Categorie
Attualità Finanza - Economia - Lavoro

I soldi finti del governo: terremoto in Abruzzo.

Il sindaco Cialente (Pd): “Tra 15 giorni l’Aquila sarà come Napoli per l’emergenza rifiuti”-da blitzquotidiano.it

«Tra 15 giorni avremo un’emergenza rifiuti come quella napoletana, perché il Comune non ha i soldi per poter pagare l’azienda municipalizzata che si occupa della raccolta». È l’allarme lanciato dal sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, che ha partecipato a un incontro sulla Sanità abruzzese tra il viceministro Ferruccio Fazio e i medici. Sarà emergenza, ha sottolineato Cialente, «anche per il ciclo delle acque, visto che nessuno ovviamente paga più la bolletta. Faremo venire il G8 in questa situazione?».

La situazione finanziaria del Comune, ha ribadito il sindaco, è drammatica: «Non abbiamo più l’entrata dell’Ici, né la Tarsu. Non abbiamo più i soldi. Tra due mesi non potrò più pagare gli stipendi».(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Ma quale ottimismo, ma quale fine del peggio: la crisi uccide.

Tra Treviso e Padova, le storie di artigiani e manager travolti dall’incubo della crisi. E che dinanzi alle dure conseguenze hanno preferito togliersi la vita.Terzo imprenditore suicida in Veneto.Ossessionati dal dover licenziare
TREVISO – Temevano di dover licenziare. Per questo si sono uccisi. Sotto il treno, con una corda al collo o un colpo di pistola al cuore: hanno voluto cancellare l’incubo che non sopportavano più. In tre, da ottobre a oggi, tra Treviso e Padova, piccoli imprenditori, artigiani o manager. Dinanzi alll’imperativo di dover cacciare i loro dipendenti travolti dalla crisi economica, hanno preferito scomparire piuttosto che affrontare quello che ai loro occhi era un vero e proprio disonore, un tradimento della fiducia che le maestranze gli avevano concesso.

L’ultima vittima nel Veneto, è un dirigente d’azienda di 43 anni di Villorba, in provincia di Treviso. Stamane si è gettato sotto un treno in viaggio sulla linea Venezia-Bassano del Grappa, a Castello di Godego. A giorni avrebbe dovuto convocare i sindacati per annunciare la cassa integrazione. Non ha lasciato scritti per spiegare il suo gesto il manager, ma chi lo conosce bene non ha dubbi: lo ha ucciso lo stress di queste settimane, le trattative infinite con i rappresentanti sindacali, l’angoscia che la crisi avrebbe annullato l’azienda in cui lavorava.

Come è capitato ieri al titolare di una falegnameria a Lutrano, un paese non lontano da Treviso.
Cinquantotto anni, titolare di un’azienda di famiglia che porta il nome di suo padre e dei suoi fratelli, Walter Ongaro si è impiccato in un capannone della ditta. Era ossessionato dall’idea che la crisi che aveva colpito il settore, lo costringesse a dover lasciare a casa alcuni dei suoi otto dipendenti. Da gennaio gli ordini erano diminuiti e Walter aveva perso il sonno e l’angoscia di non avere alternative ai licenziamenti, lo ha spinto al suicidio.

La depressione per la crisi economica aveva gettato nel baratro anche un altro imprenditore padovano di 60 anni morto il 13 ottobre scorso con un colpo di pistola al petto. Corrado Ossana era preoccupato che qualcuno, con cui aveva contratto debiti, potesse far del male ai suoi figli. Vedovo da tempo, iscritto all’albo dei geometri, era riuscito a costruire un’attività affermata. Ma la crisi di questi mesi aveva peggiorato i suoi affari e dopo una domenica pomeriggio trascorsa chino sui conti che non riusciva più a far quadrare, ha puntato la canna della sua Smith&Wesson calibro 40 contro il cuore, e ha fatto fuoco. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro

L’Istat smentisce chi dice che la crisi sta passando.

Gli ordinativi dell’industria italiana a marzo hanno registrato un calo del 26% rispetto a marzo 2008 e del 2,7% rispetto a febbraio 2009, comunica l’Istat. Nel settore auto, informa sempre l’istituto di statistica, il fatturato dell’industria a marzo è diminuito del 27,9% rispetto a marzo 2008, mentre gli ordinativi sono calati del 19%.

La flessione degli ordinativi è stata determinata dalla domanda estera con una contrazione del 9,4% mentre gli ordini domestici mostrano una crescita dell’1%. Al contrario il fatturato estero a marzo sale dello 0,1% e quello domstico accusa un calo dell’1,3%. Nel complesso il primo trimestre dell’anno evidenzia rispetto al precedente un calo del 9,9% per gli ordinativi e per il fatturato.

A marzo, a livello settoriale, i mezzi di trasporto accusano un calo del fatturato del 36,4% sul marzo del 2008 mentre gli ordinativi mostrano una contrazione del 30%. Per il fatturato le flessioni più contenute per la farmaceutica (-6,3%), estrazione minerali (-2,2%), alimentari (-2,7%). Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Scuola

Torino: il G8 si scontra con gli studenti.

G8 Università, scontri e tensione al corteo degli studenti dell’Onda di di OTTAVIA GIUSTETTI-repubblica.it

TORINO – Scene di guerriglia urbana questa mattina a Torino per il corteo del contro G8 dell’Università con migliaia di ragazzi da diverse città italiane, quasi tutti dei centri sociali, che hanno “assaltato” il Castello del Valentino dove nel frattempo si stava chiudendo il summit dei rettori dei paesi del G8. Lacrimogeni, bombe carta, pietre e manganelli hanno chiuso la manifestazione che però, dalle prime informazioni, si è conclusa senza gravi feriti. Secondo i dati forniti dalla questura di Torino diciannove agenti sono rimasti contusi o lievemente feriti negli scontri, mentre sembra che non ci siano feriti tra i ragazzi che hanno partecipato agli scontri. Due invece gli anti-G8 fermati, probabilmente del gruppo dei milanesi.

Solo tanta tensione, dunque, e uno “spettacolo” che si è rivelato assolutamente fedele alle aspettative. Con centinaia di agenti a blindare la città, elicotteri, e i contestatori che per l’appuntamento con la polizia hanno coperto i volti e hanno indossato caschi e bastoni schierandosi in file compatte dietro a uno scudo lungo oltre dieci metri camuffato da striscione.

Il corteo, formato da qualche migliaia di giovani, è partito intorno alle 11 dalla palazzina Aldo Moro, a fianco dell’Università, ribattezzata palazzina Block G8 per l’occasione, al seguito del camioncino di tutti i cortei dell’Askatasuna il noto centro sociale degli autonomi torinesi. Due blocchi di agenti in tenuta antisommossa aprivano e chiudevano il corteo che a passo svelto percorreva via Po, piazza Castello, via Pietro Micca, piazza Solferino, corso Re Umberto, corso Vittorio Emanuele, via Madama Cristina e corso Marconi per chiudere davanti al Castello. Lungo il tragitto qualche isolato contestatore ha lasciato scritte lungo i muri, a gruppetti hanno acceso fumogeni davanti all’ingresso delle banche, mentre i negozianti chiudevano le saracinesche lungo il loro passaggio.

Gli uomini della Digos, guidati da Giuseppe Petronzi, hanno accompagnato il corteo, in borghese, lasciando che gli abitanti rimanessero in strada a seguire la manifestazione. Non raccogliendo né lanciando alcuna provocazione hanno lasciato che si arrivasse al Castello senza incidenti. E lì si è messa in scena la guerriglia annunciata. I ragazzi hanno indossato la loro “armatura” e gli agenti pure. I primi schierati su un fronte del corso, gli altri sull’altro. La tensione saliva mentre i ragazzi dell’Askatasuna dalla camionetta incitavano con il microfono allo scontro. Dopo una ventina di minuti gli anti-G8, caschi in testa e volti coperti, hanno serrato le fila e hanno cominciato ad avanzare verso la polizia. Dietro allo scudo avevano estintori. Hanno lanciato bottiglie, pietre e bombe carta. I poliziotti hanno indossato le maschere e sparato i lacrimogeni costringendo i manifestanti alla ritirata. La carica vera e propria è durata pochi minuti. Al termine dei quali gli anti-G8 hanno riformato il corteo e sono tornati a Palazzo Nuovo.

Dal Castello del Valentino i rettori hanno risposto: “Non ci siamo barricati, siamo sempre stati e rimaniamo aperti al dialogo con gli studenti. In quello che è successo ieri e oggi c’è stato un difetto di comunicazione”. Il rettore del Politecnico di Torino, Francesco Profumo, del presidente della Crui Enrico Decleva e di Giovanni Puglisi, il rappresentante della Commissione Italiana per l’Unesco, a conclusione dei lavori del summit hanno firmato il documento che sarà inviato al vero G8 di luglio a l’Aquila. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Per fronteggiare la crisi il governo italiano ha investito solo 0,2 del Pil. Ecco perché siamo nei guai fino al collo.

