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Il governo non vuole il tetto agli stipendi dei top manager.

di SERGIO RIZZO da corriere.it

Il Carroccio ha rovesciato sul decreto per gli incentivi alle imprese una valanga di 115 emendamenti. In mezzo, il più peloso di tutti: il tetto agli stipendi dei manager pubblici. Se passerà, nessuno di loro potrà guadagnare più di quanto guadagna un parlamentare. Anche ai banchieri i leghisti vorrebbero imporre provocatoriamente il limite di 350 mila euro l’anno.

C’è solo un dettaglio. Il tetto c’era già, ma uno dei primi atti del governo di cui la Lega Nord è un pilastro decisivo, è stato metterlo in frigorifero. Ricordate la storia? I senatori della sinistra Massimo Villone e Cesare Salvi presentarono un emendamento all’ultima finanziaria di Romano Prodi che imponeva agli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, manager aziendali compresi, un limite massimo pari alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. In cifre, 289 mila euro. L’emendamento provocò feroci mal di pancia. Praticamente tutti i manager pubblici e l’intera prima linea della burocrazia statale e dei principali enti locali erano ampiamente sopra quel tetto. Ma Villone e Salvi riuscirono comunque a far ingoiare il pillolone ai loro riluttanti colleghi della maggioranza. E l’emendamento è passato.

Con il decreto legge di giugno il governo Berlusconi ha deciso di congelare il tetto, per la soddisfazione di molti. Ma soltanto per tre mesi. Giusto il tempo per fare un Dpr con cui il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta di concerto con il suo collega dell’Economia Giulio Tremonti avrebbero dovuto stabilire a chi e in che modo applicare il limite. Ma al 31 ottobre 2008, data fissata per la sua emanazione, di quel provvedimento nemmeno l’ombra. L’offensiva contro i fannulloni aveva assorbito le energie della Funzione pubblica, che prometteva comunque di risolvere il problema entro fine anno. I mesi però sono passati invano e si è arrivati a metà marzo, per avere notizia che solo nelle scorse settimane è stato costituito un gruppo di lavoro misto fra gli esperti di Brunetta e quelli di Tremonti per venire a capo della questione.

Una faccenda che però a quanto pare è piuttosto complicata per le spinte e le controspinte: che cosa si può cumulare, quali redditi si possono escludere dal calcolo, chi deve controllare. Fatto sta che non si sa quando il regolamento sarà emanato.

Inutile girarci intorno. Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole, come dimostrano anche i tentativi di aggirare anche in sede locale le disposizioni tese a calmierare le indennità degli amministratori delle municipalizzate. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Soprattutto, come si può pretendere di far decidere le dimensioni della tagliola a chi ne dovrà essere vittima? Senza considerare un clamoroso effetto collaterale. Diverse imprese pubbliche hanno interpretato il congelamento del tetto come l’autorizzazione a congelare anche la trasparenza. Da alcuni siti internet aziendali sono spariti gli elenchi dei consulenti e i relativi compensi. Un paio di casi per tutti, quelli della Fincantieri e dell’Anas. Questa la spiegazione fornita dalla società delle strade: «Per la pubblicazione di tali dati l’Anas è in attesa dell’apposito decreto, così come stabilito dalla legge 129/08 del 2 agosto 2008 che converte in legge il decreto legge 97 del 3 giugno 2008. Al momento l’Anas, come tutte le altre società pubbliche, è tenuta a pubblicare sul sito internet solo gli incarichi, non rientranti nei contratti d’opera, superiori a 289.984 euro». Quanti? Uno: quello del presidente Pietro Ciucci. 750 mila euro l’anno, compresa la parte variabile dello stipendio. (Beh, buona giornata).

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Obama blocca i bonus ai manager delle aziende aiutate dallo Stato. In Italia, invece no.

Non sarà messa in discussione la proposta avanzata da alcuni parlamentari della Lega di mettere un tetto agli stipendi dei manager di banche e imprese che, in difficoltà per la crisi, beneficeranno di aiuti pubblici. Le proposte sono infatti contenute nell’elenco degli emendamenti al decreto «Salva-auto» considerati inammissibili per materia.

In particolare, un emendamento prevedeva che non potesse superare il limite di 350.000 euro annui il trattamento economico dei dirigenti di banche o istituti di credito che beneficiano in materia diretta o indiretta di aiuti anti-crisi. Un altro emendamento, considerato inammissibile, prevedeva che gli emolumenti corrisposti a qualunque soggetto avente rapporti di lavoro con le amministrazioni statali, o con le agenzie oppure con enti pubblici economici e d enti di ricerca, nonchè con i magistrati, non potesse superare il limite del trattamento corrisposto ai membri del Parlamento. (Beh, buona giornata).

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Crisi: Massimo D’Alema, minimo Tremonti.

Operazione di maquillage”, “misure molto limitate”. Cosi’ Massimo d’Alema ha definito gli interventi anticrisi del governo, parlando con i giornalisti a Torino a margine di un incontro con i lavoratori di alcune aziende in crisi. “Il governo ha spostato i soldi da un capitolo all’altro – ha sottolineato – ad esempio ha preso i fondi sociali delle regioni e li ha usati per finanziare gli ammortizzatori sociali”. Poi dando ragione a Emma Marcegaglia ha aggiunto: “si tratta di operazioni dove, come ha giustamente detto la presidente di Confindustria , non ci sono soldi veri.” Beh, buona giornata.

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Pil:-4%. Occupazione: -1.000.000. Ecco la crisi che Berlusconi vorrebbe passasse da sola.

Nel triennio 2008-2010 il Pil italiano potrebbe scendere del 4%. E’ quanto calcola l’Ires-Cgil secondo la quale il dato deriva da un calo dell’1% nel 2008 e da un drastico ribasso del Pil nel 2009 che dovrebbe superare il 3%. Nel 2010 la diminuzione dovrebbe ridursi ad un -0,1%. La flessione dell’occupazione in
Italia dovrebbe portare ad un tasso di disoccupazione del 10,1% nel 2010. E’ quanto stima l’Ires-Cgil secondo la quale nel 2009 il tasso dovrebbe salire al 9,3% dal 7,4% del 2008. (Beh buona giornata).

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L’occupazione crea preoccupazione.

(fonte: repubblica.it)
Il numero di persone con un lavoro, nei paesi dell’area euro, è diminuito nel quarto trimestre del 2008 dello 0,3%, pari a 453 mila unità. Lo rende noto Eurostat, l’ufficio europeo di statistica, che anche per l’Unione (i Ventisette) registra un calo dello 0,3% (672.000 persone). Un anno fa la diminuzione era stata dello 0,1% nella zona dell’euro e dello 0,2% nell’Unione.

Su base annua, nell’ultimo trimestre del 2008 il tasso di occupazione è rimasto stabile in entrambe le zone, dopo un aumento dello 0,6% sia nell’area euro che nella Ue, nel terzo trimestre.

Nel quarto trimestre dell’anno, le stime di Eurostat indicano complessivamente in 225,3 milioni le persone con un’occupazione, di cui 145,4 milioni merlla zona dell’euro.

Eurostat conferma anche le stime dello scorso 2 marzo relative al tasso annuo di inflazione che, nei paesi che compongono l’area euro, in febbraio è stato dell’1,2%, contro l’1,1% del mese precedente. Un anno fa l’inflazione si era attestata al 3,3%, mentre il tasso mensile, a febbraio, è stato dello 0,4%.

Quanto ai Ventisette, il tasso annuo d’inflazione a febbraio è stato dell’1,7%, dunque in calo rispetto all’1,8% di gennaio. Un anno fa era stato del 3,5%, mentre il tasso mensile anche nell’Ue è stato dello 0,4%. (Beh, buona giornata).

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La crisi, gli Usa e l’Ue.

di Francesco Giovazzi da corriere.it

Ricordate i mesi successivi all’11 settembre 2001? Molti si erano convinti che si fosse chiusa una fase storica — era iniziata a Vienna nel 1683 con la sconfitta dell’impero Ottomano — che aveva consentito all’Occidente di esercitare per tre secoli la propria egemonia sul mondo. Pensavano che quell’egemonia fosse in pericolo, forse era finita per sempre. Preoccupazioni oggi in gran parte dimenticate: non perché il problema dei rapporti fra l’Occidente e l’Islam non sia reale, ma perché lo è ora così come lo era prima dell’11 settembre.
Qualcosa di simile accade oggi.

Uno straordinario paragrafo del Capitale di Karl Marx — in cui il filosofo tedesco prevede (nel 1867) che i debiti dei lavoratori avrebbero fatto fallire le banche, determinando il passaggio dall’economia capitalista al comunismo — viene richiamato per argomentare che il capitalismo è finito. «L’apertura dei mercati conteneva le radici della propria distruzione», ha scritto Martin Wolf sul Financial Times. «L’epoca della liberalizzazione finanziaria è finita, ma, come negli anni Trenta, non disponiamo di alternative credibili». Il ministro Giulio Tremonti cerca di immaginarle, prefigurando l’abbandono di un sistema fondato sulle leggi dell’economia e sui prezzi di mercato e la sua sostituzione con uno fondato sul diritto, sul conto patrimoniale e sui controlli giurisdizionali e amministrativi.

Il mio sommesso parere è che si tratti di discussioni sterili, che probabilmente faranno la fine dei dibattiti sul declino dell’Occidente, e soprattutto pericolose. Che cosa dovrebbe fare un imprenditore che si lasciasse sedurre da simili visioni? Combattere per far sopravvivere la sua azienda, magari investendovi i profitti accumulati in decenni di lavoro? Se si convince che nel nuovo mondo vi sarà più Stato e meno mercato, meno concorrenza, maggiori ostacoli alle esportazioni, chiude tutto e si ritira in campagna.

