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Fmi decide a tavolino che ci sono segnali di ripresa economica.

Crisi, recessione, ripresa/ Draghi, Geithner, Zhou, Tremonti: c’è ancora, ma quasi non c’è più da blitzquotidiano.it

Riuniti a Washington, nella sede dell’Imfc, braccio operativo del Fondo monetario internazionale, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha detto: “Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un modesto recupero di fiducia sul mercato. Sembra che gli scenari peggiori sulle prospettive dell’economia globale e del sistema finanziario non siano più così centrali nel pensiero dei partecipanti al mercato”.

Secondo l’agenzia di stampa Agi, Draghi ha detto che il miglioramento di clima “offre una finestra di opportunità unica sia per le azioni a breve termine tese a stabilizzare le istituzioni e promuovere l’espansione del credito sia per realizzare misure tese a rafforzare il sistema nel lungo periodo”.

Ha proseguito Draghi: il nostro obiettivo principale è rompere il circolo vizioso che si è instaurato tra il sistema finanziario e l’economia reale”. In questa direzione, ha sottolineato il governatore, “un punto chiave” è “ripulire i bilanci delle istituzioni finanziarie”. Dal canto loro, “le autorità hanno adottato un’ampia gamma di misure per iniettare capitale nelle banche, garantire i loro obblighi e ridurre o rimuovere la loro esposizione verso gli asset tossici”.

L’obiettivo finale di queste azioni, ha osservato ancora Draghi, è “creare un contesto in cui le banche siano in grado di ripulire i loro bilanci attraverso una crescita sostenibile dei profitti e raccogliere il capitale di cui hanno bisogno dal mercato privatoa un costo relativamente bassi”. Ciò, ha aggiunto Draghi,”significa anche fornire sufficiente trasparenza sulle esposizioni a rischio per consentire al mercato di distinguere tra banche deboli e banche forti e ridurne le incertezze”.

“Parte centrale di questo processo”, ha affermato il governatore, sono gli stress test, che rappresentano “uno sforzo per migliorare la trasparenza”. Proprio gli stress test negli Stati Uniti sono stati uno degli argomenti al centro della riunione, anche se, ha detto Draghi, se ne è parlato in termini generali senza andare nel dettaglio dei risultati dei singoli istituti.

Draghi però ha anche detto che la situazione di capitale delle banche italiane è positiva. ”Conduciamo regolarmente stress test: se avessero rilevato situazione di sottocapitalizzazione, l’autorità di vigilanza avrebbe reagito”.

Alla riunione del Fondo c’era anche il segretario al Tesoro americano, Timothy Githner. Ha detto: la ripresa economica negli Stati Uniti non è dietro l’angolo, anche se il peggio è forse ormai alle spalle. ”L’economia statunitense ha di fronte sfide serie e ci vorrà tempo perché i fondamentali migliorino”. Geithner non ha comunque mancato di sottolineare che “ci sono alcuni segnali positivi e gli sforzi per stabilire la stabilità del mercato finanziario e stimolare la crescita sono ben avviati”. Insomma, gli Usa “stanno facendo la loro parte ma siamo consapevoli”, ha concluso Geithner, “che la nostra ripresa dipendera’ da quella mondiale”.

C’era anche il presidente della Banca Centrale Cinese, Zhou Xiaochuan. La Cina, ha detto è nelle condizioni di poter mantenere un ritmo di crescita stabile e relativamente elevato. Zhou ha affermato che i trend di crescita cinesi non cambieranno nel lungo termine e che il governo di Pechino continuerà a portare avanti le politiche fiscali e di espansione monetaria adeguate a rispondere alla crisi.

E c’era anche il ministro dell’Economia italiano Giulio Tremonti: ”Sul fronte dell’occupazione non sono in vista nuovi interventi”, ha detto. “La base di riferimento è il recovery plan europeo. Riteniamo che quanto messo in campo sia sufficiente. Se servirà altro lo metteremo in campo”. (Beh, buona giornata).

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Chrysler sbaglia, i lavoratori pagano. Ecco un altro bell’esempio di come si vuole uscire dalla crisi globale.

Accordo nella notte tra Chrysler e i sindacati canadesi, nuovo passo verso il via libera all’accordo con Fiat. I lavoratori degli stabilimenti del Canada rinunciano a benefit per un risparmio totale di 240 milioni di dollari all’anno. Ora rimane da sciogliere il nodo delle banche. Gli istituti vantano crediti per 7 miliardi di dollari e si sono visti proporre il pagamento di un solo miliardo. Il termine ultimo per raggiungere l’accordo con Fiat è fissato al 30 aprile. Ma già il 29 in un discorso alla nazione, Barak Obama farà capire se ci sono le condizioni per l’alleanza. Beh, buona giornata.

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Dopo il G20 di Londra, il G8 in Italia serve a niente. Infatti, diventa uno spot elettorale per il governo italiano.

Il G8 si terrà all’Aquila. Il Consiglio dei ministri, riunito nel capoluogo abruzzese, ha deciso di spostare la sede della riunione degli otto Grandi della Terra, prevista per luglio, dall’isola della Maddalena, in Sardegna, all’Aquila.

“La decisione politica è stata presa – ha detto il ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli – ora naturalmente il presidente del Consiglio deve consultare tutti i capi di Stato” invitati. La proposta raccoglie già i consensi, anche se cauti, del Pd e dei sindacati.

Parere positivo da Londra e Washington. “La decisione spetta all’Italia e la Gran Bretagna assicura piena disponibilità”, fa sapere un portavoce di Downing Street, Lynn Eccles. Sulla stessa linea le reazioni da Washington, per l’alto valore simbolico e la commozione per la tragedia che ha colpito l’Abruzzo. Beh buona giornata.

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Crisi globale: “Il lavoro da fare in questa direzione sarà davvero durissimo, perché in questi mesi il mondo sta davvero cambiando e nessuno sarà comunque disposto a cerderci il passo.”

La ripresa verrà, ma nulla sarà come prima

di Romano Prodi- da Il Messaggero del 19 aprile 2009

Se si ragiona sui freddi dati bisogna necessariamente constatare che l’economia mondiale è ancora in recessione. Il suo tasso di sviluppo è ancora negativo, il commercio globale mostra anch’esso il segno meno e l’unico dato col segno positivo è purtroppo quello della disoccupazione.

Eppure, anche se ancora piove a dirotto, non si possono trascurare alcuni segnali che possono fare pensare che la grande crisi, anche se ancora lungi dall’essere risolta, stia entrando in una fase di minore turbolenza.

Il primo segnale è puramente politico. Pur non avendo preso nessuna decisione straordinaria, la riunione dei G20 tenuta a Londra all’inizio di Aprile, ha dimostrato che nel mondo si è ricostituito un possibile nucleo di comando. Il fatto che attorno allo stesso tavolo fossero seduti gli Stati Uniti, la Cina e, seppure in modo più defilato, l’Unione Europea, ha mandato a tutti il messaggio che si sta ricostituendo la struttura di comando di cui vi era assolutamente bisogno. Da una crisi anarchica stiamo cioè passando ad un mondo in qualche modo governato.
Anche all’interno delle grandi aree economiche mondiali la paura sta lentamente diminuendo, lasciando, di fronte ad azioni in grado di poterla contrastare.

L’area che sembra essere più avanti in quest’azione di contrasto è certamente la Cina dove le centinaia di miliardi di dollari di potere d’acquisto iniettate nel sistema economico durante gli ultimi mesi, stanno dando i primi frutti, che si sono tradotti in un sostanzioso aumento della produzione industriale e degli ordinativi delle imprese.

Il secondo messaggio (non così positivo ma almeno di minore pessimismo) arriva dagli Stati Uniti, dove gli ultimi dati di alcune grandi realtà economiche, come Citigroup e General Electric, sono meno negativi delle previsioni. La fiducia dei consumatori non potrà riprendersi in modo stabile se gli americani non verranno liberati dalle tre grandi paure da cui sono ancora afflitti , e cioè la paura di perdere le case in conseguenza delle ipoteche non pagate, di vedere i propri fondi pensione decurtati dalla crisi finanziaria e, infine la paura di ammalarsi da parte dei 50 milioni di cittadini che non sono ancora coperti da alcun tipo di assicurazione contro le malattie.

Per tutti questi motivi, e non solo per l’iniezione di capitale pubblico nelle banche, è diventato ormai un luogo comune ripetere che l’uscita dall’emergenza economica passa più dalla Casa Bianca che non da Wall Street. Tale uscita, infatti, deve essere forzatamente accompagnata dalla messa in atto di quella grande innovazione sociale che stava alla base del programma elettorale di Obama.

Più pallidi sono i segnali provenienti dall’Europa, sia per la mancanza di una politica comune a livello continentale, sia per la divergenza delle situazioni dei singoli Paesi europei. Tuttavia non possiamo trascurare il fatto che la caduta si sia molto rallentata anche da noi e che in alcuni settori, come quello dell’automobile, le politiche di incoraggiamento alla domanda abbiano dato frutti certamente incoraggianti e, in ogni modo, assai più positivi rispetto alle previsioni.