Manovre anti-crisi Italia fanalino di coda di LUCA IEZZI

La reazione c’è stata, ma il fiume di denaro pubblico già versato difficilmente basterà e sulla sua efficacia si sbilancia solo il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Khan: “I pacchetti fiscali forniranno da 1 e 3 punti percentuali in più alla crescita quest’anno”. I suoi economisti sono più dubbiosi: i paesi del G20 hanno sì stanziato il 2% del loro Pil nei pacchetti anti-crisi ma lo sforzo “dovrà essere sostenuto, se non aumentato nel 2010”. E lo stesso Strauss-Khan ammonisce: “Con le politiche fiscali c’è un tempo per la semina e uno per la raccolta, e le politiche espansive di oggi devono andare per mano con politiche rigorose domani”.

Sull’individuazione di quel “domani” il dibattito è aperto: i deficit 2009 esploderanno. Nella Ue la Spagna ha approvato una manovra pari al 2,3% del Pil di quest’anno, la Germania 1,6%, l’Inghilterra 1,4%, difficilmente potranno replicare. L’entità della scommessa appare evidente se si mettono in fila le cifre assolute dei piani per lo più triennali gli Stati Uniti fornirà all’economia 787 miliardi di dollari (620 miliardi di euro) tra questo e l’anno prossimo, senza contare gli oltre 700 stanziati nel 2008 per sostenere il sistema finanziario.

L’Unione Europea si è mossa in ordine sparso e ogni governo ha guardato alle crisi più pesanti nel proprio cortile (le banche per il Regno Unito, l’industria automobilistica per la Germania, la disoccupazione in Spagna e il debito pubblico in Italia), variando così ripartizione e entità di ogni dei singoli pacchetti. Sommati arrivano a 350 miliardi di euro spalmati in più anni, in cui vanno considerati anche lo sforzo messo a carico sul bilancio comunitario: 30 miliardi per progetti comunitari e 50 a sostegno dei paesi dell’Est europa.

Non mancano però i punti comuni che li rendono in qualche modo confrontabili: negli aiuti alle famiglie lo sforzo maggiore lo ha fatto la Germania con 20 miliardi di mancate entrate per la riduzione delle aliquote fiscali, segue la Spagna con 14 miliardi. Nella riduzione del peso fiscale per le imprese e nel sostegno ai flussi di credito testa a testa tra Spagna e Francia (17 a 16 miliardi). Negli investimenti in infrastrutture stravince le Germania (25 miliardi).

Discorso a parte per l’Italia, secondo l’Fmi solo lo 0,2% del Pil – poco meno di 2,8 miliardi e un decimo della media mondiale – è utilizzabile come stimolo: qualche modifica in corsa alla Finanziaria e i due miliardi del dl anti-crisi che ha incentivato gli acquisti di auto moto ed elettrodomestici. Il governo dichiara invece un pacchetto da 40 miliardi di cui 16 nel 2009. La spiegazione di tale discrepanza sta nella relazione del ministero del Tesoro (Ruef): “Il governo è intervenuto soprattutto anticipando l’approvazione della manovra a giugno. A settembre quando la crisi finanziaria si è rivelata nella sua gravità, pur prevedendo interventi sostanziali non ha alterato gli effetti della manovra” che prevedeva il taglio della spesa pubblica di 59,4 miliardi in 3 anni. Una scelta mai rinnegata e che zavorrerà la ripresa nazionale. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il capo del governo dice che la crisi sta passando, la presidente di Confindustria dice che non è vero.

Marcegaglia spegne gli entusiasmi “Uscita da crisi? Lunga e dolorosa” Per gli industriali la crisi non può essere l’alibi per non fare riforme necessarie di ROBERTO MANIA-repubblica.it

La parola “depressione” per definire questa crisi economica, Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria non l’aveva ancora usata. Forse in Italia non l’aveva pronunciata ancora nessuno. Ma questo è l’umore degli industriali a quattro giorni dall’Assemblea generale della Confindustria. D’altra parte è ancora fresco di inchiostro l’ultimo crollo del Pil con il timbro dell’Istat: -5,9%, il peggiore dal 1980. “Siamo in una crisi molto profonda, inedita e senza paragoni”, ha detto ieri il presidente di Viale dell’Astronomia. E poi: “E’ la peggiore dalla depressione del 1929 a oggi”. Con una differenza fondamentale rispetto a quella degli anni Trenta: l’intervento sufficientemente tempestivo dei governi a chiudere le falle. Dunque “anche se il peggio è alle spalle – ha detto Marcegaglia – la nostra percezione è che la strada per l’uscita dalla crisi sarà lunga, complicata e dolorosa per arrivare di nuovo ad un livello accettabile”. Crisi a L, direbbero gli esperti: con un Pil destinato a essere per lungo tempo stabile, ma fiacco, dopo aver toccato il fondo. Proprio come durante la Grande Depressione.

Così dell’analisi tendenzialmente rassicurante della coppia Berlusconi-Tremonti la Confindustria condivide di certo solo un aspetto: che il peggio è alle spalle, probabilmente. Bisogna riconoscere che non è molto. E lo si vedrà giovedì all’Auditorium di Renzo Piano a Roma all’appuntamento annuale più importante degli industriali: Marcegaglia chiederà al governo di cambiare registro. Perché non è vero che una volta usciti dalla crisi saremo più forti. Anzi. Se un ragionevole uso della leva finanziaria ci ha salvaguardati dal tracollo andato in onda in altri paesi, dagli anglo-sassoni alla Spagna, e se l’imprenditoria diffusa è ancora un fattore di forza per la nostra economia, senza il “coraggio” delle riforme strutturali rischiamo di andare (o rimanere) in serie B. Non ci si può scordare – è la tesi degli industriali – che da anni – ben prima della crisi dei subprime – l’economia italiana cresceva a tassi inferiori a tutti i suoi concorrenti.

Riforme, allora, per ridurre il peso della spesa pubblica (già oltre il 50 per cento del nostro Pil), fluidificare i processi decisionali, ammodernare le istituzioni, chiudere la stagione dello statalismo municipale e far fare un passo indietro all’invadenza della politica. Insomma, previdenza e liberalizzazioni sono in cima alla lista confindustriale. Questo – secondo Marcegaglia – è il momento di sfidare l’impopolarità, l’ostracismo e i veti delle lobby. Anziché fissare costantemente l’asticella del termometro del consenso. “E’ il momento di fare”, dirà la Marcegaglia proprio a Berlusconi. Il che non vuol dire – spiegano a Viale dell’Astronomia gli uomini dello staff che stanno limando il discorso del presidente – una bocciatura dell’azione di governo: vuol dire che bisogna fare di più. Molto di più. Perché la crisi non deve rappresentare l’alibi dell’immobilismo sulle pensioni, sugli sprechi nella sanità (soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno), sulle carenze infrastrutturali, sulle politiche ambientali ed energetiche. Non sarà una bocciatura, ma nemmeno una promozione per il primo anno di legislatura del governo Pdl-Lega.

La Confindustria, insomma, si aspettava di più.
Intanto chiede alla pubblica amministrazione di pagare subito i crediti alle imprese (in particolare quelle di piccole dimensioni) che continuano ad avere difficoltà ad accedere ai finanziamenti bancari. All’appello – secondo le stime degli imprenditori – mancano dai 60 ai 70 miliardi, mentre Tremonti è disposto a non andare oltre 30 miliardi di euro. Perché con un Pil che non sale e una spesa che non scende anche il controllo del deficit è molto a rischio. E non basta l’ottimismo. (Beh,buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro

Brutte notizie per il governo Berlusconi che sperava la crisi passasse da sola.

Il Prodotto interno lordo dell’Italia è calato nei primi tre mesi dell’anno del 5,9% rispetto allo stesso trimestre del 2008. Il calo rispetto al trimestre precedente è del 2,4%. Lo rileva l’Istat, che precisa che dati tanto negativi non si registravano dal 1980, cioè dall’inizio della serie storica. Peraltro, quattro trimestri consecutivi di calo non si vedevano dal 1992-1993, quando i cali furono sei, ma di minori entità.

Sulla base degli attuali dati, è del 4,6% il calo della crescita già acquisito per il 2009. In pratica, spiega l’Istat, anche se i prossimi trimestri vedranno una variazione nulla, si registrerà un calo del Pil pari al 4,6%. Un dato peggiore di quello previsto dalle ultime stime del governo, inserite nella Relazione Unificata sull’Economia e Finanza (Ruef): – 4,2%. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

“In Francia gli operai sequestrano i manager, in Italia tre manager hanno sequestrato la vita di 20.000 lavoratori Alitalia.”

dal comunicato stampa di Segreteria Nazionale SdL Intercategoriale – Trasporto Aereo

Le notizie che cominciano a trapelare dalla stampa rispetto alle indagini della Procura della Repubblica sulle responsabilità dei precedenti Amministratori Delegati di Alitalia, Mengozzi, Zanichelli e Cimoli sul crack Alitalia, riaccendono finalmente la luce sulle vere cause che hanno rovinato il lavoro di 20.000 persone dipendenti dell’ex- Compagnia di Bandiera.
Altro che i privilegi delle maestranze, triste strumentalizzazione che abbiamo dovuto subire durante l’ultima vertenza: il disastro che ha depauperato un patrimonio industriale, professionale e umano dell’intero Gruppo Alitalia ha avuto ben altre origini.