Alcuni anni fa le riflessioni sul futuro dell’Occidente erano al centro del dibattito anche negli Stati Uniti; oggi invece la domanda se il capitalismo sopravvivrà affascina gli europei ma non gli americani. E non perché negli Usa non ci si renda conto che la crisi ha evidenziato gravi carenze nel funzionamento e nella regolamentazione dei mercati finanziari. Ma, a differenza dell’Europa, gli americani (o almeno la maggior parte di essi) pensano che le regole fossero cattive non perché vi sia qualcosa di sbagliato nel capitalismo, ma semplicemente perché si era consentita troppa (non troppo poca) vicinanza fra politica ed economia. E quindi sono comprensibilmente scettici di fronte a chi propone di affidare alla politica la guida dell’economia (è interessante a questo proposito il dibattito sulla nazionalizzazione delle banche dove il punto centrale, cui nessuno in Europa mai accenna, è come evitare che i risparmiatori che posseggono azioni delle banche vengano espropriati).

Vi è anche una percezione molto diversa delle priorità. Gli europei possono permettersi di giocare a Monopoli con il futuro del capitalismo — e guardare altrove indispettiti quando i nostri vicini dell’Europa centrale chiedono di essere aiutati ad evitare il collasso economico e politico — perché tanto a salvare Polonia, Ucraina e Lettonia ci pensa il Fondo monetario internazionale. E quale è l’unico Paese che sinora ha dato al Fondo le risorse per farlo? Il Giappone, che non è esattamente confinante con l’Ucraina. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Il G20 necessita di ampie vedute, che attualmente sembrano mancare.

di Barry Eichengreen da lavoce.info

Una delle conseguenze più ovvie della crisi 2008 è senz’altro stato il colpo da maestro che ha permesso al G20 di sostituire, nella direzione dell’economia mondiale, il G7 o G8. Se non si vuol credere a questa affermazione, basta considerare la risonanza mondiale ottenuta dal gruppo dei 20 in novembre, paragonandola alla scarsa eco riscossa dal meeting romano dei ministri delle Finanze del G7.
Nessuno pensa che il ruolo possa ormai venire esercitato, e ancor meno diretto, dal G7. Così come nessuno pensa che sia il G7 a dover riformare l’Fmi e la Banca Mondiale, né che sia in grado di fornire una risposta globale, monetaria e fiscale alla più grave recessione avvenuta dopo la seconda guerra mondiale. Che si tratti di trovare un accordo, o di sviluppare nuove idee e di procedere alla loro realizzazione, tutti concordano sul fatto che sia compito del G20. Ma ciò comporta parecchi problemi.

I PROBLEMI DEL G20

Innanzitutto, sono problemi pratici. È più complesso mettere in moto un G20 di un G7. E non è pensabile una teleconferenza a 20: non è certo una struttura adatta a spegnere un incendio. Un meccanismo così lento non riuscirebbe mai a trovare risposte idonee nell’arco di un week-end, in tempo per la riapertura dei mercati asiatici del lunedì mattina. Sarebbe quindi auspicabile strutturare uno strumento più agile, a piccoli gruppi, che non ricalchino però il G7.
In secondo luogo, esistono problemi di legittimità. Chi ha delegato il G20 a rappresentare i 190 paesi del mondo? Quale accordo, quale trattato internazionale descrive i meccanismi di selezione e rotazione? Che dire di quei paesi che non vi partecipano, come quelli dell’Asean (che non capiscono perché dovrebbero essere, per esempio, rappresentati dall’Indonesia la quale, a parte tutto, ha un Pil inferiore alla Thailandia)? E dov’è l’Iran, che ha un’economia ben più forte dell’Argentina?
In terzo luogo, esistono tensioni, per giunta esacerbate dalla riforma in corso del Fmi, con il Comitato monetario e finanziario internazionale (International Monetary and Financial Committee), che conta 24 membri non 20. La maggior parte dei 24, ma non tutti, fra l’altro, rappresentano gruppi di paesi. Gli statuti del Fmi attribuiscono al Comitato un potere costituzionale, per decidere sulle priorità strategiche e politiche del Fondo. Tali decisioni dovrebbero rientrare anche nei poteri del G20. Ma in caso di disaccordo tra le due istituzioni a chi dovrebbe dar retta la comunità internazionale?
E infine, il G20 ha organizzato il suo programma di lavoro in quattro gruppi di lavoro: il primo gruppo si occuperà di come rinforzare e regolamentare il controllo finanziario, il secondo di come incoraggiare la cooperazione internazionale, il terzo di riformare il Fmi e le banche di sviluppo multilaterali e il quarto di mantenere aperti i mercati. Ma questa organizzazione non è ottimale. I quattro settori sono interconnessi; le riforme politiche dipendono da quelle inerenti agli altri settori. E per giunta è più probabile che si pervenga a un buon accordo, se i problemi son tutti messi contemporaneamente sul tavolo. Si potrebbe in tal modo raggiungere compromessi tra paesi, disposti a rinunciare a qualche vantaggio in cambio di altri. Anzi, per dirla tutta, è improbabile che si arrivi a un accordo in qualsivoglia campo, senza una possibilità del genere.

CHI DOVREBBE FAR PARTE DEL G20?

In primo luogo, bisognerebbe rendere più coerente l’appartenenza dei membri al G20 e al Comitato. Il che implicherebbe la trasformazione del G20 in un G24. Si potrebbe per esempio ipotizzare una rotazione tra paesi, che rappresenti le diverse circoscrizioni del Fmi: non sarebbe un’idea malvagia. Certo, non tutti i membri troverebbero il loro tornaconto e alcuni dovrebbero condividere, in base a una prestabilita rotazione, il loro seggio nel G20 con altri rappresentanti della loro area. Ma il prezzo di transazioni e compromessi sarebbe compensato da una maggior legittimità e dall’eliminazione di potenziali conflitti tra G20 e Comitato. Quest’ultimo potrebbe essere trasformato in Consiglio di sorveglianza sul Fmi, il che del resto è previsto dagli statuti dell’ istituzione.
In alternativa, o forse in aggiunta, si potrebbe ipotizzare un cambiamento nella composizione dell’Imfc, che attualmente include tra i suoi 24 membri ben 7 paesi dell’Unione Europea. Non parliamo neanche, per carità, di rappresentante unico dell’Unione: è stato già proposto per il Fmi e la proposta ha suscitato un vespaio. Non si può, tuttavia, non sottolineare che l’Unione fa parte del G20 e che, se vuole seriamente farlo divenire il comitato guida dell’economia mondiale, deve necessariamente rivedere la posizione conflittuale, relativa alla sua rappresentanza in seno al Comitato. In tal modo si rafforzerebbe il ruolo dell’Imfc nel Fmi.
È inevitabile che il G20 si trasformi. D’altronde, deriva esso stesso dall’evoluzione del G33, trasformatosi in seguito in G22, dopo la crisi asiatica del 1997-98. Tale precedente aiuta a comprendere che sono unicamente gli interessi dei membri attuali che impediscono al G20 di evolvere naturalmente in un gruppo compatibile con l’Imfc.

RIUNIRE I GRUPPI DI LAVORO

Riunire i quattro gruppi di lavoro in un negoziato più ampio: ne profitterebbe il mondo intero, vale a dire paesi industrializzati e paesi emergenti. Il problema basilare per il G20, ma anche per tutta l’economia mondiale, è quello di riequilibrare la domanda, di sostenere la crescita globale e di prevenire situazioni di crisi, come quella attuale.
I paesi industrializzati ritengono che spetti ai paesi emergenti stimolare la domanda per sostenere la crescita globale e impedire che sopravvengano squilibri globali. Ma, dal canto loro, e non senza ragione, i paesi emergenti hanno capito, col verificarsi dell’attuale crisi, che necessitano di maggiore, e non minore, assicurazione contro la volatilità. In altri termini, per ammortizzare gli shock, necessitano di riserve di valuta estera più cospicue, che possono ottenere solo con forti surplus di parte corrente e svalutando la loro moneta nei confronti del dollaro.
Questa contraddizione può essere risolta offrendo accesso ad ampie linee di credito presso il Fmi a lungo termine e senza condizioni alle economie emergenti che aspirano a entrare nella logica dei paesi industrializzati. Ciò permetterebbe loro di attingere alle riserve del Fondo, e di conseguenza, di effettuare minori accantonamenti. I mercati di tali paesi, grazie alla capacità di stimolare la domanda, sarebbero invogliati in tal senso, anche se ciò comportasse minori avanzi di parte corrente, tassi di cambio meno favorevoli e meno accumulo di riserve.
Tale soluzione però presuppone ulteriori cambiamenti. In special modo occorre rivedere quella facilità con cui sono stati concessi crediti a breve termine: i paesi devono infatti poter considerare il credito come una reale garanzia, accedendovi senza che ci sia bisogno di crearlo espressamente. I crediti devono inoltre essere concessi con scadenza ben oltre i tre mesi: le esperienze recenti hanno insegnato che la volatilità e il bisogno urgente di finanziamenti possono eccedere tale durata. Inoltre i paesi devono poter contare su crediti più ampi, perché anche in questo caso l’esperienza insegna che i rovesci di flusso di capitali possono essere enormi.
Profondi cambiamenti devono avvenire anche nel sistema di governo del Fmi, per conferirgli quella legittimità che gli manca nei paesi emergenti. Ciò significa andare ben oltre i provvedimenti simbolici del 2006-08 su quote, diritti di voto nonché mezzi per dar voce ai paesi emergenti.