Naturalmente quest’elenco di dati meno catastrofici rispetto a qualche settimana fa non ci deve fare dimenticare che non solo il reddito e la produzione ma anche gli ordini alle imprese e i dati sull’occupazione continuano a manifestare un segno pesantemente negativo, anche se meno negativo di un mese fa.

Queste considerazioni però sono sufficienti per dirci che la ripresa nel mondo verrà. Probabilmente dopo l’estate ma verrà. Ma verrà con una radicale redistribuzione del potere fra i diversi Paesi e le diverse classi sociali. Credo perciò che dovremmo impiegare i prossimi mesi non tanto a fare previsioni, quanto invece a preparare le nostre imprese e la nostra società a svolgere un ruolo da protagonista in questo nuovo mondo. Il lavoro da fare in questa direzione sarà davvero durissimo, perché in questi mesi il mondo sta davvero cambiando e nessuno sarà comunque disposto a cerderci il passo. Il posto nel mondo ce lo dovremo conquistare noi.

Prepariamoci quindi a pensare a cosa dovremo fare per conquistarlo. (Beh, buona giornata).

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Secondo Fmi l’Italia è nei guai fino al collo. Con buona pace del populismo di Berlusconi e i trucchetti contabili del rag.Tremonti.

Notizie pessime per l’Italia. Nel nostro Paese, dopo un 2009 di profonda recessione, non ci sarà crescita positiva nemmeno nel 2010 con un fortissimo appesantimento dei conti pubblici e del debito.

Secondo il Fondo Monetario internazionale (Fmi) di Washington quest’anno l’Italia registrerà un calo del Pil del 4,4%, che sarà seguito da un altro calo, dello 0,4%, nel 2010. Le stime sono sostanzialmente in linea con quelle stilate alla fine di marzo dall’Ocse (pari rispettivamente a -4,3% e a -0,4%) ma decisamente più pessimistiche di quelle presentate dal governo in occasione dell’aggiornamento del programma di stabilità (-2% e +0,3%).

In Italia il deficit di quest’anno salirà a livelli molto superiori rispetto a quelli richiesti dal trattato di Maastrich (5,4%) per poi salire ancora al 5,9% l’anno prossimo. Importanti anche le ricadute sul debito pubblico che, in rapporto al Pil, cresce dal 105,8% del 2008 al 115,3% per poi salire ancora al 121,1% nel 2010 e al 129,4% nel 2014.

Per il nostro Paese gli spazi per politiche di stimolo dell’economia proprio alla luce del suo elevato debito pubblico sono “quasi inesistenti”. Notizie nere anche per il lavoro con un forte aumento del tasso di disoccupazione che dal 6,8% della forza lavoro del 2008 salirà quest’anno all’8,9% per passare al 10,5% nel 2010. Beh, buona giornata.

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Crisi o non crisi, in Italia ci sono sempre due milioni e mezzo di poveri.

Quasi 2 milioni e mezzo di persone, il 4% dell’intera popolazione, vive in Italia in condizioni di povertà assoluta.

Lo rileva l’Istat nel rapporto sulla povertà nel 2007. Nulla è cambiato fra il 2005 e il 2007.

L’incidenza di povertà assoluta è rimasta stabile, e immutate sono anche le caratteristiche delle 975 mila famiglie povere: le più numerose, con tre o più figli, dove il capofamiglia è dissocupato e ha abbandonato la scuola dopo la licenza media, oppure gli anziani soli.

Peggio tra tutte le Regioni, il Sud e le isole dove l’incidenza di povertà assoluta (5,8%) è doppia rispetto a quella osservata nel Nord (3,5%) o al Centro Italia (2,9%).

“Sono i più poveri tra i poveri – ha spiegato Linda Laura Sabbadini che ha curato la statistica – che vivono una vita minimamente accettabile”. (Beh, buona giornata).

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Per uscire dalla crisi ci vogliono ancora 4.000 miliardi di dollari. Chi li paga?

da blitzquotidiano.it

Fmi presenta il conto della crisi: quattromila miliardi
Altro che crisi finita e ripresa all’orizzonte, per ora l’unica cosa che arriva è il conto: quattromila miliardi. Pagarlo questo conto sarà lungo e doloroso, lungo fino a tutto il 2010, se basta. E doloroso per banche, istituzioni finanziarie, imprese, famiglie, governi e forse anche Stati. Il conto lo sbatte sul tavolo il Fondo Monetario Internazionale. Nota a margine del conto: l’Italia nel 2010 potrebbe avere un debito pubblico del 121 per cento del Pil, una voragine, un “buco nero” economico che inghiottirà tasse e produrrà inflazione. (Beh, buona giornata).

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Il ministro dell’Economia è in ritardo anche all’appuntamento con Godot.

IL TEMPO DELLE SCELTE
di Tito Boeri e Fausto Panunzi da lavoce.info

La strada del governo per affrontare la crisi è basata sull’attendismo. Una strategia rischiosa che può costare cara al nostro paese. Anche perché non è detto che il peggio sia passato. Vi sono segnali positivi nell’economia mondiale, ma sull’Europa incombe la crisi dei paesi dell’Est. In più il terremoto rischia di peggiorare ulteriormente i nostri conti pubblici. E’ tempo di definire con chiarezza le priorità di politica economica. Poniamo quattro domande in merito al Ministro Tremonti. Augurandoci che risponda al più presto.

E’ passato quasi un anno dall’insediamento del nuovo Governo. In materia di politica economica, l’impressione è che abbia spesso scelto di non scegliere. Ha affrontato la crisi prendendo tempo e, al massimo, varando alcuni interventi tampone per fronteggiare le richieste più pressanti che venivano dal mondo delle imprese. Ha scommesso tutto su di una crisi di breve durata sapendo che i tempi della crisi globale sarebbero stati dettati da eventi al di fuori del suo controllo.

E’ PRESTO PER FESTEGGIARE

E’ stata una scommessa molto azzardata perché il precipitare della crisi ci avrebbe colti impreparati, ma ci auguriamo tutti che la crisi sia davvero breve. Sin qui il crollo è stato più rapido che nel 1929 (si veda il grafico qui sopra). Speriamo ora di avere lasciato alle spalle il punto più basso e che la risalita sia altrettanto ripida che la discesa. Ci sono indubbiamente alcuni segnali positivi soprattutto dal settore immobiliare statunitense e dalla Cina. E l’euforia delle borse di tutto il mondo nell’ultimo mese segnala un cambiamento dei sentimenti, degli animal spirits. L’augurio è che l’ottimismo sia altrettanto contagioso di quel pessimismo che ci aveva portato sull’orlo del precipizio. Il rischio di una nuova degenerazione della crisi è tuttavia ancora presente perché l’eccessivo indebitamento delle banche è stato solo parzialmente ridotto sin qui. I fattori di instabilità del sistema finanziario internazionale non sono stati ancora affrontati alla radice. E sull’Europa incombe la crisi dei paesi dell’ex blocco sovietico.

COME SI USCIRÀ DALLA CRISI

Questa crisi appare comunque destinata a modificare la geografia economica mondiale, i rapporti competitivi fra gli Stati. E’ una crisi maturata oltreoceano, che lascerà lunghi strascichi in quella che sin qui è stata l’indiscussa prima potenza economica mondiale. Dovrà portare a termine un costoso processo di deleveraging, di riduzione del debito del settore privato. E’ un processo che riguarda in modo meno pronunciato l’Europa che può trovare la forza di investire nei settori di punta e riuscire ad attrarre quei talenti che sin qui andavano negli Stati Uniti. Oggi l’Europa può davvero ambire a diventare l’economia più competitiva del pianeta come promesso a Lisbona 10 anni fa.

Il nostro paese non può perciò continuare a stare a guardare. Certo, l’Italia, per colpa del suo debito pubblico, ha minori margini di manovra di altri Paesi. Proprio per questo ha più bisogno di definire in modo chiaro le sue priorità. Abbiamo l’opportunità oggi di uscire non solo dalla recessione, ma anche dalla stagnazione economica in cui siamo rimasti negli ultimi 15 anni. E i periodi di crisi sono quelli in cui si può trovare il consenso per fare quelle riforme che in tempi normali non si riescono a fare.

IL TERREMOTO COME CARTINA AL TORNASOLE

Il 24 aprile si terrà il Consiglio dei Ministri nelle aree terremotate. Le scelte (o le non scelte) che verranno compiute in quell’occasione saranno un’importante cartina di tornasole delle intenzioni di questa maggioranza. Vedremo se prevarrà, una volta di più, la strategia attendista..

