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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Il G7 di Roma visto da Carlo Azeglio Ciampi.

di CARLO AZEGLIO CIAMPI da ilmessaggero.it

La nuova Bretton Woods è diventata un obiettivo, ora dobbiamo operare perché diventi un risultato. Quello che avevamo richiesto in tempi non sospetti, dalle colonne di questo giornale (mercoledì 17 settembre 2008), è stato riconosciuto dal vertice dei 7 Grandi riunitosi a Roma come una priorità che «s’ha da fare» e lo constatiamo con soddisfazione. Siamo all’inizio del lavoro, il cammino sarà lungo. Intanto, però, cerchiamo elementi che suscitino fiducia guardando negli occhi la realtà; perché è lì che si troverà il punto di appoggio per costruire il nuovo mondo e creare quegli elementi di positività che contribuiscono a rispondere alla parte più contingente della crisi riattivando un processo di crescita, a partire dall’Europa.

Per cominciare davvero con il piede giusto, occorre imporsi preliminarmente un esame critico di quello che è successo. Questo è l’antefatto decisivo per costruire il nuovo ordine mondiale. Tenere conto degli errori commessi perché non vengano ripetuti nel cammino intrapreso. Per confermare a se stessi la necessità di nuove regole, ma prima ancora approfondire le vecchie con una valutazione attenta e rigorosa. Erano insufficienti o sbagliate? O, magari, sono state solo male applicate?

Dalla risposta a queste domande, si potrà capire perché il mondo è incorso in quello che è successo e si prenderà coscienza dei fenomeni più gravi che sono almeno tre.

Iniziamo dalle politiche economiche cinesi. Hanno dato una spinta al mondo, ma hanno commesso l’errore di tenere legata troppo a lungo la loro moneta al dollaro contribuendo, in questo modo, ad alimentare gli eccessi americani. Sarà un puro caso, ma ho voluto terminare il mio settennato da Capo dello Stato, tra l’autunno del 2005 e la primavera del 2006, facendo viaggi di lavoro in Cina, India e Turchia. Missioni condotte con un modello organizzativo del tutto nuovo, mettendo in contatto tra di loro centinaia di imprenditori italiani e uomini delle istituzioni e delle imprese di quei Paesi, proprio perché sentivo che il nuovo mondo partiva da lì. Mi sono venuti in mente in questi giorni i miei colloqui con il presidente della Repubblica cinese, seduti intorno allo stesso tavolo, in mezzo solo l’interprete, nei quali mi permettevo di dare qualche, piccolo suggerimento: state attenti, non investite tutte le vostre riserve in dollari, investite in euro o nello yen, fate meno attenzione alla crescita e più attenzione alla distribuzione del reddito per attenuare le diseguaglianze interne tra aree con redditi americani e campagne che sopravvivono con economie di trent’anni fa. Come dire: avete Shangai, ma anche lande di povertà che sono quelle che sono, ricordatevelo. Queste cose, questi errori, poi vengono a galla ed è positivo che oggi la Cina cresca al 6 e non al 10%. Quello che è successo oggi, con la crisi globale, è anche la conseguenza di questo andamento poco regolato del mondo.

Occupiamoci ora delle numerose banche in difficoltà, a partire da quelle americane e inglesi. La loro, tanto per essere chiari, è una crisi di liquidità o una crisi di mala gestione? Perché nel primo caso aiutarle è dovuto e giusto, nel secondo invece bisogna essere contrari al salvataggio senza fallimento delle banche mal condotte. Se si è in presenza davvero dei frutti di una cattiva gestione, bisogna operare così: salvaguardare i depositanti, ma non l’azienda management e azionisti e discernere con oculatezza tra quello che c’è di sano e quello che è stato distrutto scovando tra le macerie della banca che va in dissoluzione. Non si salva la cattiva banca, piuttosto se ne fa una nuova con quello di buono che ancora c’era. Obama ha l’opportunità di fare uscire l’America migliorata da questa colossale crisi finanziaria, ma deve guardare in faccia la realtà, fare tesoro degli errori del passato. Mi auguro che il suo piano monstre sia ben gestito, l’esito finale è tutto da vedere.

Infine, l’Europa. Ha un’occasione irripetibile per fare una volta per tutte quell’Unione europea che ancora non c’è, per ritrovare uno slancio nuovo, per fare le cose. Che bel segnale sarebbe stato se si fosse assunta un’iniziativa europea per salvaguardare i redditi bassi e dare sussidi alla disoccupazione! Un’iniziativa presa a livello europeo trasferisce, di per sé, un messaggio di sicurezza e di fiducia, la coesione europea fatta di gesti e di atti conclusivi incorpora un quid che è un valore in più. Ecco il merito di chi volle l’euro, in quella moneta unica c’era incorporata una plusvalenza forte. Anche oggi, a parità di intervento, dovendo fare i conti con la crisi globale, le soluzioni europee hanno un quid in più. Non dimentichiamocelo mai.

Qualcuno potrà pensare che l’abbiamo presa lunga, ma stiamo parlando della nuova Bretton Woods. Non si può costruire un mondo nuovo se non si riconoscono prima gli errori del mondo vecchio. Non c’è altra via per non ripeterli. (Beh, buona giornata).

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Il G7 di Roma visto da Giulio Tremonti.

di GIULIO TREMONTI da ilmessaggero.it 

Gentile direttore,

ho letto con grande interesse l’articolo di Romano Prodi pubblicato ieri sul Messaggero sotto il titolo “Il semaforo verde di Roma a una nuova Bretton Woods”. Romano Prodi pubblica sul suo giornale articoli sempre di grande interesse, questo è di grandissimo interesse e, se posso aggiungere, è anche un articolo che esprime la “cifra” della grande politica. Una “cifra” che somma due addendi essenziali. La visione e la cultura istituzionale: la capacità di mettere insieme materiali apparentemente eterogenei, economici e giuridici, facendone sintesi politica.

Bretton Woods fu all’inizio una lunghissima conferenza. Da questa derivò un sistema di princìpi. Solo alla fine tutto questo fu formalizzato in un trattato internazionale multilaterale. Quattro mesi sono un termine oggettivamente troppo breve per fare tutto questo, ma spero, speriamo sufficientemente lungo per disegnare la mappa del percorso. Un percorso che non serve tanto o solo per uscire dalla crisi, da questa crisi, ma anche e soprattutto per evitare che la fine di “questa crisi ne prepari una nuova” (Romano Prodi, Messaggero del 31 dicembre 2008 titolo “Per non passare da una crisi all’altra serve un leone non un gattino”). Concordo, e ringrazio di cuore. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Il G7 di Roma visto da Romano Prodi.

di ROMANO PRODI da ilmessaggero.it

La breve ma intensa riunione del G 7 segna l’inizio di un’azione comune dei grandi paesi industrializzati contro
la crisi economica che, come dice il comunicato finale, ha
già portato a consistenti perdite occupazionali e si prevede durerà per quasi tutto il 2009.

Di fronte a questo crollo dell’economia è stata manifestata una comune determinazione nell’usare tutti gli strumenti disponibili per sostenere la crescita e l’occupazione e per rafforzare il traballante sistema finanziario.

Non solo il comunicato finale, ma tutti i partecipanti al
vertice romano hanno sottolineato come le politiche fino ad ora adottate dai diversi paesi siano tra di loro convergenti e siano state rapidamente messe in atto, ma hanno anche aggiunto che, agendo in modo unito e coordinato, gli effetti delle azioni prese dai singoli paesi saranno più efficaci per vincere la crisi.

In sintesi: le politiche fino ad ora adottate vanno bene ma bisogna fare presto perché la casa brucia e le fiamme non danno alcun segnale di spegnersi.

Il clima di concordia è stato messo ancora maggiormente in rilievo da una lunga espressione di apprezzamento per la politica economica, fiscale e monetaria seguita dalla Cina. Dopo gli attacchi del Tesoro americano alla gestione monetaria cinese, accusata di pratiche aggressive nei confronti dei paesi concorrenti, questa pace economica fra gli Stati Uniti e la Cina non può che fare bene alle prospettive di ripresa , perché uno dei punti più delicati della crisi è proprio l’enorme squilibrio fra l’economia americana e quella cinese.

Un altro punto fondamentale è la comune volontà nella lotta contro il protezionismo, un’affermazione che potrebbe anche sembrare di maniera, ma di cui avevamo assolutamente bisogno perché anche i dibattiti del Senato e della Camera americani hanno manifestato aspetti poco rassicuranti, non solo per rinnovati richiami al “Buy American” ma per emendamenti che propongono il divieto di assunzione di mano d’opera straniera nelle banche che hanno licenziato lavoratori americani.
Il neo ministro del tesoro Geithner dovrà quindi dimostrare una certa energia per essere coerente a Washington con quanto ha firmato a Roma.

Tra i G7 non è stato soltanto siglato un patto a combattere il protezionismo, ma anche a costruire nuove regole e standard più rigorosi per i mercati finanziari internazionali. Per raggiungere questi risultati i sette ministri delle finanze hanno affidato ai loro “deputies”il compito di preparare, entro quattro mesi, uno schema di progetto di riforma sui principi etici, giuridici ed economici di funzionamento dei mercati stessi.
In parole povere a preparare qualcosa di simile a una nuova Bretton Woods. Il termine di quattro mesi mi spinge tuttavia a una doppia riflessione

La prima è che all’inizio di Aprile vi sarà una conferenza dei G20, tra i quali abbiamo paesi assolutamente indispensabili non solo per uscire dalla crisi ma anche per scrivere un nuovo ordine economico internazionale

Una stretta unità d’azione fra G7 e G20 è perciò urgente..
La seconda riflessione riprende una frase dell’ex segretario di Stato americano Dean Acheson che, nelle sue memorie, non solo ci ricorda che Bretton Woods fu supportata da un formidabile lavoro tecnico ma che la gestazione dei lavori della Conferenza durò “più o meno due volte di quella degli elefanti”

Non sono un’esperto di zoologia, ma credo che questo equivalga a quasi quattro anni. Distinguiamo quindi i rimedi per uscire dalla crisi (che debbono essere applicati con urgenza) dalle pur indispensabili riforme del sistema, che esigono tempi da elefante, anche perché la situazione è ora molto più complessa di allora.

Dobbiamo perciò essere grati ai sette grandi di Roma perché hanno dato il semaforo verde per raggiungere entrambi gli obiettivi ma mettiamoci subito al lavoro per potenziare il motore dell’automobile che dovrà percorrere questa difficile strada. (Beh, buona giornata).

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Incredibile ma vero: il G7 ha scoperto che la crisi è grave.

 
di MARIO DEAGLIO da lastampa.it
Il comunicato stampa conclusivo della riunione dei ministri economici dei G7, ossia dei responsabili delle sette maggiori economie del mondo contiene una lunga litania di ovvietà. Vi si afferma infatti che la crisi è grave.

Che è necessario ristabilire la fiducia dei mercati, sostenere crescita e occupazione, evitare l’eccessiva volatilità dei cambi. Vi è una rituale condanna del protezionismo anche da parte di rappresentanti di governi, come quello francese, che hanno firmato pochissimi giorni prima provvedimenti che vengono generalmente ritenuti protezionisti.

Non è stata annunciata alcuna nuova specifica azione «ammazzacrisi» ma i ministri hanno notato, con malcelato autocompiacimento, di aver posto in atto misure «sollecite, vigorose, risolute». Poche righe più sopra, però, avevano ammesso che queste politiche non hanno finora prodotto risultati e che la «dura recessione ha già provocato importanti effetti negativi sull’occupazione» e «si prevede che continuerà per gran parte del 2009». Questa incongruenza tra l’entità delle misure e la scarsità dei risultati, del resto, è tipica delle difficoltà del momento. Non bisogna, del resto, dimenticare che i venti della crisi hanno acuito le difficoltà di molti governi: da quello giapponese, ormai debolissimo, a quello britannico, alle prese con una crisi che sta incrinando alle fondamenta le prospettive di crescita del Regno Unito, che ha puntato quasi tutto sulla sua posizione centrale nella finanza internazionale. E infine a quello del neopresidente americano, le cui misure anticrisi sono state adottate controvoglia, proprio alla vigilia del G7, da un Congresso riluttante e sono state accolte da ulteriori, gravi cadute di Borsa.

Inserendosi nella linea di una lunga serie di analoghi comunicati, che hanno suggellato le numerose riunioni inconcludenti degli ultimi due anni, le contraddizioni di questo documento dimostrano una verità che forse preferiremmo non conoscere: non abbiamo, per il momento, una ricetta vincente, questa crisi è troppo diversa da tutte le precedenti per cercarla sui libri di testo o nell’esperienza storica. In altre parole, «il re è nudo», o, se si preferisce, come ha scritto su queste colonne Domenico Siniscalco, ci manca la «pallottola d’argento», l’unica veramente in grado di uccidere il vampiro che succhia le risorse delle nostre economie. Tale «pallottola» dovremo costruirla noi, nei prossimi mesi (o anni?) scordandoci la beata illusione di ripristinare tutto come prima con poche misure risolutive.

Per fortuna, pur in questa non lusinghiera prospettiva, la riunione di Roma presenta qualche spunto di interesse e indica che qualcosa comincia a muoversi. Vi sono frequenti sottolineature sulla necessità di azioni comuni e una nuova urgenza nell’invocare la riforma del Fondo Monetario Internazionale (che proprio i governi dei paesi ricchi, e soprattutto degli Stati Uniti, hanno finora di fatto osteggiato); si parla di riforma delle regole, un passo avanti rispetto alla rigidità su questo punto della precedente amministrazione americana; si loda apertamente la politica cinese, in quella che è corretto leggere come un’apertura al grande paese asiatico. La Cina, tra l’altro, detiene la maggior parte delle riserve valutarie del pianeta e, come altri giganti del mondo emergente, continua incomprensibilmente a essere tenuto fuori da queste riunioni, il che ne riduce molto l’efficacia. E non si dimentichi il cambiamento d’opinione del Presidente del Consiglio italiano, contestuale alla riunione di Roma, l’unico tra i capi di governo a minimizzare, fino all’altro ieri, la gravità della situazione.

Qualcosa comincia quindi a muoversi nel mondo ingessato di queste riunioni e può darsi che la diplomazia economica del paese ospitante, ossia dell’Italia, ne abbia qualche merito. Ma perché la crisi venga veramente affrontata è necessario ben altro; a Roma si è fatta strada la convinzione che questa crisi, visto che non può essere annullata con qualche misura miracolosa, deve essere gestita.

In quest’ottica, i ministri economici del G7 – che, dopo tutto, sono uomini politici – dovrebbero porsi la fondamentale domanda politica che ci occuperà nei prossimi mesi e forse nei prossimi anni. Questa domanda è molto semplice: chi pagherà per questa crisi? Saranno solo gli azionisti delle banche americane e inglesi fallite, nazionalizzate o tenute in piedi dal sostegno pubblico o i loro manager superpagati? Saranno i risparmiatori che hanno investito in una Borsa che ha mediamente dimezzato le loro risorse finanziarie? Saranno i lavoratori di tutto il mondo, e non solo quelli americani, con la perdita dei posti di lavoro? O non si tratterà, più in generale, dei cittadini del mondo ricco, travolti da una possibile, forse probabile, ondata di inflazione generata dal fortissimo indebitamento pubblico legato ai salvataggi e ai sostegni di questi mesi?