G20: UN PIANO D’AZIONE GLOBALE

In aprile, il G20 pubblicherà un rapporto in cui, tra l’altro, verranno indicati nuovi provvedimenti, atti a instaurare un inedito equilibrio globale e la riforma del Fmi. Se però quest’ultima non riuscisse a favorire gli interessi dei mercati emergenti, non verrebbero adottate neanche le misure volte a riequilibrare l’economia mondiale e a stabilizzare la domanda globale, anche se fortemente volute dai paesi industrializzati. Insomma, il G20 necessita di un progetto globale. Bisogna appurare quali siano i sacrifici da affrontare, se si vuol raggiungere risultati concreti negli altri settori. Ma necessita anche di ampie vedute, che attualmente sembrano mancare. Tutti questi problemi possono essere risolti. L’importante è che vengano identificati e quindi affrontati. (Beh, buona giornata).

(traduzione di Daniela Crocco)

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“L’idea che la crisi sia destinata dopo un po’ a risolversi “da sola” e che quindi si tratti solo di aspettare, è sbagliata”.

di Paolo Ferrero da liberazione.it

Le centinaia di migliaia di lavoratori che hanno perso il lavoro nei primi mesi di quest’anno rappresentano plasticamente la gravità della crisi. Una crisi che non è caduta dal cielo, non è il frutto di qualche cattivo banchiere che ha falsato le regole del gioco; una crisi che è il frutto proprio di quelle politiche liberiste che i capitalisti hanno portato avanti dagli anni ’80 e che sono state condivise a livello politico sia dal centro destra che dal centro sinistra.

Al centro di queste politiche abbiamo avuto la finanziarizzazione dell’economia e la sistematica compressione dei salari, delle pensioni e dello welfare. Politiche tutte orientate all’esportazione e alla speculazione finanziaria a breve hanno prodotto la situazione attuale: le banche sono piene zeppe di titoli che non valgono nulla e milioni di lavoratori non hanno i soldi per arrivare a fine mese, cioè per comprare le merci e i servizi che producono.

Questa crisi è quindi una crisi del meccanismo di accumulazione capitalistico, non solo una crisi economica ma ambientale e alimentare. Da una crisi di questa natura non è possibile uscire senza una radicale messa in discussione della distribuzione del reddito e del potere e senza riprogettare il modello di sviluppo: cosa, come, per chi produrre.

Se non si affrontano tali nodi, l’idea che la crisi sia destinata dopo un po’ a risolversi “da sola” e che quindi si tratti solo di aspettare, è sbagliata.

Da questo punto di vista è evidente che la politica che sta facendo il governo Berlusconi non è finalizzata all’uscita dalla crisi da piuttosto all’uso della crisi a fini politici.(Beh, buona giornata).

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Bernanke: “il rischio in questo momento è quello di non avere la volontà politica di risolvere il problema e lasciare che le cose seguano il loro corso.”

(Fonte:ilmessaggero.it)

Il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha detto che la recessione «finirà probabilmente entro l’anno». In una rara intervista al programma televisivo 60 Minutes domenica sera Bernanke ha espresso un cauto ottimismo: «Abbiamo un piano. Ci stiamo lavorando. Penso che riusciremo a stabilizzare la situazione e che vedremo la fine della recessione probabilmente entro la fine dell’anno».

Secondo il capo della Federal Reserve «vi sarà una ripresa all’inizio del prossimo anno che andrà ad accelerare col passare del tempo».

Bernanke ha poi affermato che gli Stati Uniti hanno «evitato il rischio» di piombare in una Grande depressione come quella del 1929. «Sono convinto che abbiamo già superato quel punto – ha detto – si tratta adesso di fare funzionare la macchina in modo corretto». Secondo Bernanke il maggior rischio in questo momento sarebbe «quello di non avere la volontà politica di risolvere il problema e lasciare che le cose seguano il loro corso».

Bernanke ha ammesso infine che il sistema finanziario mondiale è stato in autunno «molto, molto vicino» al collasso: «si era creata una situazione molto pericolosa», ha detto. (Beh, buona giornata).

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La crisi morde. Berlusconi ha paura anche di un Franceschini qualsiasi. E bravo Franceschini, bravo bravo, e bravo Franceschini (sulle note del jingle Palombini).

“Un leader catto-comunista, imprevisto. Pensavo che ci fosse una preminenza della sinistra. Non è chiaro a quali principi voglia arrivare con questo catto-comunismo. Al Pd auguro di mettere radici solide e di diventare la controparte del Pdl: diventi un partito socialdemocratico”. Così Silvio Berlusconi giudica Dario Franceschini e il partito democratico. E critica fortemente l’idea del segretario di tassare i redditi più consistenti per aiutare i meno abbienti: “Non è con un’elemosina che si risolvono i problemi, è una ricetta sbagliata secondo la dottrina tradizionale dell’economia”.

Dunque, secondo il premier, l’imposta sui guadagni dai 120 mila euro in su non è efficace. Il punto, avverte, non non è su “chi può dare o meno. Anzi, chi può dare già compie opere sociali e donazioni che vanno oltre il 2%: io non faccio sapere nulla, ma la mia famiglia è molto attiva e fa molto, ad esempio, nella costruzione di ospedali e orfanotrofi”.

Il presidente del Consiglio parla alla cerimonia del premio per Politico dell’anno, che gli viene assegnato dal quotidiano Il Riformista. E nell’occasione, parla anche della crisi: “Non si conosce la reale portata del disastro finanziario – spiega – ma quello che è certo è che bisogna dire no alla canzone catastrofista dei media”. Anche perché, a suo giudizio, l’Italia “è particolarmente indicata ad uscirne prima rispetto agli altri paesi grazie al fatto che gli italiani sono grandi risparmiatori, agli ammortizzatori sociali e alla solidità del sistema bancario”.

Quanto al suo piano di liberalizzazione dell’edilizia, Berlusconi dice che “domani abbiamo la discussione sul piano casa: siamo una coalizione, dobbiamo discutere con gli alleati. Comunque faremo un disegno di legge”. Anche se – aggiunge – redo che un decreto sarebbe più efficace”.

Ancora, il premier rilancia la sua intenzione di modificare la Costituzione e i regolamenti parlamentari, e adombra l’obiettivo di trasformare la repubblica da parlamentare a presidenziale. “Viviamo con un sistema e un’architettura istituzionale – sostiene – che non è più in linea con i tempi. Quella decisione sacrosanta assunta dai padri costituenti veniva dopo un ventennio dittatoriale e c’era quindi la logica di voler assegnare alla Repubblica una forma non presidenziale ma parlamentare. Adesso noi dobbiamo per forza arrivare alla possibilità di decisioni più immediate e di percorsi piiù brevi per trasformare una decisione assunta responsabilmente in qualcosa di concreto”. (Beh, buona giornata).

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A proposito di povertà.

da Guglielmo Forges Davanzati e Andrea Pacella – da economiaepolitica.it

Nel rapporto 2008, l’Istat quantifica la soglia di povertà per una famiglia di due componenti come equivalente a una spesa media mensile per persona pari a 986,35 euro. Stando alle ultime rilevazioni ufficiali disponibili, nel periodo compreso fra il 2002 e il 2006, il numero delle famiglie povere è aumentato, per l’Italia nel suo complesso, del 6.80%, con significative differenze regionali.

Si tratta del periodo che intercorre fra l’adozione dell’euro e l’avvio dell’esperienza di governo del centro-sinistra, nel quale si sono manifestate con la massima intensità le politiche di deflazione salariale. E’ la fase nella quale l’impoverimento in Italia è da imputare essenzialmente alle strategie di riduzione dei costi di produzione, e dei salari in primis, che le nostre imprese – nella sostanziale assenza di innovazione tecnologica – hanno trovato conveniente porre in essere per tentare di recuperare margini di profitto nei mercati internazionali. Per quanto attiene alla politica economica, in questa fase, il rispetto del dogma della ‘sana finanza pubblica’ unito alle politiche monetarie restrittive della BCE hanno contribuito a comprimere i salari reali. Da un lato, infatti, la riduzione della spesa pubblica, riducendo l’occupazione, ha ridotto il potere contrattuale dei lavoratori, già reso minimo dalle politiche di ‘flessibilità’ del lavoro. Dall’altro, l’aumento dei tassi di interesse ha accresciuto le passività finanziarie delle imprese, spingendole a caricare tali costi addizionali sui costi di produzione e, dunque, sui prezzi.

Va notato che il Mezzogiorno sembra aver sperimentato una performance migliore rispetto a tutte le altre aree del Paese, con una riduzione percentuale delle famiglie povere quasi pari all’8%. E tuttavia, in termini assoluti, il numero delle famiglie meridionali in condizioni di povertà risulta di gran lunga superiore al numero delle famiglie povere residenti nelle altre macro-regioni. Questa situazione può essere in larga misura spiegata con la ripresa dei flussi migratori dal Sud al Nord del Paese nell’unità di tempo considerata, così che la riduzione dei residenti poveri, oppure la riduzione dell’ampiezza delle famiglie povere, i cui componenti si sono trasferiti in regioni con maggiore domanda di lavoro, può aver determinato un trend di relativo arricchimento. La condizione di povertà nel 2007 risulta poi essere ancora marcata nel Mezzogiorno, se si considerano le Isole. In questa macro-area si registra, infatti, un’incidenza di povertà relativa di gran lunga superiore rispetto alla media nazionale e in crescita rispetto alla precedente rilevazione: il numero di famiglie povere nel Mezzogiorno si attesta a 1725000, con un incremento dello 0,72% rispetto al 2006[1].