Dobbiamo dire che tutta la serie impressionante di valutazioni negative e di pubbliche denuncie fatte dalla nostra Organizzazione Sindacale rispetto alla gestione di Alitalia durante il periodo di che va dal 2001 al Commissariamento del 2009, non solo non hanno trovato il dovuto ascolto, ma hanno addirittura provocato la reazione degli stessi dirigenti in termini di discriminazione ed emarginazione sindacale di SdL.

Alla fine, il conto è stato lasciato sulle spalle dei lavoratori e dell’intera collettività.
E’ compito della magistratura fare le indagini e determinare le possibili responsabilità, ma fin d’ora annunciamo che SdL si costituirà parte civile nell’eventuale processo che si venisse a determinare nel caso fossero confermate le prime indiscrezioni.

Ciò non lenisce i problemi che assunti in CAI, cassaintegrati e precari stanno vivendo sulla loro pelle a causa del fallimento di Alitalia, ma l’individuazione delle vere responsabilità di chi ha guidato l’Azienda, percependo tra l’altro lauti stipendi, potrebbe evidenziare ulteriormente l’iniquità dell’intero processo subito da 20.000 persone, oltre a rappresentare un atto di dovuta chiarezza e giustizia verso l’intera Nazione. (Beh, buona giornata).
14 maggio 2009

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro

Joseph Stiglitz: alla domanda “come sarà il mondo una volta usciti dalla crisi?”, io non posso che rispondere che non lo so, perché ciò che ancora non conosciamo esattamente è l’intensità e la profondità delle ripercussioni della crisi sulle banche.

«Il gigantismo bancario ha intaccato il modello Usa» -sole24ore.com
Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a George Akerlof e Michael Spence, è considerato uno dei fondatori dell’economia dell’informazione grazie ai suoi studi sulle “asimmetrie informative”. Ma è anche una “voce fuori dal coro” nel mondo degli economisti, oltre che un intellettuale impegnato (ieri era alla Luiss di Roma per stilare insieme al gruppo di esperti di fama mondiale dello Shadow Gn una serie di raccomandazioni da presentare al prossimo G-8 dell’Aquila). E se gli si chiede un’analisi sulla «Lezione per il futuro» di Guido Tabellini pubblicata ieri, risponde di avere un gran timore che finiscano con il prevalere quelli che vorrebbero semplicemente il ripristino dello statu quo ante. Crisi di sistema o incidente temporaneo? «Intanto – precisa – non sappiamo ancora se sia davvero terminata la parte peggiore della tempesta finanziaria, quella che si è scatenata il 15 settembre 2008, con il fallimento di Lehman. E in ogni caso, dopo l’attuale turmoil, ritengo che dovremo fare i conti con un lungo periodo di crescita dell’economia reale nel mondo e in particolare negli Stati Uniti, piuttosto debole. Dunque, se dobbiamo provare a immaginare come sarà il dopo, dobbiamo parlare di quel che accadrà fra cinque o sei anni».

Un lungo tunnel, quindi. Che cosa troviamo all’uscita?
Ci sono cose di cui possiamo essere già ragionevolmente sicuri, ma ce ne sono anche molte altre ancora avvolte nell’incertezza. Sono convinto, ad esempio, che si verificherà in una certa misura un ribilanciamento del potere economico globale. Certamente il modello americano non sarà più considerato con la stessa deferenza del passato. Ci sarà una maggiore “contestabilità”, ci sarà più dibattito su quale sia il miglior modello economico, ad esempio all’interno dei paesi in via di sviluppo. Ma anche in Europa, prima, negli anni 90, molti dicevano: dobbiamo imitare tout court l’America se vogliamo avere successo. Penso che già oggi in questi termini non si esprima più nessuno. Adesso si dice: dobbiamo capire come si fa a produrre le grandi innovazioni che hanno introdotto gli Usa, evitando, però, i loro errori.

Già, che cosa è andato storto, a suo parere?
Ovviamente, è questo è già stato messo sotto la lente d’ingrandimento, ci sono state cose che non hanno funzionato nella normativa finanziaria e nella politica monetaria. Nel campo della regulation, oggi sappiamo che per funzionare deve essere onnicomprensiva e abbracciare l’intero sistema bancario e finanziario. Conosciamo, ormai, i guasti prodotti dall’eccesso d’ingegneria contabile, come l’enorme mole di transazioni finanziarie avvenute fuori dai bilanci. Sappiamo che sono stati concessi forti incentivi a comportamenti sbagliati. Sappiamo che l’era delle cartolarizzazioni ha finito con l’introdurre nuove asimmetrie informative. Poi, ci sono interrogativi più profondi, sul perché si sia creato un problema di domanda aggregata globale, oppure perché le Banche centrali abbiano adottato politiche monetarie così carenti. Insomma, per valutare la profondità di questa crisi bisogna considerare sia il funzionamento delle forze economiche, sia quali sono state le carenze di tipo intellettuale e culturale. In ogni caso, oggi negli Stati Uniti ci sono molti soggetti appartenenti alla comunità finanziaria, che vorrebbero con tutte le loro forze tornare allo statu quo ante, al mondo com’era prima del 2007 per avere lo stesso sistema finanziario, eccettuati i collassi e i fallimenti.

A chi si riferisce?
Mi riferisco a quelle grandi, grandissime banche, di cui si pensava che fossero troppo grandi per fallire; il loro gigantismo è una delle cause principali della crisi. Ma il modo nel quale hanno agito sia Obama, sia Paulson, con i rispettivi piani finanziari, in fin dei conti attraverso il consolidamento creditizio non fa che accrescere ancora queste istituzioni finanziarie, nel momento in cui le ristruttura. In altri termini, io non vedo ancora proposte serie di riforma della struttura finanziaria, ma solo una serie d’interventi cosmetici, perché le banche resistono con forza al cambiamento e non hanno la benché minima intenzione di lasciarsi ridimensionare. In sostanza, nonostante i loro fallimenti, le grandi banche continuano a esercitare una forte influenza politica negli Stati Uniti e hanno il potere di fermare il processo di riforma delle regole. In definitiva, alla domanda “come sarà il mondo una volta usciti dalla crisi?”, io non posso che rispondere che non lo so, perché ciò che ancora non conosciamo esattamente è l’intensità e la profondità delle ripercussioni della crisi sulle banche. L’area dell’incertezza è qui. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Società e costume

L’Italia nella crisi:”sembrerebbe quasi la fine di una lunga fase di imborghesimento della società italiana e l’inizio, per il ceto medio, della paura di perdere terreno.”

Censis: colpiti dalla crisi la metà degli italiani, il 60% riduce i consumi-sole24ore.com
La crisi ha avuto «ripercussioni significative» su un italiano su due, ma ha consentito ai consumatori di «fare pace con l’euro».

Sono le conclusioni a cui arriva la quarta e ultima edizione del “Diario della crisi”, redatto dal Censis, secondo il quale il 47,6% degli italiani è stato «toccato concretamente» dalle difficoltà economiche, «anche se con intensità differenti: quasi il 40% ha subito perdite nei propri investimenti, mentre il 30% ha subito una riduzione del reddito». Allo stesso tempo, «circa il 60% ha cercato di ridurre i consumi, senza grandi differenze tra chi è intervenuto sulle spese in generale e chi solo su quelle voluttuarie», mentre si è ridotta ulteriormente la già modesta tendenza ad indebitarsi: il ricorso al credito al consumo è infatti sceso del 10% nei primi tre mesi dell’anno rispetto al 2008.

Il Censis sottolinea però che «uno degli effetti più imprevedibili della crisi è quello di aver avviato una fase meno risentita nel rapporto tra gli italiani e la moneta unica europea». In particolare, «il mondo dei salariati a reddito fisso ha conosciuto una piccola rivincita su tutti coloro che erano riusciti a speculare con l’euro. Grazie ad un’inflazione sostanzialmente ferma, al calo dei mutui e dei prezzi del carburante, vi è stato un recupero del potere d’acquisto di questa categoria».