L’attendismo non ha sin qui evitato un consistente peggioramento dei nostri conti pubblici. Si sono aperti tanti rubinetti in questi mesi che sarà difficile monitorare. Non ci sono stati risparmi nel pubblico impiego. Al contrario, ai dipendenti pubblici con contratti a tempo indeterminato, quelli che non rischiano il posto di lavoro a differenza dei precari e dei loro omologhi nel settore privato, sono stati una volta di più concessi incrementi salariali superiori a quelli del privato.

Il fabbisogno è aumentato di 9 miliardi nei primi tre mesi del 2009. E ci sono vistosi segnali di un calo delle entrate fiscali, ben oltre quanto determinato dall’andamento dell’economia. In particolare, le entrate tributarie nei primi due mesi del 2009 sono calate del 7,2 per cento rispetto a un anno fa e non più di metà di questo calo può essere attribuito all’andamento dell’economia. Mentre è certo che l’esecutivo ha dato ripetuti segnali di un abbassamento della guardia sul fronte del contrasto dell’evasione.

Ora il Governo ha due strade di fronte a sé nell’affrontare il dopo-terremoto e i costi della ricostruzione. La prima strada è quella di ripetere quanto fatto dai governi precedenti in questi casi: introdurre una addizionale, una nuova tassa, magari chiamata “contributo di solidarietà”, i cui proventi potranno essere destinati alla ricostruzione. In una fase di depressione come quella che stiamo fronteggiando ci sembra una scelta sbagliata. La seconda strada è quella di usare l’emergenza creata dal sisma per definire le priorità di politica economica.

LE DOMANDE DA PORRE AL MINISTRO DELL’ECONOMIA

Le interviste al Ministro dell’Economia trattano spesso di filosofia. Evitano accuratamente di porre le domande che stanno più a cuore agli italiani. Ecco allora le domande cui ci auguriamo il ministro voglia al più presto rispondere.

Su quale stima dei costi della ricostruzione delle aree terremotate sta il governo ragionando? Non è possibile non avere ancora un numero a due settimane dal sisma. Ed è legittimo attendersi che il Governo abbia deciso come finanziare queste spese.

Ha in mente il Ministro, alla luce anche del terremoto di rivedere le priorità della spesa in conto capitale? In particolare, conviene sul fatto che sarebbe più opportuno rimandare il ponte sullo stretto e varare un piano straordinario di manutenzione e miglioramento dell’edilizia scolastica?
Cosa intende fare il ministro per contrastare l’evasione fiscale? Intende davvero coinvolgere i Comuni negli accertamenti? Con quali tempi? E intende ripristinare gli uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate?

Una domanda di filosofia ci riserviamo di porla anche noi.
Quali confini intende il ministro stabilire per il mercato? Perché, ad esempio, la legge 33/09 appena approvata in Parlamento, su “misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi”, prevede che non vi sia più l’obbligo di lanciare un’OPA nel caso in cui il gruppo di controllo che già possiede il 30% del capitale sociale acquisisca un ulteriore 5%? Perché rafforzare così il suo controllo sulla società in un momento di scarsità di capitali di investimento? A chi giova questa norma se non a chi oggi ha il controllo di queste imprese? E in cambio di cosa si concede questo aiuto?
(Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

La Pasqua triste degli italiani in crisi.

PASQUA: FIPE, PREVISIONI DI FORTE CALO PER I RISTORANTI

(ASCA) – Roma, 11 apr – Un po’ per la crisi economica e un po’ per il clima triste per il terremoto fanno prevedere alla Fipe (pubblici esercenti) un forte calo di lavoro per i ristoranti.

Insomma, clima mesto per la Pasqua degli italiani. La ricorrenza della Resurrezione cosi’ a ridosso del dramma in corso in Abruzzo ha attenuato notevolmente il clima di serenita’ e di gioia tipico di questa festa. Le ferite profonde inferte fisicamente e moralmente agli italiani si ripercuotono anche nel comportamento in occasione di questa festivita’.

Il clima di difficolta’ economica aveva gia’ condizionato le scelte dei consumatori ed e’ stato appesantito dalla tragedia del terremoto. Soprattutto quest’ultimo evento sembra aver influito sulle tradizioni. Gli italiani non sembrano avere molta voglia di acquistare abbacchi, capretti, colombe e uova di cioccolato e molti di loro vivrebbero il pranzo al ristorante in dissonanza con l’umore triste di questi giorni. Da un’analisi del centro studi Fipe, infatti, risulta che nonostante la quasi totalita’ dei ristoranti tradizionali (94,5% pari a 54mila unita’) sara’ aperto, saranno non piu’ di 4,3 milioni gli italiani che sceglieranno di stare fuori casa, generando una spesa di circa 182 milioni di euro. Notevole e’ il numero dei ristoratori pessimisti (40,9%) pessimista a cui si aggiunge la percentuale (59,1%) di coloro che non prevedono grandi variazioni rispetto allo scorso anno. I prezzi contenuti per il pranzo tutto compreso (circa 42 euro) non riusciranno, secondo l’indagine, a distrarre la popolazione dal clima di difficolta’. Il calo nei ristoranti sara’ soprattutto da parte dei residenti.

”E’ una situazione brutta e triste – ha commentato il presidente Fipe, Lino Enrico Stoppani – ed e’ comprensibile questa reazione. La misura del dolore e’ data proprio dalla rinuncia ai simboli della tradizione, come il consumo di abbacchio e altri piatti tradizionali”.

Pasquetta, giornata in cui tradizionalmente si preferisce la scampagnata al ristorante, vedra’ una percentuale di locali chiusi di poco superiore a quella del giorno prima, con risultati di fatturato per il 58% dei ristoratori in linea con l’anno precedente. Si prevedono, infatti, 2,6 milioni di clienti per un incasso stimato in poco piu’ di 105 milioni di euro che fara’ salire a oltre 287 milioni e mezzo di euro la spesa complessiva delle due giornate. L’offerta di un menu ”tutto compreso” sara’ praticata da oltre il 77,8% dei ristoranti con un prezzo medio leggermente inferiore a quello dell’anno scorso (40,30 euro contro i 41 del 2008) pari cioe’ a una flessione del 1,7%. La clientela di Pasquetta sara’ composta per il 33,2% da gruppi di amici e per il 24,2% da singole famiglie, prevalentemente turisti italiani (48,4%) di fascia di eta’ giovane (64,5%).

PASQUA. Il giorno di Pasqua saranno in attivita’ 94,5% ristoranti pari a poco piu’ di 54.000 unita’.

Per il 59,1% dei 270 intervistati i risultati attesi sono sullo stello livello dell’anno precedente sia in termini di clientela che di fatturato, mentre circa quattro ristoratori su dieci sono pessimisti e si aspettano una Pasqua sottotono rispetto all’anno scorso. Dunque il saldo e’ negativo.

Sono attesi poco piu’ di 4,3 milioni di clienti per una spesa pari a 182 milioni di euro.

Vengono date in flessione tutte le tipologie di clientela in particolare quella non turistica.

Al ristorante prevale l’offerta del menu ”tutto compreso” ad un prezzo medio di 42,70 euro, pari all’ 1,8% in meno rispetto al 2008. Menu tradizionale in sette ristoranti su dieci. L’agnello e’ il secondo piatto per eccellenza piu’ o meno in ogni regione, mentre grande varieta’ nei primi piatti e nei dolci.

PASQUETTA. Poco piu’ di 46mila ristoranti in attivita’ il giorno di Pasquetta. Risultati attesi sugli stessi livelli dell’anno scorso per il 58% degli intervistati.

Sono previsti 2,6 milioni di clienti per un incasso stimato in poco piu’ di 105 milioni di euro.

L’offerta di menu ”tutto compreso” riguarda oltre il 77,8% dei ristoranti con un prezzo medio leggermente inferiore a quello dell’anno scorso (40,30 vs. 41,00 euro pari a -1,7%).

Prevalentemente a Pasquetta la clientela e’ composta per il 33,2% da gruppi di amici e per il 24,2% da singole famiglie, prevalentemente di turisti italiani (48,4%) di fascia di eta’ giovane (64,5%). (Beh, buona giornata).

red/min/ss

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Quello che non è riuscito a fare il G-20 di Londra.