L’incidenza della povertà è più contenuta nelle famiglie i cui membri sono occupati (in forma autonoma o subordinata), anche se la presenza di persone in cerca di occupazione o di individui ritirati dal lavoro senza un’autonoma fonte di reddito costituisce un elemento che pesa significativamente sul livello di povertà dell’intero nucleo familiare. La povertà in Italia colpisce maggiormente gli individui in cerca di occupazione, gli anziani e le famiglie con componenti a carico. Inoltre, la povertà colpisce significativamente le famiglie con a capo un operaio (13,9%). Il numero di queste ultime, infatti, è circa il doppio del numero di famiglie con a capo un lavoratore autonomo (6,3%) ed è quasi quattro volte superiore al numero delle famiglie con a capo un libero professionista (3,7%). A ciò va aggiunto che, nel 2007 e per l’Italia nel suo complesso, le famiglie che si trovano in condizioni di povertà relativa sono 2 milioni 653 mila e rappresentano l’11,1% delle famiglie residenti in Italia. A fronte di questa evidenza, il nostro Governo limita ad azioni irrisorie le politiche di contrasto alla povertà. Ferma restando l’obiezione di natura etica nei riguardi di un provvedimento che rende di pubblico dominio la condizione individuale di indigenza, resta da chiarire su quali basi si è stimato che 40 euro mensili derivanti dall’uso della social card possano alleviare in modo significativo le condizioni di povertà estrema.

Il “capitalismo compassionevole” – la filosofia che, in ultima analisi, ispira questi interventi – è un topos degli esecutivi di Destra e, in quanto tale, non sorprende la natura e l’entità di queste misure. Si resta, invece, perplessi quando si apprende che questa linea – ovvero la sostanziale inazione – viene rivestita di scientificità. Andrea Garnero, recentemente e sulle colonne on-line della voce.info, suggerisce di non introdurre in Italia il reddito minimo, criticando a riguardo il RMI francese, adducendo la duplice motivazione che ciò incentiverebbe il lavoro nero e l’evasione fiscale e costituirebbe un aggravio insostenibile per le finanze pubbliche.

A ciò aggiunge che il reddito minimo costituisce un disincentivo al lavoro. La prima motivazione potrebbe avere semmai un fondamento se letta a contrario: è proprio laddove i lavoratori inoccupati non dispongono di redditi non da lavoro, sono costretti ad accettare posti di lavoro irregolari. La seconda motivazione è, soprattutto oggi, del tutto inconsistente, alla luce del sostanziale venir meno dei vincoli di Maastricht e del Patto di Stabilità, nonché delle numerose dimostrazioni teorico-empiriche dell’assenza di stringenti criteri scientifici che possano legittimare politiche di pareggio di bilancio[2]. A ciò si può aggiungere che, anche nel tendenziale rispetto dei parametri di Maastricht, risorse aggiuntive per far fronte al problema potrebbero essere ricavate da più efficaci azioni di contrasto all’evasione fiscale, che l’Agenzia delle Entrate stima nell’ordine dei 250 miliardi di euro (circa il 20% del PIL), dei quali sono stati recuperati, nel 2007, solo 6 miliardi.
Appare allora chiaro che la reale motivazione che sottende questi argomenti sta nel fatto che l’erogazione di un reddito minimo – qualunque sia la modalità con la quale viene concepito – ha il duplice effetto di accrescere il salario di riserva, aumentando, per questa via, il potere contrattuale dei lavoratori, e di disincentivare non la ricerca di lavoro in quanto tale, ma la ricerca di un’occupazione con mansioni non coerenti con le qualificazioni acquisite.

Per contro, se si conviene che la crisi in atto è una crisi da bassi salari[3], ciò che occorrerebbe fare è semmai muoversi nella direzione opposta rispetto a quanto si sta facendo in Italia, e rispetto a quanto suggerito da Garnero, con azioni finalizzate ad accrescere le retribuzioni in termini reali, soprattutto a beneficio dei percettori di redditi più bassi con maggiore propensione al consumo. Con una specificazione rilevante. La pura erogazione di un sussidio in moneta può rivelarsi inefficace per questo obiettivo, in condizioni nelle quali le imprese – soprattutto mediante strategie finalizzate ad accrescere la concentrazione industriale – possono accrescere i prezzi. Il che non solo non è da escludere, ma è anche verosimile, dal momento che l’aumento dei salari reali – per una struttura di mercato data e in assenza di incrementi di produttività – riduce i margini di profitto.

In tal senso, l’introduzione di un reddito minimo può dar luogo a esiti inflazionistici, se le imprese sono in grado di neutralizzare per questa via il rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori[4]. Per l’obiettivo di contrasto alla povertà, questa considerazione porta a ritenere preferibile – rispetto all’erogazione monetaria – la fornitura diretta di beni e servizi da parte dell’operatore pubblico, proprio perché offre ai beneficiari la certezza del miglioramento delle loro condizioni materiali di vita.

Il che potrebbe essere realizzato mediante misure di ridistribuzione del reddito che garantiscano una maggiore produzione di beni e servizi pubblici mediante la tassazione dei redditi più alti, in primo luogo colpendo i profitti derivanti dalle speculazioni finanziarie. (Beh, buona giornata).

[1] Il numero delle famiglie povere nel Mezzogiorno (Sud e Isole) nel 2006 è, infatti, pari a 1712621.
[2] Si veda il materiale contenuto nel sito http://www.appellodeglieconomisti.com/.
[3] Sul tema si rinvia, fra gli altri, all’intervento di Sergio Rossi del 6.2.2009, su www.economiaepolitica.it.
[4] Per una trattazione più ampia e analitica del tema, si rinvia a A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge: Cambridge University Press, 2003.

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Crisi economica: nell’automotive, nella siderurgia e negli elettrodomestici l’aumento della cassa integrazione è del 1.048%.

(Fonte: dazebao.org)

La gravità della crisi è pienamente dimostrata dai dati resi noti dall’Inps nell’insieme dei settori dell’industria metalmeccanica, industria di punta del nostro paese: con 23 milioni di ore di Cassa integrazione nel solo mese di febbraio 2009, e con un incremento del 430% sullo stesso periodo dello scorso anno, tali settori rappresentano più del 60% di tutta la Cassa integrazione nell’industria.

Questo ammontare di ore di Cassa integrazione è pari all’assenza dal lavoro per l’intero mese di 150.000 lavoratori. In realtà, i metalmeccanici interessati dalla Cassa integrazione guadagni superano le 200.000 unità in quanto la sospensione è realizzata, in molte aziende, a rotazione, e mediamente, riguarda un periodo di due o tre settimane.”

“Se si guarda alla sola Cassa integrazione ordinaria, che è il vero indicatore della violentissima crisi che interessa ormai tutti i principali comparti dell’industria metalmeccanica (Automotive, Siderurgia, Elettrodomestici)- afferma un comunicato della Fiom Cgil- si registra un aumento vertiginoso di oltre il 1.048% rispetto al febbraio 2008, confermando l’andamento preoccupante del dicembre 2008, che aveva avuto poi una lieve attenuazione nel mese di gennaio 2009.”

Le regioni più colpite sono il Piemonte e la Lombardia che, da sole, rappresentano oltre il 60 % di tutta la Cassa ordinaria del settore ed il 53% della totalità della Cassa nei metalmeccanici.

Un segnale di particolare gravità viene dalle Marche, dove si registra una vera e propria esplosione della Cassa integrazione straordinaria, e dalla Campania che, con quasi 1,2 milioni di ore di Cassa, è la terza regione del settore con una quantità di sospensioni di poco superiore al Veneto e al Lazio.

“Nel periodo novembre 2008-febbraio 2009, sono state autorizzate dall’Inps, per le aziende metalmeccaniche, oltre 67 milioni di ore di Cassa integrazione. Di questi, 50,3 milioni di ore riguardano la Cassa integrazione ordinaria ch – Afferma la Fiom-, ha interessato centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori. Una condizione socialmente insostenibile, questa, che rischia di protrarsi, se non di aggravarsi, nel corso dell’anno, con una perdita di salario che varia oramai tra il 40 e il 50% dello stipendio mensile, senza considerare che è frequente che in una stessa famiglia siano in Cassa integrazione sia la moglie che il marito.”

“Questi dati-conclude la nota del sindacato– confermano per intero la piattaforma con cui la Fiom ha chiamato allo sciopero lavoratrici e lavoratori metalmeccanici lo scorso 13 febbraio. Piattaforma in cui veniva affermata la necessità di misure straordinarie di politiche industriali e occupazionali che siano in grado di rispondere con efficacia alla crisi a partire dal blocco dei licenziamenti, dall’estensione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori che ne sono privi e dall’aumento dell’indennità di Cassa integrazione, arrivando al reale 80% dei salari di fatto.” (Beh, buona giornata).

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“Ha appena intascato 159 milioni di euro, il 50% più del 2008: comprensibile l’ottimismo del premier italiano che più volte ha tentato di spegnere gli allarmi di centri studi nazionali e internazionali sulla crisi e la caduta di consumi e prodotto interno lordo.”

di Franco Bechis – da italiaoggi.it

Ha appena intascato 159 milioni di euro, il 50% più del 2008
Silvio Berlusconi si è messo in tasca all’inizio di quest’anno un assegno da 159 milioni, 335 mila, 953 euro e 92 centesimi. Una maxi-somma rara anche per gli imprenditori. Ma soprattutto superiore di oltre la metà ai 102 milioni che il presidente del Consiglio e indirettamente principale azionista del gruppo Fininvest-Mediaset si era messo in tasca solo un anno fa.