Nonostante ciò, rimarca ancora il Censis, al momento resta «la confusione del ceto medio», che sta pagando la fine delle certezze passate, come la crescita costante, il welfare e la sicurezza del lavoro «specialmente per i figli». Secondo l’istituto di ricerca, «sembrerebbe quasi la fine di una lunga fase di imborghesimento della società italiana e l’inizio, per il ceto medio, della paura di perdere terreno». Una paura ancora forte, tanto che per il 68,3% degli intervistati «non è affatto vero che ormai abbiamo toccato il fondo». Per il 55% degli italiani «il soggetto pubblico non ha fatto qualcosa di concreto per famiglie e imprese», il 15% dei cittadini ha mostrato apprezzamento per il lavoro svolto da Comuni, Province e Regioni. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

L’Italia e la crisi economica:”nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere.”

Bersani, ecco le domande che nessuno fa mai alla destra di Bianca Di Giovanni -l’Unità
«E’ un governo più impegnato ad accrescere consensi che a risolvere i problemi veri. Passa per il governo del fare? Certo, nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere». Pier Luigi Bersani dà un giudizio senza appello sul primo anno del governo Berlusconi quater. Detto in due parole: racconta favole. Evidentemente, però, le racconta bene, visto che la popolarità è in aumento (dicono). «Certo, questo è un governo nato per accrescere consenso: è la sua prima missione», spiega Bersani.

Quali sono le domande non fatte?

«Per esempio nessuno ha chiesto a Giulio Tremonti e colleghi come mai l’Europa parla di un milione di disoccupati in più in Italia per quest’anno (nelle previsioni di primavera, ndr) che non compaiono nella sua Relazione unificata. Gran parte di quei nuovi disoccupati è costituita da precari, a cui non è stato dato nulla. Altro che governo del fare. Nella stessa Relazione si stima che gli investimenti diminuiranno di 5 miliardi in un anno. E tutte le chiacchiere sulle infrastrutture e le promesse sul Ponte?».

Altre domande?

«Ci aspettiamo qualche risposta per esempio sulle garanzie date dal Tesoro sull’operazione Alitalia, in cui sono rimasti intrappolati piccoli azionisti e obbligazionisti che ora si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Ancora: c’è qualcuno che ricordi a Tremonti che abbiamo speso 1,7 miliardi per coprire i “buchi” delle sue cartolarizzazioni? È più di quanto è costato il bonus famiglie. E qualcun altro che rammenti le perdite della finanza locale, avviata grazie a una circolare del Tesoro dell’altro governo Berlusconi? Nessuno ricorda nulla. D’altro canto questo governo è una macchina del consenso, per cui bisogna ogni giorno attivare un meccanismo di rappresentazione di nuove “conquiste”, che poi si perdono».

Cosa si è perso?

«Dov’è finito il maestro unico, su cui si scatenò all’inizio una guerra di religione? Dov’è l’esercito nelle strade? Dove sono i Tremonti bond? Lo sa la gente che li ha richiesti solo in una banca, il banco popolare? Cosa fanno esattamente i prefetti sul credito? Nessuno lo sa e nessuno vuole saperlo».

Insomma, con la crisi che morde, i problemi sociali, gli italiani crederebbero alle favole?

«Dopo gli ultimi fatti di cronaca su Veronica, consentitemi di dire che ci raccontano cose inverosimili e vogliono farcele credere. Non voglio parlare di divorzi, ma si sentono delle tesi sulle feste, l’arrivo all’ultimo minuto, il gioiello ritrovato per caso, che in altri paesi ci si vergognerebbe pure a raccontarle».

Resta il fatto che di fronte alla crisi (che è reale) il centrodestra non perde consensi.

«La loro tesi è che la crisi viene da altrove, che noi siamo solo delle vittime e dobbiamo resistere e dunque che non si può fare molto. Su questo comunque io andrei a contare i voti reali dopo le elezioni. Se si fa questo esercizio ci si accorge che Berlusconi non ha mai sfondato nell’altro campo. Quello che è riuscito a fare è rendere utilizzabile tutto il voto di destra del paese. Quando il centrosinistra si è unito, è riuscito a batterlo, ma poi si è visto che l’unità era una composizione piuttosto che una sintesi. Questo è il problema».

Non c’entra nulla la poca credibilità dell’opposizione?

«Anche noi ci abbiamo messo del nostro, rimanendo poco credibili sul come si costruisce un’alternativa. Dobbiamo lavorare a costruire e rilanciare un progetto».

Lei è ancora candidato alla segreteria?

«Su questo ho già parlato e non voglio aggiungere altro. Ora pensiamo alle elezioni, poi si vedrà».

Sul centrosinistra resta forte l’accusa di non saper leggere la realtà. Il Corsera scrive che ha bisogno di alfabetizzarsi per parlare alle partite Iva e alle piccole imprese.

«Le piccole imprese sono arrabbiatissime anche con la destra, che non le aiuta a superare la crisi. Mi pare che lo scriva proprio il Corsera. Dunque non mi pare che sia un fatto di alfabetizzazione. La verità è quella che il centrosinistra ripete ormai da mesi: noi siamo l’unico Paese che non ha fatto nulla di espansivo per fronteggiare l’emergenza, ma si è limitato a spostare fondi da una voce all’altra, per di più senza avere la cassa. Si impacchettano nuove voci di spesa, per l’Abruzzo o per la sicurezza, ma in cassa non c’è un euro».

Le preoccupazioni di Tremonti per il debito sono sacrosante.

«E lo dice a noi che abbiamo sempre rimediato al debito della destra? Ma correggere il debito vuol dire anche far crescere il Pil».

Questo lo dicevano loro quando facevano ancora i liberisti.

«Sì, ma loro giocavano con i numeri. Spargevano ottimismo e scrivevano una crescita del 3% quando il Pil era a 1. Noi proponiamo misure concrete per un punto di Pil e un percorso di rientro in due anni. Se non si sa come reperire mezzo punto di Pil in un anno, significa che non si sa governare. Il governo Prodi ha corretto il deficit dal 4,5% al 2,7% erogando anche il cuneo fiscale. Per rientrare di mezzo punto basta diminuire la circolazione del contante rendendo tracciabili i pagamenti e controllare meglio la spesa corrente».

Perché il centrosinistra ha proposto il prelievo sull’Irpef dei ricchi (che sono più poveri comunque degli evasori) e nulla sulle rendite?

«La proposta era di un contributo straordinario per la povertà estrema, e prevedeva anche misure contro l’evasione. Quanto alle rendite, abbiamo contrastato la seconda operazione Ici, dicendo chiaramente che non andava fatta». (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Accordo Fiat-Opel: si chiude Termini Imerese e si apre in Serbia?

di Diodato Pirone-ilmessaggero.it
«Non è la possibile fusione Fiat-Opel a sconvolgere il mercato dell’auto. E’ la crisi mondiale che sta scuotendo tutto. Opel ha perso quasi 1,5 miliardi nei primi tre mesi del 2009 e se persino Toyota vende un milone di auto in meno nel mondo vuol dire che chi sta fermo è perduto». Parla così una fonte vicina alla trattativa Fiat-Opel per tentare di diradare un po’ del polverone che avvolge il parto travagliato del nuovo polo europeo dell’auto.

Ma che cosa comporta la Grande Ristrutturazione Globale sul fronte del lavoro? Marchionne lo ha scritto nel Piano Fenice alla base del progetto di fusione Fiat-Opel: la capacità produttiva va ridotta del 22% perché tenere aperte linee di produzione inutilizzate fa esplodere i costi. Per questo da anni l’amministratore delegato di Fiat predica la creazione di grandi stabilimenti da 4-500 mila auto annue. L’ultimo tentativo per costruirne uno nuovo in Italia è fallito a inizio 2008 quando Marchionne si arrese di fronte all’impossibilità (perché bisognava costruire un porto e per mille intoppi politici, sindacali e burocratici) di raddoppiare la fabbrica di Termini Imerese, in Sicilia. E così la nuova auto per Termini, la Topolino con motore bicilindrico, con ogni probabilità sarà battezzata in Serbia dove Fiat, con fondi del governo di Belgrado, sta costruendo una fabbrica extra-large.

Poi è arrivata la Grande Crisi e la cassa integrazione a valanga. Da ottobre i 1.600 operai di Termini (e i 400 dell’indotto) sono stati fermi per 5 mesi. Nel 2008 hanno fabbricato oltre 150 mila Lancia Ypsilon contro le 70-80 mila previste per quest’anno: Termini assomiglia, di fatto, a un morto che cammina anche se fabbricherà Ypsilon fino a tutto il 2010.

E dopo? Il Piano Fenice ne ipotizza la riconversione nella produzione di componenti. Così come riconversioni o chiusure – anche se gli uomini di Marchionne giurano di non aver mai scritto questo termine – toccheranno in tutt’Europa gli anelli più deboli della catena Opel: Luton, in Gran Bretagna, da cui fino al 2012 usciranno furgoni ”cofirmati” da Renault; Graz, in Austria che fa trasmissioni; Anversa, in Belgio, troppo vecchio; Kaiserslautern, in Germania, meno efficiente nella motoristica rispetto all’impianto polacco di Bielsko-Biala che Fiat e Opel già condividono.