A Londra , i difensori di Wall Street bianchi, alti, anglo-americani, hanno vinto: ma Lula aveva torto sul colore azzurro degli occhi e uno di loro era nero.
Nessun “giro di boa” (Obama) fra i 29 punti, ma:

* un trilione, il riscatto in denaro per l’economia finanziaria, nessuno stimolo per l’economia reale, protezione alle banche sbagliate anziché alle persone giuste, oltre ai 9 trilioni degli USA per gli USA;
* dollari, dollari ovunque, come se non fossero problematici: non c’è verso che quei dollari stampati con disinvoltura non cadano ancora più in basso;
* principalmente per il Fondo Monetario Internazionale, con le altre istituzioni di Bretton-Woods uno dei grandi pilastri del mal-sviluppo;
* senza puntare il dito, “una crisi globale esige una soluzione globale”, nulla di specifico su Wall Street, dove pure è saltata la diga che ha allagato molti, nessuna citazione delle peggiori banche, né dei peggiori fondi e dei loro padroni, neppure la natura precisa di quel che è andato storto (facendo espiare Madoff per tutti loro), neppure nominando i paradisi fiscali (su richiesta di Obama, ma l’ha fatto l’OECD);
* nessuna menzione dei meno colpiti: cioè le banche islamiche e l’economia reale cinese con crescita stimata al 5% quest’anno (10% sulla costa, 0% all’interno) – ma per altre ragioni; né di quanto possiamo imparare da loro;
* nessun piano regolatore dettagliato noto, per timore che le pecche del sistema diventino note e facilmente utilizzabili per identificare le istituzioni responsabili. Piazzare burocrati statali nei consigli d’amministrazione non servirà granché;
* identificato un solo colpevole: il protezionismo;
* e, in tutta onestà, un piccolo aiuto d’emergenza per alcune vittime dell’inondazione fra i poveri dei paesi poveri.

Ma nessuna riparazione alla diga. Il G20 combina il peggio del capitalismo e il peggio del socialismo USA, togliendo ai poveri per dare ai ricchi, accumulando denaro al di sopra di economie reali stagnanti, invitando la speculazione, non l’investimento, preparando la prossima, peggiore, crisi.

Partono dall’estremità sbagliata. L’economia reale soffre di sotto-produzione di beni indispensabili accessibili e sovra-produzione di articoli comuni per l’enorme ceto medio mondiale, il cui potere d’acquisto e credito sta calando, mentre le classi alte sono in buona forma. Un commercio privo di regolamentazione favorirà i beni di lusso.
Come ha stimato l’Oxfam, l’interesse di una settimana sul denaro del riscatto renderebbe sicuro il parto delle gestanti ovunque nel mondo, per un anno. Ma quel denaro non è disponibile. Impariamo dai cinesi, facendo cooperare il settore pubblico e privato per far sì che i più bisognosi producano da sé ciò di cui hanno maggiore necessità, cibo e abitazione, sanità e istruzione, infrastrutture che comprendono l’energia verde, e combinando il consumo dei beni necessari prodotti in proprio, in modo sostenibile, con un maggiore potere d’acquisto. Aggiungiamo a tutto ciò un keynesismo massiccio, sino ad arrivare agli strati più bassi del ceto medio, e si creerà una domanda che può far decollare l’economia reale. Le classi alte non potrebbero mai fare altrettanto da sole.

Questo costerebbe denaro che si potrebbe stornare dalle enormità dei riscatti e dagli stupidi bilanci militari. Alle persone colpite dalle banche che stanno affondando bisognerebbe offrire posti di lavoro e beni indispensabili da sovvenzionare con tasse sul lusso, contro un consenso di Washington morto da tempo. Più importante della regolamentazione è la (ri)costruzione di banche decenti, con un solido sostegno dell’economia reale per le loro transazioni finanziarie, separando le banche di risparmio da quelle d’investimento (leggi: speculazione), non assicurando le seconde, e lasciando fiorire valute regionali, non qualche formula cinese. Non siamo pronti, né mai lo siamo stati, per una valuta globale e particolarmente non per dare a un solo paese il privilegio di pagare i suoi debiti stampando altra moneta in proprio.

L’indice Dow Jones salirà in risposta al G20, contemporaneamente alla previsione del FMI di crescita mondiale solo al 2%, probabilmente già troppo alta. Il G20 riprodurrà la vecchia asincronia fra i tassi di crescita della finanza e dell’economia reale. Benvenuta quindi la prossima crisi economica, made in London.
E poi la NATO, disperatamente in cerca di reinventarsi; in colloqui segreti, probabilmente tali per nascondere il segreto di non avere segreti. Una scelta davvero scialba quel danese. Il punto non era la sua insistenza sulla libertà d’espressione, ma la sua mancanza di comprensione fra la libertà e l’umiliazione e il suo coerente rifiuto di dialogo con i musulmani danesi, gli ambasciatori arabi e il segretario generale dell’ Organizzazione della Conferenza Islamica. Averlo d’ora in poi a capo di quell’enorme macchina militare schierata contro l’Islam più che contro qualsiasi altra cosa, è un grave errore, a prescindere da quale merce di scambio sia stata data alla Turchia. Il valore simbolico di non eleggerlo sarebbe stato enorme, e positivo. La tavola è apparecchiata per la prossima crisi militare, made in Strasbourg.

Forse dovrebbero prestare più attenzione a un Obama pensoso in un’intervista in cui si esprimeva più liberamente, pensando ad alta voce sul non voler assumere alcun monopolio della verità ma impegnandosi nel dialogo, senza forzare gli altri ad alcuna posizione ma ascoltando, negoziando, per arrivare a compromessi. Con tale modalità il mandato divino e l’eccezionalismo sono finiti e l’impero USA sta declinando e cadendo man mano che il potere culturale e politico diventano più simmetrici.

Bene, bello, andiamo avanti. Ma c’è ancora il potere economico da ridisegnare per un beneficio mutuo e uguale, non solo fra i vari paesi, ma anche fra le élite e la gente. Il G20 è stato carente in questo. E c’è il potere militare da riprogettare, e non solo riducendo l’eccesso di capacità letale nucleare di un terzo, o tagliando le 761 basi in 158 paesi. Arriverà il momento in cui tutto ciò finirà nella pattumiera della storia, sostituito dalla capacità di risoluzione del conflitto. In nessun punto dei comunicati del G-20 e della NATO-28 c’è una qualche indicazione di come potrebbe configurarsi una soluzione accettabile da tutte le parti.
L’Occidente è ormai indietro. Non sorprendiamoci se il resto del mondo non aspetta, ma cerca una propria strada. (Beh, buona giornata).

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: G 20. AND NATO. AND THE WORLD
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=1084

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La crisi e le classi dirigenti: “la crisi di questi ultimi mesi ha messo a nudo l’illusione del primato del prezzo come indicatore di valore professionale, aziendale e sociopolitico.”

di Giuseppe De Rita da corriere.it

Esiste un legame sommerso che forse spiega la contemporaneità fra i commenti sul recente congresso del popolo berlusconiano e le notizie sul quasi persecutorio disprezzo destinato agli strapagati grandi manager della finanza e del lusso. Questi perdono la leadership dello sviluppo internazionale e nazionale (hanno creato un sacco di guai e sono oggi costretti a chiedere aiuti pubblici) ed è consequenziale la tentazione a riproporre un nuovo primato della politica, in diretto rapporto con le più generali emozioni collettive. Ritorna allora di moda il termine «popolo», categoria così onnicomprensiva da permettere di superare le tante articolazioni di classe, di gruppo, di categoria; di abbracciare senza schemi prefissati le istanze più diffuse delle società; di aspirare a un consenso ampio e ultramaggioritario.

Prospettiva quest’ultima che attira molto il sospetto di quella facile tendenza al populismo che ne sarebbe l’obbligato sbocco finale. Un sospetto indebito, a dire il vero, perché un consenso costruito su una accezione generica di popolo può bastare per connotare periodi storici brevi, ma non è abilitato e legittimato a costruire assetti sociali e istituzionali stabili. Specialmente in una società indistinta e sconnessa come la nostra. È opportuno allora ricordare che i grandi sistemi del passato sono stati costruiti quando il popolo viveva in interazioni quotidiane forti con altrettanto forti oligarchie. Vale ancora e sempre il Senatus populusque romanus: senza popolo l’oligarchia inciucia o si dilania, senza «senato » il popolo diventa passiva base di puro populismo. Per la realtà italiana, la seconda di queste ipotesi è quella più attuale e pericolosa, visto che siamo segnati profondamente dalla mancanza di una cultura e di un potere capaci di fare sintesi dei tanti segmenti sociali che tentiamo di racchiudere nella parola popolo.

Negli ultimi anni di capitalismo un po’ troppo selvaggio abbiamo allegramente costruito una falsa oligarchia, quella dei manager e finanzieri che, sotto la esaltazione dei processi di globalizzazione e finanziarizzazione, hanno imposto una più ambigua coincidenza fra «valore» e «prezzo»: le aziende erano spinte a creare valore attraverso l’aumento del loro prezzo di borsa; i dirigenti erano spinti a far coincidere il loro valore con il proprio prezzo stipendiale e di bonus. Su questa spesso ingenua furbizia si è dissolta una applaudita tentazione di leadership collettiva; ma la crisi di questi ultimi mesi ha messo a nudo l’illusione del primato del prezzo come indicatore di valore professionale, aziendale e sociopolitico.