Si tratta dei dividendi che gli hanno erogato le quattro società direttamente controllate, le holding prima, seconda, terza e ottava che controllano la maggioranza del capitale del gruppo Fininvest.
Berlusconi è fra i pochi, pochissimi imprenditori italiani a essere diventato più ricco proprio nell’anno orribile della crisi finanziaria internazionale…(…)

Comprensibile quindi l’ottimismo del premier italiano che più volte ha tentato nei mesi scorsi di spegnere gli allarmi di centri studi nazionali e internazionali sulla crisi e la caduta di consumi e prodotto interno lordo.
Lui non ha certo problemi psicologici, e avere oltre 50 milioni di euro in più in tasca rispetto all’anno precedente non dovrebbe provocare particolare caduta dei consumi personali e lasciare abbastanza risorse anche per affrontare le difficoltà del 2009 che si farano sentire perfino sui bilanci delle sue aziende.
In tasca quella maxi disponibilità aggiuntiva è per altro dovuta in gran parte alle richieste del premier- azionista.

I bilanci delle aziende di famiglia sono riusciti a brillare nel 2008 a differenza di quelli di molte altre aziende, i dividendi sono stati distribuiti quindi con maggiore generosità del passato, ma i bilanci in sè non hanno ottenuto un risultato così clamoroso. Il guadagno effettivo fra 2008 e 2007 delle quattro holding che appartengono a Berlusconi è stato di poco superiore a 13 milioni di euro, che è pur sempre un ottimo risultato. Ma l’anno precedente l’allora candidato premier aveva chiesto a tre delle sue società la distribuzione di tutti i dividendi, e a una di queste, la holding prima, di accantonare a riserva straordinaria (e cioè di lasciare in pancia alla società per eventuali acquisizioni future o sottoscrizioni di aumenti di capitale delle controllate) l’intero dividendo, pari a 43 milioni e 258 mila euro.

Quest’anno invece Berlusconi ha pensato evidentemente di avere maggiori necessità finanziarie personali e chiesto al consiglio di amministrazione della holding prima di versargli l’intero dividendo del nuovo esercizio, pari a 48 milioni e 100 mila euro.
Il contrario di quel che han deciso i figli Marina e Piersilvio, che hanno lasciato nelle casse delle società i 38,8 milioni guadagnati…(Beh, buona giornata).

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“Nel nostro governo credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera.”

di Marcello Villari – Megachip

Dice il proverbio: “mal comune mezzo gaudio”. Dal momento che, date le circostanze, di gaudio non ce n’è per niente, resta solo il mal comune e cioè il fatto che i governi di tutto il mondo appaiono in difficoltà nel gestire una crisi di queste dimensioni, che non si aspettavano e che si presenta più dura e di più lunga durata rispetto alle previsioni degli ottimisti.

Da Barack Obama a Gordon Brown, da Angela Merkel al nostro presidente del consiglio, passando per Nicolas Sarkozy il panorama non cambia molto nella sostanza: si procede per tentativi, cercando di tamponare qua e là le falle più grandi e pericolose rovesciando sul mercato quantità mai viste in passato di denaro pubblico. O tentando, come sta facendo il presidente americano, di mettere in campo un piano di intervento statale da economia di guerra, con elementi di redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e dei ceti più deboli.

Certamente tutto questo è servito a evitare un crollo sistemico di proporzioni inimmaginabili: «a settembre e ottobre siamo arrivati molto vicino al collasso finanziario globale, una situazione in cui sarebbero fallite molte delle più importanti istituzioni mondiali…»: sono parole del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, pronunciate nella sua audizione al Congresso degli Stati Uniti del 25 febbraio scorso. All’accorato e drammatico racconto di Bernanke si potrebbe aggiungere – tanto per non dimenticare – che il “Washington Consensus” – di cui la FED è stata uno dei pilastri – cioè l’espansione globale del modello americano, ha portato l’economia mondiale a un passo dal baratro.

E il fatto che i governi abbiano difficoltà serie a delineare politiche in grado di fronteggiare efficacemente la crisi deriva anche dalla circostanza che nessuno sa esattamente a quanto ammontino i “titoli tossici”, cioè la spazzatura in giro per il mondo frutto di quella “finanza creativa”, un tempo non molto remoto segno di modernità e di successo. Si tratta comunque di cifre da capogiro.

Pur nei limiti ristretti consentiti da un alto debito statale e aiutato dalla circostanza che le banche italiane si sono esposte di meno con la “finanza creativa” anche il nostro governo ha messo in campo le sue risposte. Rottamazioni per aiutare i settori in crisi, i “Tremonti bond” per aiutare le banche a fornire liquidità alle imprese e 8 miliardi di euro per i prossimi due anni per finanziare gli ammortizzatori sociali.
Con in più una particolarità tutta nazionale: mentre Obama e gli altri leader europei avvertono i loro concittadini che avranno di fronte mesi di lacrime e sangue, che bisogna rimboccarsi le maniche, riconoscendo – chi più chi meno – pubblicamente che la festa è finita e che bisogna cercare altre strade – Obama lo sta facendo – e insomma non hanno nascosto la triste realtà, il nostro presidente del consiglio trasuda ottimismo da tutte le parti… consumate e andrà tutto bene: sarebbe comico se non fosse tragico.

Il fatto è che anche queste misure – più o meno analoghe a quelle di altri paesi – sono certamente meglio che niente, forse tamponeranno qualche falla, ma non molto di più.
E sono, inoltre, drammaticamente insufficienti sul piano della protezione sociale: entro la fine di quest’anno vengono a scadenza i contratti a termine di 2 milioni e 400 mila lavoratori precari che quasi sicuramente non verranno rinnovati.

Intanto a febbraio (dati Confindustria) la produzione industriale è caduta, su base annuale, del 29,9 per cento, cresce fortemente il ricorso alla cassa integrazione e l’occupazione cala. Migliaia di lavoratori immigrati rischiano il posto di lavoro e con esso l’espulsione dal paese. Drammi sociali di vasta portata che possono aprire conflitti interni fra i lavoratori, come è già accaduto in Gran Bretagna, o un’agitazione sociale che il tentativo di limitare il diritto di sciopero non riuscirà a nascondere.

All’origine di questa visione “leggera” – per così dire – della crisi probabilmente non c’è solo il modo di essere di Berlusconi o la concezione un po’ furbesca tipica di una certa destra italiana che nei momenti di difficoltà, invece di cercare coesione nazionale o porsi il problema di far uscire tutto il paese dalle difficoltà ricorre al classico “che ognuno si arrangi come può”.

Il professor Tito Boeri ha fatto notare come siano stati drasticamente ridotti – del 24 per cento, con punte del 50 per cento nel Sud – i controlli degli ispettorati del lavoro sulla regolarità delle imprese. Nella circolare del Ministero si legge: «La criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su un’azione selettiva e qualitativa, diretta a eliminare ostacoli al sistema produttivo». Insomma – come nota il professor Boeri – si preferisce chiudere un occhio di fronte a forme di lavoro sommerso e irregolare: «la distruzione creativa che avviene nelle recessioni avrà così luogo all’inverso: sopravvivenza garantita alle imprese a bassa produttività, mentre si tartassano le imprese in regola e quelle che hanno maggiore potenziale di sviluppo» («la Repubblica», 25 febbraio 2009).

Come dire: siate furbi, licenziate e poi riprendete i vostri dipendenti in nero, vi costeranno meno e lo stato farà finta di non vedere. Ma appunto la lungimiranza e l’idea di sforzo comune non fanno parte del bagaglio politico e culturale degli eterni “ottosettembristi”, quel male oscuro che continua a corrodere la nostra Repubblica.

Ma non è solo questo. Nel nostro governo probabilmente credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera. È vero, solo che questa “superiorità” si potrà vedere solo quando saremo usciti dalla crisi, non certo adesso. Nel senso che a differenza di paesi come la Gran Bretagna e la Spagna che hanno basato la loro crescita su finanza e edilizia (per restare in Europa perché il caso degli Stati Uniti è più complesso), l’Italia (come la Germania) potrà ripartire con una struttura economica più solida, ma solo se si metterà mano a quel salto tecnologico, sempre invocato e mai attuato con politiche statali all’altezza del problema.

In questa situazione di crisi invece i paesi manifatturieri come il nostro rischiano di sopportare conseguenze non meno ma più pesanti degli altri. La spiegazione è semplice: quella che sta stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria, ma una vera e propria crisi di sovrapproduzione, nel senso che nel mondo c’è una capacità produttiva enorme che non ha una domanda in grado di assorbirla. Come dimostra anche il crollo delle nostre esportazioni, a gennaio, nei confronti dei paesi extra UE: meno 29,9 per cento (rispetto al gennaio 2008), conseguenza del crollo del commercio mondiale.

Fin quando gli Stati Uniti sono riusciti a sostenere i consumi – permettendo alle famiglie di indebitarsi e alla finanza creativa di guadagnarci su – il meccanismo è andato avanti. Quando è scoppiata la bolla dei subprime l’intero castello di carte è crollato, e senza fare debiti i lavoratori (o la classe media, si chiami come si vuole) non sono in grado con i redditi da lavoro di consumare tanto da produrre profitti per le imprese manifatturiere.
Quando, indebitandosi, gli americani consumavano alla grande (i consumi costituiscono circa il 60 per cento del Pil degli Stati Uniti) i cinesi vendevano i loro prodotti a basso costo, italiani e tedeschi fornivano loro i macchinari per fabbricarli, i giapponesi lo stesso e via discorrendo… attraverso le mille connessioni della globalizzazione il meccanismo alimentato dal debito girava… ma adesso?