In questo quadro anche l’Italia paga un prezzo: di Termini s’è detto. Poi non è definita la missione dell’enorme fabbrica di Pomigliano (350 mila metri quadri coperti) che prima della crisi assemblava 250 mila Alfa Romeo ridotte a meno di 100 mila quest’anno. Resta da capire chi farà (e dove) la ricerca e qui anche Torino rischia di perdere qualche pennacchio.

L’incredibile è che se Fiat-Opel non dovesse nascere le cose potrebbero andare anche peggio. In questo caso lo scheletro dell’industria automobilistica europeo potrebbe fratturarsi in più punti. Per questo ieri Karl-Theodor zu Guttenberg, il giovane ministro dello Sviluppo Economico della Germania, ha ripetuto pari pari una frase cara a Sergio Marchionne: «E’ l’Europa che deve risolvere il problema Opel». (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Quarta crisi: il Nyt continua a tagliare.

da blitzquotidiano.it

Bill Keller, l’editore del New York Times, ha aggiornato il suo staff sul piano di tagli al budget redazionale.
Ha confermato inoltre il taglio generalizzato dei freelance, la chiusura degli inserti come “City” e “Escapes”, sui quali erano già circolate voci, e della rubrica di moda pubblicata dal settimanale “New York’s Magazine”.(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Murdoch dice che la quarta crisi sta passando.

Crisi/ La News Corp. dice di vedere per i media Usa la luce alla fine del tunnel-blitzquotidiano.it
La News Corp. di Rupert Murdoch si è unita ad altre organizzazioni dell’industria dei media nell’affermare che la crisi potrebbe essere finita anche se i risultati del primo trimestre continuano ad indicare debolezza economica, a quanto scrive il Wall Street Journal.

I profitti della News Corp. nel primo trimestre nel settore televisivo e dei giornali sono calati del 47% a causa della diminuzione delle entrate pubblicitarie. Sono invece aumentati i profitti delle reti televisive via cavo e del comparto film. Nei giorni scorsi hanno parlato di stabilizzazione anche la Walt Disney Co. e la Viacom Co.

«È sempre più chiaro che il peggio è passato», ha dichiarato Murdoch, anche se, ha rilevato, «è ancora presto per esserne sicuri».

Complessivamente, le entrate al netto del gigante mediatico nel trimestre sono state di 2,7 miliardi di dollari, o 1,04 dollari per azione, sostanzialmente uguali allo stesso periodo del 2008 quando sono state di 2,7 miliardi, o 91 centesimi per azione.

Share
Categorie
Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Come “non” si sta uscendo dalla crisi finanziaria.

di CARLO CLERICETTI da repubblica.it

Dopo che si è saputo ufficiosamente che la Bank of America avrebbe avuto bisogno di altri 35 miliardi di dollari di ricapitalizzazione – dopo i 45 già ottenuti – all’apertura di Wall Street il titolo, invece di crollare come ci si sarebbe aspettati, si è impennato del 12% ed ha poi chiuso con un guadagno di oltre il 17%. Altrettanto cospicui rialzi (Citigroup 16,6%, Wells Fargo 15,6) hanno fatto segnare le altre banche che, secondo le anticipazioni dello “stress test” a cui le hanno sottoposte le autorità monetarie, avranno anch’esse bisogno di un’altra montagna di soldi per evitare il fallimento. Un altro segno del completo impazzimento del mercato? Sì, e anche no. Il motivo, per quanto paradossale, di questo andamento sta nel fatto che gli analisti ritenevano che di soldi ne servissero ancora di più, nel caso di Bank of America almeno il doppio. E dunque tutti hanno considerato la notizia una bella sorpresa.

Delle numerose follie che hanno portato alla crisi globale e di come venirne fuori hanno parlato martedì scorso quattro esperti d’eccezione, nel corso della Fixing Finance Conference organizzata dall’Abi. Il Nobel per l’economia Jo Stiglitz, Rainer Masera, banchiere di lungo corso ed ex ministro dopo essere stato molti anni ai vertici di Via Nazionale, Luigi Spaventa, uno dei più autorevoli economisti italiani e – tra l’altro – ex presidente della Consob e Giuseppe Zadra, direttore dell’associazione bancaria, che ha introdotto il dibattito.

Quella di Stiglitz, già consigliere di Bill Clinton e da anni feroce critico degli eccezzi del liberismo e della finanziarizzazione, più che un’analisi economica è stata un’orazione accusatoria. “Il sistema finanziario avrebbe dovuto gestire i rischi, invece li ha creati. Avrebbe dovuto finanziare le imprese, invece impiegava i capitali nei mutui subprime. Andava a caccia dei soldi dei più poveri con prestiti predatori. E la malattia ha contagiato anche le aziende, che impiegavano più di un terzo dei profitti nel settore finanziario invece che per svilupparsi”.

La crescita della disuguaglianza nel reddito (“oggi ce n’è più che nel ’29”) ha influito negativamente sulla domanda aggregata, resa insufficiente – e qui la tesi di Stglitz appare piuttosto sorprendente – anche dal comportamento dei paesi del Far East, che, scottati dalla crisi del ’97, hanno cominciato ad accumulare riserve sottraendo risorse allo sviluppo. Poi l’economista ha fatto a fette i vari piani di salvataggio Usa, sia i due di Hank Paulson (il segretario al Tesoro di Bush), sia quello attuale di Tim Geithner. “Finora sono stati iniettati nel sistema 7 trilioni di dollari, ma è stato confuso il salvataggio delle banche con quello dei banchieri”. Un bell’esempio, ha detto con pesante ironia, di “socialismo all’americana”, in cui lo Stato redistribuisce i soldi dai meno abbienti ai ricchi. Dalla crisi, ha concluso, si esce tornando a considerare la finanza un mezzo per finanziare gli impieghi produttivi. E basta con le banche così grandi che, se falliscono, trascinano nel disastro l’intera economia: serve una nuova legge antitrust che imponga loro una riduzione delle dimensioni.

Più tecniche le ricette di Rainer Masera, che ha fatto parte del gruppo di otto saggi presieduto dall’ex governatore francese Jacques de Larosière che ha presentato a metà marzo le sue proposte di riforma. Masera ha insistito sull’importanza che la vigilanza “micro” (cioè quella attuale sugli operatori finanziari) sia affiancata da una “macro”, cioè sui rischi sistemici, che andrebbe affidata alla Bce, mentre l’altra resterebbe alle banche centrali nazionali. L’istituto di Francoforte vorrebbe invece poteri diretti anche sui gruppi di dimensione europea, ma “i 25 maggiori gruppi possiedono i tre quarti degli asset europei”, ha osservato Masera, obiettando implicitamente che in questo modo si svuoterebbe il ruolo delle banche centrali dei vari paesi.

Da cambiare anche l’accordo “Basilea 2”, che ha stabilito le nuove regole internazionali per le banche. Rispettando quei criteri, per esempio, l’Ubs, a fronte di mezzi propri per 40 miliardi di franchi svizzeri, aveva impieghi per 1,7 trilioni. Servono inoltre una serie di provvedimenti per ridimensionare il ruolo e controllare le agenzie di rating, che hanno mostrato ancora una volta una scarsissima attendibilità. Quanto alle ultime stime del Fondo monetario sugli asset “tossici” in circolazione, Masera ha detto con franchezza che le ritiene sbagliate per eccesso. “Si parla di oltre 4 trilioni di cui 2,7 in possesso delle banche. Finora quelli emersi sono 1,2 trilioni: non mi pare credibile che ce ne siano altrettanti”. Per risolvere il problema servirebbe comunque un piano europeo simile a quello Geithner, considerando che “per molti asset è possibile una rivalutazione”.

Anche Spaventa considera determinante agire su questo fronte. “L’immissione di grandi quantità di liquidità è stata essenziale, ma non decisiva, perché la causa di fondo è il deprezzamento senza limiti di grandi quantità di titoli”. D’altronde Spaventa è un po’ il padre della “bad bank”, cioè di una società creata appositamente per liberare le banche dai titoli-zavorra, che propose con un articolo sul Financial Times ancora ai tempi dell’amministrazione Bush. L’economista ha anche messo in guardia sui rischi che i piani di salvataggio, pur necessari, stanno creando per il futuro. “In sei mesi l’attivo della Fed è salito di due volte e mezza. Si sta sostituendo indebitamento pubblico a quello privato, ma questo allontana l’obiettivo di un riequilibrio strutturale”. La riforma del sistema finanziario, in estrema sintesi, dovrà prevedere: più capitalizzazione; riduzione dell'”effetto leva”; un’attenta vigilanza di stabilità; una vigilanza estesa a tutti i soggetti, anche non-banche, visto che proprio in questo sistema finanziario ombra si sono create le condizioni a un certo punto esplose nella crisi. “Ma poi servono le istituzioni per sorvegliare le regole”, ha concluso.