Dai giudizi severi del presidente Usa alle violente contestazioni europee verso i manager superpagati si evidenzia la convinzione che il recinto dei capitalisti finanziari (con le loro strutture, le loro sigle, i loro indicatori, le loro super retribuzioni), non è più legittimato a interpretare e orientare il popolo. Questo resterà solo per un po’, magari sedotto da qualche illusione populista; ma un Senatus sarà sempre necessario, come insegna la storia. Esso si costruirà in futuro attraverso un recupero della capacità di coagulare interessi, persone, gruppi, istituzioni, perché è la connessione sociale, e non il prezzo come valore, che formerà la nuova classe dirigente. Sarà cosa lenta, ma inevitabile. (Beh, buona giornata).

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La crisi, la protesta e la “rabbia populista”.

La rabbia populista
di FRANCESCO RAMELLA da lastampa.it

C’è qualcosa che accomuna l’indignazione degli americani contro l’élite finanziaria di Wall Street e le manifestazioni popolari che si sono viste in Europa nelle scorse settimane? A gennaio, in un articolo sul New York Times, Paul Krugman ha segnalato il montare negli Stati Uniti di una «rabbia populista» contro i salvataggi dei grandi banchieri. Di recente, questa populist rage è stata «celebrata» e ufficializzata da una copertina di Neewsweek. Alcuni commentatori vi hanno intravisto dei parallelismi con quanto sta accadendo nel vecchio continente.

Ma davvero le dimostrazioni contro i grandi della terra in Inghilterra, il sequestro-temporaneo dei manager in Francia, la mobilitazione della Cgil in Italia sono comparabili con quanto avviene sull’altra sponda dell’Atlantico? In effetti, anche il «malcontento europeo» possiede una forte connotazione antiestablishment. E tuttavia presenta importanti elementi distintivi: la matrice anticapitalista di alcune proteste, la loro componente anti-governativa (e talvolta antipolitica), la dimensione di piazza.

Sulle pagine di Newsweek lo storico Michael Kazin ha ricordato la presenza nella storia americana di altre contestazioni populiste contro l’establishment economico (e politico). Secondo lo storico della Georgetown University ciò che avvicina la reazione odierna alla crisi a quella dei movimenti populisti di fine Ottocento e degli anni Trenta, è l’indignazione. Si tratta della protesta di persone comuni che vogliono che il sistema viva all’altezza degli ideali che professa. Difficile, tuttavia, non scorgere anche le differenze tra la rabbia del presente e quella del passato. E, soprattutto, tra quella americana e quella europea. Negli Stati Uniti di oggi manca la dimensione di piazza della mobilitazione. Così come mancano la componente antisistemica e quella politica.

Piuttosto che interrogarsi sulla rabbia che accomuna i due continenti, ci si potrebbe perciò porre una domanda opposta. Perché negli Stati Uniti – dove la crisi economica ha avuto il suo epicentro e ha conseguenze molto drammatiche per gli individui – non si registrano proteste di ben altra radicalità? Alcuni fattori vanno menzionati. In primo luogo, la debolezza del sindacalismo americano e la scarsa propensione alla mobilitazione di classe. In secondo luogo, la presenza di una tradizione culturale di maggiore accettazione delle disuguaglianze sociali, che tende ad attribuire ai singoli individui la responsabilità dei propri successi e insuccessi personali. Questo, inevitabilmente, finisce anche per individualizzare le tensioni generate dalla crisi e le sue reazioni.

Sui media americani hanno avuto una certa eco alcuni «casi esemplari». Quello di Addie Polk, una donna di novant’anni che si è sparata mentre la sfrattavano dalla casa in cui aveva vissuto per quasi quarant’anni. Quello di Karthik Rajaram, un quarantacinquenne disoccupato che sconvolto dai problemi finanziari ha ucciso la moglie, i tre figli e la suocera, prima di suicidarsi. Quello recentissimo di Jiverly Wong, un uomo di quarantun anni, di origini vietnamite, da poco licenziato dall’IBM, che ha compiuto una strage in un centro di assistenza agli immigrati. Solamente nell’ultimo mese, negli Stati Uniti, 25 persone sono state coinvolte in episodi di suicidi-omicidi collettivi. Nel corso del 2008, inoltre, il National Suicide Prevention Lifeline ha registrato circa 550 mila richieste di aiuto ai propri telefoni (+ 36% rispetto al 2007), con un sensibile aumento di coloro che riportano problemi economici e finanziari. Anche un recente rapporto dell’American Psycological Association lancia l’allarme sulle conseguenze psicopatogene della crisi economica: quasi la metà degli americani dichiarano forti stati di ansia per le condizioni economiche della loro famiglia; otto su dieci affermano che il cattivo stato dell’economia rappresenta una significativa causa di stress personale.

Infine, c’è un terzo elemento che aiuta a spiegare la mancanza di una deriva anti-politica delle attuali difficoltà economiche americane. Il fenomeno Obama. L’avvicendamento avvenuto alla Casa Bianca ha in parte canalizzato le tensioni derivanti dalla crisi. Alimentando la speranza in un cambiamento possibile, il nuovo presidente è riuscito a neutralizzare politicamente la «rabbia populista». Almeno fino ad oggi. (Beh, buona giornata).

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La crisi e la protesta. Naomi Klein: “A me sembra ingiusto che i banchieri che hanno creato la crisi non siano sotto processo e una ragazza vada in carcere per un vetro rotto”.

Intervista a Naomi Klein di Antonio Carlucci, da L’epresso.

I giovani che sono scesi in piazza sono molto arrabbiati. E gridano ai loro leader politici di salvare il pianeta e non solo le banche e le assicurazioni… Naomi Klein, la scrittrice che ha dato forma al movimento con due libri, ‘No Global’ e ‘Shock Economy’, e che da anni scrive per ‘L’espresso’, giudica per la prima volta quanto è accaduto a Londra, in Francia, a Strasburgo. Paragona il movimento di oggi a quello che abbiamo visto nelle piazze prima dell’11 settembre 2001, giudica la nuova leadership americana di Barack Obama, dice la sua sulle decisioni del G20, sottolinea le differenze che ci sono in questo movimento in Europa e negli Stati Uniti. E dice che chi è sceso in piazza in questi giorni “dimostra di avere etica, morale e principi”.

Come giudica le manifestazioni di Londra in occasione del G20 e quelle di Strasburgo nei giorni del summit della Nato?
“Con un nuovo stato d’animo e in forme diverse stiamo assistendo al ritorno delle grandi proteste che ci sono state in tutto il mondo, compresa l’Italia con Genova, prima dell’11 settembre 2001 dove si fusero insieme il no alla globalizzazione, la protesta contro le ineguaglianze nel mondo del lavoro e la richiesta di maggiore attenzione verso l’ambiente”.

Quella fiammata si spense dopo l’11 settembre per riaccendersi di tanto in tanto e senza una strategia. Ora accadrà lo stesso?
“Il movimento arretrò perché i sindacati e i partiti politici non vollero essere associati direttamente con un movimento di azione diretta e radicale del quale avevano paura. Adesso mi pare che le cose siano diverse: se guardiamo alle strade di Londra vediamo che, fianco a fianco, sfilano giovani attivisti di matrice radicale e vecchi sindacalisti, precari alle prese con lavori che oggi ci sono e domani no e militanti ambientalisti e pacifisti. È una nuova scelta di militanza che ha alla sua base la crisi economica e i problemi di vita quotidiana, anzi di sopravvivenza quotidiana, che milioni di persone vivono a causa delle scelte delle leadership mondiali”.
Non vede anche un filo populista che lega insieme la protesta contro i banchieri, quella contro i politici, quella contro i ricchi e, assai spesso, quella contro gli immigrati accusati di sottrarre posti di lavoro nel paese dove arrivano?
“Mi pare che il dato unificante e prevalente dei partecipanti alle manifestazioni sia la rabbia. E non è un sentimento artificiale, costruito sulla ideologia: la gente è arrabbiata e ha il diritto di esserlo. Il problema è dove sarà diretta questa rabbia, se sulle persone responsabili delle diverse crisi che attraversano il nostro mondo e se invece rischia di essere deviata contro coloro che stanno peggio, per esempio gli immigrati. A Londra il movimento ha detto chiaro che i responsabili della situazione sono i banchieri e i politici”.

Come valuta proteste come quelle avvenute in Francia dove i lavoratori delle fabbriche o degli uffici a rischio di chiusura hanno sequestrato direttori e manager?
“In Francia c’è da sempre un movimento di lavoratori strutturato e questi episodi sembrano un ritorno alle tattiche utilizzate nel 1968. Io non sono d’accordo con chi dice che c’è qualcosa di sbagliato nell’essere arrabbiati con i capi e che non bisogna fare azioni di quel tipo. Io ritengo che ci sia il diritto alla rabbia e alla lotta per i propri diritti a cominciare da quello del lavoro. Se non ci fosse un movimento organizzato, sapete che cosa accadrebbe? Che le uniche vittime della crisi economica sarebbero i lavoratori. Come sta accadendo negli Stati Uniti dove i lavoratori vengono licenziati e i manager che hanno portato al disastro le aziende ricevono bonus milionari”.