In questi anni tutte le statistiche hanno documentato con abbondanza di dati (non solo in Italia) la concentrazione della ricchezza in mano di pochi e l’impoverimento relativo della classe media. «Il reddito che spetta ai lavoratori viene espropriato in una misura che avrebbe scioccato persino Karl Marx», scriveva nel lontano marzo del 1996 il «New York Times». La quota dei redditi da lavoro sulla ricchezza nazionale si è ridotta ovunque in modo impressionante. Nel caso italiano poi il passaggio all’Euro ha aggravato ulteriormente la situazione, con il raddoppio di fatto dei prezzi al consumo mentre salari e stipendi restavano allo stesso livello dei tempi della lira.

Oggi, di fronte al dramma sociale della crisi e ai problemi di mercato delle imprese l’opposizione parlamentare chiede misure forti di sostegno dei redditi. Verrebbe da dire: dove eravate quando avvenivano quegli impressionanti spostamenti di ricchezza? A sostenere la vulgata corrente sulla “sovranità del consumatore” (a debito), sui prezzi che dovevano scendere per effetto delle liberalizzazioni come se il basso costo di una merce non lo stesse pagando in termini salariali qualcuno da qualche parte del mondo (Italia compresa).
Bastava fare un sforzo di analisi per capire che questa corsa al ribasso in nome del consumatore prima o poi sarebbe finita perché il Consumatore – con la C maiuscola – era anche un lavoratore, un impiegato, un percettore di reddito fisso.
E bastava non credere all’altra favola di “quelli-che-la–globalizzazione-risolve-tutto” e cioè che la formazione di classi medie in paesi in pieno sviluppo come Cina, India o Brasile avrebbe potuto compensare, sul piano dei consumi e quindi dell’assorbimento della capacità produttiva, l’impoverimento relativo dei lavoratori dei paesi ricchi.

Ecco perché la crisi sarà lunga e di difficile soluzione e perché salvare le banche – intervento ovviamente giusto per evitare il baratro – non ha impedito un suo aggravamento e i timori di una deflazione…

Ford negli anni Venti aveva trovato una soluzione, gli alti salari, ma allora non c’erano la globalizzazione e i cinesi…

Oggi bisogna inventarsi qualche altra cosa – come sta appunto tentando di fare Obama – ma il problema non è molto diverso da quello di allora, adesso che i consumatori, ritornati a essere, come d’incanto, di nuovo lavoratori non hanno i soldi per esercitare la loro sovranità e per far girare l’economia… (Beh, buona giornata).

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L’assegno di disoccupazione non piace alla maggioranza al governo, ma piace alla maggioranza degli elettori.

di Renato Mannheimer da corriere.it

E’ opportuno rendere disponibile a tutti coloro che perdono il lavoro, in questo difficile periodo di crisi economica, un assegno di disoccupazione? La proposta, avanzata qualche giorno fa dal neosegretario del Pd, Franceschini, ha suscitato molte reazioni, di diverso segno. Il presidente del Consiglio l’ha decisamente rigettata, definendola incompatibile con l’attuale situazione dei conti pubblici e, per di più, possibile stimolo per ulteriori licenziamenti. Accanto a questa posizione, ne sono però emerse altre più concilianti. C’è chi, ad esempio, si è dichiarato favorevole all’idea della distribuzione di un sussidio ai disoccupati, sottolineando tuttavia che attualmente sono già previsti, in caso di perdita del posto di lavoro, una serie di ammortizzatori e che quindi l’effetto dell’assegno è già in larga misura realizzato. E c’è, infine, chi ha aderito in toto o quasi alla proposta, ricordando anche come essa potrebbe essere una buona occasione per semplificare e mettere ordine ai molteplici — ma spesso confusi — benefici previsti dalle attuali normative. Sin qui le opinioni dei commentatori. Ma è interessante, anche in questo caso, conoscere il giudizio della popolazione. Che non è spesso in grado, nella sua maggior parte, di effettuare complesse e delicate valutazioni di carattere economico, ma che può — e in certi casi deve — costituire un punto di riferimento per le scelte politiche.

Interpellati al riguardo, gli italiani si dividono in due segmenti, entrambi di grandi dimensioni. Il primo, decisamente più ampio, è rappresentato da chi si dichiara favorevole alla proposta di Franceschini: il 60% della popolazione, con significative accentuazioni tra gli strati più deboli: le donne, gli anziani, chi risiede al Sud. Il secondo, pari al 37%, è costituito dai contrari, per diversi motivi, all’idea avanzata dal segretario Pd. La differenza di opinione, naturalmente, è determinata soprattutto dall’orientamento politico. Ne consegue un molto maggior consenso tra gli elettori del centrosinistra (78% di parere favorevole dei votanti del Pd, 68% tra quelli per l’Idv). Ma si rilevano percentuali assai elevate di approvazione anche nell’Udc (57%) e perfino nei partiti di governo (42% tra i votanti del Pdl, 38% tra gli elettori della Lega). Insomma, il consenso all’assegno mensile per chi perde il lavoro appare abbastanza trasversale e presente — in misura minoritaria ma consistente — anche all’interno dell’elettorato del centrodestra.

Ciò che cittadini e osservatori apprezzano maggiormente nella proposta è la semplicità e generalizzabilità a tutti. Che permetterebbe tra l’altro — come ha efficacemente sottolineato sulla Stampa Luca Ricolfi — di combattere gli abusi e le arbitrarietà che connotano oggi frequentemente la distribuzione dei sussidi di disoccupazione. Resta il fatto che, come tutti sanno, lo stato attuale dei nostri conti pubblici sembra rendere problematica l’attuazione di proposte, sia pur attraenti, come quella di Franceschini. A meno di una riforma organica di tutto lo scenario degli ammortizzatori sociali. (Beh, buona giornata).

Renato Mannheimer

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Il ballo del mattone.

di ROSA SERRANO da repubblica.it

Quanto è cresciuto in questi anni il patrimonio abitativo italiano? Quanti metri cubi di cemento si sono posati uno sull’altro per venire incontro alla richiesta di case delle famiglie italiane? E soprattutto, questo bisogno è stato alla fine soddisfatto? Alla vigilia della nuova “rivoluzione del mattone” annunciata dal presidente del Consiglio, cerchiamo di dare qualche risposta, di diradare qualche dubbio. E come prima cosa, scopriamo che dal 2000 ad oggi il flusso di nuove abitazioni costruite ogni anno si è fatto via via sempre più impetuoso. Il dato ci viene fornito dal Cresme: nel 2000 erano 159 mila. Lo scorso anno quasi il doppio: 287.000 (che salgono a 323 mila se includiamo gli ampliamenti di edifici esistenti). Un balzo di oltre l’80 per cento, che sarebbe stato anche maggiore se nel 2008 non si fosse registrata una lieve flessione.

L’Agenzia del territorio non fa che confermare questo boom pluriennale del mattone: tra il 2003 e il 2007 il patrimonio residenziale complessivo (cioè lo stock esistente) è salito da 28,8 milioni di abitazioni a 31,4: 2 milioni 600 mila in più. Metà di questo aumento è concentrato al Nord. Il resto se lo dividono Centro e Mezzogiorno con una prevalenza di quest’ultimo, dove lo stock è salito di 700 mila unità.

Malgrado l’ultimo rallentamento creato dalla crisi economica, si è tornati a costruire allo stesso ritmo degli anni ’80, decennio che conobbe il primo grande condono edilizio, quello deciso da Bettino Craxi. Seguìto dalle due sanatorie di Berlusconi e dalla legge “padroni a casa propria”, che oggi il premier vuole in qualche modo riprendere ed estendere dalle ristrutturazioni interne alle cubature esterne.

Di fronte a questo rinnovato e duraturo boom edilizio, ci si aspetterebbe di veder soddisfatta gran parte della fame di abitazioni delle famiglie italiane, ancora non proprietarie. Invece no. Sentiamo quello che ci dice l’associazione dei costruttori, l’Ance, in un suo report. Nel quadriennio 2003-2007 sono stati rilasciati permessi per costruire 1,2 milioni di alloggi a fronte di un fabbisogno abitativo proveniente da nuove famiglie di circa 1,5 milioni di case. Insomma, alla fine ci sono 78 abitazioni per 100 nuove famiglie. Cosa significa questo? Che bisogna costruire ancora di più? In realtà, finora si è costruito moltissimo per il mercato (sempre più ricco) e pochissimo per l’edilizia popolare. Al rilancio di quest’ultima ora punta il Piano Casa che il governo ha sbloccato ieri l’altro con le Regioni. Si cerca in altre parole di intercettare quelle fasce deboli di famiglie tagliate fuori in tutti questi anni dai prezzi inaccessibili e dalla stretta creditizia che ha drasticamente ridotto il ricorso ai mutui soprattutto da parte di giovani o immigrati. Ma tagliate fuori anche da una scarsa offerta di case in affitto a canoni possibili. Chi contesta, come gli ambientalisti, il ricorso a nuove costruzioni, ricorda a questo proposito il fenomeno delle case sfitte. Secondo una recentissima ricerca del Sunia, a Roma sono oltre 245.000 su 1,7 milioni di abitazioni; a Milano 81.000 su 1,6 milioni.

Oltre al piano di edilizia popolare che il governo cerca di legare a una maggiore offerta di affitti a basso prezzo, resta da capire se e in che misura la “liberalizzazione edilizia” che Berlusconi si appresta a presentare (con libertà di ampliare, di demolire e di ricostruire case) verrà incontro alle esigenze delle famiglie attraverso il recupero del patrimonio abitativo esistente, o se verrà utilizzato solo per nuove speculazioni edilizie. (Beh, buona giornata).

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La crisi economica e il nostro governo.

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it

L’industria americana dell’auto è moribonda. Le grandi banche americane traballano malgrado robuste iniezioni di liquidità e con loro traballano le grandi assicurazioni pubbliche. Le banche dell’Est europeo agonizzano coinvolgendo le loro finanziatrici austriache, svedesi, tedesche, britanniche. Traballano anche alcuni Stati sovrani dentro e fuori Eurolandia: Lettonia, Ucraina, Grecia, Irlanda, l’emirato di Dubai. Le Borse crollano in tutti i paesi occidentali e in Giappone. Il credito è ingolfato. “I messi di sventura piovon come dal ciel”.

In questa generale catastrofe c’è un’isola felice, l’Italia. Banche solide, risparmio privato abbondante, debito pubblico elevato ma sotto controllo, governo lungimirante. “Adelante Pedro, con juicio”. Berlusconi è il secondo dopo Dio e Tremonti il suo profeta. Il futuro è terra incognita ma il presente è terra solida.

Negli ultimi giorni, per ricostruire una fiducia latitante, il governo ha sparato una raffica di cifre da mozzare il fiato, una mitragliata di provvedimenti, un esempio inimitabile di prudenza, saggezza, audacia ed esperto coraggio. Gli altri annaspano, Obama compreso, ma noi sappiamo dove andiamo.

Una sola ruota non funziona: una stampa allarmista, una tivù pubblica che critica il governo, un’opposizione blaterante, un sindacato all’insegna del tanto peggio-tanto meglio.

Non fosse per quest’elemento impazzito, l’ingranaggio marcerebbe a meraviglia e il sistema Italia potrebbe ambire legittimamente ad una leadership europea. Mondiale no, anzi non ancora, ma non mettiamo limiti alla divina provvidenza. Domani del resto papa Ratzinger benedirà Roma dal balcone del Campidoglio con a fianco il sindaco Caltagirone. Chiedo scusa, il sindaco Alemanno.

Insomma qui, nel paese-giardino della Chiesa, tutto va nel migliore dei modi.

* * *

Le cifre sono sbalorditive. Vediamole. I miliardi di euro mobilitati erano due mesi fa 140. Dei quali 80 immediatamente disponibili. Di questi la metà si è persa per strada ma 40 sono rimasti in linea ed il loro impiego (triennale) si sta ora discutendo.

Non si è capito bene se si parla di competenza o di cassa. Sembrerebbe piuttosto la prima che non la seconda. La cassa infatti è praticamente vuota: le entrate correnti sono in calo (vistoso), il fabbisogno del Tesoro è in aumento, l’avanzo primario al netto degli interessi sul debito si è dimezzato. Ma queste sono quisquilie, pinzellacchere come scrivevano gli umoristi del “Bertoldo” e del “Marc’Aurelio” settant’anni fa.

Certo c’è anche per noi qualche cattiva notizia. Per esempio il pil del 2008 ha registrato un regresso dell’1 per cento sull’anno precedente. Tremonti non lo sapeva, l’ha letto sui giornali.

Per il 2009 la recessione (si chiama così) sarà maggiore: – 2,6. Qualcuno più pessimista parla di – 3. Qualcun altro più pessimista ancora di – 4. Tocchiamo legno. Pressione fiscale al 43,5. Debito pubblico al 110 per cento sul pil. Ma, ripetiamolo, non è su questi tavoli che si gioca la partita. La Cassa integrazione è aumentata del 550 per cento rispetto all’anno precedente, segno che l’Italia è un vero paese industriale e che la Cassa ha i denari sufficienti a reggere l’ondata di crisi. L’ondata aumenterà nelle prossime settimane? Tranquilli: Tremonti ha già costruito argini robusti per contenere la piena.

* * *

Eccoli dunque, quegli argini. Cominciamo coi Tremonti-bond: dodici miliardi a disposizione del sistema bancario. Costo per le banche tra l’8 e il 9 per cento. Le banche emettono, il Tesoro acquista e ne ricava il 4 per cento di utile. Insomma ci fa un affare. Le banche no. A che cosa servono? A rafforzare il patrimonio. Facendo debito a condizioni onerose. Con l’obbligo di erogare crediti alle piccole e medie imprese. I prefetti vigileranno all’adempimento.

Nel frattempo alcune imprese assicurative e bancarie hanno emesso obbligazioni al 4 e mezzo per cento, coperte in poche ore da un vasto pubblico di sottoscrittori. Per cui non si vede a che cosa servano i Tremonti-bond. Il ministro del Tesoro ha detto che tre grandi banche avevano prenotato i tre quarti della cifra stanziata. Tre giorni dopo Berlusconi lo ha corretto dicendo che solo una banca aveva manifestato interesse e che comunque non era quella la vera linea di resistenza contro la crisi. Chi dice il vero, il premier o il Tesoriere?

Il premier non gradisce i toni spesso drammatizzanti del Tesoriere e lo ha pubblicamente redarguito. Il Tesoriere ha prontamente rettificato. La colpa è dei giornali, non puoi sbagliarti.

La vera linea di resistenza è un’altra: 17,8 miliardi per infrastrutture e questa sì che è una buona notizia. Deliberati dal Cipe, copertura in parte con stanziamenti già previsti in Finanziaria e in parte provenienti dai fondi per le aree sottosviluppate (Fas) in mano alle Regioni. Le quali, per mollare una parte del malloppo, hanno ottenuto che fosse destinato anche agli ammortizzatori per i precari. Così è stato: quattro miliardi ai precari licenziati e il resto a Matteoli, ministro delle Infrastrutture e vicesindaco della fatidica Orbetello.

Però la cifra vera non è quella. Per il 2009, l’anno orribile, le somme stanziate dal Cipe nelle due sedute del 18 dicembre e del 6 marzo ammontano a 12,3 miliardi, ai quali ne vanno aggiunti 2,1 già stanziati nella Finanziaria di settembre. Ma 3,6 miliardi vanno invece sottratti perché destinati a spese correnti (ferrovie e traghetti). La cifra netta non è dunque di 17,6 ma di 10,8 miliardi. Per aprire cantieri. Matteoli dice che saranno aperti entro sei mesi e dunque se ne parlerà ai primi di settembre. Ma c’è cassa? Sembra di no. Sembra che la cassa sia a secco. Per fare cassa di questi tempi c’è un solo modo: emettere Bot. Aumentando lo stock del debito.

Pazienza. Ma i cantieri? A settembre ne apriranno alcuni, quelli più piccoli. Valutazioni attendibili parlano di un 20 per cento della cifra totale, cioè un paio di miliardi. Magari tre se va molto bene. Per il resto se ne parlerà nel 2010. Il ponte di Messina? Non è roba da fare subito. L’autostrada Civitavecchia-Cecina? Se ne parlerà nel 2013. La Salerno-Reggio? Sono vent’anni che si sente questo nome; un bello spirito ha detto: “Se la risento nominare metto mano alla pistola”. Volete dargli torto?

* * *

Pare che il premier abbia in mano altri 9 miliardi e Tremonti altri 13. Da dove vengono? I nove sono fondi già stanziati e attribuiti a quattro diversi ministeri, rastrellati ora dai loro bilanci e unificati. I quattro ministri, tra i quali Scajola e Prestigiacomo, hanno strillato come aquile ma poi, come sempre, si sono acquietati.

I 13 miliardi sono della Cassa depositi e prestiti. Verranno destinati a finanziare progetti di privati costruttori. Tra i quali pensiamo ad Alemanno. Mi scuso: volevo dire a Caltagirone. Ma anche a garantire prestiti bancari alle Pmi (Piccole e medie imprese).
Questo governo adora garantire sperando così di fare le nozze con i fichi secchi: debiti di firma, se ci fosse un patatrac dovrebbe sborsare denari sonanti, ma fin quando non ci sarà si fa bella figura senza sborsare un centesimo. Quando si dice creatività!

Per questa ragione Berlusconi rifiuta la proposta di Franceschini per assicurare uno stipendio minimo ai precari che perdono il lavoro. A conti fatti quella proposta costerebbe meno di 5 miliardi ma quelli sì, bisognerebbe sborsarli subito. Quindi non va bene.
Conclusione: gli argini veri non ci sono. Ci sono promesse e garanzie. Se una, una sola di quelle garanzie venisse escussa, il finto argine verrebbe giù tutto insieme. Parole parole parole: Mina di quarant’anni fa. Berlusconi da sempre. L’Italia, un’isola felice. Se non esce il rosso uscirà il nero o viceversa. Se Obama non dovesse farcela sarebbero serissimi guai e per noi peggio di tutti.

Post scriptum. Berlusconi si è quotato per 100 milioni da versare al fondo per la ricostruzione di Gaza che entrerà in funzione quando sarà fondato lo Stato palestinese. I giornali italiani di bandiera hanno dato grande risalto a questa presenza italiana. Mi domando in quale Paese viviamo. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Società e costume

“I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione – o trasvalutazione – dei valori.”