L’impressione che è emersa dal dibattito rafforza quella che già alcuni avevano prima che scoppiasse la crisi. Non solo la finanza, ma tutta l’economia almeno negli ultimi due decenni ha giocato alla roulette russa, infischiandosene degli alti rischi perché intanto i guadagni – per un numero limitato di giocatori, ma quelli che contavano – erano enormi. “Ho visto con un certo sgomento – ha detto Giuseppe Zadra – adottare il sistema del fair value”. Detto alla grossa, è quello per cui ai titoli in portafoglio si attribuisce un valore stimato dallo stesso soggetto che lo detiene. “Si buttavano all’aria 600 anni di principi della contabilità”. E poi la spasmodica “ricerca di rendimenti da parte degli investitori istituzionali”, che li spingeva ad assumere rischi eccessivi. Già, investitori sempre più numerosi, in una fase storica di progressivo aumento della privatizzazione dei sistema previdenziali. Il tutto in nome dell’assunto ideologico che il mercato è sempre e comunque il sistema più efficiente e che per assioma “si autoregola”. Beh, si è visto che le cose non vanno esattamente in questo modo. (Beh, buona giornata)

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

Alitalia: nuova compagnia, vecchi problemi.

Disservizi, ritardi, organici largamente insufficienti. Ma «conti migliori del previsto».
Intervista a Paolo Maras (segretario SdL) «Il peggio deve ancora venire: Cai è un modello contro i diritti del lavoro» di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Ritardi, manutenzione incerta, disservizi, carenza di organico. Alitalia torna in prima pagina, ma con i conti – spiega il socio di riferimento, Jean-Cyril Spinetta, presidente di air France – «al di sopra delle attese». Ne parliamo con Paolo Maras, segretario nazionale dell’SdL- trasporto aereo, steward ora in cassa integrazione.

Quanti problemi ha la «nuova» Alitalia?

Che si faccia il bilancio dei primi 100 giorni è doveroso, ma era già noto che i problemi principali – ritardi, inefficienze, organici e condizioni del lavoro – fossero irrisolti. Non a caso avevamo sempre detto che attraverso questa operazione non passa solo la trasformazione da Alitalia a Cai, ma un treno micidiale addosso a diritti, conquiste, condizioni di lavoro. E anche una visione diversa da quella di una compagnia di bandiera, che presuppone comunque un interesse dello Stato nel garantire servizi ai cittadini. Oggi vediamo anche Formigoni e Castelli strapparsi i capelli per Malpensa, dove non funzione più nulla e i passeggeri rimangono a terra. Certo, se gli organici sono insufficienti, sia a bordo che a terra, succede questo.

Eppure si era detto che si voleva creare una compagnia grande, forte e «italiana».

Fin dall’inizio l’obiettivo era di tenere bassissimi i costi e il personale ridotto all’osso, confezionando un pacchetto appetibile per il migliore offerente. Che in Cai sappiamo essere «mister 25%», ovvero Air France. Che ora dice – traduco – «come fate a ottenere risultati superiori alle aspettative»? In Francia sequestrano i manager, qui avete distrutto sindacato e lavoratori e nessuno dice niente…

Previsioni fosche per i vostri colleghi francesi…

Appunto. In secondo luogo, Spinetta ha sollevato la politica italiana e il governo (quello che diceva «ai francesi, mai») da ogni responsabilità per la cattiva gestione precedente alla vendita. L’unico «colpevole» è stato trovato nel sindacato. Tutti, senza eccezione. Noi siamo convinti che il peggio debba ancora arrivare. Il «problema Alitalia» non c’è più, come la monnezza napoletana. Ma se si pensa che deve ancora la fusione effettiva tra le cinque aziende che compongono oggi la nuova Alitalia, è facile prevedere nuovi «esuberi» causati da queste sinergie.

Ma se già ora nell’«operativo» gli addetti sono pochi…

Se una macchina che ha bisogno di quattro assistenti di volo la fai partire con soltanto due, la legge della «sinergia » funziona anche in quel caso. I numeri delle assunzioni fatte sono fortemente squilibrati rispetto agli stessi impegni iniziali. Gli assistenti di volo – a quattro mesi dalla partenza – sono sotto organico di oltre 400 unità. Si parla ora di 190 assunzioni, che non coprono le necessità.

Le politiche del trasporto dipendono sempre più dalle scelte europee. Come si fa a tenere il punto del conflitto senza una qualche sponda politica?

La vicenda Alitalia è andata come è andata proprio perché c’è una desertificazione della politica. C’è necessità di riportare competenze vere, non ideologiche – insomma esperienze vissute, «sapere di che si parla» – dentro certe istituzioni. Per esempio, credo che la scelta di Andrea Cavola, mio compagno di lotte per oltre 20 anni – di candidarsi come indipendente con Rifondazione, sia assolutamente giusta. La sensazione di questi anni è che non importa quanto tu abbia ragione, quanti lavoratori hai dietro; tutto il sistema – anche l’informazione, con poche eccezioni – si muove a tutela degli interessi del «grande capitale ». Basta vedere il ruolo politico-mediatico del ministro Matteoli: di scioperi nel trasporto non si parla più, nemmeno a livello di annuncio, perché ogni giornalista sa che tanto lui li vieta sempre, con la precettazione. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“La strategia del governo di fronte alla crisi ci consegnerà un paese con squilibri ancora più stridenti di quelli che già avevamo.”

LE CONSEGUENZE DELL’IMMOBILISMO
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi da lavoce.info

Finalmente abbiamo la Relazione unificata sull’economia e la finanza. Era un documento atteso e importante per capire come è evoluta la strategia di politica economica del governo dopo l’aggravarsi della crisi e per avere un quadro più preciso sullo stato dei conti pubblici. Certifica le conseguenze dell’immobilismo di fronte alla crisi. La spesa pubblica aumenta accentuando il suo squilibrio a favore di pensioni e dipendenti pubblici, mentre disavanzo e debito peggiorano in modo consistente. E le stime potrebbero essere troppo ottimistiche sul lato delle entrate.

LA PEGGIORE RECESSIONE DEL DOPOGUERRA
È molto, molto difficile fare previsioni nel mezzo di una crisi così profonda. Il governo con la Relazione unificata sull’economia e la finanza (Ruef) mostra sostanzialmente di condividere le previsioni del World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale, rese pubbliche una settimana prima della pubblicazione della Ruef, per quanto riguarda l’andamento dell’economia nel 2009. Il prodotto interno lordo cala, secondo le previsioni, del 4,2 per cento (contro il meno 4,4 per cento delle previsioni del Fondo e della Commissione Europea). Se così fosse, sarà la peggior recessione del Dopoguerra. La Ruef prevede un peggioramento di ben due punti percentuali del disavanzo: l’indebitamento in rapporto al Pil passerà dal 2,7 per cento al 4,6 per cento. Il peggioramento è dovuto interamente a un incremento delle spese, che dovrebbero aumentare di tre punti in rapporto al prodotto interno lordo, mentre le entrate dovrebbero aumentare di un punto percentuale rispetto al Pil.

LA CAVALCATA DELLE PENSIONI E DELLA SPESA PER I DIPENDENTI PUBBLICI
È normale che la spesa pubblica in recessione aumenti. In quasi tutti i paesi avanzati, con il peggiorare della crisi, stiamo assistendo a un forte incremento della spesa pubblica in percentuale al Pil. Èun fenomeno legato all’operato dei cosiddetti “stabilizzatori automatici”, quelle spese che crescono in recessione per poi ridursi quando le cose vanno meglio, come le risorse per pagare i sussidi di disoccupazione. In Italia la crescita della spesa ha una natura diversa dagli altri paesi perché riguarda spese destinate a durare nel corso del tempo, ben oltre la recessione. Accentueranno gli squilibri della nostra spesa pubblica a favore di pensioni e pubblico impiego e a svantaggio di misure di contrasto alla povertà e disoccupazione. Secondo la Ruef, il 93 per cento degli incrementi della spesa sono “discrezionali”, anziché legati ad automatismi (p. 58). Se fosse vero, si tratterebbe di una massiccia operazione di redistribuzione di risorse a favore del pubblico impiego e dei percettori di pensioni.
Questa recessione verrà ricordata per un ulteriore aumento della spesa pensionistica in rapporto al Pil e per un incremento dei redditi dei dipendenti pubblici. In valore assoluto la spesa corrente nel 2009 aumenterà di 22 miliardi di euro. La metà circa dell’aumento (approssimativamente 10 miliardi) è dovuto alla spesa per pensioni: cresceranno nel 2009 del 4 per cento, pur in presenza di un calo del prodotto interno lordo superiore al 4 per cento. Questo provocherà un forte spostamento di risorse verso la previdenza, che in rapporto al Pil passa da 14,2 a 15,2 per cento. Ogni recessione in Italia provoca un ulteriore incremento degli squilibri nella nostra spesa sociale. Come documentato dalla Ragioneria Generale dello Stato, la spesa pensionistica sul Pil è destinata a crescere da qui al 2013 in presenza di tassi di crescita annuali della nostra economia inferiori all’1,8 per cento. Come dire che se la recessione dovesse continuare, rischieremmo di trovarci con pensioni che ammontano al 20 per cento del prodotto nazionale, assorbendo quasi la metà della spesa corrente. Non solo non si è intervenuti per ridurre questo spostamento delle risorse pubbliche, ma addirittura lo si è rafforzato con provvedimenti come la rimozione del divieto di cumulo fra pensioni e redditi da lavoro (che vale circa 500 milioni).
Anche i dipendenti pubblici vedranno un aumento di due punti percentuali delle risorse pubbliche loro destinate pur in presenza di una recessione così profonda. Da notare che i dipendenti pubblici con contratti a tempo indeterminato, i maggiori beneficiari degli aumenti, non corrono alcun rischio di perdita del posto di lavoro. Il totale della spesa per retribuzioni registra così un ulteriore incremento (fino all’11,4 per cento) della quota delle risorse nazionali destinate, il tutto rigorosamente in nome della battaglia per ridurre i costi del pubblico impiego.