Visto che lei vede un movimento che ritorna in campo, non sembra proprio che negli Stati Uniti la rabbia si stia esprimendo nelle strade. Anzi, i luoghi più affollati sono le fair job, i raduni dove si incontrano disoccupati in cerca di un nuovo lavoro e imprenditori che hanno bisogno di lavoratori…
“Anche in America la rabbia c’è. Ma è stata deviata verso altri obiettivi. Provate a guardare la sera la Cnn, quando Lou Dobbs se la prende con gli immigrati messicani o sentite Rush Limbaugh su Fox Tv o sulla catena di radio che lo ospitano che dice agli americani che non è colpa dei banchieri e di Wall Street, ma del vostro vicino che vi porta via il lavoro”.
Ma da quasi tre mesi alla Casa Bianca non c’è più George W. Bush ma Barack Obama. E quelli che lei ha citato non amano Obama…
“Quella propaganda contiene elementi di cultura politica fascista ed è certamente diretta anche contro Obama. Essendo un afro-americano, il presidente è un buon bersaglio per questa reazione della destra populista. Anche se non ha ordinato il ritiro immediato dall’Iraq, vuole una escalation in Afghanistan e usa i soldi dei cittadini per salvare le banche private, siamo però al paradosso che la sinistra e i liberal difendono a spada tratta Obama per proteggerlo dalla destra populista e reazionaria. Tutto ciò impedisce al movimento di fare quanto è accaduto a Londra o in Italia, dove gli studenti hanno manifestato gridando al capo del governo Silvio Berlusconi che non vogliono essere loro a pagare una crisi che non hanno causato”.

Lei non vede grandi differenze tra l’era Bush e l’era Obama.
“Ce ne sono, eccome se ce ne sono. In Inghilterra, per esempio, tra il premier Gordon Brown e i suoi avversari conservatori. Ma negli Stati Uniti si pone troppa enfasi sul percorso elettorale che una volta concluso porta automaticamente alla nascita di un culto della personalità di cui oggi Obama è vittima e protagonista. Certo che Obama è meglio di John McCain ma non per questo la sinistra deve automaticamente esserne il difensore su tutta la linea”.

Il movimento della rabbia, come anche lei, critica il salvataggio delle banche. Ma Obama ha portato in Parlamento – e ne ha ottenuto l’approvazione – una legge in cui ci sono miliardi di dollari destinati a lavori pubblici o a creare posti di lavoro. Sbagliato anche questo?
“No. Ma, visto che spesso si paragona l’oggi con le scelte di politica economica di Franklin Delano Roosevelt dopo la Grande Depressione, molti dimenticano che Roosevelt arrivò alla Casa Bianca con un piano di rinascita decisamente vago e che le scelte giuste arrivarono grazie alla pressione politica della sinistra e dei sindacati. Oggi quella organizzazione non esiste, il sindacato dell’auto non sembra voglia dare battaglia. Oggi c’è l’Obamamania, l’attesa messianica intorno alla sua figua e l’interesse spasmodico di sapere perché la First Lady Michelel porta abiti senza maniche. Io noto invece che il principale dei suoi consiglieri economici è Lawrence Summers il quale è direttamente responsabile della terapia shock alla quale fu sottoposta la Russia dopo la caduta del Muro di Berlino. E abbiamo visto che cosa è diventato quel paese. È Summers che ispira gran parte delle scelte economiche del presidente Obama”.

La Casa Bianca ha anche lanciato il più grande piano di sviluppo delle energie alternative. Che cosa ne pensa?
“Penso che sia il risultato della esistenza di un forte movimento ambientalista in Nord America e delle loro iniziative ultra decennali. Io giudico positivamente queste scelte di Obama perché rispondono a richieste di cambiamento molto diffuse. Purtroppo nel piano di Obama mancano elementi importanti come una nuova politica per il trasporto pubblico, settore strategico per la costruzione di un Paese più verde”.

A Londra il movimento ha invaso le strade. Ora lei prevede che, finito il G20, i manifestanti se ne staranno tutti a casa in attesa del prossimo summit, magari il G8 di luglio in Italia, o la loro rabbia diventerà attività politica quotidiana?
“Dipende da molti fattori. Non bisogna comunque guardare solo a quanto avviene intorno ai summit mondiali dove i media riportano ogni più piccolo dettaglio. Nel mondo ci sono tanti episodi giornalieri di manifestazione di questa rabbia che non vengono pubblicizzati. Quello è il movimento che vive e cresce”.

E che spesso degenera in episodi di violenza. Sarà il problema con il quale si dovrà confrontare nell’immediato futuro?
“Non sono in grado di fare previsioni di questo tipo. Proprio stamattina ho letto un articolo su una ragazza finita in cella per aver rotto una vetrina della Royal Bank of Scotland a Londra. A me sembra ingiusto che i banchieri che hanno creato la crisi non siano sotto processo e una ragazza vada in carcere per un vetro rotto”.
A Strasburgo non ci sono stati solo vetri rotti…
“Quando c’è la rabbia è inevitabile. Io ho paura che possa esserci una reazione esagerata a questi episodi e una criminalizzazione di qualsiasi forma di protesta. Meno male che in questo momento molti poliziotti solidarizzano con i manifestanti, visto che sono colpiti anche loro dagli effetti della crisi”.

Abbiamo cominciato questa conversazione dalla manifestazioni di Londra contro il G20. Qual è il suo giudizio sul risultato del summit?
“Delusione. La retorica ha coperto e nascosto la portata delle decisioni. Gordon Brown ha solennemente dichiarato che è finita l’era del Washington consensus. Invece, poi è stato deciso di stanziare un trilione di dollari alla Banca mondiale e al Fondo monetario che sono sempre stati lo strumento del Washington consensus”. (Beh, buona giornata).

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A Londra contro il G20, a Strasburgo contro la Nato. Mentre si preannunciano quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga sale la protesta contro la crisi economica.

di Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine», maggio 2009

Da Londra a Strasburgo, dal G20 dell’economia ai ventotto della NATO. In entrambe, la cornice di circa cinquantamila manifestanti. Pacifisti, ma non sempre pacifici. E poi botte e botti, vetri spaccati, arresti, feriti, e anche un morto. Sono oramai decenni che i vertici internazionali, oltre a radunare un’élite di paesi autoeletti, suscitano estese e vigorose adunate di piazza. Da qualche tempo però il termometro dei movimenti dava segnali di stanchezza. Quel tempo ora sembra finito, sulla scia di una recessione che tende a saldare le diverse istanze di protesta, sdoganando al contempo la possibilità di violenza.

A Londra i promotori della manifestazione si aspettavano diecimila persone al massimo, ne sono giunte almeno quattro volte tanto. Un livello di partecipazione inusuale per i britannici, con operai, contadini e famiglie intere giunti da ogni angolo del paese. A favorire il successo collettivo è stata del resto una coalizione senza precedenti tra le organizzazioni di base. La marcia di fine marzo, sotto il motto di Put People First (“mettete le persone al vertice all’agenda”), era stata mobilitata da un’“alleanza arcobaleno” senza precedenti, annoverando centocinquanta entità, tra sindacati, gruppi cristiani, associazioni ambientaliste, ong di cooperazione internazionale, movimenti pacifisti, sigle politiche e anarchiche.

Tutti a rivendicare la stessa cosa: “lavoro, giustizia e clima”. E tutti a intonare slogan esplicitamente anticapitalisti. Operatori umanitari di Save The Children che urlavano contro la logica del profitto, ecologisti di Friends of the Earth che se la prendevano con le agenzie di credito. Dopo vent’anni di assenza, la politica ha rifatto irruzione anche in ambienti per definizione a-politici. Ed è successo a partire dal riconoscimento del fatto che l’opposizione alla guerra non è un’istanza diversa dalla rivendicazione dei diritti sociali, né dalla lotta per un’economia a minor dispendio energetico. Sono enunciazioni alternative di una medesima problematica, che viene oramai riconosciuta nella richiesta condivisa di una svolta di sistema.

Altro che “usual stuff”, come hanno commentato la manifestazione parecchi politici ed editorialisti d’oltremanica. A Londra è andata in scena una ribellione collettiva quanto radicale. Di più, è tornata la violenza, raccogliendo sottilmente un esteso consenso. Quasi tutti i gruppi presenti invocavano ufficialmente un fermo no a ogni proposito di scontri o saccheggi, per non dividere il movimento e non offuscare i contenuti della protesta. Sta di fatto che perfino docenti universitari, come l’antropologo Chris Knight (poi prontamente sospeso dalla East London University), erano giunti nei giorni precedenti a ipotizzare il “linciaggio” e l’“impiccagione” dei banchieri.