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

C’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene si assottigli, e in particolare il bene comune. Che le virtù si faccian rare: in particolare quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da istituzioni e costituzioni durevoli ma discusse. Sono i tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere dei valori, come ebbe a scrivere Carl Schmitt nel breve saggio del 1960 intitolato La Tirannia dei Valori (Adelphi, 2008). Salvare i valori da questi sbandieramenti è urgente, perché è pur sempre in nome di principi e valori che la stortura andrà corretta.

Tempi simili son dichiarati cinici, nichilisti. In genere son colorati di nero. Enzo Bianchi, in un testo scritto su La Stampa dopo la morte di Eluana, li chiama tempi cattivi, da cui usciamo non concordi ma più divisi (15-2-09). Tempi in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il suo sapore e però diventa molto salato, corrosivo. Può accadere addirittura che s’unisca al salace, producendo strane misture di gossip, lascivia e moralismo. Negli Ultimi Giorni dell’Umanità, Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della Guerra ’14-’18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta e cieca.

Non è diversa la crisi che viviamo, e di sicuro s’aggraverà man mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Come custodire in tali condizioni il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano a mala pena o non controllano affatto, essendosi affidati alle illusorie forze degli Stati-nazione? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa il presidente del Consiglio in Italia: prima negando la crisi, poi accusando i media d’ingigantirla evocando tragedie, sempre usando i valori come diversivi. I valori sono già oggi e diverranno sempre più lo strumento per governare con magniloquenza e distrarre l’attenzione da sfide vere, mal comprese e mal spiegate. Prendono il posto del mistero che ci oltrepassa, s’impongono con rigide gerarchie: ci sono valori superiori, e poi più giù valori inferiori o perfino disvalori. Al disastro dell’impotenza, a una politica incapace di reinventare linee divisorie, si replica con ferree graduatorie: ogni schieramento pretende d’esser custode dei valori supremi, relegando l’avversario nelle terre dei disvalori. Facendo garrire i valori, nessun mistero ci oltrepassa: invece della crisi, si parla d’altro.

Non sono in questione solo la morte e la vita, come nel caso Englaro. I valori in blocco, cioè l’insieme di virtù e beni, vengono tramutati in espediente, in trucco che distrae. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, la moderazione del dialogo politico non sono in sé squalificati: restano beni essenziali, per la costituzione e il cittadino. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati a fini di potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Il potere, innalzato a fine, non li serve ma se ne serve per affermarsi e negare l’avversario.

I valori come assillo che finisce col distruggere quel che si vuol restaurare non sono una novità. Apparvero nell’800, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per Dio. Oggi tornano in auge, come strumento di lotta all’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Secondo Kant ad esempio, sono le cose ad avere un valore (le si fanno valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili) mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una dignità che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no. Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, e non è un caso che il Concilio Vaticano II – con il suo desiderio di vedere la realtà da più punti di vista – sia considerato da tanti un impedimento. Ci sono parole di Giovanni XXIII difficilmente immaginabili oggi: «Qualcuno dice che il Papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì, del bene: ma già, io non so distaccarmi naturalmente, a mio modo, dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che diffondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento». L’arroganza dei valori è da anni prerogativa della destra, ma non sempre fu così. Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».

I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione – o trasvalutazione – dei valori. Fin quando sono fini, essi devono costantemente confrontarsi con valori non meno possenti, se vogliono generare regole condivise da chi – pur discordando – deve pur sempre convivere. Se vogliono evitare l’antinomia, che è lo scontro fra norme egualmente primarie ma diverse. Per proteggere il fine, devono scendere a patti. Le costituzioni sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi morali in conflitto tra loro ma egualmente preziose, da preservare una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a dominare la propria morte). Quando invece i valori sono espedienti, possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: qui è la loro possibile tirannia. Se i valori sono un fine, i mezzi vanno adattati alla loro molteplicità. Se cessano di esserlo, lo scontro si fa feroce e il valore vincente assurge a valore non solo supremo ma unico. Forse per questo esistono pensatori e filosofi non minori che diffidano della parola valore, preferendo parlare di principi, beni o norme.

La crisi economica che traversiamo è tragica, checché ne dica il presidente del Consiglio, proprio perché il politico per padroneggiarla converte i fini in mezzi e viceversa. Perché svaluta valori o li assolutizza, capricciosamente servendosene. La crisi attualizza più che mai quel che Marx scriveva nel Manifesto: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il “puro rendiconto”.(…) Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, e alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili».

Il valore unico, come il pensiero unico, taglia le ali a altri valori e non preservandoli crea squilibri. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. La scorsa settimana ne abbiamo avuto un esempio. Venuto da fuori, straniero al comune sentire come i persiani delle Lettere di Montesquieu o il bambino di Andersen che scopre il re nudo, un allenatore di calcio (José Mourinho, dell’Inter) ha denunciato la «grandissima manipolazione dell’opinione pubblica», la «prostituzione intellettuale» di tanti giornali, il «pensare onesto» che in Italia fatica a guardare i fatti e s’abbarbica a idee preconfezionate. Ad ascoltarlo c’era da trasecolare: Mourinho sembrava parlasse non del calcio, ma dell’Italia tutta. Subito è stato zittito in nome dei sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire avversari o magistrati. Toni bassi abbandonati senza pudore, ogni volta che fa comodo al capriccio dei potenti. (beh, buona giornata).

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Crisi globale: “ci muoviamo in direzione di un cambiamento delle priorità del sistema economico o per restaurare la dominanza delle vecchie posizioni di rendita?”

di Tommaso De Berlanga-Il Manifesto.

Il più attento analista del capitalismo britannico – Martin Wolf, sul Financial Times – mette in dubbio la sensatezza dell’attuale strategia di intervento del governo inglese nel salvataggio del sisema bancario “basato in Gran Bretagna” (ma con infinite propaggini in tutto il mondo). Così procedendo, infatti, lo stato si va trasformando in “assicuratore di ultima istanza”. Ma con diversi problemi. Molto concreti.

Al 31 dicembre 2008, infatti, il patrimonio totale del sistema bancario assommava a quasi 9.000 miliardi di euro, cinque volte e mezzo il pil d’Albione. Soltanto gli asset di Royal Bank of Scotland (di fatto ormai nazionalizzata) valevano in quel momento il 166% del pil. L’ultima tegola su Gordon Brown è solo di ieri: i Lloyds non ce la fanno a incorporare Hbos, altra enorme banca internazionale battente bandiera inglese, e lo stato potrebbe essere costretto a prendere una partecipazione di quasi il 70% dell’istituto risultante da questa mega-fusione. Accollandosi anche l’”assicurazione” di circa 300 miliardi di euro in titoli tossici.

Molto semplicemente, queste cifre non sono nelle disponibilità dello stato britannico. Che si espone così a un rischio sistemico diverse volte più grande di se stesso. La metafora usata da Wolf è del resto pertinente: un pitone che ingurgita un ippopotamo.

Negli Usa o in Germania si va fin qui procedendo su una strada simile, al di là delle misure nazionali elaborate. Al dunque, questo intervento pubblico si concretizza nell’accollare ai contribuenti ogni perdita possa ancora verificarsi, senza alcuna contropartita reale (non è detto, infatti, che queste banche così generosamente salvate continuino ad operare come prestatori al sistema delle imprese e alle famiglie).
Con l’aggravante, spiega il recente Nobel per l’economia, Paul Krugman, che quando ad esempio l’amministrazione Obama prova davvero a mettere le mani sulle “disfunzioni bancarie”, si mostra in realtà troppo esitante. Favorendo così l’opposizione conservatrice (e le relative lobby) che non vuole condizionamenti pubblici all’iniziativa economica privata, a dispetto dello scatafascio che ha lasciato dopo 30 anni di neoliberismo.

Non c’è dunque soluzione? Sul piano strettamente economico si tratta di stabilire chi è che paga per i debiti accumulati: se gli azionisti delle istituzioni finanziarie a rischio fallimento oppure i contribuenti (ovvero, soprattutto il lavoro dipendente e i pensionati). Se gli stati prendono “partecipazioni” nelle banche e nelle assicurazioni “a prezzo di mercato”, accollandosi anche la garanzia di prodotti “derivati” ormai senza valore, la crisi viene fatta pagare a chi non ne è stato responsabile. Se, invece, lo stato – meglio ancora una comunità di stati, come l’Unione europea – prende possesso delle banche mediante espropriazione senza indennizzo, allora il cumulo di debiti viene fatto scontare a chi l’ha materialmente e immaterialmente messo insieme: finanzieri, speculatori, gestori del risparmio, ecc.

Neppure questa è una soluzione indolore per lavoratori e pensionati (basti pensare all’imposizione criminale dei “fondi pensione privati” come destinatari del tfr), ma non li vede in prima fila tra i donatori di sangue e – soprattutto – mette le basi per la ricostruzione di un sistema del credito globale funzionale alla riproduzione sociale. E non, com’è stato da Reagan in poi, viceversa.

Da questa crisi – ci dicono tutti – non si uscirà uguali a prima. Bene, si tratta allora di fare una scelta di natura politica (e sociale), non astrattamente “tecnica”: ci muoviamo in direzione di un cambiamento delle priorità del sistema economico o per restaurare la dominanza delle vecchie posizioni di rendita? (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Dal “tesoretto” al “gruzzoletto”

«C’è un gruzzoletto per gli ammortizzatori sociali» oltre agli 8 miliardi già annunciati (già, annunciati!).Tremonti dixit. Senza precisare quale potrebbe essere lo strumento attraverso cui reperire le risorse (altro annuncio?!). Beh, buona giornata.

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