L’OTTIMISMO SULLE ENTRATE
Pur concordando con il Fondo monetario internazionale sulla profondità della recessione, la Ruef è decisamente più ottimista del Fmi nelle stime del disavanzo e del debito pubblico (vedi tabella qui sopra) in virtù di un miglioramento delle entrate.
A cosa si deve l’ottimismo del governo sulle entrate? Leggendo fra le righe della Relazione si scopre che il governo ritiene che il calo del gettito sia già stato anticipato dalle famiglie nell’autotassazione di novembre. Può darsi. Ma cosa accadrà al gettito dell’autotassazione del 2009? Se le previsioni del governo sull’andamento dell’economia sono corrette, ci dovrebbe essere un effetto di trascinamento, con una forte riduzione delle entrate nel 2009. Fatto sta che alla forte revisione al ribasso delle stime sul Pil 2009 (-2,2 per cento rispetto alla nota di aggiornamento del Programma di Stabilità) si accompagna una più modesta revisione delle stime sulle entrate (-1,7 per cento). E questo nonostante i dati sul primo trimestre 2009 segnalino un forte calo delle entrate tributarie, diminuite di circa il 7 per cento rispetto allo stesso trimestre del 2008. Il governo assume che nel 2009 ci sarà un aumento della pressione fiscale, dal 42,8 al 43,5 per cento. Il che significa che le entrate caleranno proporzionalmente meno del prodotto interno lordo. Normalmente, in fasi recessive le entrate calano proporzionalmente più del prodotto interno lordo.
Insomma la Ruef dimostra che la strategia del governo di fronte alla crisi – il suo scegliere di non scegliere – ci consegnerà un paese con squilibri nell’allocazione delle risorse pubbliche ancora più stridenti di quelli che già avevamo. Non sarà neppure servita a contenere la crescita del debito pubblico, avviato a tornare sui massimi storici, come previsto dal Fondo monetario internazionale, forse con più realismo di quello mostrato dal nostro governo. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Il terremoto in Abruzzo e il “Decreto Abracadabra”: propaganda elettorale sulle disgrazie dei terremotati?

I trucchi del “decreto abracadabra”ricostruzione diluita in 23 anni di MASSIMO GIANNINI-la Repubblica.

Impegni solenni, progetti altisonanti. Garantiti dalle solide certezze del presidente del Consiglio. Ma se scorri il testo del provvedimento, ti accorgi che lì dentro di veramente solido c’è poco e niente.

Tutto balla, in quello che è già stato ribattezzato il “Decreto Abracadabra”. Le cifre, innanzitutto. Dopo il Consiglio dei ministri straordinario del 23 aprile, Berlusconi e Tremonti avevano annunciato uno stanziamento di 8 miliardi per la ricostruzione dell’Abruzzo: 1,5 per le spese correnti e 6,5 in conto capitale. A leggere il decreto 39, si scopre che lo stanziamento è molto inferiore, 5,8 miliardi, ed è spalmato tra il 2009 e il 2032. Di questi fondi, 1,152 miliardi sarebbero disponibili quest’anno, 539 milioni nel 2010, 331 nel 2011, 468 nel 2012, e via decrescendo, con pochi spiccioli, per i prossimi 23 anni. Da dove arrivano queste soldi? Il governo ha spiegato poco. Il premier, ancora una volta, ha rivendicato il merito di “non aver messo le mani nelle tasche degli italiani”. Il ministro dell’Economia si è fregiato di aver reperito le risorse “senza aumentare le accise su benzina e sigarette, senza aumenti di tasse, ma spostando i fondi da una voce all’altra del bilancio”.

Il “Decreto Abracadabra” non aiuta a capire. Il capitolo “Disposizioni di carattere fiscale e di copertura finanziaria” dice ancora meno. Una prima, inquietante cosa certa (come recita l’articolo 12, intitolato “Norme di carattere fiscale in materia di giochi”) è che la ricostruzione in Abruzzo sarà davvero un terno al lotto: 500 milioni di fondi dovranno arrivare, entro 60 giorni dal varo del decreto, dall’indizione di “nuove lotterie ad estrazione istantanea”, “ulteriori modalità di gioco del Lotto”, nuove forme di “scommesse a distanza a quota fissa”. E così via, giocando sulla pelle dei terremotati. Un “gioco” che non piace nemmeno agli esperti del Servizio Studi del Senato: “La previsione di una crescita del volume di entrate per l’anno in corso identica (500 milioni di euro) a quella prevista a regime per gli anni successivi – si legge nella relazione tecnica al decreto – potrebbe risultare in qualche modo problematica”.

Una seconda, inquietante cosa certa (come recita l’articolo 14, intitolato “Ulteriori disposizioni finanziarie”) è che altre risorse, tra i 2 e i 4 miliardi di qui al 2013, dovranno essere attinte al Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, che dalla Finanziaria in poi è diventato un vero Pozzo di San Patrizio, dal quale il governo pompa denaro per ogni emergenza, senza che si capisca più qual è la sua vera dotazione strutturale.
E questo è tutto. Per il resto, la copertura finanziaria disposta dal decreto è affidata a fonti generiche e fondi imprecisati: dai soldi dell’Istituto per la promozione industriale (trasferiti alla Protezione civile per “garantire l’acquisto da parte delle famiglie di mobili ad uso civile, di elettrodomestici ad alta efficienza energetica, nonché di apparecchi televisivi e computer”) al trasferimento agli enti locali dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti.

A completare il gioco di prestigio contabile, non poteva mancare il solito, audace colpo a effetto, caro ai governi di questi ultimi anni: altri fondi (lo dice enfaticamente il comma 4 dell’articolo 14) potranno essere reperiti grazie alle “maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, anche internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi”. Insomma, entrate scritte sull’acqua. A futura memoria. E a sicura amnesia.

Ma non è solo l’erraticità dei numeri, che spaventa e preoccupa nel “Pacchetto Ricostruzione”. A parte gli interventi d’emergenza, ci sono altri due fronti aperti e dolenti per le popolazioni locali. Un fronte riguarda l’edificazione delle case provvisorie (“a durevole utilizzazione”, secondo la stravagante formula del decreto) che dovrebbero garantire un tetto ad almeno 13 mila famiglie, pari a un totale di 73 mila senza tetto attualmente accampati nelle tendopoli. I fondi previsti per questi alloggi (nessuno ancora sa se di lamiera, di legno o muratura) ammonterebbero a circa 700 milioni. Ma 400 risultano spendibili quest’anno, 300 l’anno prossimo.

Questo, a dispetto del giuramento solenne rinnovato dal Cavaliere a “Porta a Porta” di due giorni fa, fa pensare che l’impegno di una “casetta” a tutti gli sfollati entro ottobre, o comunque prima del gelo invernale, andrà inevaso. Quasi la metà di loro (secondo il timing implicito nella ripartizione biennale dei fondi) avrà un tetto non prima della primavera del prossimo anno.

Un altro fronte, persino più allarmante, riguarda la ricostruzione delle case distrutte. Il governo ha annunciato “un contributo pubblico fino a 150 mila euro (80 mila per la ristrutturazione di immobili già esistenti), a condizione che le opere siano realizzate nel rispetto della normativa antisismica”.