I ministri economici delle maggiori economie sviluppate del mondo, e, a maggior ragione, i capi di stato e di governo che tra qualche mese si riuniranno al G8 della Maddalena dovrebbero cercare di rispondere a queste domande che saranno con noi nel prevedibile futuro. A giudicare dai risultati della riunione di Roma, il cammino da compiere è ancora molto, molto lungo. (beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il “Financial Stability Plan” di Veltroni.

1. Sistema universale di ammortizzatori sociali, essenziale strumento di protezione sociale e di tutela della vita stessa delle piccole imprese. Il Pd propone alcune misure immediate e in prospettiva la realizzazione di una organica riforma degli ammortizzatori sociali di tipo europeo. Nell’immediato: a) l’introduzione di una misura temporanea di sostegno al reddito dei precari e degli altri lavoratori che perdono il lavoro e sono sprovvisti di copertura assicurativa, da associare ad attività di formazione e programmi di reinserimento lavorativo;
b) l’innalzamento della copertura Cassa integrazione ordinaria e straordinaria (CIG e CIGS) per proteggere dalle crisi, insieme ai lavoratori, anche le piccole imprese, che solo così possono sopravvivere e non creare ulteriore disoccupazione;
c) la sospensione del pagamento delle rate del mutuo contratto per l’acquisto dell’abitazione di residenza per i lavoratori che perdono il posto di lavoro. In prospettiva, va realizzata una organica riforma del sistema degli ammortizzatori sociali in modo da arrivare all’istituzione di un sussidio unico di disoccupazione, di cui possa beneficiare chiunque perde il proprio posto di lavoro, inclusi i precari, a prescindere quindi dal tipo di contratto, dal settore e dalla dimensione dell’impresa nella quale veniva svolta l’attività lavorativa, con l’unica condizione dell’impegno alla riqualificazione e ad accettare offerte di lavoro.

5.
Aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture, con priorità alle opere immediatamente cantierabili dei Comuni, a questo scopo parzialmente liberati dal vincolo del Patto di Stabilità Interno; si potrebbe così far partire entro il mese di giugno un programma di piccole e medie opere immediatamente cantierabili, ora bloccate dalla legge 133/2008, e avviare in tempi contenuti un piano straordinario di riqualificazione degli edifici pubblici, scuole soprattutto, per migliorare l’efficienza energetica e la messa in sicurezza. Vanno inoltre ripristinate le risorse sottratte agli investimenti nel Mezzogiorno, in particolare al Fondo per le Aree Sottoutilizzate.

2. Aumento del potere d’acquisto delle famiglie con una riduzione della pressione fiscale sui redditi medio-bassi. Aumento delle detrazioni sui redditi da lavoro dipendente, autonomo e da pensione, a partire dai redditi e dalle pensioni più basse, per dare, attraverso questa via, alla fine della legislatura, 100 euro in più al mese per i redditi fino a 30.000 euro l’anno. L’intervento, alternativo al bonus famiglia e alla social card, viene erogato anche ai contribuenti incapienti attraverso trasferimenti.

3. Promozione di nuova occupazione femminile: meno costi per l’impresa che assume una donna; meno tasse sul reddito da lavoro delle donne; sostegno all’imprenditoria femminile, anche attraverso il microcredito; accompagnamento degli interventi fiscali con politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e con il potenziamento di servizi di cura per la famiglia (asili nido, assistenza anziani non autosufficienti, ecc).

4. Green economy per rilanciare la nostra economia rendendola più competitiva, per attivare fra nuovi lavori e riqualificazione (o almeno “salvataggio”) di quelli esistenti, un milione di posti di lavoro nei prossimi cinque anni e rispettare gli impegni presi a livello europeo. Il Pd propone una serie di interventi, tra i quali un piano di riqualificazione degli edifici pubblici; rendere permanenti le agevolazioni fiscali del 55% per gli interventi di efficienza energetica delle abitazioni e degli edifici privati, costruzione di 100 mila nuovi alloggi, tra edilizia pubblica e canone agevolato, a bassissimo consumo energetico; incentivi per la rottamazione delle auto vincolati all’acquisto di auto a basse emissioni e bassi consumi e sostegno alla ricerca e all’innovazione dell’industria automobilistica per le auto ecologiche del futuro; favorire investimenti pubblici per il rinnovo del parco mezzi con acquisto di autobus a metano e avviare un piano di 1.000 treni per i pendolari, con 300 milioni di euro all’anno per cinque anni; ecoincentivi per l’acquisto di elettrodomestici a basso consumo; raddoppiare nei prossimi dieci anni l’energia prodotta dalle fonti rinnovabili e favorire lo sviluppo di una industria nazionale del settore, rafforzando Industria 2015 e promuovendo nuove imprese che producano impianti, tecnologie, pannelli solari, nuovi materiali per l’edilizia; semplificare e dare certezza alle regole, ad esempio, nelle procedure di autorizzazione e nei regolamenti edilizi dei comuni; promuovere una politica agricola organica e favorire le imprese e le economie che puntano sul turismo di qualità, sui prodotti agricoli legati al territorio, alla manifattura italiana; incentivare il riciclo dei rifiuti e l’industria ad esso collegata: un incremento del 15% in dieci anni rispetto ai livelli attuali rappresenterebbe il 18% dell’obiettivo nazionale di riduzione delle emissioni di CO2 e significherebbe far scendere i consumi energetici di 5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio.

6. Sostegno alle imprese sia rafforzando Confidi, sia garantendo il regolare e tempestivo pagamento delle pubbliche amministrazioni, sia ripristinando l’automatismo dei crediti d’imposta per la ricerca, gli investimenti, le ristrutturazioni; in particolare il Pd propone di accelerare il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese fino a 250 dipendenti attraverso il ricorso, nei limiti di 3 miliardi di euro per il 2009, alle risorse della gestione separata della Cassa Depositi e Prestiti; di potenziare le contro-garanzie per i Confidi – fino a triplicarne l’attuale capacità – di tutte le categorie del lavoro autonomo e delle piccole imprese, anche attraverso l’intervento della SACE; di dare attuazione alle misure previste nei decreti per la stabilità del sistema creditizio e la continuità nell’erogazione del credito alle imprese ed alle famiglie approvati all’inizio di ottobre 2008, ma rimasti inapplicati per l’assenza a tutt’oggi dei regolamenti attuativi, in particolare per la garanzia della raccolta bancaria a medio termine e a garanzia del rischio di credito. Il Pd propone inoltre una serie di interventi fiscali per il lavoro autonomo e le imprese. Tra questi, il potenziamento del forfettone fiscale: per lavoratori autonomi, piccoli imprenditori e professionisti innalzamento del limite di fatturato a 70.000 euro l’anno e del limite di spesa per la disponibilità di beni strumentali a 45.000 euro nel triennio (circa 2 milioni di soggetti potenzialmente interessati, per i quali si elimina l’Iva, l’Irpef, l’Irap e gli studi di settore e si applica un’imposta sostitutiva complessiva del 20%); la riduzione della ritenuta d’acconto applicata sui ricavi dei professionisti (dal 20 al 10%) per evitare ricorrenti crediti fiscali, soprattutto per i professionisti più giovani; per il biennio 2009-2010; l’introduzione di un moltiplicatore pari a 2 per la deducibilità degli oneri finanziari derivanti dagli investimenti produttivi effettuati nel biennio 2007-2008, aggiuntivi rispetto alla media del triennio precedente; l’azzeramento per il biennio 2009-2010 dell’imposta sostitutiva sul reddito, attualmente prevista al 27,5%, per le ditte individuali e società di persone in contabilità ordinaria per la parte di reddito re-investita in azienda; la sospensione del tetto alla deducibilità degli interessi passivi per il biennio 2009-2010 per i soggetti Ires.

7. Difesa e valorizzazione del made in Italy, con la ricerca e con l’innovazione ma anche tutelando marchi e denominazioni e contrastando il dumping sociale e lo sfruttamento del lavoro minorile. Alla manovra anticiclica, con misure di immediato sostegno all’economia, devono essere unite riforme strutturali che accrescano il PIL potenziale e dunque riforme per la regolazione concorrenziale dei mercati (dalle banche alle assicurazioni, dalle professioni ai servizi pubblici locali, fino all’energia), in modo da mettere il paese in condizione di correre, quando la crisi internazionale sarà superata. Insieme a queste, va tutelato come bene assoluto il merito di credito del paese e quindi la stabilità finanziaria. La riduzione della spesa corrente, attraverso una spending review sulla quale fondare una sistematica operazione di benchmark che faccia emergere le migliori pratiche in modo che verso esse convergano tutti i segmenti della pubblica amministrazione; il controllo delle entrate attraverso una intelligente lotta all’evasione fiscale; la valorizzazione dell’ingente patrimonio pubblico, per ottenere che si trasformi da fonte di costo a fonte di reddito sono essenziali per garantire la stabilità di medio periodo della finanza pubblica. Insieme a queste va poi realizzata la riorganizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi, delle amministrazioni centrali e di ciascuna amministrazione regionale; la digitalizzazione “forzata” di tutta la Pubblica Amministrazione; l’accorpamento, in due anni, di tutti gli uffici periferici dello Stato centrale. Questo insieme di attività – da realizzare attraverso innovazioni legislative e, soprattutto, amministrative – è in grado di realizzare obiettivi di risparmio crescenti nel tempo (dopo due anni, un punto di PIL). Già nel 2009, il costo delle misure anticicliche proposte è coperto, per la metà, da maggiori entrate legate all’innalzamento del Pil, dal riavvio delle politiche antievasione, dall’assorbimento nell’ambito dell’intervento generalizzato delle risorse dedicate al bonus famiglia e alla social card, dai primi risparmi dovuti all’attivazione delle centrale unica per gli acquisti. Possibili risparmi in conto interessi, da valutare in sede di assestamento del Bilancio dello Stato a Luglio 2009, dovrebbero essere utilizzati per migliorare la copertura. L’indebitamento ed il debito aggiuntivo previsto per il 2009 viene più che compensato nel corso del 2010 e 2011, grazie al venir meno degli effetti delle misure di carattere temporaneo, al recupero di risorse dall’evasione, al risparmio di spesa e, soprattutto, alla maggiore crescita conseguente alle riforme strutturali proposte.

Più Europa: nella gestione del debito pubblico, per le infrastrutture, per la vigilanza sul sistema del credito Proprio mentre il modello europeo – con la sua economia sociale di mercato – viene assunto a riferimento in altre aree dell’economia globale, l’Unione Europea fatica a ritrovare slancio e si fanno più seri i rischi di scivolamento verso interventi protezionistici.

Il PD sostiene tre precise proposte: coordinamento, anche costituendo un’apposita Agenzia europea, della gestione delle emissioni di titoli del debito pubblico dei Paesi dell’Eurogruppo; finanziamento dei progetti infrastrutturali con emissione di eurobonds sul merito di credito dell’Unione; affidamento alla BCE del coordinamento della regolazione e della vigilanza sul sistema del credito, ormai perfettamente integrato a dimensione europea. (Beh, buona giornata).

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Il Financial Stability Plan di Obama.

da lavoce.info

Il piano presentato dal Treasury americano o Geithner test, come definito da una parte della stampa economica internazionale, introduce elementi di rilevante novità rispetto al precedente piano Paulson, che continua comunque a rimanere in vigore.
Il Financial Stability Plan si caratterizza innanzitutto per l’intervento dei privati, questa volta non solo auspicato, ma istituzionalizzato. Poi per l’abbandono della logica delle mere iniezioni di capitale, che lascia spazio al controllo statale dei bilanci delle banche e quindi all’acquisto di asset da parte di un fondo. Nonché per il tentativo di andare dritti al cuore del problema, il mercato dei prodotti cartolarizzati, e per ovviare a quella che, nella sua applicazione pratica, era risultata essere una debolezza del programma Paulson: la mancanza di trasparenza e accountability delle banche che ricevevano fondi pubblici.
Il piano, che si ritiene avrà un effetto leva da 2mila miliardi di dollari, prevede cinque linee di intervento: sostegno al capitale bancario, creazione di un fondo misto di investimento, iniziative a sostegno di nuovi prestiti a consumatori e imprese, oneri di trasparenza e responsabilità delle istituzioni creditizie e sostegno ai mutuatari per evitare il pignoramento.

PROGRAMMA DI ASSISTENZA AL CAPITALE BANCARIO (CAP)

Per ottenere una valutazione realistica e di lungo periodo delle effettive condizioni di salute delle banche, il Tesoro americano, di concerto con tutte le autorità di supervisione, condurrà un test di stress sui loro bilanci, per valutare se hanno il capitale necessario a esercitare attività di prestito e se sono in grado di assorbire le perdite potenziali che potrebbero derivare da un declino economico più severo di quello che ci si attende. Al test devono sottoporsi obbligatoriamente tutti gli istituti con asset consolidati superiori a 100 miliardi di dollari e solo così potranno avere accesso ai fondi pubblici. Questi opereranno come una forma di “contingent equity” che servirà da ponte per l’ingresso di capitale privato e assicurerà nel breve termine che le banche continuino o incrementino i prestiti all’economia reale. Il sussidio avrà la forma di azioni privilegiate convertibili, il cui dividendo e prezzo di conversione deve ancora essere stabilito. Il fine è comunque quello di congegnare l’equity in modo che le banche abbiano incentivo a sostituirla con capitale privato o a riscattarla. Su specifica autorizzazione, gli istituti potranno chiedere di “scambiare” le azioni relative al precedente piano con quelle dell’attuale. La gestione dei fondi pubblici investiti sarà affidata a un Trust. La maggiore incognita del Cap riguarda l’esatto ammontare di fondi necessari, che potrà essere stabilito solo dopo che i test siano giunti a compimento. 

CREAZIONE DI UN PUBLIC-PRIVATE INVESTMENT FUND (PPIF)

Nel public-private investment fund saranno convogliati capitali pubblici e privati. Il fondo acquisterà gli asset tossici delle banche, per ridurre la componente di maggior rischio dei loro bilanci e incentivare così l’attività di prestito. Il capitale pubblico, inizialmente 500 miliardi, che potranno arrivare fino a mille, sarà fornito dalla Federal Reserve e dalla Fdic, l’agenzia di tutela dei depositi. Nulla si dice invece su chi siano i “privati” interessati – o meglio, che possano avere incentivo – alla partecipazione al fondo. Ad ogni modo, la presenza di capitale privato farà sì che la valutazione del prezzo degli asset illiquidi sia affidata al mercato. Questo dettaglio ha però due conseguenze. Quella positiva è che si può sperare che venga così fissato un valore “giusto” per tali strumenti e che quindi si ristabilisca la fiducia tra gli operatori finanziari, con beneficio anche per i contribuenti che eviterebbero il rischio di pagare troppo o troppo poco, ipotesi questa che comporterebbe la necessità di ulteriori interventi pubblici. Quella negativa è che in realtà anche il fondo misto può divenire “avverso al rischio”, per cui pagherebbe il prezzo più basso possibile: avrebbe l’effetto di comportare immediate perdite contabili per gli istituti che si intendevano aiutare. Le stesse banche potrebbero mostrarsi dunque riluttanti a partecipare al programma. Non a caso, stante il silenzio del legislatore americano sul modus operandi del fondo, vi è già chi propone soluzioni pratiche al problema. (1)

SOSTEGNO AI PRESTITI A CONSUMATORI E IMPRESE

Il governo americano intende aumentare di 200 miliardi di dollari, con effetto leva fino a mille miliardi, una misura già presente nel piano Paulson, ma sinora inutilizzata: la Talf, Term asset-backed securities loan facility. Si tratta di finanziare l’acquisto da parte di investitori privati di prodotti cartolarizzati (Abs) garantiti da prestiti per l’acquisto di auto, carte di credito, o concessi a studenti e piccole imprese, assistiti da rating AAA, nonché commercial mortgage-backed securities (Cmbs), anch’essi a tripla A. Il Tesoro prevede, dietro consultazione con la Fed, di estendere l’ambito di applicazione della misura anche ai non-Agency residential mortgage-backed securities (Rmbs) e ad asset garantiti da obbligazioni societarie. La Federal Reserve continuerà il precedente programma di acquisto di obbligazioni emesse da agenzie governative (le Gse, come Fannie Mae, Freddie Mac e le Federal Home Loans Banks) e mortgage backed securities, per un totale di 600 miliardi. La misura mira evidentemente a riattivare il mercato dei prodotti cartolarizzati ormai in stallo.

TRASPARENZA, ACCOUNTABILITY E MONITORAGGIO DEI FONDI

Su trasparenza, accountability e monitoraggio dei fondi si registra forse il punto di maggior rottura con il piano Tarp. Anche perché le valutazioni del Troubled Asset Rescue Plan emerse dai primi audit sono state nel complesso negative, pur considerando la frammentaria applicazione e le continue modifiche effettuate. È risultato che parte dei soldi pubblici erogati sono stati utilizzati per pagare bonus ai manager, o sono stati trattenuti in bilancio piuttosto che investiti in attività di prestito. Addirittura, in alcuni casi sono serviti per operazioni di fusioni e acquisizioni che hanno prodotto un ulteriore taglio di posti di lavoro. Il nuovo piano prevede, al contrario, che le banche debbano dimostrare come “ogni dollaro ricevuto” abbia permesso loro di continuare a concedere o a generare nuovi prestiti rispetto a quanto sarebbe stato possibile senza il sostegno pubblico. Inoltre devono presentare un piano dettagliato di utilizzo dei fondi e un resoconto mensile di quanti prestiti hanno concesso a consumatori e imprese e quanti prodotti cartolarizzati (Abs, Mbs) hanno acquistato. I dati verranno resi pubblici sul sito del programma. (2)
Gli istituti partecipanti saranno altresì soggetti a restrizioni sui dividendi trimestrali e sull’acquisto di azioni proprie e sulle acquisizioni di imprese, tutte operazioni che in ogni caso dovranno essere autorizzate dal Tesoro. Si prevedono limiti agli stipendi degli amministratori, incluso il caso di stockoption pagabili solo dopo l’uscita del Tesoro, nonché all’acquisto di beni di lusso da parte delle imprese. Si predispospongono anche misure che evitino ogni ingerenza politico-lobbista nell’utilizzo, nella richiesta o nella restituzione dei fondi. Al fine di garantire la massima trasparenza verso i contribuenti, il Tesoro pubblicherà sul sito tutti i contratti effettuati nell’ambito del piano, compresi dettagli sulla quantità di azioni ricevute, sul prezzo di esercizio delle garanzie e sui tempi di rimborso. I dati dovranno essere comparati con i prezzi di mercato di analoghe transazioni, se disponibili.

EVITARE I PIGNORAMENTI

Evitare il più possibile i pignoramenti: è il filo conduttore che pervade l’ultima parte del piano, che si occupa del sostegno al mercato immobiliare.Èperò anche la più scarna e si attendono maggiori dettagli nelle prossime settimane.
Per aiutare i soggetti che rischiano di perdere la casa, il Tesoro e la Fed, da un lato, investiranno fino a 600 miliardi nell’acquisto di obbligazioni e prodotti cartolarizzati emessi dalle Gse e impegneranno risorse fino a 50 miliardi per prevenire pignoramenti “evitabili” di case già occupate. Dall’altro, obbligheranno tutte le istituzioni che aderiscono al programma a partecipare a piani di rinegoziazione dei mutui-foreclosure mitigation secondo regole stabilite dal Tesoro. È anche previsto di dare maggior flessibilità ai programmi Hope for Homehowners e Fha.
Qui l’interrogativo di fondo riguarda i soggetti specificamente deputati a effettuare la rinegoziazione dei mutui e a evitare i pignoramenti: giudici fallimentari? Camere di conciliazione? E che incentivo sarà dato alle banche per partecipare a tali piani? (Beh, buona giornata).
(1) Si veda Sachs, A strategy of contingent nationalisation, in www.voxeu.org
(2) www.financialstability.gov

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume

” l’Italia è il Paese europeo con il più basso livello di credibilità nei confronti delle aziende.”

da ilmessaggero.it

Oltre ai conti sempre più in picchiata precipita anche l’indice della credibilità delle aziende in Italia: in un solo anno è passato dal 41% al 27%.

È quanto emerge dalla decima edizione del Trust Barometer, l’indagine annuale che Edelman conduce ogni anno fra gli opinion leader di 20 Paesi attraverso l’istituto di ricerche controllato StrategyOne.

Secondo la rilevazione, l’Italia è il Paese europeo con il più basso livello di credibilità nei confronti delle aziende. A livello globale il 65% degli opinion leader (il 61% in Italia) sono favorevoli ad un maggiore controllo da parte dello Stato nei confronti del mondo aziendale.

La perdita di fiducia nel sistema imprenditoriale è un fenomeno che riguarda molti dei Paesi colpiti dalla crisi economica, ma è più marcata in Italia (meno 14%), mentre cresce la fiducia nel governo, cala la credibilità dei media e nelle Ong rispetto ai dati del 2008.

L’Italia ha più fiducia nelle istituzioni governative (32%) rispetto alle aziende (27%), ed è il Paese nel mondo che ha minor fiducia nel settore aziendale (27%). Il 61% chiede che il Governo imponga regole più strette e un controllo più ferreo su tutti i settori del business. (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

“La spesa delle famiglie nel 2009 si ridurrà di un ulteriore 0,5%, dopo il calo dello 0,6-0,7 punti percentuali stimato nel 2008”.

da repubblica.it

Dopo l’avvio positivo dei saldi nelle prime due settimane dell’anno, a partire dalla seconda metà di gennaio si avverte “una marcata recessione su tutto il fronte dei consumi”: lo segnala la Confesercenti secondo la quale i settori più colpiti sono quelli di auto, alimentari, tessile, tabacchi. Stando alle stime, sono i consumatori ad aver cambiato comportamento di spesa con risparmi anche del 20%. Ad esempio, le schede telefoniche da 5-10 euro vengono privilegiate rispetto a quelle di maggiore entità. E si acquistano più pacchetti di sigarette da 10 a discapito di quelli da 20.

Secondo l’associazione, “la spesa delle famiglie nel 2009 si ridurrà di un ulteriore 0,5%, dopo il calo dello 0,6-0,7 punti percentuali stimato nel 2008”. Per la Confesercenti, la crisi dei consumi impatta “immediatamente” sulle vendite del commercio: la spesa delle famiglie è influenzata cioè dalla “diffusa incertezza sulla durata della fase recessiva”, dalle “crescenti preoccupazioni sull’evoluzione del mercato del lavoro”, dal “forte aumento dell’inflazione al consumo”, dalle “conseguenze sulla ricchezza delle famiglie condizionata dalle vicende finanziarie e di borsa”.

La riduzione dei consumi ha già avuto conseguenze molto negative per il commercio, ricorda Confesercenti: il 2008 si è chiuso con un saldo negativo di poco meno di 40.000 imprese nell’intero comparto del commercio (dettaglio e ingrosso). In termini occupazionali, “ciò sta a significare circa 120-130.000 posti di lavoro in meno, tra titolari, collaboratori e dipendenti. E’ facile ipotizzare che anche nel 2009 dovremo registrare un volume di chiusure almeno pari a quello del 2008, se non leggermente superiore, intorno alle 50.000 imprese”.

Quanto agli interventi messi in campo per fronteggiare la recessione, per Confesercenti “l’ammontare delle risorse previste è assolutamente insufficiente per sostenere la ripresa dei consumi e dell’attività produttiva”. Anche perché la pressione fiscale rimarrà ancorata, per i prossimi 5 anni, ad un livello “anche superiore al 43%”.

“Come Confesercenti – si legge nella nota diffusa dall’associazione – chiediamo che per i ricavi del 2008 e del 2009 sia ridotta la soglia almeno del 5%, per tener conto degli effetti della crisi, percentuale che richiama il calo medio delle vendite delle piccole superfici commerciali nel 2008 al netto dell’inflazione”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Natura Popoli e politiche

C’è un pessimo clima sulla questione ambientale.

Clima di crisi

di Marzio Galeotti da lavoce.info

Quali sono le conseguenze della crisi economica per la causa dell’ambiente? Difficile dirlo a priori, perché molteplici sono gli effetti e le interrelazioni al livello di sistema economico. Ma anche se la tensione sul problema dovesse calare, compito del governo e delle politiche è di contrastare questa tendenza. Dopotutto, prima o poi, la crisi passerà, mentre il problema del clima resta. E così pure gli impegni internazionali da onorare. Meglio allora pensare a come agire, secondo le linee di un piano di intervento e rilancio verde.

Il 2008 sembrava un anno speciale per la lotta ai cambiamenti climatici. Il pacchetto europeo sul clima annunciato a gennaio attraversava una fase di discussione turbolenta, durante la quale si era distinto in negativo il nostro paese, ma non tale da comprometterne l’approvazione finale. Dall’altra parte dell’oceano, il candidato democratico Barack Obama viaggiava verso un’elezione alla presidenza degli Stati Uniti che gli eventi successivi avrebbero reso trionfale, sulla base di una piattaforma che della lotta agli sprechi energetici e sul clima aveva fatto uno dei pilastri principali.
Ma poi sul finire dell’estate era arrivata la crisi, una crisi dalla virulenza senza precedenti. Una crisi che dalla sfera finanziaria si era trasferita all’economia reale e che a fine anno cominciava a fare  intravvedere le sue pesanti conseguenze. Era una crisi di fiducia verso gli altri operatori e una crisi di sfiducia verso il futuro che inceppava il meccanismo del credito, rallentava significativamente l’economia, riduceva i redditi e accresceva la disoccupazione. Le pubbliche finanze venivano sottoposte a tensioni crescenti: a fronte di minore gettito fiscale aumentavano le richieste di intervento a favore di banche, industrie e famiglie. Si affacciava un nuovo statalismo che dilatava i deficit pubblici e nel lessico politico scompariva la parola “tassa”, per far posto a un’altra, “sussidio”.

IL CLIMA NELLA CRISI

E la lotta ai cambiamenti climatici? Quali gli effetti della crisi economica sul clima e sulla politica del clima? La lotta al clima è percepita, a torto o a ragione, come un costo: è un atteggiamento diffuso tra i decisori politici dal momento che i costi sono più vicini, visibili e certi dei benefici. Ed è difficile negare che la profonda crisi economica abbia l’effetto di attenuarne, e di molto, la serietà e l’urgenza.
Prima di affrontare le reazioni della politica potremmo però provare a interrogarci su quali effetti la crisi economica possa avere su energia e clima, in assenza di interventi. Diciamo subito che una risposta nitida è difficile da ottenere, in quanto molteplici appaiono gli effetti, anche di segno opposto, cosicché l’economista ben presto osserverebbe come una disamina in qualche modo soddisfacente sarebbe possibile solo con l’ausilio di un modello di equilibrio economico generale capace di tenere traccia degli effetti principali della crisi.
In assenza di simili strumenti, con mero intento illustrativo, potremmo anzitutto guardare ai mercati dell’energia, a cominciare dal petrolio. Sul mercato internazionale i capitali abbandonano frettolosamente il mercato dei futures, mentre il rallentamento della domanda globale innesca  potenti aspettative al ribasso, che la volontà dell’Opec di restrizione dell’offerta non è riuscita finora a contrastare. Il prezzo crolla e le fonti fossili di energia (il petrolio porta con sé il gas) tornano a essere competitive, mentre le entrate fiscali su combustibili e carburanti si riducono (chi si ricorda più di speculazione tremontiana e Robin tax?).
Se la bolletta energetica per le famiglie ne risente in positivo, ancorché in misura più lenta, il riequilibrio dei prezzi relativi delle fonti energetiche rende relativamente più costose quelle alternative, rinnovabili in testa. Sulla carta questo fatto, unito alla scomparsa del credito bancario, rende più difficoltosa l’auspicata espansione dell’industria della produzione di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica. Se è vero che l’installazione di impianti di generazione di elettricità da eolico e solare, così come interventi di risparmio ed efficienza energetica come quelli sulle abitazioni e gli edifici pubblici e privati, sono intraprese a minimo rischio, resta il fatto che il credit crunch sembra generalizzato.
Un’implicazione di quanto appena detto è che nel nostro paese il nucleare è “rimandato a settembre”. Ciò appare già abbastanza chiaro a livello di dibattito parlamentare: troppe incognite sui tempi e sui costi. Altro che dichiarare che il nucleare è la soluzione per uscire dall’impasse del contenzioso russo-ucraino che con puntualità si ripropone con orizzonte di un anno, massimo due.

DALLE TASSE AI SUSSIDI

Un altro presumibile effetto è lo spostamento delle politiche dalle tasse ai sussidi: questo non fa un favore alla causa del clima, in quanto il principio secondo cui “chi inquina paga” non lascia molto spazio alla fantasia. Ma i tempi sono quelli che sono e i sussidi hanno il pregio di contribuire ad attenuare la recessione e sostenere prima o poi la ripresa. Ma se le tasse ambientali, come tutte le tasse, incontrano una difficoltà nell’accettabilità politica, dall’altro lato procurano gettito. Esattamente l’opposto accade con i sussidi. Specie se questi ultimi prendono verosimilmente direzioni diverse dal finanziamento dell’innovazione in tecnologie pulite e verdi, a causa dell’elevata incertezza circa tempi ed esiti che, pur nella loro cruciale importanza, le caratterizza.
Il rallentamento generalizzato dell’economia induce spontaneamente comportamenti volti al risparmio, a economizzare sui consumi e ciò riguarda anche l’energia, dai trasporti agli utilizzi di elettricità. Naturalmente, qui la questione riguarda l’elasticità al reddito dei consumi energetici, che sembra evidenziare asimmetrie a seconda che si tratti di aumenti ovvero riduzioni. In generale, comunque, si può affermare che il rallentamento della crescita a livello globale porterà a un rallentamento spontaneo nella crescita delle emissioni inquinanti, di gas-serra comprese.

SOTTRARSI DALLA LOTTA?

Il problema più serio che la crisi economica pone per la lotta al clima è l’attenzione che viene distolta dal tema, la tensione che si riduce. Il risultato è che l’emergenza climatica cessa di essere tale di fronte all’emergenza del credito, dei redditi, dell’occupazione e solo una forte volontà politica può impedire questa per certi versi comprensibile tendenza.
Dovremmo dunque abbandonare la lotta? Dare la partita per persa? Rinunciare a prendere l’iniziativa? Ci si chiede se l’ambiente è favorito dalla crisi: in realtà la risposta dipende da noi, dalla nostra volontà – e in qualche misura dal coraggio – di afferrare per le corna il toro della crisi per dirigerla verso un’uscita ad alto tasso di efficienza energetica e basso tenore di carbonio.
Vi sono tre fondamentali ragioni per cui non possiamo e non dobbiamo rimandare l’intervento a un futuro più favorevole (se mai esiste). La prima è che prima o poi la crisi economica passa, mentre il problema climatico no. Anzi, con l’inazione è destinato a diventare ancora più grave. Se le emissioni (anche) quest’anno si ridurranno, sarà comunque un fatto transitorio se non sarà il risultato di politiche attive e consapevoli. Il prezzo del petrolio tornerà a crescere e tenderanno a riproporsi le condizioni precedenti alla crisi, se non avremo colto questa cruciale occasione per presentarci all’uscita dal tunnel in condizioni diverse.
La seconda ragione è che le obbligazioni per il nostro e altri paesi sono sempre lì. Kyoto è ineludibile e così lo sono gli impegni del pacchetto europeo. Dopo la battaglia sul pacchetto, vinta a metà (o vinta dall’industria, ma non dal paese), non abbiamo più sentito nulla dai ministeri interessati su come si pensa di onorare gli impegni assunti. Stupisce un po’ di leggere che si vagheggia di rivedere i termini dell’accordo in anticipo sui tempi previsti (2010), quando in realtà la clausola di revisione non è stata introdotta per tornare indietro, quanto per verificare se vi siano le condizioni per rendere l’impegno di riduzione delle emissioni ancora più stringente. In ossequio al principio di precauzione, i costi da sostenere potrebbero essere tanto più alti quanto più tardiamo a intervenire. Mentre ancora siamo in attesa di sapere come si intende operare per la riduzione delle emissioni per quei settori – trasporti, residenziale, commercio, agricoltura – non coperti dal Sistema europeo di scambio dei permessi di emissione. O si ha il coraggio di pronunciare la parola tassazione, ma crucialmente specificando che si tratterebbe di una riforma dell’intero sistema in senso ambientale, che non porti a nuove tasse, corredandola da una clausola di impiego del gettito a favore della detassazione del lavoro e dell’incentivazione alla ricerca e sviluppo. Oppure si deve spiegare dove il Tesoro reperirà i fondi per acquistare i crediti d’emissione necessari per rientrare nei limiti degli impegni assunti.
Naturalmente, e questa è la terza ragione, si può e si deve intervenire anche sostenendo l’economia con incentivi e sussidi. Qui Obama è d’esempio: incentivi e sussidi servono a contrastare il ciclo economico avverso, ma è cruciale cogliere questa occasione di intervento dello Stato nell’economia per iniziare a cambiare la struttura della produzione e dei consumi in direzione della sostenibilità. Questo significa la concessione di aiuti condizionati e mirati, come quelli che il governo ha faticosamente deciso a favore dell’auto e degli elettrodomestici, mentre meno si comprende, dal nostro punto di vista, l’intervento a favore dei mobili. Ma naturalmente molto di più si potrebbe e sarebbe necessario fare, a cominciare da tutte quelle opzioni a costo zero di riduzione delle emissioni negative costituite dai vari interventi di efficienza e risparmio energetico. In questo senso, abbiamo registrato il piano “obamiano” presentato dal segretario del Partito democratico Veltroni, di cui solo uno dei grandi quotidiani nazionali ha riferito, e capace secondo il proponente di creare (il famoso) milione di posti di lavoro nel giro di cinque anni. (1)
Sul fronte delle politiche domestiche è necessario essere lucidi e coraggiosi. Nonostante la generale crisi di fiducia, non deve venire meno la fiducia nella lotta al clima, ma è necessario cogliere questa occasione che potrebbe rivelarsi irripetibile, come osservano le Nazioni Unite con la proposta di un Green Global New Deal e Obama con il suo American Recovery and Reinvestment Plan. Qualche settimana addietro Francesco Giavazzi notava in un editoriale come questa crisi sia l’occasione propizia per procedere in maniera decisa a una riforma radicale del sistema delle relazioni industriali. (2) Quando l’abbiamo letto, abbiamo pensato che poteva anche notare come questa sia una straordinaria occasione per offrire al paese un’ambiziosa fuga in avanti verso un obiettivo comunque ineludibile. (b

 

(1)“Un milione di posti in 5 anni la svolta è la green economy”, La Repubblica 1 febbraio 2009.
(2)“Lo scambio virtuoso”, Corriere della Sera 8 gennaio 2009.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

In tempi di crisi anche il lusso piange miseria.

La crisi investe anche la moda, e il Made in Italy lascia a terra marchi presigiosi
Ieri, Ittierre Spa, unità della It Holding, ha annunciato che chiederà l’amministrazione controllata. Ma l’intero gruppo – che possiede anche il marchio Gianfranco Ferrè – sarebbe sull’orlo della bancarotta.

It, la holding quotata in Borsa, controlla le Spa Ittierre, licenziataria di marchi prestigiosi come Just Cavalli e Versace jeans couture, Malo e Gianfranco Ferrè. 

Stamattina, i titoli sono stati sospesi a tempo indeterminato da Borsa Italiana. La società aveva annunciato martedì scorso di aver ricevuto una proposta da un fondo estero che includeva un aumento di capitale e il riacquisto delle obbligazioni. L’indebitamento di IT Holding era di 295 milioni a fine settembre e la società ha un valore di mercato di circa 43 milioni. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Crisi globale: la Nissan taglia il 10 per cento della forza lavoro complessiva.

(Fonte: ilmessaggero.it)

TOKYO (9 febbraio) – Nissan annuncia un maxi piano di ristrutturazione per fronteggiare la crisi e taglia 20.000 posti di lavoro. È quanto emerso nel corso della presentazione dei dati trimestrali da parte del numero uno della compagnia Carlos Ghosn. In questo modo, i dipendenti della Nissan a livello globale passeranno da 235.000 a quota 215.000 entro marzo 2010.

Nissan stima poi una perdita netta per l’esercizio in corso che terminerà il 21 marzo 2009 di 265 miliardi di yen (2,2 miliardi di euro) a causa della «frenata dell’economia globale registrata dalla seconda metà del 2008», e per «la rivalutazione dello yen, abbinata al rapido declino della fiducia dei consumatori in tutti i principali mercati». La compagnia franco-nipponica afferma inoltre che la perdita netta del terzo trimestre è di 83,2 miliardi di yen (circa 700 milioni di euro). «Guardando in avanti le nostre priorità restano la protezione del nostro cash flow e tutte le misure necessarie per migliorare la performance del nostro business», ha commentato Ghosn.

L’alleggerimento degli organici, vicino al 10% della forza lavoro complessiva, avverrà principalmente con il taglio delle assunzioni, l’eliminazione dei contratti a termine e gli incentivi alle uscite e ai pensionamenti. «È presto per dire dove e come ci saranno queste misure – ha detto Ghosn – visto che sono appena partite le discussioni, ma posso dire che non ci saranno chiusure di impianti». Il numero uno del gruppo, infatti, ha spiegato di ritenere che «il mercato ritroverà la ripresa e dobbiamo essere pronti». Allo studio, inoltre, ipotesi come la settimana lavorativa ridotta a 4 giorni e il taglio delle retribuzioni. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“I governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola.”

di Naomi Klein – «The Nation»

Vedere in Islanda folle di persone che percuotono pentole e padelle fin quando il governo non cade mi ha ricordato un slogan popolare nei circoli anticapitalisti del 2002: «Voi siete Enron. Noi siamo l’Argentina».

Un messaggio abbastanza semplice. Voi – politici ed amministratori delegati assembrati in qualche summit del commercio – siete come gli spericolati dirigenti della Enron che se la scampano (e di certo non ne sapevamo neppure la metà). Noi – la plebaglia qui fuori – siamo come il popolo d’Argentina che nel bel mezzo di una crisi economica tremendamente simile alla nostra, scese in strada battendo pentole e padelle (il cacerolazo appunto, ndt). Gridavano “¡Que se vayan todos!” (“Che se ne vadano via tutti!”) e imposero una successione di quattro presidenti in meno di tre settimane. Ciò che rese unico il sollevamento del 2001-2002 in Argentina fu che non era indirizzato ad uno specifico partito politico né alla corruzione in termini astratti. Il bersaglio era il modello economico dominante: quella fu la prima rivolta nazionale contro lo sregolato capitalismo contemporaneo.

C’è voluto un bel po’, ma dall’Islanda alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, i paesi del resto del mondo stanno finalmente avendo il loro ¡Que se vayan todos!

Le stoiche matriarche islandesi che battono le loro pentole mentre i loro ragazzi saccheggiano i frigoriferi alla ricerca di proiettili (uova, certo, ma yogurt?) riecheggiano le tattiche rese famose a Buenos Aires. Così pure la rabbia collettiva contro le élites che hanno gettato via un paese un tempo florido pensando di potersela scampare. Gudrun Jonsdottir, trentaseienne impiegata islandese dice: «Ne ho avuto fin troppo di tutto ciò. Non ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, né nei partiti politici né nel Fondo Monetario Internazionale. Eravamo un bel paese e l’hanno rovinato.»

Un’altra eco: a Reykjavik i manifestanti chiaramente non si berranno un semplice cambio di facciata ai vertici, benché la nuova premier sia una lesbica. Chiedono aiuti per la popolazione, non solo per le banche; indagini che facciano luce sulla débâcle e profonde riforme elettorali.

Richieste simili si possono registrare in questi giorni in Lettonia, la cui economia si è contratta più bruscamente che in qualsiasi altro paese della UE, e dove il governo si trova sull’orlo del baratro. Da settimane la capitale è scossa da proteste, fra cui una esplosiva rivolta con sassaiola il 13 gennaio. Come in Islanda, i lèttoni sono allibiti dal rifiuto dei loro leader di prendersi alcuna responsabilità della crisi. Alla domanda fattagli da Bloomberg TV su cosa abbia causato la crisi, il ministro delle finanze della Lettonia ha scrollato le spalle dicendo: “Niente di speciale”.
Ma i problemi della Lettonia in realtà sono speciali: le politiche che permisero alla “Tigre Baltica” di crescere ad un tasso del 12% nel 2006 sono le stesse che stanno causando la violenta contrazione del 10% prevista per quest’anno: il denaro, liberato da tutti i paletti, va via tanto velocemente quanto viene, e grandi quantità di esso vengono dirottate verso le tasche dei politici. Non è un caso che molti dei casi disperati di oggi siano i “miracoli” di ieri.

Ma c’è qualcos’altro di argentinesco nell’aria. Nel 2001 i leader dell’Argentina risposero alla crisi con un pacchetto di austerità prescritto dal Fondo Monetario Internazionale: 9 miliardi di dollari in tagli alla spesa, molti dei quali colpirono la sanità e l’istruzione. Questo si dimostrò un errore fatale. I sindacati organizzarono scioperi generali, gli insegnanti spostarono le loro lezioni nelle strade e le proteste non si fermarono più.

Questo stesso rifiuto dal basso di sostenere il peso maggiore della crisi unisce molte delle proteste odierne. In Lettonia molta della rabbia popolare si è rivolta contro le misure di austerità del governo: licenziamenti in massa, riduzione dei servizi pubblici e abbattimento dei salari nel settore pubblico; tutto per poter essere ideonei ad un prestito d’emergenza del Fondo Monetario Internazionale (no: non è cambiato niente). In Grecia le sommosse di dicembre sono seguite all’uccisione da parte della polizia di un ragazzo di 15 anni. Ma ciò che ha fatto sì che continuassero, con i contadini che sono subentrati agli studenti nel capeggiarle, è la diffusa reazione di rabbia nei confronti della risposta del governo alla crisi: le banche hanno goduto di un bailout di 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto le loro pensioni decurtarsi e gli agricoltori non hanno ricevuto pressoché nulla. Nonostante i disagi causati dal blocco delle strade con i trattori, il 78% dei greci ritiene che le richieste degli agricoltori siano ragionevoli. Allo stesso modo in Francia il recente sciopero generale – in parte innescato dal piano del presidente Sarkozy di ridurre pesantemente il numero degli insegnanti – ha ottenuto il sostegno del 70% della popolazione.

Forse il maggiore filo conduttore di questa forte ribellione globale è il rigetto della logica delle “politiche straordinarie”: la frase coniata dal politico polacco Leszek Balcerowicz per descrivere come, nel corso di una crisi, i politici possono ignorare le regole legislative e precipitare verso “riforme” impopolari. Un trucco che ormai mostra le corde, come ha scoperto di recente il governo sudcoreano. A dicembre il partito al governo ha cercato di usare la crisi per introdurre un molto controverso accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. Spingendo le politiche a porte chiuse verso nuovi estremi, i parlamentari si sono chiusi a chiave nel palazzo così da potere votare in privato, barricando le porte con scrivanie, sedie e divani.

I rappresentanti dell’opposizione, non arrendendosi, con martelli e seghe elettriche hanno fatto irruzione e promosso un sit in di 12 giorni in parlamento. Il voto è slittato, permettendo così un maggiore dibattito: una vittoria per un nuovo tipo di “politiche straordinarie”.

Qui in Canada la politica è marcatamente meno “stile YouTube”, tuttavia è stata sorprendentemente ricca di eventi. Ad ottobre il Partito Conservatore ha vinto le elezioni nazionali su una piattaforma poco ambiziosa. Sei settimane più tardi il nostro primo ministro conservatore, trovato il suo ideologo interiore, presenta una manovra che ha spogliato i lavoratori del settore pubblico del loro diritto di sciopero, che ha cancellato il finanziamento pubblico dei partiti e che non conteneva alcuno stimolo economico. I partiti di opposizione hanno risposto formando una storica coalizione a cui fu impedito di prendere il potere solo per una brusca sospensione del parlamento. I Conservatori sono appena ritornati con un piano di budget rivisto: le politiche di destra dapprima coltivate sono scomparse, ed ora il piano è infarcito di stimoli economici.

Il modello è chiaro: i governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola. Come gridavano gli studenti nelle piazze italiane: «Non pagheremo noi la vostra crisi!» (Beh, buona giornata).

traduzione di Paolo Maccioni per Megachip

Articolo originale:

http://www.thenation.com/doc/20090223/klein?rel=hp_currently
4 febbraio 2009

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Gli aiuti governativi al settore automobilistico sono uno spreco di risorse.

Rottamazione: chi ci guadagna?

di Paolo Manasse da lavoce.info

Il governo vara il piano di aiuti al settore automobilistico: circa 750 milioni. Ma un sussidio comporta uno spreco di risorse perché il prezzo pagato dal consumatore diventa inferiore al costo che la società sostiene per produrre il bene. Inoltre, se aumentano gli acquisti di auto diminuiscono quelli di altri beni. E i settori penalizzati si sentirebbero autorizzati ad avanzare richieste simili. In una rincorsa all’aiuto di Stato i cui effetti si neutralizzerebbero a vicenda e che potrebbe compromettere la sostenibilità del debito pubblico.

Dopo il crollo delle vendite di automobili registrato a gennaio (-32,6 per cento su base annua), anche il nostro governo, come quelli di Usa, Francia e Germania, sta predisponendo un piano di aiuti al settore. Si tratterebbe di circa 750 milioni di euro, destinati a finanziare un bonus-rottamazione di 1.000 o 2.000 euro per ciascuno acquisto, a seconda delle emissioni inquinanti dell’auto. L’obiettivo: arginare la perdita di posti di lavoro nel settore (300mila posti a rischio, a detta della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia).

COSTI E BENEFICI DELL’AIUTO

Secondo il Centro Studi Promotor (Csp) di Bologna, l’operazione avverrebbe a costo zero: “(…) con l’erogazione di 1.500 euro per ogni acquisto (…) si può stimare che le persone che usufruiranno degli incentivi nel 2009 saranno 500mila di cui 300mila (…) gli acquisti indotti dal sussidio (…). Si può ipotizzare che le vetture acquistate in più abbiano un prezzo medio di 15mila euro e siano di conseguenza gravate di Iva mediamente per 2.500 euro. Ne consegue (…) che il maggior introito per l’Erario sarà pari al numero delle auto acquistate in più (300mila) moltiplicato per l’Iva media (2.500 euro)”. Cioè proprio i 750 milioni dell’esborso previsto.(1)
La teoria microeconomica suggerisce che un sussidio produce alcuni effetti sul settore interessato: 1. riduce il prezzo pagato dai consumatori, accrescendone la domanda; 2. aumenta il prezzo percepito dalle imprese produttrici, la quantità offerta e i profitti; 3. genera un esborso di denaro pubblico pari al sussidio unitario moltiplicato per le vendite. La cosa interessante è che quanto pagato dallo Stato eccede quanto ottenuto da consumatori e imprese. Un sussidio comporta cioè uno spreco di risorse (una “perdita secca”), e questo perché il sussidio fa sì che il prezzo pagato dal consumatore, che misura quanto egli valuti il bene, diventi inferiore al costo che la società sostiene per produrlo: la società utilizza in modo inefficiente le risorse. Dobbiamo poi tener conto anche di altre ripercussioni di carattere generale: 4.il sussidio genera nuovo gettito, dagli extra-profitti e dalle nuove vendite; 5. la domanda di altri beni durevoli cade: si comprano meno tv al plasma o lavatrici, e dunque cadono le entrate tributarie da queste fonti; 6. si riduce la domanda futura di auto perché il sussidio è temporaneo; 7. le lobby di altri settori hanno buone ragioni per battere cassa col governo, dichiarandosi altrettanto meritevoli nonché danneggiate.

SI APRE UN VASO DI PANDORA

Qual è, approssimativamente, l’ordine delle grandezze in gioco? Supponiamo che, a causa di capacità in eccesso, le imprese siano in grado di aumentare la produzione senza incorrere in aumenti di costo, e prendiamo per buone le previsioni, temo ottimistiche, del Csp circa l’aumento delle vendite ottenute da bonus (medio) di 1500 euro, le 300mila unità. Si ottiene che il sussidio comporta un onere diretto di 600 milioni e beneficia gli acquirenti di nuove auto per 420 milioni. (2)
Aggiungiamo poi le entrate addizionali dell’Iva sulle auto acquistate in più, e deduciamo le minori entrate fiscali sul minor consumo degli altri beni, in particolare quelli durevoli. La letteratura suggerisce che per ogni 100 euro di maggior spesa per un’auto di piccola-media cilindrata, se ne spendano tra i 25 e i 90 in meno per tutti gli altri beni, a cominciare da lavatrici, hi-fi e così via. (3)Nel primo caso, poco plausibile a causa della crisi e della restrizione del credito al consumo, gli oneri per il bilancio sarebbero bassi, 15 milioni, e la società ne trarrebbe un “guadagno netto” di 405 milioni (= 420 dei consumatori -15 di oneri per lo Stato). Nel secondo caso, temo molto più verosimile, gli oneri per il bilancio sarebbero ingenti, 522 milioni di euro, e la società avrebbe una perdita secca per 102 milioni di euro (522-420).
Resta poi l’argomento “strategico” che non sussidiare il settore automobilistico quando tutti gli altri paesi lo fanno danneggerebbe la nostra economia. Èlo stesso identico argomento usato per sostenere il protezionismo, e richiederebbe molto spazio. In breve, sprecare le risorse pubbliche non è consigliabile neppure se gli altri paesi lo fanno. Infine, il problema forse più serio del sussidio alla rottamazione (tralascio congestione, inquinamento acustico e dell’aria) è questo: con la misura si apre il vaso di pandora della corsa agli aiuti settoriali di Stato. Aiuti i cui effetti si neutralizzerebbero a vicenda, e che potrebbero compromettere, questi sì, la sostenibilità del debito pubblico. (Beh, buona giornata).

(1) http://www.tgcom.mediaset.it/tgfin/articoli/articolo440073.shtml
(2)Per i dettagli dei conti si veda il mio blog.
(3) Si veda Berry, Levinsohn e Pakes, “Automobile Prices in Market Equilibrium”, Econometrica, 1995, pp. 841-890.
(4) http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/auto_sostegno/cartella_stampa.pdf

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Mentre in Italia si blocca il Parlamento sul caso Englaro, nelle stesse ore in Europa si discute che fare per la crisi che ha tagliato 130 mila posti di lavoro e prodotto un crollo della produzione di 150 miliardi di euro.

(Fonte: corriere.it)

In Europa dall’inizio dell’ultimo trimestre del 2008 a tutto il mese di gennaio 2009 si sono persi 130.000 posti di lavoro nel settore industriale – soprattutto l’auto e il suo indotto – e in quello delle costruzioni. Due settori che nel corso dell’ultimo anno hanno fatto registrare un crollo della produzione pari a 150 miliardi di euro.

Sono le cifre contenute in un documento riservato della Commissione europea, anticipato dall’Ansa, che molto probabilmente sarà all’esame dei ministri finanziari europei che lunedì e martedì si ritroveranno a Bruxelles per le riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, chiamati a valutare quanto fatto per contrastare la crisi e quando fare in futuro. 

 La situazione nel settore dell’auto e in quello dell’indotto è «drammatica», anche per la persistente stretta creditizia che «colpisce particolarmente» non solo le case automobilistiche, ma anche il settore delle costruzioni. Nel documento si sottolinea come «la contrazione della produzione nel settore dell’industria automobilistica ha un immediato effetto negativo anche sull’occupazione nelle aziende dei fornitori».  Beh, buona giornata.

 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Non si esce dalla crisi se non si esce dal neoliberismo.

di Duccio Cavalieri – da www.economiaepolitica.it

La crisi economica globale del sistema capitalistico, oggi in atto, deve indurre gli economisti teorici ad interrogarsi su quanto sta accadendo e a cercare di prevederne i prossimi sviluppi e gli esiti. Uno dei compiti storici della scienza economica è infatti la spiegazione e la previsione di quanto avviene nella realtà.

Un primo punto sembra sufficientemente chiaro. Si tratta di una crisi che ha avuto inizio nel mondo della finanza e che ha poi contagiato l’economia reale. E’ emersa la forte instabilità di un sistema di intermediazione finanziaria che anziché incoraggiare il risparmio delle famiglie e assicurare che esso affluisse senza ostacoli agli investimenti delle imprese e agli impieghi delle amministrazioni pubbliche, è stato utilizzato per finanziare pericolose operazioni speculative compiute sul mercato dei capitali e su quello dei cambi. Questo è avvenuto in un contesto di bassi livelli dei salari reali e in presenza di una politica dell’amministrazione repubblicana degli Stati Uniti che ha alimentato nei lavoratori una forma inedita e sottile di illusione monetaria, consentendo alle banche e ad altre istituzioni finanziarie di concedere loro ampio credito e mutui ipotecari a condizioni molto facili (i subprime mortgages a tassi variabili) per indurli ad acquistare di più e consumare di più, nonostante i bassi salari.

Una situazione di questo tipo non può durare indefinitamente. Quando le banche cominciano a incontrare delle difficoltà nel rientro dei capitali prestati e vengono a trovarsi a corto di liquidità per l’insolvenza dei debitori, il flusso del finanziamento bancario alle imprese di produzione tende necessariamente ad interrompersi. Per allontanare nel tempo questa evenienza, le banche hanno fatto ricorso a strumenti innovativi di ingegneria finanziaria allo scopo di attuare una strategia finanziaria tutt’altro che nuova: quella della Ponzi finance, efficacemente descritta da Hyman Minsky. Hanno infatti cercato di trasformare i crediti in sofferenza in fonti di nuove rendite finanziarie, facendo ricorso a operazioni di cartolarizzazione (securitization) e successiva inclusione dei crediti frazionati in prodotti finanziari derivati, con l’intento di arrivare a disperdere il rischio individuale.

In tali condizioni, chi comprende come stanno andando le cose e dispone di liquidità non la investirà più, ma la tratterrà, ripromettendosi di farne uso in seguito, quando la crisi avrà prodotto i suoi effetti più devastanti, per acquistare le attività patrimoniali superstiti a prezzi stracciati. Viene in essere cioè una situazione abbastanza simile a una trappola della liquidità, ma in presenza di tassi di interesse non ancora ridotti al minimo. Tale situazione non può tuttavia durare a lungo. Essa è destinata a cambiare non appena sul mercato dei capitali i tassi scendono ulteriormente e diventa possibile compiere operazioni vantaggiose di acquisto di capitale azionario, anche finanziandole a credito. Ossia creando degli appositi consorzi finanziari che si indebitano per acquistare imprese (è il cosiddetto leverage buyout) e che possono conteggiare il debito come un costo detraibile dalle tasse, scaricandone l’onere sulle società acquistate (che non di rado vengono poi abbandonate al loro destino di bad companies).

Questo contribuisce ad aumentare la scarsità di liquido e tende a determinare una crisi del mercato interbancario. Per l’eccessivo livello dell’indebitamento, le banche non si fidano più l’una dell’altra e non si prestano denaro tra loro. La crisi è aggravata dal fatto che nel frattempo si diffondono voci allarmanti sull’esito di investimenti troppo rischiosi effettuati dalle banche e i risparmiatori tendono di conseguenza a ritirare i loro depositi e a compiere spostamenti di capitali dai titoli privati a quelli pubblici, ritenuti più solidi, anche se non del tutto sicuri in una situazione di rischio sistemico.

Ne risulta appunto una sorta di trappola anomala della liquidità, che penalizza chi ha bisogno di prestiti per motivi non speculativi. E quindi danneggia in primo luogo le imprese, che possono essere costrette dapprima a ridurre e poi addirittura a cessare la loro attività. A questo punto la crisi diventa generale e coinvolge l’economia reale, a ulteriore dimostrazione della non neutralità della moneta. E attraverso nuovi meccanismi di trasmissione degli impulsi monetari e finanziari sulle variabili reali, che meriterebbero di essere ulteriormente indagati, la crisi si scarica per intero sui lavoratori e sulle loro famiglie.

Le principali cause della fragilità strutturale del sistema finanziario possono a questo punto facilmente individuarsi. Sono la tendenza a un eccessivo ricorso al finanziamento esterno da parte delle imprese; la diffusa pratica bancaria consistente nell’utilizzare credito a breve termine, continuamente rinnovato, per finanziare impieghi di capitale a medio e lungo termine;  la facilità con cui vengono realizzate operazioni finanziarie e creditizie ad alto rischio; la scarsa trasparenza di molte operazioni finanziarie, che alimenta la possibilità di compiere vere e proprie frodi nel trasferimento dei rischi. Frodi che sono messe in atto dagli intermediari finanziari ai danni dei risparmiatori e vengono non di rado avallate da compiacenti agenzie di valutazione (rating companies), che, male interpretando le proprie funzioni, mettono in grado alcune società di indebitarsi per somme molto superiori al loro effettivo valore di mercato.

In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo e di riconosciuta necessità di ricorrere ad interventi pubblici per salvare banche e aziende in difficoltà, anziché lasciare che il mercato penalizzi l’insuccesso delle iniziative economiche meno efficienti. Al vecchio paradigma dell’efficienza allocativa del mercato oggi credono ancora solo pochi epigoni della Mont-Pélerin Society, della scuola di economia di Chicago e della London School of Economics. Quelli che hanno sempre insistito nel presentare il neoliberismo come antitesi al keynesismo e al dirigismo economico degli anni ’30; e che hanno ispirato il programma economico conservatore di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e quello di Ronald Reagan negli USA, l’uno e l’altro favorevoli alla deregolamentazione, alle privatizzazioni e a un contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica per finalità sociali.

E’ un duro colpo per il neoliberismo, un indirizzo di pensiero che ha cercato di affossare le conquiste dello Stato sociale e ha inquinato il quadro teorico con la supply side economics e la ‘critica di Lucas’ all’efficacia della politica economica. Dopo la dissoluzione dei regimi economici dei paesi del cosiddetto ‘socialismo reale’ il neoliberismo ha creduto di avere ormai partita vinta e si è apprestato a seppellire definitivamente l’interventismo statale di tipo keynesiano. Ma oggi il neoliberismo subisce una dura lezione dalla storia. Perfino i più tenaci assertori di questo indirizzo di pensiero, posti di fronte alla drammatica alternativa tra aiutare Wall Street a uscire dalla crisi, sovvenzionando un sistema capitalistico dimostratosi largamente corrotto, o lasciare che esso precipitasse nel caos finanziario più assoluto, sono stati indotti a invocare un intervento straordinario dello Stato nella sfera economica per salvare dal fallimento grandi banche ed imprese. Con l’intenzione di addossare al Tesoro, ossia ai contribuenti, l’onere dell’acquisto dei crediti inesigibili. Senza quindi arrivare a delle vere e proprie nazionalizzazioni.

Ma non è stata, a ben guardare, una vittoria del keynesismo. L’odierna crisi globale ha semplicemente mostrato la necessità della politica economica, riaprendo in un certo senso il confronto teorico tra liberismo e keynesismo. Ma l’aumento della spesa pubblica, che oggi da tante parti si invoca, non riguarda la spesa sociale in istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione. Riguarda il sostegno di banche e società finanziarie in difficoltà e il salvataggio di grandi imprese industriali. Un salvataggio che ci si propone di realizzare continuando a comprimere i salari reali e le pensioni. E’ quindi un sostegno non alla domanda, ma all’offerta.

Tutto questo ha ben poco di keynesiano. E può accrescere il divario tra l’offerta e la domanda, anziché aiutare a superare le difficoltà di realizzo della produzione sul mercato. Difficoltà dovute alla maldistribuzione del reddito e tipiche di un sistema in cui il capitale non riesce a porsi fini diversi da quello del proprio continuo accrescimento. Tali difficoltà oggi non presentano più carattere esclusivamente ciclico, ma tendono ad assumere carattere strutturale. Segno che il capitalismo resta un problema (il problema di fondo) e che il problema tende ad aggravarsi. (Beh, buona giornata).

 

*Professore ordinario di economia politica nell’Università di Firenze.

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Gli italiani e la crisi dei consumi. Un monito per la pubblicità italiana: meno tv, più comunicazione; meno emozioni, più concrete informazioni. Insomma: meno blàblàblà, più creatività.

di MAURIZIO RICCI da repubblica.it

STARBUCKS, la leggendaria catena del caffè e degli yuppies, taglia 7 mila posti e 300 negozi. McDonald’s, il re degli hamburger, apre 300 ristoranti e assume 12 mila persone. Non è solo la storia divergente di due aziende, ma di come la crisi che scuote il mondo stia stravolgendo i nostri stili di vita. Alle spalle le luci soffuse, l’atmosfera rilassata, la scelta tra un (costoso) caffè della Colombia e un (costoso) caffè dell’Ecuador, con il Mac sulle ginocchia a chattare con gli amici. E’ il momento delle luci crude, i tavoloni di formica affollati, i panini politicamente scorretti, da consumare in fretta, ma spendendo poco. Dal superfluo al necessario.

Come dicono sconsolati gli analisti di Goldman Sachs, esaminando il bilancio sconfortante di Polo Ralph Lauren, un simbolo del vestire con classe, nei consumatori l’aspirazione (“con questa cosa faccio un figurone”) è stata sostituita dalla disperazione (“ma davvero devo spendere tutti questi soldi?”). Un rapporto sui consumi di una grande banca, Credit Suisse, sottolinea che l’unico comparto che regge è l’alimentare: a mangiare non si rinuncia.

Tutto intorno, la spirale della deflazione è nel suo giro più maligno: i prezzi scendono, ma non abbastanza da stimolare la domanda. In Inghilterra, a dicembre, le vendite di beni non alimentari sono aumentate del 4 per cento. Ma i relativi incassi sono diminuiti dell’1,4 per cento, devastando i bilanci delle aziende e avvitando di più verso il basso la spirale della deflazione.

Non c’è da sorridere, comunque, per nessuno. Negli Stati Uniti, Saks e Neiman Marcus, gli Starbucks dell’abbigliamento, hanno visto a dicembre le vendite scendere fra il 20 e il 30 per cento, nonostante i saldi iniziati, spesso, il pomeriggio della vigilia di Natale. Wal-Mart, il McDonald’s della grande distribuzione, le ha aumentate, ma solo dell’1,7 per cento. Dice Giorgio Santambrogio, direttore generale al marketing di Interdis, una grande catena di supermercati italiana, con quasi 3 mila punti vendita: “Un fatturato che regge è già un successo”.

L’esempio più immediato lo troviamo nei luoghi che del risparmio – la carta vincente, oggi, per i consumatori – fanno la loro ragion d’essere. I mercatini dell’usato, online e sulle bancarelle, vanno alla grande e soddisfazione c’è anche nel più grande dei mercati dell’usato: l’auto. L’anno scorso, gli italiani hanno comprato quasi 3 milioni di macchine usate, contro poco più di 2 milioni di macchine nuove. Ormai, si vendono (comprese quelle cedute ai concessionari quando si acquista un’auto nuova) 138 macchine usate ogni 100 nuove.

Anche l’usato, in realtà, dall’autunno, secondo le stime di CarNext, una società del settore, ha subito una flessione nei numeri venduti, ma meno di un terzo, rispetto a quanto è avvenuto nel nuovo. E, intanto, la quota del fatturato, rispetto al nuovo, si allarga: nel 2008, i rivenditori di auto usate hanno incassato 24 miliardi di euro, il 56 per cento del giro d’affari delle auto nuove. Dove, a salvarsi, sono state solo le superutilitarie e quelle che, almeno, con gpl o metano, risparmiano sul carburante. Piano, però, a generalizzare l’effetto-risparmio.

Se, in effetti, il parametro decisivo è l’incrocio fra prezzo e necessità, sembrerebbe logico dedurre che, anche al di là dell’auto, i meglio attrezzati a galleggiare sulla crisi siano i profeti del discount, gli alfieri del prezzo scontato, spesso giganti globali: Wal-Mart, Carrefour, Tesco, Metro. E le loro repliche locali. Ma la psicologia dei consumatori è più complicata di così e la crisi morde in modo più selettivo. In termini generali, questa è l’era del discount: secondo i dati della Nielsen, nella prima metà del 2008, il 63,5 per cento degli italiani è andato a fare la spesa nei discount. Dallo scorso luglio, questa quota è salita al 72 per cento.

Eppure, un gigante degli ipermercati, paradiso del prezzo basso, come Carrefour, nel 2008 ha visto diminuire di quasi il 2 per cento le sue vendite in Italia e ha dovuto ridimensionare drasticamente il suo grande ipermercato della Romanina, nella capitale.

Metro sta tagliando il personale. Che succede? Ce lo fa capire Alessandro, direttore del discount Tuo a Roma, nel quartiere Gianicolense: “Noi – dice – più o meno vendiamo come prima. Ma sa qual è la differenza, rispetto ad un anno fa?” Con il mento indica i clienti che si muovono fra gli scaffali spartani: “Vediamo ogni giorno le stesse facce. Prima venivano una volta a settimana e riempivano il carrello. Adesso, vengono ogni giorno e se ne vanno con una bustina”. “E’ finita – spiega Santambrogio – l’epopea della shopping expedition, quando si partiva per riempire il bagagliaio della macchina con la spesa per un mese”.

Il consumatore italiano non pensa di potersi permettere progetti di spesa per più di due-tre giorni. “Noi – dice Santambrogio – facciamo più scontrini, ma ognuno per una cifra inferiore a prima”. Nielsen conferma: lo scontrino medio dei discount è passato da 69,7 a 63,6 euro. A soffrirne sono proprio gli ipermercati alla periferia delle città: il viaggio non vale più la pena. Le analisi di mercato di Infoscan dicono che, a novembre (ultimo dato disponibile prima che le vendite venissero drogate dallo shopping natalizio), gli ipermercati hanno venduto l’1,6 per cento in meno, rispetto ad un anno prima, e incassato il 3,1 per cento in meno. I supermercati, secondo Santambrogio che, da Interdis, segue marchi come Dimeglio e Sidis, in particolare quelli di quartiere, sono meglio in grado di adattarsi alle caratteristiche della clientela locale, ad una prevalenza di clienti anziani, piuttosto che di coppie con figli. Infoscan registra che, a novembre, gli incassi dei supermercati sono cresciuti dell’1,7 per cento rispetto al 2007.

Il consumatore italiano, insomma, pensa in piccolo e tira la cinghia. Tuttavia, i contorni della crisi italiana sono ancora fluidi e incerti. Gennaio è il mese dei saldi e delle tredicesime ancora in tasca, la massa dei precari tagliati il 31 dicembre ha ancora un mese di stipendio, le ondate di licenziamenti e di cassa integrazione si stanno materializzando solo adesso. Il picco della crisi deve, forse, ancora arrivare. Oppure la crisi italiana sarà diversa da quella dei paesi dove, oggi, sta colpendo più duro.

Stefano Beraldo, amministratore delegato del gruppo Coin-Oviesse, ha un osservatorio privilegiato: i negozi Oviesse hanno un’offerta economica, mentre l’offerta di abbigliamento Coin si rivolge ad un segmento di mercato più alto. “Francamente – dice Beraldo – io non vedo differenze. Natale 2008 è andato, più o meno, come il 2007 e, anzi, forse Coin è andata meglio di Oviesse. Anche i saldi sono andati bene in tutt’e due le catene. Certo, non ci sono più i turisti russi e giapponesi a tenere su le vendite, le donne si concedono meno sfizi e tutti sono più attenti al rapporto qualità/prezzo. Fare il nostro mestiere è diventato più difficile. Ma niente di paragonabile al massacro cui assistiamo su mercati come quello americano, inglese o spagnolo. Magari il consumatore italiano è più resistente. Oppure stava peggio già prima”.

In effetti, in Italia non c’è stato ancora nulla di paragonabile allo “sboom” dei paesi in cui lo sgonfiarsi della bolla immobiliare prima, del credito al consumo e delle carte di credito, poi, ha determinato un crollo repentino, verticale, devastante delle vendite. Non c’è stato lo sboom, perché, prima, non c’era stato il boom: da anni, redditi e consumi italiani sono ai limiti dell’asfittico. Questo, tuttavia, vuol dire che la ripresa, quando arriverà, sarà più lenta ed incerta e che la crisi, se arriverà a colpire duro, troverà un organismo già indebolito. Soprattutto, perché il malessere dell’economia italiana, che viene da lontano e che la crisi globale può solo aggravare, ha già intaccato la resistenza di quelle classi medie che sono il nerbo dell’esercito dei consumatori.

Una ricerca condotta da Interactive Market Research ci fornisce un panorama degli umori e delle paure di queste classi medie. Come tutti i sondaggi on line, il campione non è rappresentativo della realtà nazionale. Ma, in questo caso, è un vantaggio. Perché un campione con il 30 per cento di laureati e il 50 per cento con un reddito sopra i 2 mila euro mensili è l’immagine della classe media attiva e, se da questa esce un sentimento univoco di pessimismo e rinuncia, i prossimi mesi saranno duri per tutti. E, qui, quasi metà degli intervistati ha difficoltà ad arrivare a fine mese e tre quarti si dichiarano molto preoccupati, al pensiero di un acquisto imprevisto che costi quanto un mese di stipendio. La lista delle rinunce e delle cose indispensabili ci fornisce una guida per capire chi soffrirà di più e chi meno, per la crisi.

Via libri, dvd, giornali, sigarette, cinema e teatro. Più televisione? Rai e Mediaset, però: metà del campione dichiara di aver rinunciato a Sky. Niente videocamera o videogames. Anche la tv a schermo piatto può attendere. Tagliati la palestra e l’estetista. Niente abiti eleganti, borse, attrezzature sportive. Neanche il cappotto nuovo. Al supermercato, basta con i dolci, l’acqua minerale, pesce, vino e birra. In generale, basta con i prodotti di marca: chi se ne frega dell’abito griffato e, per mangiare, vanno benissimo i prodotti con il marchio del supermercato locale.

Se ogni crisi, come dicono gli economisti, è anche un’opportunità, questa è l’ora dei terzisti, delle etichette anonime e un incubo per che si è preoccupato soprattutto di costruire il proprio “brand”, il proprio marchio. E, poi, chi si salva? Sulla tavola delle classi medie continueranno ad esserci pane, pasta, olio, latte, uova e carne. I bambini avranno i loro giocattoli. Se proprio bisogna spendere, agli interventi di piccola manutenzione per la casa non si può rinunciare. Ai gadget tecnologici, invece, sì. La decimazione è quasi totale. Quasi. Per Nokia, Dell, Ericsson, Samsung, Asus, c’è un po’ di luce, in fondo al tunnel. Computer e telefonino restano due must. La classe media affonda, ma comunica. (Beh, buona giornata). 

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Dopo Wall Street crolla anche il Wall Street Journal: la crisi della pubblicità mette in crisi i giornali.

da repubblica.it

Primo rosso da oltre tre anni per la News Corporation di Rupert Murdoch: il colosso dei media chiude il secondo trimestre dell’esercizio 2008-2009 con perdite per 6,4 miliardi di dollari. E annuncia un “rigoroso taglio dei costi” che si tradurrà in una riduzione della forza lavoro, anche al Wall Street Journal. A pesare sui conti della società sono gli 8,4 miliardi di svalutazioni effettuate e il calo della raccolta pubblicitaria sia dei quotidiani del gruppo sia delle stazioni televisive, che hanno visto scendere l’utile di gestione del 93%.

“I nostri risultati trimestrali riflettono direttamente il difficile clima economico” spiega Murdoch, presidente e amministratore delegato di News Corp. “Il rallentamento è più severo e probabilmente più lungo di quanto precedentemente previsto” e per questo News Corp “sta mettendo in atto un rigoroso piano di riduzione dei costi in tutte le attività e di riduzione personale dove è opportuno”.

La riduzione dell’organico riguarderà anche il Wall Street Journal, l’illustre quotidiano economico di Dow Jones, gruppo acquistato da Murdoch nel dicembre 2007 per 5,2 miliardi di dollari. L’imprenditore non ha specificato quali settori del gruppo saranno colpiti dal ridimensionamento. Ma secondo quanto riportato dallo stesso Wall Street Journal, i tagli riguarderanno circa 24 posizioni e saranno effettuati attraverso licenziamenti e incentivi all’uscita.

News Corp, così come tutte le società media, accusa un calo della raccolta pubblicitaria, oltre che un rallentamento nelle vendite di dvd. Nel trimestre che si è chiuso il 31 dicembre scorso le vendite di News Corp sono scese del 9,4% a 7,87 miliardi di dollari, al di sotto quindi delle attese degli analisti. Nel quarto trimestre 2008 l’industria dei giornali americana ha accusato – secondo le stime di Wachovia Capital markets – un calo della raccolta pubblicitaria del 20%.

Fra le varie unità del gruppo News Corp, la divisione cable network ha registrato un utile operativo di 428 milioni di dollari, grazie all’aumento dei prezzi delle pubblicità. La divisione film e produzione televisiva, invece, ha visto scendere i propri profitti del 72% a causa della brusca frenata delle vendite di dvd.

Significativa battuta d’arresto anche per la divisione via satellite, i cui profitti operativi sono scesi dell’84% in seguito all’aumento dei costi legato al più alto volume di sottoscrittori, e ai diritti tv per lo sport rincarati, così come i costi di marketing. In rosso anche Fox Interactive e MySpace, che soffrono una perdita di 38 milioni in seguito all’espansione internazionale, alla crescita del numero di utilizzatori unici e al lancio di MySpace Music. (Beh, buona giornata).

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Mettiamo in crisi la crisi.

Globalizzazione in crisi, partita aperta

 

di FRANCESCO PICCIONI*

 

     1) La crisi della globalizzazione è stata per un anno negata con ogni mezzo mediatico possibile. Come si sa, un buon tappeto può nascondere molta spazzatura. Ma non pulisce mai nulla.

Poi è esplosa, provocando la sostanziale scomparsa delle cinque banche d’affari (Bearn Stearns, Lehmann Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs) che avevano dominato il sistema finanziario globale per un ventennio e letteralmente inventato il “sistema parallelo” fondato sull’emissione di certificati e “prodotti derivati”.

Da quel momento è partita la corsa ai salvataggi statuali delle banche principali e la gara a cercare una spiegazione tranquillizzante. La più diffusa recita: è stata colpa dell’avidità di finanzieri senza scrupoli, di regole sfilacciate, di controllori che hanno chiuso gli occhi. La soluzione – se così fosse – sarebbe teoricamente semplice: un buon sistema di regole globali e il rafforzamento dei poteri di controllo, previo un generoso programma di finanziamenti pubblici sufficienti a sbloccare l’erogazione del credito e a far ripartire la produzione. E’ quel che stanno tentando di fare.

Confutare ideologicamente questa spiegazione è inutile. L’unica cosa che si deve e può fare è, prima, ricostruire l’ordine cronologico delle manifestazioni della crisi, per poi cogliere i nessi strutturali che l’hanno provocata e fatta maturare.

 

     2)  Si proveniva da un decennio segnato da “bolle speculative”, che esplodevano l’una dopo l’altra (“tigri asiatiche” 1997, “new economy” 2000, scandali Enron e Worldcom 2002, “bolla immobiliare” 2007).

Il primo segnale evidente che il ciclo economico reale stava andando incontro a ostacoli di enormi dimensioni è stato dato dal prezzo del petrolio. Tra la fine del 2002 e la prima metà del 2008 il prezzo del greggio è passato da circa 20 dollari al barile a un massimo di 147. La parallela discesa della quotazione del dollaro ha attutito questo balzo, comunque quantificabile in un aumento del 500%.

Il petrolio (l’energia) non è una merce qualsiasi, perché entra nella formazione del prezzo di tutte le altre merci. E’ una caratteristica rara, condivisa soltanto con la forza-lavoro umana. Ogni modificazione nel suo prezzo si ripercuote in tempi rapidi su tutto il sistema dei prezzi, a livello globale.

E’ inoltre una merce fisica, per di più non riproducibile. Ed è tuttora insostituibile, non essendo state trovate fonti alternative di pari potenza e versatilità. Le quantità esistenti sono date; l’umanità sta semplicemente consumando un qualcosa destinato a finire (gli iperottimisti parlano di 30 anni).

La rapidissima salita del prezzo in così breve tempo segnalava che l’offerta (l’estrazione) faticava a tener dietro alla domanda crescente. I “paesi emergenti” (Cina e India su tutti), nel corso degli ultimi 30 anni, sono diventati la “manifattura del mondo”, mentre i paesi avanzati preferivano delocalizzare e concentrarsi sulla fornitura di servizi. Una diversa divisione internazionale del lavoro che ha convinto alcuni a ritenere che fosse ormai finita l’epoca del predominio della produzione materiale per aprire quella dell’immateriale.

La parallela crisi ambientale si disponeva a sua volta a rappresentare un secondo e decisivo limite alle capacità espansive del modo di produzione capitalistico. Al punto da far spostare spesso l’attenzione della “sinistra globale” dall’analisi dei meccanismi economici a quella dei fenomeni ambientali e climatici. Come se le due crisi fossero in alternativa, invece che convergenti e contemporanee.

 

      3)  La crisi della globalizzazione è stata universalmente riconosciuta nel momento in cui ha assunto la più classica delle forme: quella finanziaria. Proprio la buona salute della finanza, del resto, aveva permesso di sottovalutare gli innumerevoli segnali negativi. Una vera “ironia della storia” che – proprio quando la maggioranza dei commentatori politico-sistemici si era ormai uniformata al mantra del “nuovo” contro il “vecchio” – la crisi si sia manifestata in forme così dannatamente “classiche” da rendere addirittura intuitiva la sua natura “strutturale” e “materiale”.

L’esperienza maturata dalla Grande Depressione successiva al 1929 ha spinto governi e banche centrali ad attivarsi in tempi più o meno rapidi per il salvataggio degli istituti finanziari “troppo grandi per fallire”, mobilitando immense risorse monetarie cash, ma senza prevedere un parallelo incremento della pressione fiscale. Un’asimmetria che solleva molti dubbi sulla praticabilità di medio periodo di simili strategie.

 

      4)  La recessione produttiva segue, come da manuale, il crash della finanza. Le fabbriche chiudono e licenziano; l’output si contrae. La domanda solvibile risente sia del minor numero di occupati che delle incertezze sul futuro. La dinamica salariale si blocca per l’aumento improvviso dei disoccupati e delle paure. I servizi privati si  riducono, moltiplicando gli effetti depressivi. La domanda di beni durevoli scompare o quasi (basta guardare le vendite di automobili), la popolazione cerca di difendere i consumi primari riducendo tutti gli altri. Si fa forte la differenza di potere d’acquisto tra le popolazioni tra paesi che hanno un sistema sanitario e pensionistico pubblico, come l’Europa, e quelli che non ce l’hanno (Usa).

Le risposte dei governi seguono logiche e preoccupazioni limitate. La globalizzazione, come fenomeno unificante il mondo, diventa un problema e non è più una risorsa. Rialzano la testa i nazionalismi e i più ridicoli localismi; si riaffaccia con prepotenza il potere disciplinante delle religioni, unici sistemi ideologici in grado di fornire “speranza” a masse crescenti di umanità spaventata.

E’ la situazione che ci troviamo davanti.

 

5) Le cause strutturali della crisi rispondono naturalmente a dinamiche più profonde e di più lungo periodo. La globalizzazione che abbiamo conosciuto – la seconda, dopo quella della seconda metà dell”800 – ha preso forma compiuta con il Crollo del Muro e la caduta dell’impero sovietico. La fine del “mondo diviso in due” ha posto le premesse per la formazione di un vero mercato unico globale. L’est europeo, le repubbliche ex sovietiche, la Cina, l’India e molti altri paesi fin lì ai margini dello sviluppo diventavano la “nuova frontiera” alla vigilia del terzo millennio. Un’immensa prateria di risorse disponibili, pronte (addirittura consensualmente!) ad essere messe in produzione senza freni, lacci o lacciuoli.

La delocalizzazione della produzione manifatturiera è così diventata possibile. La circolazione di beni e capitali non ha più conosciuto limiti; ed anche quella delle persone, pur con limitazioni assai maggiori, ha conosciuto un’accelerazione notevole. Ogni paese – meno gli Stati uniti – si è spesso trovato in balia di forze economiche superiori al proprio prodotto interno lordo. Una nuova epoca di “accumulazione originaria” ha cambiato la faccia del mondo, ridotto al minimo i margini di manovra delle democrazie, semidistrutto le forme organizzative del lavoro, svuotato dal di dentro le ragioni costitutive di un pensiero alternativo o rivoluzionario.

Il trionfo del “pensiero unico” ha avuto insomma una solidissima base oggettiva, che si può riassumere nel venir meno delle possibilità di azione dello “stato nazione”, ovvero l’ambito entro il quale erano fin lì erano state concepite le politiche industriali idonei a “costruire il socialismo”. Per ironia, l’internazionalismo diventava la bandiera del capitale, mentre le resistenze “socialiste” prendevano progressivamente i connotati ­ troppo spesso retrivi ­ della riottosità nazionalista.

     

      6)  Elemento decisivo: il mercato del lavoro di è moltiplicato per due o per tre. Le politiche nazionali dei paesi new entry sono state connotate dalla competizione reciproca nell’offrire agli investitori le migliori condizioni: nessun diritto al lavoro, facilitazioni fiscali, assenza di controlli. Processi che hanno messo in produzione per il capitale oltre un miliardo di nuovi lavoratori e creato al contempo un esercito salariale di riserva di dimensioni sconfinate, utilissimo per premere al ribasso sul costo del lavoro ovunque, agendo sui differenziali salariali locali.

Abbiamo così avuto il blocco di fatto dei salari occidentali, con una perdita del potere di acquisto quantificabile ­ nell’intero periodo ­ nel 50% (negli anni ’70, una famiglia monoreddito poteva avere un tenore di vita pari a quello garantito oggi soltanto dalla presenza di due stipendi).

La conseguente tendenza alla riduzione relativa dei consumi occidentali è stata addirittura invertita grazie al massiccio ricorso all’indebitamento delle famiglie. Più ancora del credito al consumo bisognerebbe concentrare l’attenzione sul mercato della casa. L’eliminazione (là dove esistevano) di politiche di edilizia popolare ha costretto il mondo del lavoro dipendente a ricorrere in massa all’acquisto tramite mutui di lunghissima durata. Non è stato un caso, né un fenomeno naturale. Ma una “governo della domanda effettiva” che dimostra come il neo-liberismo sia una formula ideologica che nasconde – ma non cancella – l’intervento dello stato nell’economia.

 

7) La deflazione salariale globale ha liberato profitti giganteschi dalla necessità di reinvestimento nella produzione. La contemporanea abolizione di molti limiti posti proprio durante la Grande Depressione favoriva la proliferazione di “prodotti finanziari” dal rendimento costantemente superiore a quello garantito dalla normale attività produttiva. Anzi, creava un vero e proprio sistema bancario “fuori bilancio” parallelo a quello ufficiale, ma sempre collegato con gli istituti finanziari classici.

Lo sbilanciamento della profittabilità a favore delle attività finanziarie è un pericolo sempre in agguato, nel capitalismo di ogni epoca; ma le banche centrali erano nate esattamente con la funzione di agire sul mercato monetario in modo da assicurare un “saggio medio di rendimento” a tutti i capitali, comunque impiegati. Negli ultimi 20 anni, però, hanno agito quasi sempre in reazione a grossi crolli delle borse. E hanno finito per assumere la finanza come il baricentro delle proprie attenzioni.

Le grandi masse di profitto “liberate” hanno dovuto trovare nuove forme di investimento. I prodotti finanziari “derivati” sono stati il sole che ha attirato la liquidità globale per due decenni. Da qui uscivano ­ sotto le vesti di venture capital ­ solo per tentare avventure che sembravano ancora più profittevoli, ma non sempre fortunate: ricordate la new economy?

Di “bolla” in bolla questa massa inconcepibile di capitale in cerca di valorizzazione ha devastato paesi e settori, fino a piombare sul mercato che sembrava più “stabile” di tutti: l’immobiliare. Anche qui, però, i profitti “normali” erano insufficienti. La necessità di valorizzare ha ingigantito la spinta al finanziamento a credito, “costringendo” letteralmente anche i privi di reddito statunitensi a indebitarsi per trovare un tetto (sono i mutui lì definiti ninja: not job, not income, not asset).  L’altissima probabilità di insolvenza aveva già una rete di protezione disponibile: gli strumenti finanziari di “distribuzione del rischio” ampiamente utilizzati come paracadute nelle grandi fusioni societarie a debito. Un ventaglio di “cartolarizzazioni” praticamente infinito, in cui un debito diventa a sua volta fonte di profitto e che viene “garantito” con l’emissione di altri titoli cartacei fino a rendere assolutamente irrintracciabile il “sottostante” concreto. Un meccanismo che può stare in piedi solo se altro capitale “vero” affluisce costantemente vero i “prodotti” di carta. L’ultima risorsa sociale fatta affluire verso questo gorgo è stata – nel nostro paese – la quota di “salario differito” rappresentata dal tfr, tramite i fondi pensione.

La strategia di “distribuzione del rischio” è stata negli anni così efficace da far sì che quel rischio ci è tornato nelle tasche moltiplicato. Una sola cifra ci consente di dare la dimensione approssimativa della voragine: la massa dei prodotti finanziari “derivati” ha raggiunto – alla fine del 2008 – i 600.000 miliardi di dollari. All’incirca undici volte il prodotto interno lordo globale. Per capirci: se l’umanità fosse un normale debitore privato, dovrebbe lavorare gratis e senza mangiare per undici anni solo per rimettere a posto la situazione. Ovviamente, non andrà in questo modo. Ma la massa di ricchezza “da distruggere” ha queste dimensioni. Ci sono mezzi più rapidi, com’è noto. Ma non privi di rischi, come la guerra.

 

     8)  La globalizzazione capitalistica ha unificato il mondo più di quanto non abbiamo fatto le buone intenzioni politiche. E’ un processo contraddittorio, che ha posto le basi per un salto di qualità della convivenza umana. Ma lo ha fatto in conseguenza di finalità – il profitto di impresa – spaventosamente inadeguate alla complessità del processo stesso. Si pesi alla straordinaria insensatezza di una produzione agricola fondata su sementi geneticamente modificate e private della capacità di riproduzione. Ecco un’immagine plasticamente corrispondente alla logica del capitale: la riproduzione del ciclo vitale (il “bene comune” per antonomasia) impedito “scientificamente” per garantire il profitto di una singola impresa.

La brusca interruzione rappresentata della crisi può perciò mettere in moto forze centrifughe altamente distruttive. La stessa reazione istintiva di vari governi – l’uso di fondi pubblici per salvare i comparti strategici – può facilmente degenerare in protezionismo nazionalista, avviando una competizione che prefigura conflitti di intensità più o meno grande. Una competizione escludente che trascina in genere con sé la riduzione degli spazi democratici.

C’è quindi bisogno di soluzioni su scala globale, non di toppe locali. L’esigenza di un “governo mondiale” è messa sul tavolo dalla stessa dimensione della crisi. Ma il solo nominarla è accusabile di ingenuità. Persino l’obiettivo subordinato – una “nuova Bretton Woods” che definisca regole ed istituzioni, a partire da un “regolatore bancario” unico e dall’eliminazione dei “paradisi fiscali” – si scontra con interessi potenti, miranti al semplice ripristino del vecchio andazzo che ci ha portato a questo punto. Abbiamo bisogno di una globalizzazione più avanzata, non di tornare al pericolosissimo giochino delle “piccole patrie” tremontian-leghiste. A questo punto della storia nessun paese potrà più far da solo. Competenze, risorse, strutture, legami sono stati spalmati sulla superficie del pianeta. Ri-concentrarli in aree più ristrette non è solo costoso: è impossibile quanto il ripristinare una “purezza della razza” dopo secoli di melting pot.

     

      9) Nessuna forza politica o sindacale, in questo quadro, può quindi dirsi “progressista” se limita il proprio orizzonte progettuale agli angusti confini nazionali. La crisi scompagina gli assetti consolidati. Ciò che ieri sembrava impossibile oggi sembra il minimo necessario. Per tutti – per il capitale quanto per il lavoro – la crisi è un’occasione per cambiare tutto. Questa la posta in gioco, questa la dimensione del problema. 

       10) La sfida implica, come minimo, una “pubblicizzazione della finanza” per mettere in moto un “esercito del lavoro”. Non è il comunismo, ma semplicemente la chiave teorica del New Deal rooseveltiano. La dimensione minima per poterla affrontare è quella continentale, consapevoli però che nessuna “chiusura” è possibile neppure  questo livello (le risorse energetiche vitali – per esempio dipendono nella quasi totalità dai buoni rapporti con Russia, Medio Oriente e Nord Africa). Ma nessuna forza politica europea tradizionale è in grado di porre in campo una visione di medio periodo di tal fatta.

    

      11) La crisi è un’occasione per disegnare una politica industriale di dimensione europea, in sinergia con la macro-aree confinanti. Una politica che strutturi un nuovo modello produttivo incentrato su almeno due pilastri: a) l’obiettivo della piena occupazione, per mantenere vive e attive le competenze accumulate in due secoli di sviluppo tecnologico-industriale e contenere l’impoverimento sociale, altrimenti esplosivo; b) una rivoluzione tecnologica progettuale, consapevolmente perseguita, che porti fuori dalla dipendenza dagli idrocarburi.

Inutile, credo, e presuntuoso, mettersi qui a sproloquiare circa “piani” più dettagliati. Qualsiasi idea ha bisogno di “camminare sulle gambe degli uomini”, che in questo caso significa una rete su scala europea di organizzazioni, partiti, sindacati, associazioni in grado di dar corpo sociale a una critica sociale dell’esistente. Con lo sguardo e la mente capaci di individuare, nella matassa imbrogliata della crisi, gli assi di una trasformazione non solo astrattamente “desiderabile”, ma soprattutto concretamente possibile. Ovvero necessaria. (Beh, buona giornata)

 

* giornalista economico del Il Manifesto

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Crisi finanziaria globale: “tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.”

QUANDO GLI ECONOMISTI SBAGLIANO*

di Daron Acemoglu da lavoce.info

La crisi impone alla disciplina economica una riflessione. In primo luogo, sugli errori intellettuali che hanno impedito agli economisti di individuarne per tempo le cause. Ma agli economisti si chiede anche di indicare i rischi delle politiche anticrisi di molti paesi. Come i riflessi che potrebbero avere su riallocazione e innovazione e dunque sulla crescita di lungo periodo. I piani di sostegno alle economie sono probabilmente il modo migliore per combattere il pericolo dell’affermarsi di reazioni populiste e anti-mercato. A patto però che siano ben congegnati.

La crisi globale rappresenta un’opportunità di riflessione critica per la disciplina economica, un’opportunità per allontanarci da convinzioni che non avremmo dovuto abbracciare così ingenuamente. Idee come il supporto indiscriminato alla deregolamentazione del mercato o il rigetto della volatilità aggregata ora si rivelano frivoli capricci, mentre le astrazioni dai fondamenti istituzionali del mercato ci appaiono ingenue. Questi limiti richiedono riflessione e auto-analisi e, si spera, nuove ricerche da parte dei giovani economisti. La crisi è anche un’opportunità per individuare le lezioni più importanti che restano immutate dopo i recenti eventi e per chiederci se queste lezioni possono guidarci nell’attuale dibattito di policy.
Su Cepr Policy Insight n. 28 ho esposto il mio pensiero su quali siano stati gli errori intellettuali commessi e quali lezioni se ne possano trarre in termini di nuovo lavoro teorico che si rende necessario. E suggerisco anche che nel dibattito sulle politiche per contrastare la crisi sono state sottovalutate lezioni importanti della teoria economica e della crescita.

COMPIACENZA INTELLETTUALE

Molte cause della crisi sono oggi evidenti, ma la maggior parte di noi non le ha riconosciute in anticipo. Tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.

–   Politiche “intelligenti” e nuove tecnologie hanno messo fine all’era della volatilità aggregata.

Benché i dati mostrino un marcato declino della volatilità aggregata dagli anni Cinquanta in avanti, è ora chiaro che la fine del ciclo economico era un’illusione. Anzi le politiche e le tecnologie che hanno reso l’economia più forte contro i piccoli shock, l’hanno anche resa più vulnerabile agli eventi con bassa probabilità. La diversificazione dei rischi idiosincratici ha creato una molteplicità di relazioni fra controparti. Questa nuova, densa trama di interconnessioni ha creato potenziali effetti domino tra istituzioni finanziarie, imprese e famiglie.
I crolli nel valore delle attività e le contemporanee insolvenze di molte imprese mettono in luce che la volatilità aggregata è parte integrante del sistema di mercato. Èanche parte integrante del processo di distruzione creativa. La comprensione che la volatilità non ci abbandonerà, dovrebbe riportare la nostra attenzione verso modelli che ci aiutino a interpretarne le varie fonti e a individuare quali componenti siano associate a un funzionamento efficiente dei mercati e quali invece sono la conseguenza di fallimenti del mercato evitabili.

–        L’economia capitalista vive in un vuoto istituzionale nel quale i mercati controllano miracolosamente il comportamento opportunistico.

I liberi mercati non sono mercati senza regole. Istituzioni e regole ben concepite sono necessarie per il funzionamento corretto dei mercati. Negli ultimi quindici anni, alle istituzioni è stata data molta attenzione, ma si concentrava sulla comprensione delle ragioni per cui le nazioni povere sono povere, non sulla comprensione di quali istituzioni sono necessarie quale base per il funzionamento dei mercati e per il mantenimento della prosperità nelle economie avanzate. 

–        Potevamo essere certi che le grandi aziende con una storia alle spalle si sarebbero auto-controllate perché avevano sufficiente “capitale reputazionale”.

La convinzione si è rivelata errata per due difficoltà fondamentali: il controllo deve essere fatto da individui e il controllo basato sulla reputazione esige che le sanzioni ex post siano credibili. Entrambe le cose si sono dimostrate false. Gli individui possono non curarsi del capitale reputazionale dell’azienda e la scarsità di capitale specifico e di know how significa che le sanzioni necessarie non erano credibili.

IL LATO POSITIVO

Possiamo solo dare la colpa a noi stessi per non aver compreso elementi importanti dell’economia e per non aver avuto una capacità di previsione maggiore di quella dei politici. Anzi, possiamo biasimare noi stessi per essere stati complici dell’atmosfera intellettuale che ha portato al disastro attuale. Ma la crisi rappresenta anche una opportunità: ha aumentato la vitalità dell’economia e ha messo a fuoco molte interessanti, stimolanti ed eccitanti domande. I brillanti giovani economisti non hanno di che preoccuparsi per trovare nuovi e importanti problemi su cui lavorare nei prossimi dieci anni.

QUELLO CHE DOVREMMO DIRE AI POLITICI

Le tre idee sbagliate non toccano i principi economici correlati alla crescita di lungo periodo e all’economia politica. Questi principi hanno avuto uno scarso ruolo nei recenti dibattiti accademici e sono stati del tutto ignorati in quelli politici. Come economisti, dovremmo ricordare ai politici le implicazioni che questi principi hanno nelle scelte attuali.
Il primo punto è che risolvere il problema di breve periodo con politiche che danneggiano la crescita di lungo periodo è una pessima scelta sotto il profilo della policy e del benessere. Innovazione e riallocazione sono la chiave della crescita di lungo periodo, ma gruppi potenzialmente potenti tendono a resistere a tali cambiamenti. Nei paesi in via di sviluppo, è facile che popolazioni impoverite, che soffrono shock negativi e crisi economiche si rivoltino contro il sistema di mercato e sostengano politiche populiste e anticrescita. Ma sono pericoli presenti anche nelle economie avanzate, specialmente nel mezzo di una crisi economica come quella attuale.
Piani di aiuto che salvano il settore finanziario o quello dell’auto avranno ripercussioni sull’innovazione e la riallocazione. Può soffrirne in particolare la riallocazione, se i piani di aiuto bloccano i fattori in settori e attività a bassa produttività. I segnali del mercato dicono ad esempio che lavoro e capitale dovrebbero essere riallocati lontano dalle “Big Three” di Detroit e i lavoratori altamente qualificati dovrebbero essere riallocati dall’industria finanziaria verso altri settori più innovativi. Uno stop alla riallocazone significa anche uno stop all’innovazione.

REAZIONE DA EVITARE

Queste preoccupazioni non sono una ragione sufficiente per opporsi ai piani di aiuto, ma sono piuttosto un appello a considerarne le implicazioni per la crescita di lungo periodo. Un’azione decisa contro la crisi è necessaria, non solo per attenuare i colpi della recessione, ma anche per evitare una reazione che potrebbe essere profondamente negativa per la crescita di lungo periodo. Una lunga e profonda recessione fa nascere il rischio che consumatori e politici inizino a ritenere i liberi mercati responsabili dei mali economici di oggi. Se accadesse, potremmo assistere a un allontanamento dall’economia di mercato. Il pendolo potrebbe oscillare troppo, oltrepassando i liberi mercati con regole adeguate, verso un forte coinvolgimento degli Stati nell’economia che potrebbe mettere a rischio le prospettive di crescita futura dell’economia globale.
Un buon piano di aiuti, pur con tutte le sue imperfezioni, è probabilmente il modo migliore di combattere questi pericoli. Tuttavia, i dettagli dovrebbero essere costruiti in modo tale da causare il minor danno possibile al processo di riallocazione e innovazione. Sacrificare la crescita per il timore del presente sarebbe un errore altrettanto grave dell’immobilismo: non si dovrebbe escludere il rischio che possa crollare la fiducia nel sistema capitalistico. (Beh, buona giornata).

 

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.

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“Rispetto alla fisica l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente.”

di Jean-Philippe Bouchaud – Science & Finance, Capital Fund Management

Sostengo che l’attuale crisi finanziaria evidenzia la necessità cruciale di un cambiamento di mentalità nell’economia e nell’ingegneria finanziaria, che dovrebbero allontanarsi dagli assiomi dogmatici per concentrarsi maggiormente sui dati, gli ordini di grandezza, e su plausibili, ancorché non rigorosi, argomenti. Una versione ridotta di questo saggio è apparsa su «Nature».

Rispetto alla fisica, sembra giusto dire che l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente. I razzi volano sino alla luna, l’energia viene ottenuta da minuti cambiamenti di massa atomica senza grandi disastri, i satelliti di posizionamento globale aiutano milioni di persone a trovare la loro strada di casa. Ma qual è un successo che sia il fiore all’occhiello dell’economia, oltre alla sua ricorrente incapacità di prevedere e prevenire le crisi, tra cui l’attuale crisi del credito mondiale? Perché le cose vanno così?

Naturalmente, modellare la follia delle persone è più difficile del moto dei pianeti, come disse una volta Newton. Ma l’obiettivo qui è quello di descrivere il comportamento di grandi popolazioni, per le quali dovrebbero emergere regolarità statistiche, così come la legge dei gas ideali emerge dal movimento incredibilmente caotico delle singole molecole. Per me, la differenza fondamentale tra le scienze fisiche e l’economia o la matematica finanziaria è piuttosto nel relativo ruolo dei concetti, delle equazioni e dei dati empirici. L’economia classica si basa su ipotesi molto forti che diventano rapidamente assiomi: la razionalità degli agenti economici, la mano invisibile e l’efficienza del mercato, ecc.

Un economista una volta mi ha detto, sconcertandomi: questi concetti sono così forti che si sostituiscono a qualunque osservazione empirica. Come Robert Nelson ha affermato nel suo libro, Economics as Religion (L’economia come una religione, ndt), il mercato è stato divinizzato. I fisici, d’altro canto, hanno imparato a essere diffidenti nei confronti di assiomi e modelli. Se l’osservazione empirica è incompatibile con il modello, il modello deve essere cestinato o emendato, anche se è concettualmente bello o matematicamente conveniente. Così tante idee ben accette si sono rivelate sbagliate nella storia della fisica al punto che i fisici hanno maturato fino a essere critici e guardinghi rispetto ai loro modelli. Purtroppo, analoghe salutari rivoluzioni scientifiche non hanno ancora preso piede in economia, laddove le idee si sono cristallizzate in dogmi, che ossessionano gli accademici, nonché i responsabili delle decisioni nelle posizioni apicali delle agenzie governative e delle istituzioni finanziarie.

Questi dogmi sono perpetuati attraverso il sistema dell’istruzione: la didattica della realtà, con tutte le sue sfumature ed eccezioni, è molto più difficile da insegnare rispetto a una bella formula coerente.

Gli studenti non discutono i teoremi che possono usare senza pensare.

Anche se un certo numero di fisici è stato assunto dalle istituzioni finanziarie nel corso degli ultimi decenni, questi fisici sembrano avere dimenticato la metodologia delle scienze naturali per assorbire e rigurgitare le abitudini economiche in vigore, senza il tempo o la libertà di metterne in discussione le loro fondamenta.

La presunta onniscienza e perfetta efficacia di un libero mercato deriva dal lavoro economico degli anni ‘50 e ‘60, che – con il senno di poi – sembra più propaganda contro il comunismo che una descrizione scientifica plausibile.

In realtà, i mercati non sono efficienti, gli uomini tendono ad essere eccessivamente mirati al breve periodo e ciechi sul lungo periodo, e gli errori si amplificano per via della pressione sociale e l’intruppamento acritico, e in ultima analisi portano a irrazionalità collettiva, panico e dissesti.

I mercati liberi sono mercati selvaggi.

È assurdo credere che il mercato possa imporre la propria auto-disciplina, come è stato sostenuto dalla US Securities and Exchange Commission nel 2004, quando ha consentito alle banche di accumulare ancora nuovi debiti.

Il ricorso a modelli basati su assiomi errati ha evidenti e grandi effetti. Il modello Black-Scholes è stato inventato nel 1973 per dare un prezzo alle ‘options’ supponendo che le variazioni di prezzo abbiano una distribuzione gaussiana, come a dire che la probabilità di eventi estremi è considerata trascurabile. Venti anni fa, l’uso indebito del modello di copertura del rischio sul crollo dei mercati azionari entrò nella spirale del crack borsistico dell’ottobre 1987: un crollo del 23% in un solo giorno, tanto da far apparire piccoli i recenti singhiozzi dei mercati. Ironia della sorte, è proprio l’uso del modello anti crack Black-Scholes che destabilizzò il mercato!

Questa volta, il problema risiede in parte nello sviluppo di prodotti finanziari strutturati che hanno impacchettato il rischio subprime all’interno di investimenti ad alto rendimento apparentemente rispettabili. I modelli utilizzati per stabilirne i prezzi erano fondamentalmente errati: hanno sottovalutato la probabilità che più mutuatari sarebbero stati insolventi sui loro prestiti contemporaneamente. In altre parole, questi modelli hanno di nuovo trascurato proprio la possibilità di una crisi globale, anche se hanno contribuito ad innescarne una. Gli ingegneri finanziari che hanno sviluppato questi modelli non si sono nemmeno resi conto che hanno aiutato i trafficanti di credito del settore finanziario a contrabbandare i loro prodotti in tutto il mondo: non erano stati addestrati a decifrare che cosa implicassero davvero le loro ipotesi.

Sorprendentemente, non vi è alcun quadro di riferimento nell’economia classica per comprendere i mercati selvaggi, anche se la loro esistenza è così evidente per i profani. La fisica, d’altro canto, ha sviluppato diversi modelli che permettono di capire in che modo le piccole perturbazioni possano portare a effetti incontrollabili. La teoria della complessità, sviluppata nella letteratura della fisica durante gli ultimi trenta anni, mostra che, quantunque un sistema possa avere uno stato ottimale (come uno stato di energia più basso, per esempio), sia talvolta difficile da identificare giacché il sistema non si situa mai in quella condizione. Questa soluzione ottimale non solo è inafferrabile, è anche fragilissima rispetto a piccole modifiche dell’ambiente, e quindi spesso irrilevante per capire cosa stia succedendo. Vi sono buone ragioni per credere che questo paradigma della complessità dovrebbe essere applicato ai sistemi economici in generale e ai mercati finanziari in particolare.
Semplici idee di equilibrio e di linearità (l’ipotesi che piccole azioni producano piccoli effetti) non funzionano. Abbiamo bisogno di rompere con l’economia classica e sviluppare strumenti del tutto nuovi, come si è cercato in modo ancora frammentario e disorganizzato da parte degli ‘economisti comportamentali’ e degli ‘econofisici’. Ma la loro sforzo di nicchia non è preso sul serio dall’economia mainstream.

Intanto che si sta lavorando per migliorare i modelli, anche la normativa ha bisogno di migliorare. Dovrebbero essere esaminate le innovazioni nei prodotti finanziari, sottoposte a dei “crash test” rispetto a scenari estremi e approvate da agenzie indipendenti, proprio come abbiamo fatto con le altre industrie potenzialmente letali (chimiche, farmaceutiche, aerospaziali, nucleari, ecc.).
In considerazione della presente caotica fuoriuscita dal settore finanziario alla vita di ogni giorno, un parallelo con queste altre attività umane pericolose sembra pertinente.

Soprattutto, vi è la necessità decisiva di cambiare la mentalità di coloro che lavorano in economia e nell’ingegneria finanziaria. Essi hanno bisogno di allontanarsi da ciò che Richard Feynman ha definito Cargo Cult Science: una scienza che segue tutti i precetti e le apparenti forme dell’indagine scientifica, mentre manca ancora qualcosa di essenziale. Un insegnamento eccessivamente formale e dogmatico nelle scienze economiche e nella matematica finanziaria sono elementi integranti del problema. I curriculum economici richiedono che siano incluse più scienze naturali. I presupposti per una maggiore stabilità a lungo termine risiedono nello sviluppo di una più pragmatica e realistica rappresentazione di ciò che sta succedendo nei mercati finanziari, e di concentrarsi sui dati, che dovrebbero sempre soppiantare perfette equazioni ed estetici postulati. (Beh, buona giornata).

Traduzione di Pino CabrasMegachip
Fonte originale: Economics needs a scientific revolution

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