E sta di fatto che i dimostranti hanno poi tenuto per ore sotto assedio le sedi delle banche, arrivando anche a irrompere e a innescare un rogo nella Royal Bank of Scotland, icona della crisi e dell’aiuto di Stato accompagnato da laute buonuscite per i dirigenti. La stessa Scotland Yard ha del resto giocato col fuoco, alimentando nei giorni precedenti l’allarme di una manifestazione “molto violenta”, per poi rivendicare il merito del suo successivo contenimento e giustificare i propri eccessi. D

alla polizia anche l’allerta, su cui aveva ironizzato Knight, per l’incolumità degli impiegati della City: su questo nulla di fatto, naturalmente, proprio in ragione della radicalità della protesta; a differenza dei governi, i manifestanti non ce l’avevano contro una “finanza cattiva” distinta da una “buona”: ce l’hanno col modello finanziario nel suo insieme, a partire dai meccanismi debitori di orientamento politico imposti dal Fondo Monetario Internazionale, al quale il summit londinese ha concesso una nuova linfa da mille miliardi di dollari.

I tafferugli, comunque, ci sono stati, con manganelli e lacrimogeni, e una trentina di arresti. E poi Ian Tomlinson, “morto per un malore”, anche se decine di testimoni raccontano di una situazione di “omicidio colposo”, ovvero del decesso avvenuto durante la fuga da un’immotivata carica della polizia contro un assembramento pacifico.

La morte di Tomlinson ha contribuito a scaldare gli animi nella successiva adunata qualche giorno più tardi a Strasburgo. Il rigetto della versione ufficiale dei fatti si è accompagnato al sentimento che con una manifestazione pacifica c’è poco da perdere in termini di rischi di incolumità personale e poco da guadagnare in termini di capacità di influenzare i vertici della più grande alleanza militare al mondo. Lo aveva avvertito la storica francese Sophie Wahnich dalle colonne di «Le Monde»: il contesto che precedette la violenza della rivoluzione francese è significativamente analogo a quello odierno. La Francia resta la patria degli individui, col più basso tasso di sindacalizzazione in Europa, e questo, ai fatti, non inibisce ma scatena il potenziale di irruenti ed estese manifestazioni di piazza. I sindacati, così come gli altri movimenti associativi, hanno poi un’essenziale capacità di “auto-trattenimento della violenza”, ma questa capacità viene meno quando è l’autorità a rendersene protagonista in modo indiscriminato, e quando il disagio sociale è tale da coinvolgere il ceto medio. Tutte condizioni che, almeno nella percezione dei dimostranti, sono ora riemerse in modo lampante, e Strasburgo ne è stata la conseguenza esemplare.

Le strade della riunione della NATO sono state un vero e proprio campo di battaglia. Ordigni artigianali, pallottole di gomma, sassaiole, idranti, offensive dei manifestanti verso i poliziotti e viceversa, autobus e tram bloccati, vetrine di banche e negozi sventrate, un albergo del centro messo a fuoco, assalti (vani) a un ponte e alle strade percorse dai capi di Stato e di governo allo scopo di bloccare il vertice stesso. Quel vertice che ha poi sancito l’allargamento dell’Alleanza Atlantica nei Balcani, con l’ingresso di Croazia e Albania, e il rafforzamento dell’offensiva lanciata oltre sette anni fa in Afganistan attraverso l’invio di altre migliaia di soldati.

«Da noi solo vetri rotti», giustificavano diversi manifestanti, che hanno del resto sofferto parecchie decine di feriti e centinaia di arresti, oltre al blocco di molti alla frontiera franco-tedesca prima ancora che il summit iniziasse. A ritenere lo scontro un’opzione ineluttabile, in ragione della sproporzione delle forze in campo e delle azioni belliche ordinate dalla Nato, non era solo qualche frangia “black-bloc”: spaccature e litigi tra dimostranti violenti e non-violenti ci sono state, ma il fronte dei primi andava ben oltre la cerchia abituale dei cosiddetti “anarco-insurrezionalisti”. Secondo «il manifesto» ha coinvolto addirittura la metà del corteo.

Ogni tentativo, giornalistico o poliziesco, di dividere il dissenso isolando i bellicosi è del tutto saltato a Strasburgo. Come a Londra, le categorie ideologiche e le appartenenze di gruppo si sono confuse le une con le altre. In manette sono finiti perfino quieti ecologisti, colpevoli di cercare di conquistare il citato ponte sul Meno tuffandosi nelle acque gelide del fiume. E mentre Obama raccoglieva ovazioni nel Palazzo dello Sport tra l’élite studentesca accuratamente selezionata dal governo francese assieme all’amministrazione regionale, la rabbia della strada raccoglieva il consenso dei “banlieusards” del posto.

Lontano dai riflettori dei summit e dalla quiete delle sedi europee, la periferia della capitale alsaziana è del resto terreno quotidiano di scontri, sassaiole e gomme tagliate. Segnali drammatici di un disagio crescente, che avvicina progressivamente le decine di centri sociali cittadini col proletariato locale. Ed è una saldatura che trova sempre più riscontro nella protesta dilagante in tutta Europa.

Le manifestazioni di piazza hanno fatto crollare nelle ultime settimane i governi in Islanda, in Lettonia e in Ungheria. Dublino è stata attraversata da cortei senza precedenti con centinaia di migliaia di operai e impiegati a protestare contro gli ennesimi tagli di bilancio che hanno frantumato il potere d’acquisto irlandese fino a portare il paese sull’orlo della bancarotta. A Vilnius i dimostranti hanno preso addirittura d’assalto il Parlamento dopo l’annuncio di un rialzo delle imposte per i lavoratori dipendenti.

E si muove ora anche la Confederazione dei Sindacati Europei, storicamente confinata a funzioni di rappresentanza presso le istituzioni dell’Unione. Per metà maggio sta mobilitando quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga. Segnali di una protesta che oramai varca i confini nazionali, oltre che quelli tematici e ideologici. Ed è un disagio che, armato di pietre e bastoni, non esita a definirsi «resistenza». (Beh, buona giornata).

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La crisi e gli operai: “Loro mettono la gente in cassa integrazione e questo non è prendere in ostaggio la gente?”.

Tre dirigenti della Fiat per cinque ore sono stati rinchiusi dentro due stanze del centro vendite autovetture di Bruxelles, da alcuni lavoratori che protestano per un piano di licenziamenti. Un episodio che si riallaccia a quelli analoghi che si sono susseguiti nei giorni scorsi, in altri paesi europei.

La Fiat reagisce. Annuncia che”esclude per il futuro la possibilità di tenere rapporti con organizzazioni sindacali che avallino simili forme di protesta”.
Immediata la reazione del sindacato. Abel Gonzales – rappresentante del sindacato Fgtb, che insieme a una ventina di addetti della Fiat sta presidiando la sede della casa automobilistica in Belgio in attesa di poter incontrare il suo amministratore delegato – dichiara: “E saremmo noi i terroristi? Loro mettono la gente in cassa integrazione e questo non è prendere in ostaggio la gente?”.

Dall’Italia giunge poi la stigmatizzazione del segretario nazionale della Fiom-Cgil, Giorgio Cremaschi: “Le dichiarazioni della Fiat contro i lavoratori e i sindacati belgi sono inaccettabili. La rottura della convivenza civile che lamenta l’azienda avviene prima di tutto quando durante la crisi si scelgono i licenziamenti come modo di affrontarla. L’esasperazione dei lavoratori va capita anche dalle aziende. Peraltro – aggiunge Cremaschi – i cosiddetti sequestri sono in realtà semplici invasioni di uffici che durano poche ore”. (Beh, buona giornata).

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Aumentano le importazioni dalla Francia: manager italiano assediato per ore dagli operai.

Manager assediato per ore dagli operai
Alla Benetton di Piobesi dopo l´annuncio dei tagli: salvato dai carabinieri
di Stefano Parola

«A Bruxelles hanno sequestrato tre manager della Fiat per colpa di 24 licenziamenti? Almeno nel nostro caso erano 143 persone a perdere il posto». Giuseppe Graziano, segretario della Uilta-Uil piemontese, ora quasi ci scherza su. Quelli che ha vissuto a Piobesi, nello stabilimento della Olimpias, sono stati momenti tutt´altro che facili. Ancor meno per Tullio Leto, direttore del personale dell´azienda tessile del gruppo Benetton: quando hanno saputo che l´azienda non avrebbe concesso la minima apertura, i lavoratori lo hanno tenuto in assedio per tre ore e lui è uscito dallo stabilimento attraverso una porta sul retro, grazie all´intervento dei carabinieri.

È il 25 febbraio. Le trattative tra azienda e sindacati proseguono ormai da settimane, ma sono del tutto insabbiate, serve un ennesimo incontro. Di solito le aziende torinesi conducono le trattative all´Unione industriale di Torino, in via Fanti, ma la Olimpias è associata a Unindustria Treviso, città in cui ha la sede principale. Quindi è necessario riunirsi direttamente nello stabilimento di Piobesi. Alle 14 iniziano le trattative, i 143 dipendenti cominciano uno sciopero spontaneo e attendono novità appena fuori dagli uffici.

Gli animi sono caldi fin da subito. Dopo un paio d´ore i funzionari dei sindacati escono e comunicano che l´azienda non fa passi indietro: conferma i 143 licenziamenti, nega la cassa integrazione per ristrutturazione e qualsiasi forma di incentivo, concede un solo anno di ammortizzatore sociale. Ai dipendenti è come se crollasse il mondo addosso. C´è chi urla, chi piange, chi batte pugni suoi vetri. Entrano in massa nell´ufficio delle trattative. In un attimo il direttore Leto e il suo segretario sono assediati. «Una sensazione molto brutta, una situazione del tutto anomala in una trattativa sindacale», ricorda Assunta De Caro, segretaria della Filtea-Cgil Piemonte. La tensione raggiunge il suo apice verso le 18: «A un certo punto abbiamo deciso di chiamare i carabinieri».

Dalla caserma di Moncalieri il capitano Domenico Barone parte con una buona quantità di uomini: «Arrivati sul posto – spiega il capitano – abbiamo cercato di placare gli animi e abbiamo creato una cornice di sicurezza attorno al direttore Tullio Leto. Nel frattempo sono volate parole grosse ma non è successo nulla di grave». Ci vogliono due lunghe ore di diplomazia prima che la situazione si sblocchi: «Abbiamo creato un diversivo – racconta il capitano dei carabinieri di Moncalieri – e abbiamo fatto uscire il direttore e il suo segretario da una porta secondaria». È così, alle 22.30, finisce la lunghissima giornata di lavoro di Tullio Leto.

«L´episodio comunque ha cambiato il corso della trattativa – dice il sindacalista Graziano – perché ha fatto capire all´azienda che i lavoratori erano disposti a tutto pur di ottenere qualcosa dalla trattativa». In effetti, così è stato. Perché una serie di proteste all´insegna della civiltà, tra cui un presidio davanti al negozio Benetton di piazza San Carlo, hanno portato a un salvataggio in corner. La trattativa è stata chiusa da pochi giorni: non un solo anno di cassa ma due, più un incentivo per l´uscita e l´impegno della Olimpias a ricollocare una parte dei dipendenti. Si chiude comunque, ma la disperazione di quel 25 febbraio è un po´ più distante. (Beh, buona giornata).

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Nella lista dei paradisi fiscali manca l’Italia, inferno per il Fisco.

(Fonte: RaiNews24)

Il G20 di Londra ha preso la storica decisione di chiudere l’anomalia dei cosiddetti ‘paradisi fiscali’, prevedendo una lista di cattivi ed una serie di sanzioni a chi non collabora che saranno decise a breve dai ministri delle Finanze. Un provvedimento che e’ il segnale della fine di un’era, anche se tutti sono consapevoli che il percorso e’ tracciato ma non concluso.

Costa Rica, Malaysia, Filippine e Uruguay sono presenti nella lista nera dell’Ocse sui paradisi fiscali.

Nella lista, pubblicata dopo che i leader del G20 hanno deciso di portare avanti una lotta ai paesi non cooperativi, l’Ocse ha inoltre citato alcuni Paesi che non applicano completamente le regole internazionali: la lista numero due – la lista “grigia” – comprende 38 Paesi fra i quali Monaco, Liechtenstein, Antille olandesi, Belgio, Svizzera e Lussemburgo, e riguarda Stati che pur essendosi impegnati a rispettare le regole dell’Ocse non le hanno “in sostanza” applicate. (Beh, buona giornata).

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La pulce che disse spòstati all’elefante.

“Ho detto a Obama che si deve tirare su le maniche per far uscire il mondo dalla crisi visto che arriva proprio dall’America. Lui mi ha risposto che ho ragione e che l’importante è restare tutti insieme per risolvere i problemi”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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“Promotori e sostenitori delle nuove “ronde anti-manager” non hanno tutti i torti.”

di MASSIMO GIANNINI da repubblica.it

Dunque, uno spettro si aggira per il mondo. “Rabbia populista”, l’ha definito Newsweek osservando le nuove vandee americane. “Lotta di classe”, lo definiremmo attingendo alle antiche categorie marxiane. I titoli tossici producono veleni sociali. L’epidemia deflagra negli Stati Uniti, dove centinaia di risparmiatori truffati accerchiano Bernie Madoff all’uscita del tribunale e decine di poveri cristi infuriati assediano le ville blindate dei manager dell’Aig. Ma ora si propaga pericolosamente anche in Europa.

In Gran Bretagna, in piena notte, un gruppo di attivisti anonimi attacca la residenza edimburghese di Fred Goodwin, il superbanchiere responsabile del crac della Royal Bank of Scotland, che prima di lasciare dietro di sé una montagna di macerie se n’é andato in pensione con un bonus da 16,9 milioni di sterline. In Francia, in pieno giorno, un centinaio di impiegati della 3M Santè, a rischio di licenziamento, prendono in ostaggio l’amministratore delegato Luc Rousselet. La stessa cosa, 10 giorni fa, era successa al ceo della Sony francese, Serge Foucher, anche lui sequestrato dagli operai della fabbrica di Pontonx-sur-l’Adour. Appena un po’ meglio era andata a Louis Forzy, direttore della Continental: fischiato e preso a lanci d’uova dai 1.120 addetti dell’impianto di Claroix.

Chiamatelo come volete. Il “capitalism disaster” di Naomi Klein. Il “turbo-capitalismo” di Robert Reich. L'”economia canaglia” di Loretta Napoleoni. Ma questo rischia di essere l’effetto più dirompente del virus incubato dall’Occidente: un potenziale e colossale ritorno del conflitto sociale. Nella frattura del circuito della rappresentanza, che vede il cittadino globale sempre più isolato e scollegato dall’élite politica, folle di moderni “proletari” scelgono altrove i loro capri espiatori. Privati dei risparmi, impoveriti nei redditi e derubati di certezze, individuano nei manager, ricchi, apolidi e irresponsabili, il simbolo del male. Sono loro i “predoni”. Sono loro le “mosche del capitale”, raccontate a suo tempo da Paolo Volponi, che vanno cacciate o schiacciate.
Promotori e sostenitori delle nuove “ronde anti-manager” non hanno tutti i torti. Ma quello che sta accadendo è inquietante. “Bank Bosses Are Criminals”, pare sia il motto dei “giustizieri” che si stanno coalizzando in Nord Europa. Uno slogan sinistro, che riecheggia quello degli ultras degli stadi di tutte le latitudini: “All Cops Are Bastards”. L’Italia, per ora, sembra immune. A meno di non voler considerare alla stessa stregua il blitz a colpi di letame compiuto dai centri sociali al “Cambio”, il ristorante della Torino-bene. Ma che succede se la nuova “lotta di classe” dilaga e si espande ovunque? Un mese fa l’Economist ha fatto un’inchiesta, inquietante: nel mondo c’è un enorme “ceto medio globale”, a spanne due miliardi e mezzo di persone, che in questi decenni di globalizzazione si è arricchito quanto basta per uscire dalla povertà, e per acquisire uno status sociale e una condizione materiale da neo-borghesia.

La “tempesta perfetta” rischia di ricacciare questo gigantesco pezzo di umanità sulle sponde desolate del sotto-sviluppo. L’Economist ripescava Marx, e ricordava che “la borghesia ha sempre giocato un ruolo fortemente rivoluzionario” nella Storia. Di fronte al crollo del benessere economico e delle aspirazioni sociali ha supportato i governi nazifascisti nell’Europa degli Anni 30 e le giunte militari nel Sud America degli Anni 80. Ha manifestato pacificamente per ottenere il diritto di voto nella Gran Bretagna del 19esimo secolo e ha ottenuto la democrazia nell’America Latina degli Anni 90.

Cosa accadrebbe, se questa massa di popolo conquistato al benessere ripiombasse, in poco tempo, nell’abisso della quasi-miseria? L’Economist non dava una risposta, ma si limitava a porre la domanda. Allargato su scala planetaria, ed esteso ai giganti del Terzo Millennio come Cina, India, Russia e Brasile, il nuovo “conflitto di classe” non è più solo un problema di difesa della democrazia economica. Diventa una questione di tenuta della democrazia in quanto tale. Questa rischia di essere la vera posta in gioco. Non solo per l’Occidente, ma per il mondo intero. (Beh, buona giornata).

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Quello che va di gran moda in Francia.

In Francia la rabbia scatenata dalla crisi economica è sfociata ancora una volta nella “caccia al manager”. Oggi ne ha fatto le spese anche Francois-Henri Pinault, patron del gruppo PPR, leader del lusso: è stato “sequestrato” per quasi un’ora da alcuni dipendenti della sua azienda che hanno bloccato il taxi su cui viaggiava a Parigi. Beh, buona giornata.

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