Basterà presentare le fatture relative all’opera da realizzare, e a tutto il resto penserà Fintecna, società pubblica controllata dal Tesoro, che regolerà i rapporti con le banche. Detta così sembra facilissima. Il problema è che quei 150 mila euro nel decreto non ci sono affatto. Risultano solo dalle schede tecniche che accompagnano il provvedimento. E dunque, sul piano legislativo, ancora non esistono. Non basta. Sul totale dei 150 mila euro, il contributo statale effettivo sarà pari solo a 50 mila euro. Altri 50 mila saranno concessi sotto forma di credito d’imposta (dunque sarà un risparmio su somme da versare in futuro, non una somma incassata oggi da chi ne ha bisogno) e altri 50 mila saranno erogati attraverso un mutuo agevolato, sempre a carico della famiglia che deve ricostruire, che dunque potrà farlo solo se ha già risparmi pre-esistenti. Se questo è lo schema, al contrario di quanto è accaduto per i terremoti dell’Umbria e del Friuli, i terremotati d’Abruzzo non avranno nessuna nuova casa ricostruita con contributo a fondo perduto. Anche perché nelle schede tecniche del decreto quei 150 mila euro sono intesi come “limite massimo” dell’erogazione. Ciò significa che lo Stato declina l’impegno a finanziare la copertura al 100% del valore dell’appartamento da riedificare.

Nel “Decreto Abracadabra”, per ora, niente è ciò che appare. Man mano che si squarcia la cortina fumogena della propaganda, se ne cominciano ad accorgere non solo i “soliti comunisti-sfascisti” dell’opposizione come Pierluigi Bersani (che accusa l’esecutivo di trattare gli aquilani come “terremotati di serie B”), ma anche amministratori locali come Stefania Pezzopane, o perfino presidenti di Confindustria come Emma Marcegaglia, che l’altro ieri a L’Aquila ha ripetuto “qui servono soldi veri”. C’è un obbligo morale, di verità e di responsabilità, al quale il governo non può sfuggire. Lo deve agli abruzzesi che soffrono, e a tutti gli italiani che giudicano. L’epicentro di una tragedia umana non può essere solo il palcoscenico di una commedia politica.

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro

La crisi economica dilaga in tutta Europa.

Il 2009 resterà un anno particolarmente buio per l’economia europea, e i barlumi della ripresa saranno visibili solo il prossimo anno. E’ uno scenario 2009 a tinte fosche quello contenuto nelle previsioni di primavera che la Commissione europea pubblicherà lunedì, con il pil dei Paesi membri ancora in picchiata e le stime su deficit e debito in preoccupante salita.

Un andamento che d’altra parte aveva già prefigurato alcuni giorni fa lo stesso commissario Ue agli Affari economici, Joaquin Almunia, lasciando intravedere un quadro di recessione profonda: «Nelle nuove previsioni ci aspettiamo una sostanziale revisione al ribasso delle ultime stime dello scorso 19 gennaio, già tutte sotto il segno meno».

Nuovo taglio della crescita in arrivo, dunque, per Eurolandia e gli Stati membri, Italia inclusa. Il pil 2009 della zona euro, stimato al -1,9% a gennaio, rischia di crollare fino al -4% avvicinandosi alle ultime previsioni dell’Ocse, -4,1%, e del Fondo monetario Internazionale, -4,2%. Timida risalita nel 2010: 0,4% secondo le previsioni Ue di gennaio, stessa stima delle ultime previsioni Fmi, mentre per l’Ocse la crescita 2010 dell’eurozona non andrà oltre lo 0,3%. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Il divorzio di Veronica Lario e l’impero di Silvio Berlusconi.

Nel riferire su La Stampa di oggi, Luca Ubaldeschi ha affrontato il problema patrimoniale, che si è detto in questi giorni potesse essere al’origine della lettera all’Ansa dello scorso mercoledì, quando Veronica Lario accusava il marito di contornarsi di “ciarpame senza pudore”. In particolare si alludeva alla non rottura definitiva di un’unità matrimoniale, preservata in nome di future spartizioni ereditarie. Secondo Ubaldeschi, alle amiche che le hanno fatto notare come anche in questi giorni qualche giornale sia tornato a battere il tasto dei soldi, Veronica Berlusconi ha riservato uno sguardo sconsolato: «Siete fuori strada, non c’entrano il patrimonio e le divisioni fra i figli. Se il problema fosse questo me ne starei tranquilla e non mi metterei in uno scontro frontale con l’uomo più ricco e potente d’Italia». Ma qual è l’entità del patrimonio di Silvio Berlusconi?

La famiglia Berlusconi:
un impero da 6 miliardi di euro
di Simone Filippetti e Marigia Mangano-sole24ore.com

Si chiama Bel e cioè l’acronimo di Barbara, Eleonora e Luigi, i tre figli nati dal matrimonio di Silvio Berlusconi e Veronica Lario. Ed è l’ultimo veicolo nato nella galassia societaria che ruota intorno alla famiglia di Arcore. Un impero da oltre 6 miliardi che fa perno su sette holding, proprietarie dell’intero capitale della Fininvest (cui fanno capo Mediaset, Mondadori, il Milan, più una quota rilevante nel gruppo finanziario Mediolanum) e che di fatto è stato già diviso tra i due rami della discendenza di casa Berlusconi: i figli del primo letto, Marina e Piersilvio, e i più piccoli, Barbara, Eleonora e Luigi. Ognuno di loro, singolarmente, è azionista del gruppo Fininvest con una quota indiretta di circa il 7%. La maggioranza della holding, pari al 61% del capitale, è ancora saldamente nelle mani del presidente del Consiglio. Così come tutte le proprietà immobiliari, da Macherio a Villa Certosa, concentrate in Dolcedrago, società di proprietà del premier al 99%.

Pesi ed equilibri al vertice dell’impero di casa Berlusconi dipenderanno, dunque, dalla scelta dei futuri destinatari di quel 61% di Fininvest nelle mani del fondatore. Una partita complessa, quella della successione e soprattutto quella di un eventuale ruolo manageriale della seconda generazione, che in molti «leggono» dietro le divergenze di opinioni tra il premier e la moglie, ormai periodicamente sulle prime pagine dei giornali.

Punto di partenza per capire i delicati equilibri del sistema Berlusconi sono gli assetti proprietari di Fininvest, da un lato, e l’impero immobiliare dall’altro. La holding di famiglia è nata fine degli anni 70 e per decenni il presidente del Consiglio ne è stato azionista unico, con il controllo suddiviso tra 22 «scatole» (Holding Italiana, numerate dalla Prima alla Ventiduesima) tutte di proprietà diretta di Berlusconi. Poi nel corso del tempo l’arcipelago di holding è stato asciugato, con il progressivo accorpamento delle società. Adesso ne sono rimaste solo sette: Holding Italiana Prima, Seconda, Terza e Ottava di proprietà personale del premier; la Quarta che fa capo a Marina; la Quinta di Piersilvio; la Quattordicesima suddivisa tra i tre figli più picoli. Il 2006 ha tenuto a battesimo l’ultimo (per ora) grande riassetto, con l’apertura ufficiale dell’impero anche alla seconda generazione: dietro la regia del superconsulente Bruno Ermolli, da anni uno dei consiglieri più ascoltati e fidati di casa Berlusconi, la Holding Italiana Quattordicesima, in precedenza di Silvio, è stata ceduta a Barbara, Eleonora e Luigi. Perché proprio questa holding? Perché deteneva il 21,4% di Fininvest che, diviso per i tre nuovi azionisti entranti, fa indirettamente una quota analoga ai figli più grandi.

Spartizione equa, dunque, che ogni anno assicura uguali (e pingui) dividendi a tutti i rami della famiglia (285 milioni di euro le risorse distribuite da Fininvest alle sette holding nel 2008, un po’ meno, circa 207 milioni, quelli in arrivo quest’anno). Rimane ancora aperto, però, il capitolo della gestione: Marina e Piersilvio, anche per ovvi motivi di età, hanno assunto ruoli manageriali importanti nell’impero: la primogenita è presidente della stessa Fininvest dal 2005 (dopo la morte di Aldo Bonomo, storico presidente della holding) e di Mondadori; Piersilvio è vicepresidente con deleghe operative in Mediaset. La prossima partita sarà capire quali aspirazioni o ruoli possono avere i figli minori: tutti e tre sono ancora meno che 25enni per cui la questione non è immediata, ma sembra difficile pensare che Barbara, Eleonora e Luigi si limitino a voler fare solo gli azionisti.

C’è, infine, il capitolo immobiliare. Un patrimonio cospicuo, anche se non paragonabile in valore peso specifico a Fininvest, raccolto nella Dolcedrago, contenitore delle proprietà in Sardegna, a Macherio e ad Arcore. Questa finanziaria ha una doppia anima: da un lato è a capo dell’impero immobiliare, dall’altra controlla il business cinematografico, con la Videodue srl (un contenitore di 106 diritti di sfruttamento di opere cinematografiche, tra cui film di Totò). L’assetto proprietario di Dolcedrago vede in posizione di forza Silvio Berlusconi: è partecipata dal premier direttamente con il 99,5%, mentre uno 0,25% a testa spetta ai due figli, Piersilvio e Marina. E proprio qui, sempre nella logica di una futura suddivisione dell’impero, un ruolo potrebbe giocarlo la neonata scatola di Barbara Eleonora e Luigi, Bel, veicolo attraverso cui la seconda generazione potrebbe diventare intestataria di una parte del patrimonio immobiliare del premier. (Beh, buona giornata).

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: