the banks and the shareholders. At the same time, it is said that it is “impossible” to find out a single penny to satisfy social needs. But that’s not all. The financial crisis impact the “real economy” , the recession is there, with a lot of redundancies. Employers and governments are well decided to attack the social rights of the employees, especially about social protection and labour laws. Their aim is to make the employees pay for the crisis, advocating in each country “national unity” in order to get them to accept that. We have to build up international solidarity to riposte! Employers and shareholders filled up with dividends, tax exemptions, mad remunerations, with fortunes beyond all understanding as well. They have to pay for their crisis. It’s up to us to impose them our social claims. More than ever, the agenda is to mobilize the employees! To save their capitalist system, they are worldwide organize: the trade union movement must act throughout boundaries in order to impose an other system that this one which exploit the employees, pillage the developing countries, organize the famine in a part of the planet….. Everywhere, we have to develop social struggles and build up a common resistance!

 

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NO NOS TOCA PAGAR SU CRISIS!

La crisis financiera arrancó en EE-UU, y se extendió al mundo entero por dos motivos. Primero, todos los cortafuegos que habrían podido mantenerla a raya han sido destruidos por la desregulación financiera implementada por los gobiernos, pues ya no existe ninguna traba para la libre circulación de los capitales. Luego, habiendo participado la casi totalidad de las instituciones financieras del mundo en la carrera especulativa que se da en la banca, ningún país se halló a salvo de la deflagración. Esta crisis significa el fracaso integral de la ideología neoliberal y de las políticas cuya óptica es entregar al mercado la suerte de la humanidad. Si la suerte de miles de millones de seres humanos no estuviera en juego, sería para reírse ver a quienes, como todos nuestros gobernantes, eran adoradores beatos de la libre competencia, convirtiéndose en apóstoles de la intervención del Estado. Pero ese cambio de postura no debe engañar a nadie. Pues si deciden que intervenga el Estado, es para salvar intereses privados según el conocido precepto: “socializar las pérdidas y privatizar las ganancias”. Así billones de dinero público, nuestro dinero, se vierten hoy día sin regatear para rescatar los bancos, mientras que resulta “imposible” encontrar ni un real para responder a las necesidades sociales. Pero hay más: la crisis financiera ha alcanzado la economía real, la recesión está aquí, con su comitiva de despidos; patronos y gobiernos se ven muy resueltos a seguir atacando los derechos sociales de l@s asalariad@s, tanto en la protección social como en el derecho laboral. Su objetivo es hacer pagar la crisis a l@s asalariad@s, pregonando en cada país “unidad nacional” para tratar de que traguemos la píldora. Sindicalistas, vamos construyendo la solidaridad internacional de l@s trabajadores-as para responderles. Los patronos y accionistas se han atiborrado de dividendos, de regalos fiscales de toda clase, de remuneraciones demenciales, que desembocaron en fortunas propiamente inimaginables. A ellos les toca pagarse su crisis. A nosotros, imponer nuestras exigencias sociales. ¡Más que nunca, la movilización de l@s asalariad@s está en la agenda! Para rescatar su sistema capitalista, se han organizado a escala internacional: el movimiento sindical debe actuar a través de las fronteras para imponer otro sistema que no sea el que explota a l@s trabajadores-as, saquea a los países subdesarrollados, organiza el hambre de una parte del planeta… En todas partes, ¡a desarrollar las luchas sociales y a construir la resistencia común! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Se il buongiorno si vede dal mattino, l’imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale”.

Pubbblico un ampio stralcio di “Con i sacchetti di sabbia non si ferma l’oceano” di EUGENIO SCALFARI, da repubblica.it

(* * *)

Una prima risposta ce la può dare il pasticcio Alitalia; nell’economia italiana è un caso importante anche se confrontato con quanto sta accadendo nel mondo è come una goccia nel mare in tempesta.

Tremonti se ne è tenuto lontano quanto poteva fingendo di dimenticarsi perfino di essere l’azionista di maggioranza della (ormai fallita) compagnia di bandiera. Perciò ne è politicamente e oggettivamente responsabile almeno alla pari col presidente del Consiglio, per il poco che ha fatto e per il molto che non ha fatto.

L’affare Alitalia è cominciato malissimo dieci mesi fa e l’altro ieri si è concluso nella farsa. Cioè in un cumulo di bugie con l’intento di darla da bere agli italiani. Non starò a ripetere nel dettaglio un racconto già fatto mille volte. In sommi capi: il governo Prodi era riuscito a vendere l’Alitalia al gruppo Air France-Klm alle migliori condizioni possibili trattandosi d’una azienda praticamente decotta. Air France si accollava i debiti, il personale di volo e di terra con un esubero di duemila persone, pagava gli azionisti offrendo loro il 7 per cento del proprio capitale e integrava il marchio e la compagnia nel gruppo franco-olandese.

Questa soluzione fu definita “svendita” da Berlusconi, dalla Lega e da tutto lo stato maggiore di centrodestra nonché dai sindacati aziendali che, forti delle loro amicizie in Alleanza nazionale, puntarono non sulla privatizzazione ma sulla nazionalizzazione dell’azienda. Furono ipotizzate e indicate inesistenti cordate tricolori, Berlusconi ci giocò sopra perfino il nome dei propri figli come possibili sottoscrittori. Avrebbe dovuto bastare l’insensatezza di questo “vaudeville” per mettere in sospetto la pubblica opinione, ma la pubblica opinione propriamente detta già non c’era più, affondata nella poltiglia generale.

Dopo dieci mesi, mercoledì prossimo la nuova compagnia Alitalia-Cai darà il via alla sua prima giornata operativa e ai suoi primi voli e noi gli indirizziamo da queste pagine il più sincero augurio di successo, senza però tacere il costo pubblico di questa operazione e i suoi probabili sviluppi.

Il costo pubblico è quantificabile in 5 miliardi di euro calcolando il passivo residuo della vecchia Alitalia dopo che avrà realizzato il poco attivo che le è rimasto e avervi aggiunto il costo degli speciali ammortizzatori riservati ai 7.000 dipendenti rimasti senza lavoro.

Su questa valutazione concordano tutti gli esperti che hanno verificato le cifre e concorda anche la sola compagnia operante in Italia in parziale concorrenza, la “Meridiana” il cui amministratore ha scodellato le cifre in un’intervista a Repubblica di tre giorni fa.

Air France entra nel capitale con il 25 per cento pagato 310 miliardi. Sarà presente nel consiglio d’amministrazione e nel comitato esecutivo. È il solo operatore e vettore aereo in una compagine di azionisti che di questo ramo di attività non sanno nulla ed hanno il cuore e il portafoglio da tutt’altra parte. Tutto fa supporre che tra cinque anni (ma anche prima se vi sarà bisogno di aumenti di capitale e certamente ve ne sarà) Air France diventerà l’azionista di comando. Di fatto lo è già.

Bisognava all’ultimo momento superare il veto della Lega e degli amministratori lombardi (Moratti, Formigoni) in favore di Malpensa, bilanciato dagli amministratori laziali (Alemanno, Marrazzo, Zingaretti) schierati in difesa di Fiumicino. I nordisti hanno tirato per la giacca più che potevano il governo affinché imponesse una scelta politica alla nuova compagnia privata.

Tremonti, taciturno fino a quel momento, si è schierato con i nordisti i quali tuttavia erano divisi tra loro perché il sindaco di Milano proclamava intoccabile l’aeroporto di Linate mentre Formigoni se ne infischiava.

“Malpensa ha tutte le chance per essere l'”hub” (l’aeroporto internazionale) italiano” ha detto il ministro dell’Economia. Per fortuna questa volta la sua parola non ha avuto peso e il premier ha convalidato la scelta privata di Colaninno senza sovrapporgli un’impensabile scelta politica.

Bisognava però a quel punto prendere in giro l’opinione pubblica lombarda e padana. Detto e fatto: la parola magica è stata “liberalizzazione”, alla luce della quale Malpensa dovrebbe riacquistare una posizione di primo piano tra i grandi aeroporti internazionali.

Ebbene, quella parola “liberalizzazione” nel caso specifico non ha alcun significato. Non ce l’ha per l’area europea perché i voli in tutti i 27 paesi dell’Unione sono assolutamente liberi. Ma non ce l’ha per il resto del mondo perché i voli sono regolati da trattati e accordi internazionali circa le frequenze, gli orari, gli “slot”.

Per arrivare ad un’effettiva liberalizzazione ci vorranno dunque anni, ammesso che ne valga la pena, il che è molto dubbio: un viaggiatore che voglia andare da Venezia o da Bologna o da Genova o da Trieste a New York o a Shanghai o a Cape Town avrà comunque più convenienza a raggiungere Parigi o Francoforte che non Malpensa.

* * *

Se il buongiorno si vede dal mattino, l’imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale. Basti dire che il governo non ha ancora fatto nulla salvo l’elemosina della “social card” finanziata in modo assai dubitabile.

Le misure anticrisi contenute nel decreto in corso di esame parlamentare ammontano complessivamente a mezzo punto di Pil, cioè tra i sei e i sette miliardi, dispersi in molti rivoli, bonus, parziali e limitate detassazioni, parziali e limitati incentivi, rifinanziamenti della Cassa integrazione.

Con questi sacchetti di sabbia sembra molto improbabile arginare un mare in tempesta d’una recessione mondiale i cui effetti dureranno almeno un anno se non due. Ma già con queste operazioni il nostro deficit rispetto al Pil si posiziona al 3,5 per cento, sconfinando di mezzo punto oltre la soglia di stabilità. Le cause di fragilità dei nostri conti pubblici stanno in questo caso nell’abolizione dell’Ici e nel costo dell’Alitalia. In totale si tratta di otto miliardi dissipati in una fase in cui gli incassi tributari diminuiscono, il reddito anche, l’evasione torna ad aumentare.

Tremonti queste cose le sapeva. Avrebbe dovuto impedire quella dilapidazione ma non l’ha fatto. Adesso vedremo che cosa si inventerà, nel senso positivo del termine. Sa anche lui che con i sacchetti di sabbia non si ferma l’oceano. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume

Crisi: stiamo perdendo fiducia nella fiducia.

Così la crisi cambia il nostro stile di vita

Che cosa temono maggiormente i nostri contemporanei, in particolare gli abitanti delle dieci città più grandi e più importanti del pianeta, e quali sono le loro (e le nostre!) più assillanti e tormentose preoccupazioni, quali le cause più minacciose all’ origine dei loro (e nostri!) incubi (se ne hanno~)?
Dal sondaggio del World Social Survey del luglio 2008 è stato possibile dedurre differenze sbalorditive tra i vari Paesi. Tra le principali preoccupazioni che assillano gli americani in cima all’ elenco ci sono la paura che il loro standard di vita precipiti in un immediato futuro, la paura di perdere il posto di lavoro, il timore che la vita dei loro figli sia più difficile di quella dei loro genitori. Gli americani sono stati i primi a dover stringere la cinghia e ad avvertire la morsa della crisi, poiché gli enti che erogavano mutui subprime, e ancor più coloro che erogavano prestiti, erano nei guai già a luglio.
In Gran Bretagna nessuno di questi cupi presagi ha raggiunto il vertice della classifica delle paure, e nessuno ha trovato posto tra le prime otto preoccupazioni più di frequente citate dagli intervistati. Nel novembre 2008, però – dopo cinque mesi appena – un altro sondaggio ha permesso di apprendere che un britannico su due dormiva meno bene di quanto dormisse sei mesi prima, che uno su quattro si svegliava più di tre volte ogni notte, che due su tre imputavano la loro insonnia soprattutto alla penuria di soldi e allo spettro della disoccupazione.
Uno dei risultati più sconcertanti tra i molteplici della crisi creditizia, è – come possiamo constatare da altre prove e da una consapevolezza comune che si diffonde rapidamente – quanto connesse (anzi, in realtà, interconnesse e reciprocamente dipendenti) siano le nostre vite, le nostre prospettive e le nostre paure nel nostro mondo globalizzato. Non soltanto gli americani e i britannici, che per molti anni hanno vissuto a credito, spendendo e spandendo ben al di sopra dei loro mezzi, ma anche popoli di nazioni relativamente puritane – parsimoniose e prudenti, fiere delle loro esportazioni che superavano le loro importazioni, orgogliose dei loro budget di governo come pure di ogni singolo nucleo famigliare che non precipitavano nell’ insolvenza – avvertono ora queste preoccupazioni e scoprono di colpo che dormire bene di notte è un vero e proprio lusso (come i clienti della Germania, per esempio, che non sono più in grado di permettersi i beni che essa vorrebbe esportare).
In un paese lontano del Queensland in Australia, una giovane che oggi ha 23 anni e si chiama Siobhan Healey alcuni anni fa ha ottenuto la sua prima carta di credito: quello è stato – a suo dire – il giorno della sua emancipazione. Finalmente era libera di poter gestire da sola le proprie finanze, libera di scegliere le sue priorità, libera di far corrispondere i suoi desideri alla realtà. Non molto tempo dopo, la giovane ha chiesto e ottenuto una seconda carta di credito per far fronte agli interessi e ai debiti accumulati sulla prima.
Passato poco tempo ancora, ha appreso altresì il prezzo della sua tanto agognata “libertà finanziaria”, per la precisione nel momento in cui ha scoperto che la seconda carta di credito non bastava a far fronte e a coprire gli interessi dei debiti della prima. Si è quindi rivolta a una banca per ottenere un prestito necessario a saldare gli scoperti di entrambe le carte, che a quel punto avevano già raggiunto la spaventosa cifra di 26.000 dollari australiani. Seguendo però l’ esempio degli amici ha preso in prestito altri soldi ancora, per finanziarsi un viaggio oltreoceano – un must per chiunque abbia la sua età. Adesso, finalmente, è stata assalita dalla consapevolezza di avere pochissime chance di poter mai ripagare da sola il proprio debito, e ha compreso che sottoscrivere sempre più prestiti non è il modo giusto per farlo. E così ha dichiarato – purtroppo per lei, con uno o finanche due anni di troppo – di aver “cambiato completamente mentalità e di aver imparato che per fare acquisti è necessario risparmiare”. Attualmente ha assunto un consulente finanziario, ha interpellato un amministratore e conciliatore che la aiuterà poco alla volta a tirarsi fuori dal baratro nel quale è caduta. Ma costoro la aiuteranno davvero a “cambiare radicalmente mentalità”? Resta da vedere. E quale aiuto trarrà dalle loro lezioni, se nessuno sarà disposto a offrirle un’ altra sospensione della pena? Ben Paris, portavoce di Debt Mediator Australia, non si stupisce né si sconcerta più di tanto: paragona la tragica vicenda di Healey a “giocare al gioco delle sedie sul ponte del Titanic”, per aggiungere quindi senza indugio che è del tutto normale per i giovani “prendere soldi in prestito ben oltre i propri mezzi”, e fa notare che il caso di Siobhan Healey non è affatto unico e fuori dalla norma: «Ogni anno riceviamo 25.000 giovani che sono in situazione critica dal punto di vista finanziario, e questa è soltanto la punta dell’ iceberg».
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, in Germania e in Australia per uomini e donne, per giovani e vecchi è ormai lapalissiano che sono giunti al termine i bei tempi in cui potevano ancora credere che nel caso in cui fossero finiti nei guai ci sarebbe sempre stato qualcuno accanto a loro o nei paraggi disposto in qualche modo a offrire un “prestito ponte” fino al momento in cui le loro fortune non fossero tornate a sorridere loro.
Tre anni fa, mentre raccoglieva materiale per un suo articolo, Tim Adams del londinese Observer riuscì in pochissimo tempo a mettere insieme “la cifra teorica di centomila sterline semplicemente dando ripetutamente il cognome da nubile della madre in qualche telefonata a banche cordiali e società di credito in competizione tra loro per accaparrarsi un nuovo cliente”, mentre di recente non è riuscito a ottenere un’ estensione di diecimila sterline per il mutuo da una società bancaria con la quale ha rapporti da ben quaranta anni.
Molto prima che l’ ultima bolla del mercato esplodesse, c’ erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca – il fatto di credere nella serietà, nell’ affidabilità e nella buona volontà altrui – non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra. Ma l’ esplosione della bolla dei prestiti erogati e sottoscritti ha inferto un duro colpo a quella fiducia, proprio dove più fa male e dove la ferita è più deleteria.
Nel nostro mondo pullulante di rischi, un mondo che ci blandiva, spronava e costringeva a essere temerari e coraggiosi e a proseguire nelle nostre acrobazie al trapezio anche se le reti di sicurezza andavano scomparendo una dopo l’ altra, le banche in fin dei conti si sono presentate come l’ ultimo riparo sicuro, si sono spacciate per l’ ultimo bastione della fiducia: hanno promesso di ammortizzare la nostra caduta, se fossimo mai caduti. E noi abbiamo creduto anche che le banche avrebbero calcolato i rischi meglio di quanto fossimo capaci noi, e che ci avrebbero pertanto difeso dalle temibili conseguenze di mosse azzardate, sconsigliabili e stolte. Il fatto che riconoscessero il nostro status di individui meritevoli di fiducia costituiva una sorta di certificato della nostra sagacia, era la prova indiscutibile della nostra competenza che ci serviva per andare avanti.
Adesso, invece, i direttori di banca hanno perso fiducia nell’ affidabilità di coloro ai quali erogavano i loro prestiti – affidabilità che loro stessi hanno messo maggiorente a rischio, esortando i loro clienti esistenti e i loro aspiranti clienti a vivere al di sopra dei loro mezzi, a spendere soldi non ancora guadagnati e che tutto sommato avevano ben scarse speranze di poter mai guadagnare, rassicurandoli che in caso di necessità il soccorso da parte delle loro banche amichevoli e sorridenti, sempre-pronte-ad-arrivare-anche-con-breve-preavviso non sarebbe venuto meno. Invece, noi tutti abbiamo perso fiducia nell’ affidabilità delle capacità di giudizio delle banche e nell’ attendibilità delle loro promesse. Una volta sparito il sorriso dalle facce benevolenti dei manager di banca, ciò che è affiorato da sotto la maschera non era affatto rassicurante: sinistre e spietate maschere facciali di contenimento di esperti in recupero crediti e agenti addetti agli espropri.
Abbiamo perso fiducia anche nei nostri esperti, nei consiglieri, negli specialisti in previsioni economiche, in coloro che pretendevano di avere una linea diretta con il futuro e di sapere perfettamente come riconoscere le iniziative sicure e prudenti da quelle avventate e stolte. Le banche assumevano – non è forse vero? – i consulenti migliori, quelli che non ci saremmo mai sognati di poter interpellare né tanto meno di retribuire per i loro servigi, e guarda un po’ in quali guai sono finiti! La fiducia – così sembra – sta vivendo tempi quanto mai difficili, come mai prima d’ ora. Non possiamo più seguire la fiducia nello spazio intergalattico nel quale è stata proiettata.
Siamo infatti abituati ad avere a che fare con “questioni di fiducia” a nostra dimensione, umana, modesta: la maggior parte di noi si è imbattuta in questa questione faccia a faccia quando si è trattato di prendere in prestito o di prestare qualche centinaio, forse qualche migliaio di sterline o di euro, al più cento o duecentomila al massimo, nella rara circostanza in cui si comperava una casa o si apriva un’ attività.
Ogni giorno dai giornali apprendevamo che mentre noi eravamo in coda per ricevere magri sussidi statali, le scuole, gli ospedali, i teatri, le ferrovie, i trasporti municipali e altre istituzioni fondamentali per la nostra vita di tutti i giorni dovevano arrabattarsi e farsi in mille per ottenere finanziamenti di un milione o di qualche milione di sterline o di euro che – così sostenevano – avrebbero fatto la differenza tra la normalità e la catastrofe. Adesso su quegli stessi giornali leggiamo che al fine di ripristinare la fiducia tra banche e clienti, occorrono miliardi di sterline o di euro. Anzi, neppure miliardi, ma un numero non meglio quantificato di centinaia di miliardi. Il presidente eletto americano qualche giorno fa ha parlato di un trilione di dollari, nel momento stesso in cui alcuni commentatori facevano notare che le misure e i provvedimenti che egli ha in mente di realizzare costeranno molto, molto di più.
Come ha calcolato Tim Adams, le cifre sbandierate in questi giorni in relazione al probabile costo che comporterà il ritorno alla normalità è equivalente (in valori attuali) all’ importo complessivo speso per il Piano Marshall (l’ Italia e Trieste ricevettero, per procedere alla ricostruzione post-bellica, poco più di un miliardo di dollari del budget complessivo previsto dal Piano Marshall e corrispondente a poco più di 12 miliardi di dollari), per il programma spaziale della Nasa e per la guerra del Vietnam. Tale cifra mette a dura prova la nostra comprensione. Va al di là di quello che riusciamo anche solo a immaginare.
Non siamo più saggi e non sappiamo che cosa fare di più (al di là di quello che noi, intesi come voi e io, possiamo singolarmente fare), non più di quanto saremmo e sapremmo fare se ci fosse stato detto che i ministri delle Finanze nel loro meeting d’ emergenza indetto per un certo giorno avessero convocato una schiera di angeli e l’ avessero fatta arrivare sulla Terra per porre rimedio a ciò che noi – indolenti esseri umani – abbiamo così rovinosamente distrutto. Unica reazione ragionevole dovrebbe sembrarci la preghiera, se solo sapessimo a quale arcangelo in carica indirizzare debitamente le nostre invocazioni.
E’ troppo presto per dire se la crisi finanziaria ci stia cambiando e se all’ uscita dal tunnel saremo di fatto diversi. Per quanto riguarda la prognosi, ammiro – anche se non necessariamente invidio – gli esperti che non avendo apparentemente perduto un briciolo della loro fiducia in loro stessi, malgrado tutti i rovesci di fortuna e il fatto di averci rimesso la faccia, si precipitano a fare previsioni su quanti lavoratori complessivamente perderanno il loro posto di lavoro prima che torni a esserci un certo benessere, a che ora dell’ anno prossimo o di quello dopo ancora le banche riprenderanno a erogare prestiti e noi potremo ricominciare a chiederli, e a quali comodità della nostra esistenza dovremo rinunciare temporaneamente o per sempre: la cena al ristorante? Le vacanze all’ estero? I regali di Natale? Gli alimenti biologici, per altro costosi? Temo che, come il resto di noi, gli esperti siano sopraffatti dalla smisurata entità di questo enorme problema col quale siamo attualmente alle prese. Come i generali, anche loro combattono le battaglie del passato, le uniche che conoscono~
Ma il crollo collettivo di quella fiducia che aveva caratterizzato, sorretto e mantenuto nei binari la nostra esistenza nei decenni recenti, e la sua fuga nel regno dell’ inimmaginabile, non hanno sicuramente precedenti, e pertanto non vi è alcuna ovvia e naturale lezione di storia che possiamo trarre e mandare a mente. L’ unico confronto storico che sembra all’ altezza della nostra situazione è quello con Winston Churchill che dichiarò, proprio mentre stava per diventare palese a tutti, che l’ unica strada verso la vittoria che egli si sentiva di poter responsabilmente promettere alla nazione in difficoltà, era quella che prevedeva ancora più sudore, più fatica, più sacrifici~ (Beh, buona giornata). 
Traduzione di Anna Bissanti
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