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La crisi: la questione si gioca interamente sui consumi e sul sostegno dei redditi dei disoccupati e cassintegrati. Esattamente quello che non fanno i provedimenti di Tremonti.

Una manovra da tre soldi che non salva il Paese di EUGENIO SCALFARI-Republica.

– Non voglio commentare l’intervento di Berlusconi sulle previsioni (tutte concordi tra loro) delle varie istituzioni finanziarie internazionali, del nostro Istituto di statistica, del governatore della Banca d’Italia e dei giornali “sovversivi” che ne riportano fedelmente le stime. E neppure voglio soffermarmi sul reiterato invito del premier a boicottare la libera stampa lasciandola a secco di inserzioni pubblicitarie. L’ha già fatto ieri Ezio Mauro definendo quelle sconsiderate parole “Minacce e disperazione”.
Voglio invece esaminare i provvedimenti che il ministro Tremonti ha proposto e che il Consiglio dei ministri ha approvato e che nelle intenzioni del governo dovrebbero servire a superare la crisi venendo incontro all’appello della Confindustria, dei sindacati e dell’opposizione per sostenere la ripresa entro i prossimi tre mesi, in mancanza di che – come ha detto la Marcegaglia – l’intero sistema economico rischia il precipizio.
Si tratta di provvedimenti talmente leggeri per dimensione e diluiti nel tempo da risultare del tutto inefficaci. Stupisce che l’organizzazione dei commercianti li abbia accolti con applausi; forse non hanno capito (e non sarebbe la prima volta) oppure gli esponenti di quell’organizzazione non sono in sintonia con i loro rappresentanti che conoscono e soffrono sulla loro pelle la situazione reale.

L’architettura normativa di quella ridicola manovra si appoggia su due interventi: un “bonus” alle aziende che invece di licenziare o mettere in cassa integrazione i propri dipendenti in esubero li trattengano presso di sé in attesa che la tempesta abbia termine e la riduzione del 50 per cento della fiscalità sugli utili reinvestiti nei processi produttivi. Soprattutto su questo secondo intervento punta il ministro dell’Economia, anche lui assai imbronciato nei confronti di Draghi, dell’Istat, dell’Ocse, della Banca mondiale, profeti di sventura da ridurre al silenzio “almeno fino al prossimo settembre”.
“Zittire le Cassandre”, questo è il succo di ciò che il governo ha in mente per uscire dalla crisi che attanaglia il mondo intero: un programma di politica economica non solo risibile ma sciagurato.

* * *

Il “bonus” alle imprese per evitare i licenziamenti. Non se ne conosce ancora l’ammontare e la relativa copertura e c’è una ragione che spiega questo silenzio: si ignora infatti quali e quante saranno le aziende che vorranno aderire a quell’invito e come saranno in grado di dimostrare di aver cambiato parere sul licenziamento dei loro dipendenti. I criteri per accertare questo auspicabile ravvedimento dovranno infatti esser rigorosi per non dar luogo a truffe ai danni dell’erario.

Anche supponendo che truffe non vi saranno resta comunque incerto che quel ravvedimento virtuoso vi sarà in misura apprezzabile e resta altrettanto incerto che si tratti d’un ravvedimento utile. Se il “bonus” sarà troppo esiguo le aziende non avranno alcun interesse ad accettarlo; se invece sarà adeguato, la perdita per l’erario sarà gravosa e difficile la sua copertura. Assai meglio sarebbe rafforzare con quelle risorse il sistema degli ammortizzatori sociali lasciando libere le imprese di calibrare al meglio il personale necessario alla produzione.

Ma veniamo al nocciolo del provvedimento, l’esenzione del 50 per cento di gravame fiscale sugli utili reinvestiti. Anche qui l’ammontare delle risorse necessarie è puramente ipotetico poiché è ipotetico l’ammontare degli utili destinati ad esser reinvestiti.
Il provvedimento specifica con apprezzabile chiarezza quali siano gli investimenti che meritano l’esenzione fiscale; si tratta di un ventaglio ridotto, di fatto riservato alle imprese medie e grandi che dispongono di programmi innovativi sia nel campo dei prodotti sia in quello dei processi di produzione.

C’è tuttavia un però che riguarda la tempistica: per dar luogo all’investimento degli utili occorre che gli utili vi siano e qui la scrematura sarà purtroppo vistosa in tempi di crisi. Ma poi è necessario che quegli utili siano destinati agli investimenti indicati nel provvedimento. Soltanto l’esame rigoroso dei bilanci aziendali sarà in grado di dimostrare che l’operazione di reinvestimento è stata effettuata, il che significa che la riduzione del carico tributario avrà luogo al più presto nella primavera del 2010 e non nei prossimi cento giorni come Emma Marcegaglia avrebbe voluto.
Tremonti del resto non si smentisce, se c’è un politico coerente è lui. La sua politica è sempre stata quella di guadagnar tempo sperando che il futuro sia migliore. Fece così nella legislatura 2001-2006, quando impiantò la sua politica sui condoni, sulle operazioni di “swap”, sulla cartolarizzazione d’una parte del patrimonio pubblico immobiliare. Il risultato fu la caduta verticale dell’avanzo di bilancio, l’aumento altrettanto verticale della spesa e la flessione delle entrate tributarie.

Ora le condizioni sono cambiate e la politica di guadagnar tempo mantenendo possibilmente il consenso popolare si appoggia ad una tecnica profondamente diversa. Si tratta infatti di promettere e addirittura di inserire nella legislazione provvedimenti di sostegno alla produzione postergandone l’esecutività ad un anno da oggi. A quel punto se la tempesta sarà passata gli stimoli saranno diventati inutili ma comunque peseranno gravemente sulle casse dello Stato. Oggi che servirebbero “per scongiurare il precipizio” non se ne vede alcuno e tutto resta come prima. I salvagenti per aiutare i naufraghi che rischiano di morire sono stati gettati ad alcuni chilometri di distanza dal luogo del naufragio. Questo è esattamente il senso dei provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri. Altro di consistente non c’è.
Eppure un modo per soccorrere i naufraghi c’era ed è stato più volte indicato in questi mesi sia dalle imprese interessate sia dagli economisti e dall’opposizione. Si trattava di mettere immediatamente in pagamento i debiti dello Stato nei confronti di molte imprese e perfino delle pubbliche amministrazioni locali.
L’ammontare di questi debiti è stimata in 80 miliardi. I creditori privati e pubblici si sarebbero accontentati di una prima tranche di 30 miliardi con i quali avrebbero rimborsato alle banche i prestiti ricevuti per sopravvivere e i cospicui interessi nel frattempo maturati. Anche le banche, rientrando da esposizioni già molto protratte, avrebbero acquistato maggior libertà di manovra per nuove erogazioni tanto invocate e reclamate.

L’operazione sarebbe dunque utile ed anzi necessaria da ogni punto di vista ma presenta un piccolo inconveniente: in questo caso si tratta infatti di soldi veri, da pagare immediatamente. Tremonti, che pure aveva promesso di accogliere quelle richieste, ora fa il sordo. Il suo premier poi, anche lui impegnato in prima persona, ha addirittura perso l’udito. Nel frattempo trastullano le imprese, gli industriali, i commercianti, col “bonus” e con il credito di imposta ad un anno data.
Chi ha orecchi per udire e occhi per vedere, intenda e giudichi.

* * *

Il governatore Draghi, reo di imitare la Cassandra omerica, è stato dal canto suo d’una chiarezza cristallina. La diagnosi esposta due giorni fa (che ha suscitato l’ira funesta di Tremonti e del suo premier) è questa: la domanda interna e internazionale è piatta o discendente e ancor più lo sarà nei prossimi sei mesi in parallelo con l’aumento della disoccupazione e con la discesa complessiva del monte-salari. In simili condizioni le imprese sono restie ad investire e l’economia precipita nella recessione. Il nostro reddito pro capite è intanto il più basso d’Europa, al tredicesimo posto della classifica, seguito soltanto dalla Grecia e dalla Slovenia.
CUna manovra da tre soldi che non salva il Paese
di EUGENIO SCALFARI

– Non voglio commentare l’intervento di Berlusconi sulle previsioni (tutte concordi tra loro) delle varie istituzioni finanziarie internazionali, del nostro Istituto di statistica, del governatore della Banca d’Italia e dei giornali “sovversivi” che ne riportano fedelmente le stime. E neppure voglio soffermarmi sul reiterato invito del premier a boicottare la libera stampa lasciandola a secco di inserzioni pubblicitarie. L’ha già fatto ieri Ezio Mauro definendo quelle sconsiderate parole “Minacce e disperazione”.
Voglio invece esaminare i provvedimenti che il ministro Tremonti ha proposto e che il Consiglio dei ministri ha approvato e che nelle intenzioni del governo dovrebbero servire a superare la crisi venendo incontro all’appello della Confindustria, dei sindacati e dell’opposizione per sostenere la ripresa entro i prossimi tre mesi, in mancanza di che – come ha detto la Marcegaglia – l’intero sistema economico rischia il precipizio.
Si tratta di provvedimenti talmente leggeri per dimensione e diluiti nel tempo da risultare del tutto inefficaci. Stupisce che l’organizzazione dei commercianti li abbia accolti con applausi; forse non hanno capito (e non sarebbe la prima volta) oppure gli esponenti di quell’organizzazione non sono in sintonia con i loro rappresentanti che conoscono e soffrono sulla loro pelle la situazione reale.

L’architettura normativa di quella ridicola manovra si appoggia su due interventi: un “bonus” alle aziende che invece di licenziare o mettere in cassa integrazione i propri dipendenti in esubero li trattengano presso di sé in attesa che la tempesta abbia termine e la riduzione del 50 per cento della fiscalità sugli utili reinvestiti nei processi produttivi. Soprattutto su questo secondo intervento punta il ministro dell’Economia, anche lui assai imbronciato nei confronti di Draghi, dell’Istat, dell’Ocse, della Banca mondiale, profeti di sventura da ridurre al silenzio “almeno fino al prossimo settembre”.
“Zittire le Cassandre”, questo è il succo di ciò che il governo ha in mente per uscire dalla crisi che attanaglia il mondo intero: un programma di politica economica non solo risibile ma sciagurato.

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Il “bonus” alle imprese per evitare i licenziamenti. Non se ne conosce ancora l’ammontare e la relativa copertura e c’è una ragione che spiega questo silenzio: si ignora infatti quali e quante saranno le aziende che vorranno aderire a quell’invito e come saranno in grado di dimostrare di aver cambiato parere sul licenziamento dei loro dipendenti. I criteri per accertare questo auspicabile ravvedimento dovranno infatti esser rigorosi per non dar luogo a truffe ai danni dell’erario.

Anche supponendo che truffe non vi saranno resta comunque incerto che quel ravvedimento virtuoso vi sarà in misura apprezzabile e resta altrettanto incerto che si tratti d’un ravvedimento utile. Se il “bonus” sarà troppo esiguo le aziende non avranno alcun interesse ad accettarlo; se invece sarà adeguato, la perdita per l’erario sarà gravosa e difficile la sua copertura. Assai meglio sarebbe rafforzare con quelle risorse il sistema degli ammortizzatori sociali lasciando libere le imprese di calibrare al meglio il personale necessario alla produzione.

Ma veniamo al nocciolo del provvedimento, l’esenzione del 50 per cento di gravame fiscale sugli utili reinvestiti. Anche qui l’ammontare delle risorse necessarie è puramente ipotetico poiché è ipotetico l’ammontare degli utili destinati ad esser reinvestiti.
Il provvedimento specifica con apprezzabile chiarezza quali siano gli investimenti che meritano l’esenzione fiscale; si tratta di un ventaglio ridotto, di fatto riservato alle imprese medie e grandi che dispongono di programmi innovativi sia nel campo dei prodotti sia in quello dei processi di produzione.

C’è tuttavia un però che riguarda la tempistica: per dar luogo all’investimento degli utili occorre che gli utili vi siano e qui la scrematura sarà purtroppo vistosa in tempi di crisi. Ma poi è necessario che quegli utili siano destinati agli investimenti indicati nel provvedimento. Soltanto l’esame rigoroso dei bilanci aziendali sarà in grado di dimostrare che l’operazione di reinvestimento è stata effettuata, il che significa che la riduzione del carico tributario avrà luogo al più presto nella primavera del 2010 e non nei prossimi cento giorni come Emma Marcegaglia avrebbe voluto.
Tremonti del resto non si smentisce, se c’è un politico coerente è lui. La sua politica è sempre stata quella di guadagnar tempo sperando che il futuro sia migliore. Fece così nella legislatura 2001-2006, quando impiantò la sua politica sui condoni, sulle operazioni di “swap”, sulla cartolarizzazione d’una parte del patrimonio pubblico immobiliare. Il risultato fu la caduta verticale dell’avanzo di bilancio, l’aumento altrettanto verticale della spesa e la flessione delle entrate tributarie.

Ora le condizioni sono cambiate e la politica di guadagnar tempo mantenendo possibilmente il consenso popolare si appoggia ad una tecnica profondamente diversa. Si tratta infatti di promettere e addirittura di inserire nella legislazione provvedimenti di sostegno alla produzione postergandone l’esecutività ad un anno da oggi. A quel punto se la tempesta sarà passata gli stimoli saranno diventati inutili ma comunque peseranno gravemente sulle casse dello Stato. Oggi che servirebbero “per scongiurare il precipizio” non se ne vede alcuno e tutto resta come prima. I salvagenti per aiutare i naufraghi che rischiano di morire sono stati gettati ad alcuni chilometri di distanza dal luogo del naufragio. Questo è esattamente il senso dei provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri. Altro di consistente non c’è.
Eppure un modo per soccorrere i naufraghi c’era ed è stato più volte indicato in questi mesi sia dalle imprese interessate sia dagli economisti e dall’opposizione. Si trattava di mettere immediatamente in pagamento i debiti dello Stato nei confronti di molte imprese e perfino delle pubbliche amministrazioni locali.
L’ammontare di questi debiti è stimata in 80 miliardi. I creditori privati e pubblici si sarebbero accontentati di una prima tranche di 30 miliardi con i quali avrebbero rimborsato alle banche i prestiti ricevuti per sopravvivere e i cospicui interessi nel frattempo maturati. Anche le banche, rientrando da esposizioni già molto protratte, avrebbero acquistato maggior libertà di manovra per nuove erogazioni tanto invocate e reclamate.

L’operazione sarebbe dunque utile ed anzi necessaria da ogni punto di vista ma presenta un piccolo inconveniente: in questo caso si tratta infatti di soldi veri, da pagare immediatamente. Tremonti, che pure aveva promesso di accogliere quelle richieste, ora fa il sordo. Il suo premier poi, anche lui impegnato in prima persona, ha addirittura perso l’udito. Nel frattempo trastullano le imprese, gli industriali, i commercianti, col “bonus” e con il credito di imposta ad un anno data.
Chi ha orecchi per udire e occhi per vedere, intenda e giudichi.

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Il governatore Draghi, reo di imitare la Cassandra omerica, è stato dal canto suo d’una chiarezza cristallina. La diagnosi esposta due giorni fa (che ha suscitato l’ira funesta di Tremonti e del suo premier) è questa: la domanda interna e internazionale è piatta o discendente e ancor più lo sarà nei prossimi sei mesi in parallelo con l’aumento della disoccupazione e con la discesa complessiva del monte-salari. In simili condizioni le imprese sono restie ad investire e l’economia precipita nella recessione. Il nostro reddito pro capite è intanto il più basso d’Europa, al tredicesimo posto della classifica, seguito soltanto dalla Grecia e dalla Slovenia.
La questione dunque si gioca interamente sui consumi e sul sostegno dei redditi dei disoccupati e cassintegrati. Tutto il resto è puro spettacolo volto a mantenere il consenso dietro ad un sipario di chiacchiere. Ed ecco perché si vuole zittire chi parla della crisi che c’è ed è ancora ben lontana dall’esser stata superata.

Tutto il resto è puro spettacolo volto a mantenere il consenso dietro ad un sipario di chiacchiere. Ed ecco perché si vuole zittire chi parla della crisi che c’è ed è ancora ben lontana dall’esser stata superata. (****) Beh. buona giornata.

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La quarta crisi: al festival di Cannes è andata in scena la crisi della pubblicità.

(fonte:advexpress.)
Dopo l’incontro del 2008 con le big media company del web, il ‘Cannes Debate’ ha visto nuovamente Sir Martin Sorrell, ceo di WPP Worldwide, sulla poltrona di moderatore: a rispondere alle sue domande sono state stavolta quattro fra le più grandi multinazionali a livello globale, Kraft, P&G, J&J e McDonald’s, che come ha ricordato Sorrell hanno investito complessivamente lo scorso anno circa 16,5 miliardi di dollari in advertising.

“Oggi però la vita non è facile: il primo trimestre è andato male, aprile e maggio sono stati anche peggio, e anche il resto dell’anno sarà duro. Quali sono – ha chiesto quindi Sorrell – gli effetti della recessione sulle vostre aziende in termini di spesa, di media mix e di crescita degli investimenti nel digital?”.

Mary Dillon , executive vice president e global chief marketing officer di McDonald’s Corporation, ha confessato di trovare questo periodo particolarmente ‘eccitante’, “E non solo perché stiamo guadagnando market share… I nostri investimenti sono una percentuale delle vendite, e quando salgono le seconde salgono anche i primi. È vero però che le cose sono difficili e complicate: tutto è costantemente esaminato al microscopio e può essere cambiato da un momento all’altro. Per quanto riguarda il mix, le cose variano a seconda dei paesi, e la televisione continua a essere fondamentale. Ma il digitale assorbe in media il 7% della nostra spesa totale, e la sua quota cresce molto velocemente”.

“Con la recessione, i budget di Kraft Foods sono aumentati – ha confermato Mary Beth West, executive vice president e chief marketing officer dell’azienda –: la prima spesa che le persone hanno tagliato sono i pranzi e le cene fuori casa, eccezion fatta, evidentemente, per la qui presente McDonalds. E questa per noi è un’opportunità. Stiamo ancora cercando di ‘educare’ il nostro senior management all’online, ma il digitale vale per noi già oltre il 10%”.

“La crisi ci ha spinto a investire sempre di più in communication planning – ha spiegato Michael Murphy, vice president of consumer integrated marketing Johnson & Johnson –, perché in momenti come questo il marketing e l’advertising diventano ancora più importanti. In particolare il digitale ha ormai una share a doppia cifra sul totale dei nostri investimenti”.

Anche Procter & Gamble investe sempre di più online, anche se le cose variano da paese a paese, ha testimoniato il suo global marketing officer Marc Pritchard: “I nostri budget globali sono diminuiti del 4%, ma l’effetto più importante della recessione per noi e per la media industry nel suo complesso è stato quello di costringerci a fare un passo indietro e resettare tutte le nostre attività di marketing. Abbiamo quindi chiesto drettamente al consumatore che cosa volesse, e la risposta è stata: valore. Questo è ciò che stiamo facendo: variando il media mix e, soprattutto, puntando sempre di più sull’impatto e sulla creatività della nostra comunicazione: il punto, infatti, è integrare il digitale con tutto il resto, dalla Tv alle relazioni pubbliche fino al retail. Tutto ruota attorno all’integrazione di tutte le discipline fin dal primo momento e in funzione del brand: al nostro interno come nelle agenzie e nei centri media”.

Alla domanda di Sorrell su quanto contino le dimensioni di agenzie e centrali, la risposta è stata unanime: “A volte, lavorando in così tanti paesi, abbiamo bisogno della ‘scalabilità’ che le holding garantiscono, ma in altri casi non è così: la prima preoccupazione è e resta l’integrazione”.
“Personalmente, però, – ha aggiunto Murphy –, sono ancora in attesa di vedere una holding significativamente superiore alla somma delle sue parti e capace di aiutarci concretamente a sviluppare idee olistiche”.

Sempre parlando di agenzie e loro holding, l’ultima domanda di Sorrell ha riguardato le cose essenziali che non vanno e che devono essere sistemate con maggiore urgenza?

Per West e Dillon, ciò che è cambiato è il marketing nel suo complesso: “Abbiamo tutti già cominciato ad applicare i nuovi principi che ne derivano, ma non lo abbiamo ancora fatto sul fronte della relazione fra agenzia e cliente… Aiutateci a essere clienti e partner migliori, integrati fin dall’inizio”.

Murphy e Pritchard hanno invece preferito l’autocritica: “Sono da sempre convinto che ogni cliente abbia esattamente l’advertising che si merita – ha affermato il primo -… Troppe volte siamo noi a non dare alle agenzie un brief chiaro o non restituire immediatamente il feedback necessario”.
“Vanno ancora abbattuti e cambiati – ha concluso il global marketing officer di P&G – molti dei silos che circondano le aziende prima ancora delle agenzie”. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: una stagione di tagli per l’editoria italiana.

Editoria in crisi/ Esuberi: 90 al Corriere, 60 alla Stampa. Tagli anche ad agenzie e free press
Dopo settimane di voci, indiscrezioni e soprattutto numeri approssimativi, sembra delinearsi un quadro completo sulla stagione dei tagli che coinvolgerà le principali testate italiane. -blitzquotidiano.it

Fra pensionamenti, prepensionamenti e mancati rinnovi ecco le cifre dell’autunno caldo della stampa italiana, come riporta il sito Affari Italiani.

La cura dimagrante al gruppo Rcs comprende i 90 esuberi al Corriere della Sera, cui si aggiungono le 180 unità in meno previste per il gruppo spagnolo Unedisa, controllato dall’editrice del Corriere.

Fra i primi quotidiani a varare un piano di ristrutturazione è stato La Stampa, poco dopo l’insediamento del nuovo direttore Mario Calabresi: il quotidiano della Fiat dal 1 settembre entrerà ufficialmente in stato di crisi per due anni. Il quotidiano torinese prevede di portare l’organico giornalistico al di sotto delle 190 unità: 26 i pensionamenti (ordinari) già concordati, cui si aggiungeranno altri 34 prepensionamenti volontari dopo il 1° settembre. Previsto anche il taglio di 76 poligrafici, sfruttando le nuove tecnologie che consentono di affidare direttamente ai redattori le funzioni di impaginazione. La strategia complessiva della società – scrive Italia Oggi – comporterà anche uno spostamento di pesi sulla parte multimediale e la chiusura del settimanale Specchio, il cui ultimo numero uscirà a luglio.

Sempre secondo Italia Oggi, anche il gruppo Mondadori si prepara ad accedere alle procedure previste dalla legge 416 e al fondo di 20 milioni stanziato dal Governo per i prepensionamenti: si dovrebbe arrivare a una riduzione di 80 giornalisti fra i periodici, e non è esclusa la chiusura (o la cessione) di qualche testata (nel mirino Economy).

Non si salva nemmeno la free press, con Dnews – il quotidiano fondato e diretto dai fratelli Cipriani dopo l’uscita da E Polis – che si trova a fare i conti con bilanci in rosso: facile prevedere una ristrutturazione e dunque pesanti tagli. Fra i quotidiani sportivi, quello più in crisi è Tuttosport il cui editore ha messo a punto un piano che prevede il taglio del 34% della redazione. Un piano definito “irricevibile” dai giornalisti.

Capitolo agenzie di stampa: la redazione di Apcom è in sciopero per protestare contro il taglio di 30 giornalisti sui 90 deciso dopo il passaggio sotto il controllo del Gruppo Abete, già proprietario dell’Asca. Dove si comincia a parlare di stato di crisi è anche all’Agi, controllata dall’Eni: l’ipotesi è di un tagli di una quindicina di redattori, su un totale di oltre un centinaio. (Beh, buona giornata).

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Tra feste, donnine, polemiche ed episodi imbarrazzanti, il Paese sta andando a picco.

L’occupazione in Italia cala per la prima volta dopo 14 anni. Lo sottolinea l’Istat precisando che tra gennaio e marzo 2009 gli occupati sono diminuiti di 204 mila unità, pari allo 0,9% rispetto allo stesso periodo del 2008. Ed è il Mezzogiorno a perdere la maggior parte dei posti: 114 mila. Su base annua, il tasso di disoccupazione è pari a quasi l’8% (il 7,9% per la precisione), il più alto dal 2005. In cifre assolute, sono quasi due milioni le persone in cerca di occupazione. Cala l’occupazione di 426 mila italiani, aumenta tra le comunità straniere: rispetto a tre mesi fa, hanno trovato lavoro altri 222 mila stranieri.

L’offerta di lavoro è stabile per gli uomini, registra una leggerissimo aumento tra le donne, lo 0,2%. Su quasi 60 milioni di italiani, lavorano in 23 milioni; arrotondando, significa che ogni 3 italiani, solo uno lavora.

I dati, spiega l’Istituto di statistica, trovano ragione nella caduta dell’occupazione autonoma delle piccole imprese, dell’occupazione a termine e nella riduzione del numero dei collaboratori. Beh, buona giornata.

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L’Ocse dice che il teorema Tremonti è sbagliato. Con buona pace del governo Berlusconi.

L’Ocse: per l’Italia “lunga recessione”, di Galapagos-Il Manifesto

Il giudizio dell’Ocse è da brivido: “L’Italia ha di fronte una profonda e prolungata recessione”. E facendo seguire i numeri alle parole, l’organizzazione parigina – nell’ultimo rapporto dedicato all’Italia – sostiene che quest’anno il Pil crollerà del 5,3% e il tasso di disoccupazione potrebbe salire al 10%. Cifre che peggiorano le previsioni formulate il 31 marzo quando l’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico – di cui sono soci i 30 paesi più industrializzati del mondo – indicò per l’Italia una caduta del Pil del 4,3% e una disoccupazione intorno al 9,2%. Commenta l’Ocse: quello che “ha colpito della recessione italiana è la sua ampiezza”.

Che quasi sicuramente deriva dalla scarsa domanda interna e dalla eccessiva dipendenza della domanda globale in forte caduta come conseguenza della crisi.
Ugualmente negativo il giudizio sull’andamento dei conti pubblici: il deficit pubblico (rispetto al Pil) per quest’anno è prospettato al 6%, accompagnato da una crescita del debito “oltre il 115%”, “vicino al 120% entro la fine” dell’anno prossimo. Un po’ meno pessimista, invece, l’Ocse è sull’andamento del Pil nel 2010: c’è una piccola inversione rispetto alla previsione di fine marzo. Ora per il prossimo anno è prevista una crescita dello 0,4%, invece di una caduta dello 0,4%. Negli ani successivi, invece, “grazie alla relativa solidità dei bilanci delle famiglie e delle imprese, la ripresa potrebbe essere più robusta che altrove”.

Altri dati negativi rigurdano i consumi: nel 2009 accuseranno un calo del 2,4% per restare poi fermi nel 2010. Gli investimenti fissi a fine 2009 crolleranno del 16% (-20,2% per macchinari ed equipaggiamenti) per tornare a crescere di appena l’1,3% nel 2010. Particolarmente negativo anche l’andamento del commercio estero: le esportazioni scenderanno del 21,5% (-0,7% nel 2010) e le importazioni del 20,2% (-0,2% nel 2010).

A fronte di questa situazione, il governo come si comporta? “Il debito italiano è troppo alto per permettere al governo di fare di più” per sostenere la domanda interna, scrive l’Ocse, apprezzando la cautela delle autorità. Ulteriore problema legato al debito pubblico: “Circa 300 miliardi di euro del debito maturano nel 2009″ e dovranno essere rinnovati. E un ammontare simile è previsto per il 2010. Inoltre, il deficit di bilancio necessiterà di nuovi prestiti per 80 miliardi di euro”.

Per l’Ocse il governo nel varare le misure anticrisi ha avuto a disposizione un “limitato spazio di manovra” nel quale si è mosso abbastanza bene. Per il futuro, tuttavia, l’Organizzazione sostiene che “nel lungo periodo la performance economica può essere migliorata con riforme macroeconomiche e strutturali”. E ritiene utili le iniziative che vanno a sostegno dei nuovi disoccupati che mettono in luce “una certa debolezza nel sistema italiano di welfare”, molto sbilanciato nella spesa pensionistica. E sono proprio le pensioni e la sanità le due aree su cui l’intervento del governo è giudicato prioritario da parte dell’Ocse. Perplessità, invece, vengono rinnovate nei confronti delle misure di sostegno all’industria dell’auto, che “rischiano di falsare l’allocazione delle risorse”. Il settore auto – secondo gli esperti di Parigi – non riveste importanza sistemica e anche se le misure adottate hanno stimolato le vendite di auto a breve termine, è poco probabile che un tale sostegno costituisca il miglior utilizzo delle risorse pubbliche. Ma l’Ocse non dice che gli incentivi alla rottamazione in pratica si autofinanziano con le maggiori vendite. Senza contare che una caduta della produzione e delle immatricolazioni sarebbe costata moltissimo in termini di cassa integrazione e licenziamenti nell’indotto.

Per quanto riguarda il sistema bancario, si sottolinea che “le caratteristiche che hanno protetto le nostre banche sono le stesse che ora possono esporle alle conseguenze della recessione”. E avverte che “gli sforzi di ricapitalizzazione devono continuare, preferibilmente attraverso interventi privati, nazionali ed esteri, ma senza escludere il ricorso al capitale pubblico. Nel rapporto è anche scritto che l’esposizione delle banche italiane nell’Europa centrale e dell’Est supera i 140 miliardi di euro alla fine del 2008. L’esposizione italiana nei paesi in via di sviluppo, che includono quelli dell’Est Europa, nel 2007 “era inferiore a quella delle banche di Germania, Francia, Spagna e Olanda”. “In termine assoluti – si legge nel rapporto – le banche italiane sono più esposte verso Polonia, Croazia, Ungheria e Russia”. L’esposizione con la Polonia è di 35 miliardi di euro, quella con la Croazia di 22 miliardi, quella con l’Ungheria di 18 miliardi e quella con la Russia di 16 miliardi.

Non poteva, ovviamente, mancare la reiterazione della richiesta di rilancio delle liberalizzazioni, estendendo ad altri settori (come trasporti e servizi locali) quelle già compiute, per aumentare la concorrenza e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. L’Ocse fa un esercizio di quantificazione dei benefici delle liberalizzazioni: se l’Italia adeguasse la sua normativa nei settori non-manifatturieri alla “best practice” internazionale, ricaverebbe un aumento del 14,1% della produttività su 10 anni. Se si limitasse a raggiungere i livelli migliori della Ue il miglioramento sarebbe del 13,7%. Nella simulazione dell’Ocse, l’incremento deriverebbe da un +2,6% nel settore dell’elettricità e del gas, dal 4,9% nel retail e dal 7,4% nei servizi professionali. Sarebbero quindi “benefici elevati”, soprattutto nel caso dei servizi professionali, dove l’attuale contesto normativo è particolarmente “scadente se paragonato a quelli di altri paesi”.

Un capitolo è dedicato al federalismo fiscale, che “potrebbe essere difficile da perseguire”. “È importante che abbia un forte sostegno politico e regionale”. Secondo l’Ocse “una nuova tassa locale, in parte basata sul valore delle proprietà di case, sarebbe altamente desiderabile dal punto di vista del federalismo fiscale”. (Beh, buona giornata).

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A Confindustria non piace più il governo Berlusconi.

Confindustria: pil 2009 a -4,9% ripresa “faticosa” nel 2010
Emma Marcegaglia: “Senza un cambiamento strutturale nessuna ripresa per 5 anni”
Confindustria: pil 2009 a -4,9% ripresa “faticosa” nel 2010-Repubblica

Nel 2009 il prodotto interno lordo in Italia si contrarrà del 4,9%. E’ la stima del centro studi di Confindustria che ha tagliato le precedenti previsioni che, a marzo, parlavano di un calo del 3,5%. Un quadro in cui l’occupazione continua a calare. L’economia dovrebbe tornare a crescere dello 0,7% nel 2010 ma la ripresa sarà “ripida” e l’Italia “vi si inerpicherà faticosamente”. Quanto al debito pubblico, crescerà dal 105,7% del pil nel 2008 al 114,7% nel 2009, fino a toccare nel 2010 il 117,5%. Sulla questione interviene anche il presidente Emma Marcegaglia: “Ci sono timidi segnali di ripresa, ma davanti abbiamo mesi molto difficili ed è assolutamente necessario varare le riforme strutturali altrimenti usciremo dalla crisi con un tasso di crescita molto basso e ci vorranno 5 anni per tornare ai livelli di prima”.

Il calo dei consumi. Nel 2009 i consumi si ridurranno dell’1,9%, accelerando il calo dello 0,9% che si è avuto nel 2008. Torneranno a crescere nel 2010 ( 0,7%) grazie a “una maggiore fiducia sostenuta dalla ripresa economica e a un reddito disponibile reale in aumento dell’1,2% dopo la riduzione dell’1,6% subita nel 2009”.

L’uscita dalla crisi. “Indicare ‘exit strategy’ dalla crisi con troppo anticipo – avverte Confindustria – rischia di ottenere l’effetto opposto a quello desiderato di stabilizzazione delle aspettative”.

Allarme occupazione. Nei due anni tra il primo trimestre del 2008 e il primo del 2010, la recessione causerà la perdita di circa un milione di unità di lavoro (tra posti di lavoro e cassa integrazione). Il Centro studi di Confindustria sottolinea che il tasso di disoccupazione arriverà quest’anno all’8,6% e nel 2010 al 9,3%, “livello che non veniva più toccato dal 2000”.

Le mancate riforme. Secondo Confindustria, “lo stato sociale è insostenibile”. Nel presentare i dati, il direttore del Centro studi, Luca Paolazzi, ha rimarcato che “le mancate riforme hanno costi enormi e al contempo offrono gigantesche opportunità: facendo leva su infrastrutture, istruzione, pubblica amministrazione e liberalizzazioni il pil italiano può guadagnare almeno il 30% nei prossimi 20 anni”.

Le “cura” Marcegaglia. Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ribadisce la necessità di agire subito per permettere al paese di tornare a crescere. Gli ambiti da riformare indicati dal numero uno di viale dell’Astronomia sono l’istruzione, le infrastrutture e la giustizia. Ma anche il sistema finanziario necessita di una rivoluzione, dando attuazione al Sace, il fondo di garanzia e la cassa depositi e prestiti, e spingendo sulle liberalizzazioni: “Ci sono ancora interi settori dove il mercato non ha spazio sufficiente e c’è tutt’ora una concorrenza sleale”

Le reazioni. Dure le critiche dell’opposizione. “Le stime di Confindustria smentiscono le bufale propinate dal governo Berlusconi e confermano ciò che il partito democratico ripete da mesi: sulla crisi l’esecutivo non ha mai avuto il polso della situazione”. Lo afferma Sergio D’Antoni, responsabile per il Mezzogiorno del Pd e vicepresidente della commissione Finanze della Camera. “Con l’alibi del debito pubblico, il ministro Giulio Tremonti non ha fatto assolutamente nulla per sciogliere i nodi strutturali che impediscono la ripresa del paese”. Interventi a sostegno delle zone deboli, infrastrutture, aiuti alle piccole e medie imprese, più tutela ai precari. Queste, per D’Antoni, “le priorità disattese dal governo”. (Beh, buona giornata).

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La crisi economica “complotta” contro il governo.

(fonte: Ansa).
La teoria del complotto del presidente Berlusconi è una “scorciatoia” che serve a coprire la “debolezza” dell’azione di Governo. Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, interpellato su questo punto in un collegamento del Tg3 con ‘In mezz’orà dove é ospite.

“Non c’é nessun complotto, naturalmente”, ha detto D’Alema. “C’é la condizione del presidente del Consiglio che unisce a una notevole arroganza e violenza verbale una grande debolezza; una debolezza sostanziale, una incapacità di governare il Paese e anche una grande debolezza di immagine, soprattutto sulla scena internazionale”. “E’ chiaro – conclude – che quando ci si trova in una condizione così debole, la tentazione di dare la colpa a qualche oscuro complotto diventa la scorciatoia anziché fare i conti con le ragioni di questa debolezza che sono nella fragilità e nei comportamenti del presidente del Consiglio”.

“Nel centrodestra c’é un malessere evidente” e a comandare è “la guardia pretoriana, che è Bossi”, ha detto ancora D’Alema ed ha aggiunto che d’altra parte si tratta di una condizione tipica da fine impero “quando le guardie pretoriane hanno sempre più potere dei senatori”.

OPPOSIZIONE SIA PRONTA IN CASO SCOSSE – “La vicenda italiana portà avere delle scosse, dei momenti di conflitto, di difficoltà il che richiede una opposizione in grado di assumersi le sua responsabilità con forza e nella pienezza delle sue funzioni e spero che saremo presto in grado di farlo”, ha sottolineato l’ex presidente del Consiglio. (Beh, buona giornata).

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Chi ha vinto e chi ha perso la partita epocale che si è giocata con le elezioni europee.

Se Marx seduce la destra di BARBARA SPINELLI-La Stampa.

Anche le destre – forse soprattutto le destre – guardano d’un tratto a Karl Marx in altro modo: l’odierna crisi economica somiglia non poco al «continuo stravolgimento dei rapporti consolidati», alla «continua evaporazione di quel che è solido», descritti dal filosofo nel 1848. Il padre del comunismo fantasticò il riscatto di una sola classe, e fu funesto, ma la descrizione era realista, tutt’altro che fantasiosa. È vero che la borghesia tende a rispondere alle crisi «provocando crisi sempre più generalizzate, più distruttive, e riducendo i mezzi necessari a prevenirle». È vero che «la moderna società borghese è come l’apprendista stregone, incapace di controllare le potenze sotterranee da lui stesso evocate». È vero che essa «ha spietatamente strappato tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia piccolo-borghese. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli». È vero infine che il capitalismo sormonta spesso i mali coi veleni che li scatenano: tra essi, «l’epidemia della sovrapproduzione». Il Capitale è di moda da qualche tempo.

A prima vista può apparire stupefacente quel che è accaduto alle elezioni europee. Marx e Keynes tornano in auge, ma per le sinistre socialiste o radicali è catastrofe: sono crollate in 16 paesi su 27, con punte massime in Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Spagna. Al momento sono come istupidite, e non sapendo spiegare a se stesse il disastro si rifugiano nella denegazione. Il capo dei socialdemocratici tedeschi Müntefering fa finta di nulla e giudica assurdo l’esito, «visto che abbiamo spiegato così bene l’Europa sociale». I compagni francesi balbettano. Franceschini, in Italia, emette il verdetto, consolatorio e falso: «Abbiamo perso perché il vento della destra soffia così forte in Europa».

In realtà non ha vinto un vento di destra ma un vento ben contraddittorio: il vento di una destra pragmatica, spregiudicata, non più ideologica, che pur di mantenere il potere agguanta ogni utensile a disposizione. Soprattutto gli utensili della socialdemocrazia: lo Stato che protegge i deboli, e se necessario governa estesamente l’economia. Quel che la destra ha fatto in pochi mesi è impressionante: è stata lei a chiudere l’era Thatcher, sorpassando una sinistra paralizzata dai complessi di colpa, allergica a una conflittualità di cui si vergogna, ammaliata per 13 anni dal Nuovo Labour di Blair e dal suo mimetismo thatcheriano. Senza patemi la destra europea ha smesso l’antistatalismo, la lotta alla spesa pubblica, il dogma delle privatizzazioni. Con sotterfugi linguistici esalta perfino il Welfare: dice «stabilizzatori automatici» per non dire Stato Provvidenza. Uomini come Tremonti scoprono l’anticapitalismo, chiamandolo anti-mercatismo. Qualche tempo fa, in una manifestazione della sinistra estrema a Parigi, ho incontrato un militante che mi ha detto: «Beati voi che avete Tremonti!».

Niente vento di destra dunque, ma un’usurpazione più o meno cinica di idee socialdemocratiche e anche marxiste che devasta le sinistre classiche. Se in Europa si riapre la questione sociale saranno Sarkozy, Tremonti, Angela Merkel a gestirla, nazionalizzando o stampando moneta. Essenziale è traversare il torrente con ogni mezzo, e sperare che si torni allo status quo ante senza mutare il modo di sviluppo produttivistico. Marx e Keynes sono usati non per cambiare modello, ma per perpetuarlo con l’ambulanza del Welfare. È un modello che socialisti e sindacati condividono, quando accusano la destra di ultraliberismo o si limitano a chiedere aumenti salariali e tutela dei posti fissi. Per questo sono oggi ombre di se stessi.

Le elezioni europee non dicono tuttavia solo questo. Le sinistre defraudate sono aggrappate allo status quo ma nuove forze emergono, che pensano la crisi con sguardo più profondo e lungo. Che seguono con estrema attenzione Obama e presentono, in quel che annuncia, la possibilità di una trasformazione, di un ricominciamento. È il caso dei Verdi in Francia, Germania, Inghilterra, Svezia, Belgio, Grecia, Finlandia. È il caso dei liberali-legalitari di Di Pietro, e perfino di forze inedite come i Pirati in Svezia. Quattro consapevolezze accomunano questi gruppi. Primo, la crisi presente è tettonica, e non si esaurisce nella questione sociale. Secondo: il capitalismo di Stato che ovunque risorge accresce i poteri dello Stato censore sulle libertà cittadine. Terzo: la corruzione che ha accompagnato la crisi può perdurare, perché le urgenze governative sono altre. Quarto: il ricominciamento dovrà accadere in Europa, non negli Stati-nazione.

Daniel Cohn-Bendit è precursore in questo campo, e il suo successo è significativo. La questione sociale non è negata, ma egli la vede in connessione stretta con il clima: dunque con una crescita alternativa, e come ha detto Obama al vertice dei G-20, con un «mercato dei consumi meno vorace». A suo avviso sia la destra che la sinistra difendono lo status quo: la crescita dei consumi e di vecchie produzioni, la lotta sul clima rinviata al dopo-crisi, come nei desideri di governanti e imprenditori italiani. «È come se le sinistre avessero nel computer un software inadatto», dice: un «software produttivistico» sorpassato e nocivo. Il carisma del leader verde non è senza legami con quello di Di Pietro, De Magistris, Arlacchi. Anche i francesi di Europa-Ecologia hanno schierato giudici: Eva Joly, numero due nella lista, ha indagato sulla corruzione dei potenti (incriminando il faccendiere Tapie o – nell’affare Elf – l’ex ministro degli Esteri Roland Dumas) ed è esperta in delinquenza finanziaria internazionale. Anche lei è cittadina d’Europa: come Cohn-Bendit è franco-tedesco, lei è franco-norvegese.

Infine c’è il Partito dei Pirati: una formazione che ha raccolto il 7 per cento ed è il terzo partito svedese per numero di iscritti. La sua battaglia per il libero e completo accesso a internet è emblematico segno dei tempi: con il dissesto dei giornali e l’estendersi del capitalismo di Stato, si è visto negli ultimi giorni quanto sia prezioso lo spazio internet e dei blog. È prezioso in Francia, dove la Corte costituzionale ha appena invalidato una legge che vieta lo scaricamento di programmi, affermando che solo il giudice può emettere sanzioni e non l’autorità amministrativa. È prezioso in Italia, dove la libertà internet è minacciata dalla nuova legge sulle intercettazioni: lo spiega molto bene Giuseppe Giulietti sul quotidiano online per la libertà d’espressione (Articolo21.info).

L’impotenza dello Stato-nazione accelera le cose. Sono cresciuti i partiti concentrati sull’Europa, per respingerla o approvarla. I Verdi sono i soli, nel voto di giugno, ad aver appreso la dimensione sovranazionale delle politiche europee. Cohn-Bendit è l’unico ad aver parlato in nome d’un partito non nazionale: il che vuol dire che non siamo giunti, con la crisi delle sinistre tradizionali e del modello produttivistico, alla fine del progetto europeo pensato dai fondatori. Sono sfibrate le forze dimentiche dell’Europa, non quelle che investono su essa e reinventano. L’analisi di Cohn-Bendit è giusta: «Una forza politica moderna deve avere oggi dimensioni europee. E la crisi della socialdemocrazia la si risolverà solo formulando, contro le alternative nazionali, alternative europee. È qui che il socialismo ha fallito: aveva davanti a sé un boulevard in Europa, e ha dato risposte solo sul piano nazionale». (Beh, buona giornata).

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Mentre l’Europa va a destra, l’economia va a fondo.

Quali prospettive per l’economia mondiale? – Economiadi Stefano Sylos Labini – da eticaeconomia.it/megachip.info

Oggi ci troviamo in un momento cruciale nell’evoluzione dell’economia mondiale. Da un lato il sistema capitalistico è precipitato in una gigantesca crisi di sovrapproduzione la quale è scoppiata per effetto del crollo della domanda aggregata.

Dall’altro lato le politiche keynesiane di spesa in deficit, che in questo periodo sono affiancate da una fortissima espansione monetaria attuata dalle Banche Centrali di tutto il mondo, rappresentano nel breve periodo l’unico sistema di intervento in grado di trainare la ripresa della domanda, della produzione e dell’occupazione. Così l’espansione del debito può far crescere il Pil e il gettito fiscale esercitando una spinta verso il contenimento del rapporto tra debito e reddito. La ripresa dell’economia a sua volta è una condizione fondamentale per riattivare il credito bancario e più in generale la creazione di moneta (potere di acquisto) da parte del mercato.

Nel modello di sviluppo che ha prevalso a partire dagli anni di Reagan e della Thatcher (inizio degli anni ’80) e che ci ha fatto precipitare nell’attuale crisi finanziaria ed economica, la crescita dei salari, della spesa sociale e dell’offerta di moneta pubblica (base monetaria) è stata sostituita con un’espansione eclatante dell’indebitamento privato . Così la domanda di beni di consumo, di abitazioni e di attività finanziarie è stata alimentata in larga misura dal credito bancario e da strumenti derivati[1].

Oggi il modello di sviluppo fondato su una crescente divaricazione nella distribuzione della ricchezza mostra tutti i suoi limiti perché l’eccesso di indebitamento privato può avere degli effetti nefasti nel momento in cui la crescita dell’economia tende a rallentare, si creano delle aspettative negative ed inizia a ridursi il prezzo degli immobili e delle azioni che garantivano i debiti privati. Nel settembre del 2008 tali fenomeni hanno provocato il crollo della fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento e la paralisi del credito bancario all’economia. Si è determinata così una violentissima restrizione monetaria che ha prodotto un’enorme vuoto di domanda e quindi la caduta della produzione e dell’occupazione.

Si tratta perciò di rivedere il modello di sviluppo che si è imposto negli ultimi 30 anni perché senza un nuovo consumatore che prenda il posto del consumatore americano iper-indebitato, il mondo rischia di andare incontro ad un periodo prolungato di rallentamento economico.

In altri termini, la crisi che il mondo attraversa non è ciclica ma strutturale ed è legata all’eccessiva dipendenza dal consumatore americano. Il pianeta ha bisogno di maggior consumo in India, Cina ed Europa altrimenti, sarà difficile che ci sia una domanda adeguata in grado di assorbire le enormi potenzialità produttive che oggi esistono nei paesi avanzati e nei paesi di recente industrializzazione come Cina e India. E una maggiore domanda la si può ottenere solo puntando sull’espansione dell’occupazione e sulla crescita dei salari di centinaia di milioni di persone. Ciò significa che gli interventi pubblici attuati nel breve periodo vanno accompagnati con politiche per la redistribuzione del reddito che si devono fondare su una decisa lotta all’evasione fiscale e su una maggiore tassazione dei redditi alti, dei beni patrimoniali e delle attività finanziarie.

Nei paesi avanzati la creazione di occupazione e l’aumento dei salari rappresentano delle condizioni fondamentali non solo per il sostegno dei consumi, ma anche per la riduzione del lavoro precario e per eventuali riforme volte ad innalzare l’età pensionabile. Quest’ultima è una richiesta che proviene in primo luogo dalle Associazioni degli Industriali, le quali durante le fasi di crisi si comportano esattamente al contrario poiché ricorrono alla cassa integrazione e ai pensionamenti anticipati delle unità di lavoro più anziane con i livelli retributivi più alti.

L’eccesso di offerta in rapporto alla domanda e la disponibilità di forza lavoro abbondante e a basso costo a livello mondiale hanno determinato la continua perdita di forza contrattuale dei lavoratori sul piano economico e la crisi delle forze di sinistra sul piano politico. I salari dei lavoratori dei paesi avanzati con il procedere della globalizzazione e con la comparsa di nuove aree produttive sulla scena mondiale hanno subito una concorrenza fortissima da parte dei lavoratori immigrati a basso costo in patria e dei prodotti a basso costo realizzati nei paesi in via di sviluppo. A questo si aggiunge una tendenza verso la frantumazione delle attività produttive determinata dai fenomeni di esternalizzazione e del sub-appalto oltre ad un abnorme espansione del lavoro precario e ad un aumento rilevante della disoccupazione. Per tali motivi oggi è molto difficile mettere in pratica politiche redistributive in grado di far crescere i redditi più bassi nei paesi avanzati.

Per cercare di rompere questa situazione negativa la prima cosa da fare sarebbe quella di creare un salario minimo al di sotto del quale non si può scendere. E’ vero che questo intervento potrebbe determinare il ricorso al lavoro nero, per questo il salario minimo deve essere composto da una quota che viene pagata dall’impresa a cui si aggiunge una quota che deve essere corrisposta dallo Stato sottoforma di affitti agevolati, tariffe elettriche, telefoniche e del gas scontate, detassazioni sui beni di prima necessità, servizi a prezzo sociale (scuola, spese mediche, ecc.).

Ma come fare se i paesi avanzati hanno un deficit pubblico e delle spese per interessi sul debito molto elevate ? Probabilmente un intervento di sostegno potrebbe essere effettuato attraverso la creazione di base monetaria per assorbire quote rilevanti di debito pubblico. Ciò significa che anche le Banche Centrali dovrebbero svolgere un ruolo attivo nello sviluppo dell’economia, un ruolo che non deve essere solo difensivo e rivolto principalmente a sostenere il sistema bancario come sta avvenendo nel periodo attuale. Come abbiamo visto, in questi mesi la Federal Reserve ha prodotto un’eclatante espansione della base monetaria per cercare di arginare il crollo della domanda, della produzione e dell’occupazione e per evitare il fallimento di gran parte del sistema finanziario americano. E allora perché gli interventi delle Banche Centrali devono essere limitati solo ai periodi di crisi violenta e non devono proseguire sino a che non si raggiungono livelli di piena occupazione e di salari dignitosi per tutti ?

Secondo le concezioni dominanti una tale linea di intervento alimenterebbe l’inflazione, ma se i salari corrisposti dalle imprese crescono con la stessa velocità della produttività non si produce alcuna tensione sui prezzi al consumo, e se esiste capacità produttiva inutilizzata difficilmente si avrà un eccesso di domanda sulla produzione. In effetti oggi l’unico rischio di inflazione proviene dalla crescita del prezzo del petrolio per un aumento troppo rapido dei consumi rispetto all’offerta, per le tensioni geopolitiche e per i fenomeni di speculazione finanziaria. La possibilità di scongiurare l’“inflazione da petrolio” dipende in primo luogo dalla capacità del pianeta di riuscire a sviluppare nel lungo periodo fonti energetiche diverse rispetto ai combustibili fossili. Cioè dipende dalle strategie di politica energetica e industriale che saranno perseguite per aumentare le spese in ricerca, gli investimenti e la produzione di nuove tecnologie energetiche.

Accanto ad un sostegno immediato dei salari e delle fasce sociali più deboli, è augurabile anche un intervento per la creazione di occupazione attraverso grandi progetti tecnologici e infrastrutturali, come sta già avvenendo negli Stati Uniti. In Europa questi progetti potrebbero essere finanziati con gli “eurobonds”. La riduzione della disoccupazione oltre ad alimentare i consumi permetterebbe di far ottenere ai lavoratori un maggiore potere contrattuale e quindi consentirebbe di portare avanti politiche incisive per la redistribuzione del reddito, condizione fondamentale per garantire uno sviluppo sostenibile nel lungo periodo.

Inoltre, è necessario che il settore bancario, in cui vi sono gigantesche concentrazioni di potere, sia messo sotto un controllo politico e sociale molto più stringente di quanto possano fare oggi le autorità antitrust e gli organismi di regolazione internazionali proprio per canalizzare le risorse finanziarie verso gli investimenti produttivi e le spese sociali.

Per concludere, i paesi avanzati hanno altre grandi responsabilità oltre a quelle di offrire salari dignitosi e un’occupazione per tutti i cittadini residenti nei propri territori. Come detto, devono trainare una rivoluzione energetica per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e l’impatto ambientale della produzione e dei consumi sul clima del pianeta. Inoltre, è nell’interesse dei paesi avanzati promuovere lo sviluppo dei paesi poveri. Si tratta di decisioni non più rinviabili per ridurre i fenomeni migratori che stanno mettendo sempre più a rischio la coesione sociale nei paesi avanzati e che non sono moralmente accettabili per le popolazioni povere le quali vengono sradicate dai loro territori e sono costrette ad emigrare in ambienti ostili con dei costi umani altissimi. (Beh, buona giornata).

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[1] E’ importante sottolineare che l’enorme espansione della massa monetaria creata dal mercato sino alla crisi di settembre del 2008 non ha determinato una crescita significativa dei prezzi dei beni di consumo, mentre ha alimentato l’inflazione dei prezzi degli immobili e delle quotazioni azionarie. L’inflazione immobiliare e finanziaria a sua volta attraeva masse sempre più grandi di capitali in questi settori finché i prezzi non hanno iniziato a diminuire.

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Crisi economica globale: a picco gli indici della fiducia dei consumatori in tutto il mondo.

(fonte: advexpress.it)

Negli ultimi sei mesi, la fiducia dei consumatori a livello globale è precipitata ad un minimo record, perdendo sette punti, da 84 a 77, secondo il “Nielsen Global Consumer Confidence Index”. L’ultima indagine Nielsen sulla fiducia dei consumatori a livello globale, condotta ad aprile 2009 in 50 Paesi, ha mostrato che i mercati emergenti di Russia, EAU (Emirati Arabi Uniti) e Brasile hanno accusato un enorme calo di fiducia da parte dei consumatori negli ultimi sei mesi a causa della svalutazione monetaria, dell’indebolimento dei mercati di esportazione e della caduta dei prezzi delle merci a livello globale.

“Mentre l’Europa e i mercati sviluppati hanno visto precipitare drammaticamente la fiducia dei consumatori tra maggio e ottobre 2008, i mercati emergenti di Russia e America Latina hanno accusato maggiormente il colpo negli ultimi mesi”, ha dichiarato James Russo, Vice President, Global Consumer Insights, The Nielsen Company. In Russia la fiducia dei consumatori è scesa di 29 punti (arrivando a 75 punti rispetto ai 104 di settembre ’08), dando prova del maggior calo registrato da Nielsen a livello globale. Nei principali mercati emergenti invece la fiducia di EAU e Brasile è scesa di 21 punti. L’America Latina ha dimostrato il maggior calo di fiducia dei consumatori, con una diminuzione di 15 punti (da 97 a 82), mentre in Europa e Asia-Pacifico è scesa in entrambi i casi di sette punti.

“Sei mesi fa, mentre i mercati sviluppati procedevano spediti verso l’epicentro di una recessione globale, l’America Latina rappresentava l’area geografica più ottimista del mondo – tuttavia i lunghi tentacoli della recessione globale non hanno tardato a raggiungerla”, ha aggiunto Russo. Secondo l’indagine Nielsen, la fiducia dei consumatori in Brasile è scesa da 108 a 87 punti, mentre in Argentina è scesa da 94 a 78 punti. “Sebbene sia improbabile che gli effetti della crisi globale abbiano un impatto sui consumatori dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e Latam (America Latina) simile a quello registrato nei paesi sviluppati, questi mercati stanno attualmente sperimentando un notevole rallentamento rispetto al boom e alla crescita degli ultimi anni”, ha affermato Russo.

“Verso la fine dello scorso anno, i consumatori russi hanno assunto un atteggiamento di ‘attesa’ nei confronti della difficile situazione economica globale, che da allora ha intrapreso un’inesorabile oscillazione verso il basso. La continua riduzione del prezzo del petrolio, la svalutazione monetaria e il rallentamento locale verificatosi in diversi settori hanno riportato alla memoria la crisi russa del 1998”, ha aggiunto Dwight Watson, Managing Director, The Nielsen Company, Russia.

L’Indonesia è in testa alla classifica Nielsen della fiducia dei consumatori a livello globale con 104 punti, seguita dalla Danimarca (102 punti) e dall’India (99 punti). I Paesi più pessimisti a livello mondiale secondo l’indice Nielsen sono la Corea (31 punti), seguita da Portogallo e Lettonia con 48 punti. La fiducia è precipitata in 49 Paesi su 50 – Taiwan è stato l’unico Paese a contrastare la tendenza globale, rialzando l’indice da 60 a 63 punti, ma pur sempre 14 punti sotto la media globale.

“Comunicazioni quotidiane di tagli di posti di lavoro e di calo dei profitti aziendali, fallimenti e pignoramenti, riduzione delle previsioni di PIL e di produzione hanno contribuito a diminuire la fiducia e il potere d’acquisto dei consumatori, portandoli ai livelli minimi dal dopoguerra. Negli ultimi sei mesi, la fiducia dei consumatori in Medio Oriente, Africa e Nord America è diminuita rispettivamente di due e tre punti. Tuttavia, l’assenza di un’ulteriore diminuzione della fiducia dei consumatori nordamericani potrebbe dar prova dei primi cauti segnali di speranza che la recessione stia finalmente per giungere al termine.” ha dichiarato Russo.

“I risultati che stiamo osservando secondo l’ultimo indice Nielsen della fiducia dei consumatori indicano che siamo giunti, o che stiamo per giungere, verso la fine di questo ciclo economico. In particolare negli Stati Uniti, dove si stanno chiaramente ritoccando spese e risparmi e dove il 40% dei consumatori dichiara di aver quasi terminato di pagare i debiti e di iniziare a risparmiare, si sta sviluppando un atteggiamento di ottimismo dovuto alla percezione del fatto che la fine del tunnel sia vicina, e quasi il 20% prevede una ripresa entro i prossimi 12 mesi”, ha commentato Russo.

L’Europa rimane l’area geografica più pessimista con 70 punti, sette sotto la media globale; chiara indicazione del fatto che la ripresa economica in Europa avrà luogo più lentamente. Secondo l’indagine Nielsen, il 77% dei consumatori online ritiene che la propria economia sia in recessione, rispetto al 63% di sei mesi fa.

“In generale, i consumatori hanno attraversato un periodo difficile alla fine del 2008 e si sono preparati ad affrontare un periodo altrettanto arduo nella prima metà del 2009, cosa che sta puntualmente accadendo. L’unica eccezione a livello globale è la Cina, dove il 65% dei consumatori su internet non ritiene che la propria economia sia in recessione”, ha dichiarato Russo.

Tra i consumatori online a livello globale che ritengono di essere attualmente in recessione, il 52% dichiara di essersi preparato ad una recessione globale che durerà 12 mesi o più. “Un consumatore su due non è in attesa di un miracolo per una rapida ripresa; probabilmente il miglior approccio auspicabile è di rimanere fermi ma stabili”, ha dichiarato Russo. Tuttavia, non tutti sono preparati a sopportare una recessione prolungata – alcuni consumatori stanno già pianificando il loro party post-recessione. Tra i recessionisti attuali, quasi un consumatore online su cinque (23%) ritiene che il proprio Paese uscirà dalla recessione entro i prossimi 12 mesi; tale classifica è capeggiata da vietnamiti (60%) e indiani (56%).

Due consumatori danesi e olandesi su cinque ritengono anch’essi di uscire dalla recessione entro un anno, insieme ad un consumatore su tre con sede in Austria, Svezia, Norvegia, Russia, Indonesia, Israele, Messico e EAU.

Mentre la fiducia dei consumatori a livello globale è precipitata ad un nuovo livello minimo, la paura della disoccupazione e l’incertezza del lavoro hanno raggiunto massimi storici. La certezza del lavoro è stata menzionata come principale preoccupazione tra i consumatori su internet in 31 dei 50 Paesi oggetto dell’indagine. La preoccupazione globale relativa alla certezza del lavoro è salita al 22% rispetto al 9% rilevato in occasione dell’ultima indagine.

“Per la prima volta in questa ricerca, il posto di lavoro è diventato una delle preoccupazioni principali della vita”, ha affermato Russo. Sei mesi fa i consumatori globali menzionavano l’economia e l’equilibrio tra vita privata e vita professionale tra le principali preoccupazioni, ma a seguito del peggioramento delle condizioni economiche, le priorità dei consumatori sono cambiate rapidamente”, ha dichiarato Russo.

“Dato il numero record di licenziamenti per esubero a livello globale in tutti i settori, la preoccupazione economica e quella sulla certezza del lavoro hanno superato ogni altra preoccupazione della vita quotidiana”, ha affermato Russo. I consumatori che hanno indicato il lavoro quale preoccupazione principale nella vita quotidiana sono situati in Cina (29%), Hong Kong (33%), India (29%), Singapore (32%), Vietnam (36%), Italia (24%), Spagna (34%), Ungheria (31%) e Messico (29%). “Questi numeri riflettono il livello di crescente preoccupazione a fronte di un mercato del lavoro in crisi in tutte le aree geografiche”, ha continuato Russo. L’incertezza del lavoro rimane una preoccupazione anche per il prossimo futuro. Un consumatore globale su cinque (26%) ha delineato prospettive di lavoro negative per i prossimi 12 mesi rispetto al 17% del mese di ottobre 2008. (Beh, buona giornata).

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Duemilioni di lavoratori senza tutele: “Sarebbe stato bello se, nello studio di “Porta a porta” o in quello di “Radio anch’io”, qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l’inconsistenza dei suoi seducenti “annunci” e l’incongruenza delle sue sedicenti “verità”.

Welfare, le bugie del governo, senza tutele 2 milioni di lavoratori di MASSIMO GIANNINI-Repubblica.it

NELL’archetipo berlusconiano, il “principio della realtà immaginata” è il cuore della politica. La propaganda non lascia spazio alla verità e alla responsabilità. Neanche su una frontiera dolorosa, come la vita agra dei disoccupati e dei precari.

Tutto si gioca sempre e soltanto sulla manipolazione semantica del reale e nella rimozione psicologica dei fatti. Nella “realtà immaginata” dal Cavaliere, dunque, l’Italia è il Paese che “resiste meglio di tutti gli altri alla crisi”. E’ la patria dell’equità sociale, dove un magnifico Welfare “copre tutti quelli che ne hanno bisogno” e dove un governo magnanimo “non lascia indietro nessuno”.

Da almeno due giorni Silvio Berlusconi va ripetendo queste clamorose bugie dai microfoni del servizio pubblico radiotelevisivo. Aveva cominciato due sere fa nel solito salotto di Bruno Vespa, smerciando agli italiani le “meraviglie” del nostro sistema di ammortizzatori sociali, debitamente rimpinguati dal centrodestra, al punto di garantire “a tutti, ma proprio a tutti”, una degna protezione.

Ha continuato ieri mattina nel felpato studio di “Radio anch’io”, smentendo il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, “colpevole” di aver sostenuto l’esatto contrario solo sette giorni fa. “La sua informazione sui precari – lo ha accusato – non corrisponde alle cose che emergono dalla nostra conoscenza della società italiana”. Un concetto un po’ oscuro nella forma, ma chiarissimo nella sostanza: non credete alla realtà empirica descritta da Draghi, europessimista e antitaliano, ma credete alla “realtà immaginata” che vi racconto io, superottimista e salvatore della Patria.

Solo una settimana fa il premier, compiaciuto, aveva definito “berlusconiane” le “Considerazioni finali” del governatore. Se le aveva lette, mentiva allora. Se non le ha lette, sta mentendo adesso. Basta ricostruire i fatti, per svelare la frottola scandalosa pronunciata sulla pelle dei veri “invisibili” (i reietti del lavoro) e per far cadere ancora una volta la maschera circense indossata dal Cavaliere (qui, come sul Casoria-gate o sul dopo-terremoto).

A “Porta a porta” Berlusconi ha dichiarato: “Oggi come mai i cittadini pensano che lo Stato è vicino. Non ho notizia di qualcuno che dica “abbiamo fame”… Abbiamo, ed è già operativo, accorciato le pratiche per la cassa integrazione, e tutti coloro che perdono il lavoro hanno il sostegno dello Stato. Copriamo fino all’80% dell’ultimo stipendio, ma la gente che segue anche dei corsi può arrivare quasi al 100% dell’ultimo stipendio… I “co. co. pro.” possono avere una percentuale rispetto a quello che hanno introitato rispetto all’anno precedente… Ne ho parlato con il ministro Sacconi, ed è tutto già operativo”.

Delle due l’una. O il presidente del Consiglio non sa di cosa parla. O specula politicamente sulla vita della povera gente. E non lo dicono i pericolosi “bolscevichi” del Pd. Lo ha detto, appunto, il governatore di Bankitalia: “Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% dei nostri partner. Il nostro sistema di protezione sociale rimane frammentato. Lavoratori identici ricevono trattamenti diversi solo perché operano in un’impresa artigiana invece che in una più grande. Si stima che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non abbiano diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento. Tra i lavoratori a tempo pieno del settore privato oltre 800 mila, l’8% dei potenziali beneficiari, hanno diritto a un’indennità inferiore ai 500 euro al mese… La Cassa integrazione ordinaria è stata diffusamente usata… la sua copertura potenziale è tuttavia limitata – interessa un terzo dell’occupazione dipendente privata – e fornisce al lavoratore un’indennità massima inferiore, in un mese, alla metà della retribuzione media dell’industria… Per oltre 2 milioni di lavoratori temporanei il contratto giunge a termine nel corso di quest’anno. Più del 40% è nei servizi privati, quasi il 20 nel settore pubblico. Il 38% è nel Mezzogiorno”.

Così stanno le cose nel Paese reale, fuori dal mondo virtuale immaginato da Berlusconi. Perché non è poi così difficile stabilire chi stia mentendo, tra un premier che alla vigilia del voto europeo chiede al “suo” popolo di rinnovare e rafforzare il plebiscito, e un’istituzione neutrale e autorevole come la Banca d’Italia che non chiede niente a nessuno ma esige solo ascolto e rispetto.

Per averne conferma basta interrogare un po’ più a fondo il ministro del Welfare. Chi ha ragione, tra Berlusconi e Draghi? “A modo loro – è la sorprendente risposta di Maurizio Sacconi – possono avere detto tutti e due una cosa vera. Noi abbiamo esteso a tutti i lavoratori subordinati, “potenzialmente”, quella protezione del reddito che oggi, in assenza di queste misure straordinarie, sarebbe limitata solo a una parte dei lavoratori dipendenti: a quelli delle industrie sopra i 15 dipendenti, a una piccola parte del terziario. E questa operazione, da 32 milioni di euro nel biennio 2009-2010, “potenzialmente” copre tutti i lavoratori subordinati, anche quelli con contratti a termine, apprendisti o lavoratori interinali…”.

Il problema è capire cosa significhi quel “potenzialmente”, ripetuto due volte dal ministro. “Si tratta di vedere se il lavoratore ha maturato i requisiti di accesso – è la sua risposta – non si può accedere ai sussidi avendo lavorato solo un giorno. Da sempre, con unanime consenso delle forze politiche e sociali, il sussidio dev’essere responsabilmente gestito sulla base di un periodo già lavorato. Non a caso noi non proteggiamo un giovane in attesa della prima occupazione. Dobbiamo dargli servizi, opportunità di apprendimento, di congiunzione tra la scuola e lavoro, non certo un salario garantito…”. E dunque, per quanti lavoratori la coperta del nostro Welfare sarà inevitabilmente corta, tanto da lasciarli del tutto scoperti? “E’ impossibile dirlo”, conclude Sacconi.

Detto altrimenti: nell’irrealtà berlusconiana tutti sono “potenzialmente” coperti. Nel realtà italiana molti sono “concretamente” scoperti. Quanti siano gli uni e gli altri, in ogni caso, il governo non lo sa. Sacconi, che è persona onesta, ha almeno il coraggio di riconoscerlo. Il Cavaliere, cui manca il pregio minimo della “dissimulazione onesta”, spergiura il suo “tutti”, e la chiude lì. Lo dice Lui, dunque va creduto a prescindere.

Sarebbe stato bello se, nello studio di “Porta a porta” o in quello di “Radio anch’io”, qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l’inconsistenza dei suoi seducenti “annunci” e l’incongruenza delle sue sedicenti “verità”. Ma ancora una volta, in quelle “dependance” mass-mediatiche di Palazzo Grazioli è risuonato solo il Verbo del Cavaliere. L'”irresponsabilità delle parole”, secondo Max Weber, coniugata all'”inverificabilità degli eventi”, secondo Karl Popper. (Beh, buona giornata).

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Ecco i dati che dimostrano che chi dice che stiamo uscendo dalla crisi non sa quello che dice.

Crolla il pil dei paesi della zona-euro. Secondo L’Eurostat si è avuta una diminuzione del 4,8% nel primo trimestre 2009 su base annua, mentre la diminuzione per i paesi dell’Unione Europea è stata del 4,5%. In Italia il calo è del 5,9%.

“Germania, la più colpita”. I dati del prodotto interno lordo nel primo trimestre 2009 rispetto agli ultimi tre del 2008 hanno segnato un calo del 2,5% nell’Eurozona. Per l’Italia la contrazione è del 2,4%.L’economia più colpita è stata quella tedesca, con la Germania che ha avuto un calo del 3,8%. Male anche Spagna (-1,9%) e la Francia (-1,2%).

Polonia in controtendenza. Tra i Paesi dell’est – la cosiddetta Nuova Europa – resiste alla recessione solo la Polonia, che segnala una crescita trimestrale dello 0,4% e annuale dell’1,9%. In Lituania il calo sul trimestre precedente è del 10,5%, in Lettonia dell’11,2%. Numeri negativi anche per Estonia, Romania, Slovaccia e Ungheria.

Consumi e investimenti. L’Eurostat spiega che le spese di consumo delle famiglie hanno visto, rispetto al trimestre precedente, un calo dello 0,5% nell’eurozona e dell’1,0% nell’intera Unione Europea. Gli investimenti hanno visto una contrazione del 4,2% nell’eurozona e del 4,4% nell’Ue-27. Le esportazioni sono calate rispettivamente dell’8,1% e del 7,8%. In calo anche le importazioni, rispettivamente del 7,2% e del 7,8%.

“Inflazione zero”. Intanto Eurolandia viaggia verso un periodo di inflazione zero e si avvia ad un nuovo periodo di riduzione della crescita. Secondo un membro del board della Banca Centrale europea, l’austriaco Ewald Nowotny, “nel 2009 ci sarà una drastica contrazione del pil, mentre nel 2010 avremo molto probabilmente una crescita zero”. Poi ha aggiunto: “Nei prossimi mesi avremo un periodo di inflazione negativa che non definiremo deflazione ma piuttosto processo di disinflazione”. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: il Ceo di Wpp vuole l’aumento, mentre 8000 dipendenti vanno a casa.

fonte: advexpress.it

Martedì 2 giugno, a Dublino, si terrà l’assemblea degli azionisti del Gruppo WPP (la prima in Irlanda da quando la holding ha trasferito la propria sede per motivi fiscali lo scorso anno): fra gli argomenti all’ordine del giorno uno in particolare sta provocando numerose reazioni internazionali.

Gli azionisti dovranno infatti decidere se approvare o meno un piano di incentivazione che riguarda il chairman Sir Martin Sorrell, il direttore finanziaro Paul Richardson, il direttore strategico Mark Read e altri 20 top manager, i quali a fronte di un investimento in azioni del Gruppo potranno ricevere fino a 5 volte lo stesso numero di azioni gratuitamente. La proposta delineata consentirà ad esempio a Sorrell di investire fino a 14 milioni di euro nel quinquennio, per ricevere alla fine un bonus di circa 70 milioni e più.

La società di consulenza PIRC (Pensions and Investments Research Consultants), specializzata nell’analisi della governance delle imprese e della loro corporate social responsibility, ha infatti pubblicamente invitato gli azionisti a non accettare il programma dei bonus, così come l’Associazione degli Assicuratori Britannici, che considera la proposta meritoria di una ‘bandiera rossa’.

WPP ha precisato in una nota che il piano dei bonus è perfettamente allineato agli interessi degli azionisti: prima di tutto perché prevede obiettivi più alti e difficili da raggiungere – una performance economica migliore del 90% dei suoi competitor, rispetto al 75% del precedente (che risale al 2004) -, e poi perché richiede comunque al management di investire, assumendo direttamente un rischio finanziario così come qualunque altro investitore.

Secondo PIRC, nonostante l’innalzamento degli obiettivi la ricompensa appare tuttavia eccessiva rispetto al passato. Ma le critiche arrivano anche da altre parti, soprattutto dagli analisti che ricordano il forte calo del titolo nel recente passato, e sottolineano come una performance migliore della concorrenza non voglia dire necessariamente un risultato positivo. E sono in molti a ricordare che per mantenere più basso di altre holding il tasso di crescita negativo di questo anno di crisi, WPP abbia già previsto di tagliare i suoi dipendenti di quasi 8.000 persone. Beh, buona giornata.

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Mentre l’italietta berlusconista si interroga sulle relazioni “piccanti”, la nuova politica industriale di stato del ventunesimo secolo è stata inaugurata con l’accordo Opel-Magna. L’amico Vladimir ha fatto maramao all’amico Silvio.

Opel-Magna, la vittoria politica dell’asse del gas Putin-Schröder -sole24ore.com

La nuova politica industriale di stato del ventunesimo secolo è vicina al suo battesimo. Se l’accordo tra la cordata rappresentata da Magna con Gm e il governo di Berlino andrà a buon fine, sarà il primo grande affare tra governi nell’economia del dopo crisi finanziaria. con un vincitore certo: la Russia di Vladimir Putin. E finanziatori altrettanto certi: la Germania di Angela Merkel e i contribuenti tedeschi.

Si entra in un territorio nuovo, dove i muscoli di stato sostituiscono il mercato. la nuova proposta targata Magna-Sberbank-Gaz presentata ieri non é ancora chiara. Ma ci sono alcuni punti fermi. Magna, produttore canadese di componenti per automobili, ha una buona liquidità in cassa ma soffre parecchio della crisi: nel primo trimestre del 2009, il suo fatturato si é quasi dimezzato. Prenderà il 20 per cento di Opel. Sberbank é la prima banca russa, pubblica, amata dal primo ministro éutin che la sogna come «banca del popolo», ma é in guai anche più seri di quelli delle banche occidentali. Prenderà il 35 per cento di Opel. Gaz, produttore di automobili controllato dall’oligarca oleg Deripaska, sta in un mercato, quello russo, che nel 2009 probabilmente crollerà del 60 per cento. Prenderà lo zero per cento di Opel perché é senza soldi, ma promette di garantire un milione di auto tedesche vendute ogni anno tra Russia e Cina. Il resto delle azioni resterà per il 35 per cento in mano alla Gm americana e per un 10 per cento andrà ai dipendenti della casa automobilistica tedesca».

Non un gran punto di partenza, bisogna dire. la cordata, però, ha sì debolezze ma ha anche un grande punto di forza. È amata, da prima ancora che si sapesse cosa voleva fare, da gran parte della politica tedesca, soprattutto dai socialdemocratici che stanno al governo come partner dell’Unione Cdu-Csu della signora Merkel, e dai forti sindacati della germania. È difficile dire come sia esploso all’improvviso questo amore, visto che la proposta Magna- Sberbank-Gaz é molto onerosa e rischiosa per la germania. Una risposta, però, c’é. si chiama Gerhard Schröder.

L’ex cancelliere, dopo avere perso le elezioni del 2005, é diventato un grande mediatore di affari internazionali che fonda la sua forza su un rapporto strettissimo con Putin e sulla rete di relazioni eccezionali che ha in Germania e in occidente. È presidente del comitato degli azionisti del Nord Stream, il controverso gasdotto controllato dalla moscovita Gazprom che collegherà Russia e Germania e irrita molti paesi europei. Ha un ruolo da ago della bilancia nel consiglio di amministrazione della litigiosissima joint-venture petrolifera bp-tnk tra il gruppo britannico e un gruppo di investitori russi. Media affari in Iran. e sul caso Opel ha ispirato – secondo le informazioni che circolano a Berlino – la cordata Magna-sberbank-Gaz. Ha capito che la crisi Opel era un’opportunità per Putin di mettere un piede in un gruppo ad alta tecnologia occidentale e ha pensato a una soluzione.

Magna – nel cui consiglio di sorveglianza siede Franz Vranitzky, ex cancelliere austriaco e socialdemocratico – funziona da volto accettabile per l’opinione pubblica tedesca e nell’affare Opel di suo rischia poco. Dietro, stanno le armate russe: senza soldi, ma che si sono assicurate una promessa di prestito da quattro miliardi da Commerzbank, banca tedesca in cui il governo di Berlino ha da poco preso una quota del 25 per cento. sulla base del suo nome, poi, Schröder ha galvanizzato l’esercito socialdemocratico tedesco che ha subito alzato la bandiera Magna- Sberbank-Gaz: dai sindacati a Frank Walter Steinmeier, leader della Spd e suo ex capo di gabinetto quando era cancelliere. un capolavoro. Angela merkel? Riesce a non nazionalizzare Opel, come in un primo momento voleva la Spd, e a non rompere troppo gli equilibri nel suo governo di grande coalizione. Nei prossimi giorni, però, avrà parecchi guai.

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Secondo Bankitalia Pil a-5%, disoccupazione a +10%. Questa è la crisi degli italiani, questo è il governo dell’Italia.

La terapia della verità di MASSIMO GIANNINI-Repubblica

SERVE l’asciutto neorealismo post-moderno di Mario Draghi, per rompere il finto orizzonte di cartapesta sul quale Silvio Berlusconi proietta il suo personale Truman Show, a beneficio di un “pubblico” che si vuole ormai trasformato in “popolo”. Dopo la Confindustria di Emma Marcegaglia, tocca ora al governatore della Banca d’Italia il compito di raccontare qualche amara verità a un’opinione pubblica sedata dal prozac della psico-politica governativa.

La prima verità è che l’Italia è un Paese in crisi profonda. Quest’anno il Pil crollerà del 5%. Solo nel semestre ottobre-marzo la caduta è stata pari al 7%. La famosa “ripresa”, sbandierata da Palazzo Grazioli, non esiste in nessun luogo. E persino i “recenti segnali di affievolimento” della recessione, secondo Draghi, esistono solo nei “sondaggi d’opinione”.

La seconda verità è che tanti, troppi italiani stanno male. Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% della Ue. La flessione della domanda e dei consumi nasce da un cedimento del reddito e dell’occupazione che si acuirà nei prossimi mesi. Due quinti delle imprese con oltre 20 addetti licenzieranno personale. Due milioni di lavoratori temporanei vedranno scadere il loro contratto entro la fine dell’anno.

La terza verità è che la “coperta” del nostro Welfare, con buona pace dei ministri Sacconi e Brunetta che la considerano la migliore del mondo, è corta e piena di buchi. Oltre 1 milione e mezzo di lavoratori, se licenziati, non hanno diritto ad alcun sostegno, e circa 800 mila lavoratori possono contare su un’indennità che non raggiunge i 500 euro al mese. Serve “una riforma organica e rigorosa” degli ammortizzatori sociali, e “una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti”. Non i pannicelli caldi della Cassa integrazione in deroga, o le pezze a colori dei fondi Fas.

La quarta verità è che anche la straordinaria virtù delle imprese del Quarto Capitalismo rischia di non reggere l’urto delle ristrutturazioni. Nelle prospettive sugli investimenti delle imprese manifatturiere permane “un forte pessimismo” per tutto il 2009. E tra le 500 mila piccole aziende con meno di 20 addetti, che danno lavoro a oltre 2 milioni di persone, è spesso “a rischio la stessa sopravvivenza”. Purtroppo una Fiat che vince in America, o una Tod’s che sbarca in Fifth Avenue, non bastano a fare primavera.

La quinta verità è che una politica economica attendista e rinunciataria ci sta regalando un doppio maleficio: nessuna crescita dell’economia reale, ma nessun risanamento dei conti pubblici. Il governo fa poco per arginare la crisi, ma deficit, debito e spesa primaria corrente continuano a lievitare ugualmente a ritmi vertiginosi. Non è solo l’eredità immane del passato, ma è anche il paradosso italiano del presente. Per questo servono riforme strutturali immediate e “prospettiche”, che ci permettano di rafforzare le manovre anti-cicliche oggi in cambio di un sicuro risanamento di bilancio domani. Dalle pensioni alla pubblica amministrazione, dalla scuola alle infrastrutture. C’è l’imbarazzo della scelta, se solo il governo passasse dalla rappresentazione all’azione.

La sesta verità è che il sommerso, eterna risorsa dell’Italietta furba e irresponsbile, non ci tirerà mai più fuori dal gorgo. L’economia irregolare che pesa per il 15% della ricchezza nazionale è un’anomalia insopportabile anche per un Paese di poeti, di santi e di evasori come il nostro. L’occultamento di una parte così alta di basi imponibili accresce ulteriormente l’onere di chi è ligio al dovere, riduce la competitività delle imprese, accresce le iniquità e “disarticola il tessuto sociale”. E anche qui, il governo non fa quel che deve. Non è un caso che Draghi segnali il collasso delle entrate tributarie. Un gettito Iva che diminuisce dell’1,5%, anche quando i consumi crescono del 2,3%, vuol dire una cosa sola: l’area dell’evasione fiscale si sta allargando.

Sta tutto qui, nel divario tra verità e finzione, l’abisso analitico e “terapeutico” che separa il governo e il governatore. Per Berlusconi la crisi è un “dato psicologico”, virtuale e “percepito”. Per curarla, quindi, basta una tambureggiante psico-terapia collettiva, impartita attraverso il verbo suadente del premier o il titolo compiacente di un tg, per attivare nel cervello del cittadino- consumatore- imprenditore-risparmiatore le endorfine di un “positivismo ad ogni costo”.

Per Bankitalia (come già per Confindustria) la crisi è invece un “fatto economico”, reale e vissuto. Per curarla, dunque, servono riforme vere, qui ed ora, che incidano sull’esistenza quotidiana delle persone, delle famiglie, delle imprese. Usa lo straordinario consenso che hai per cambiare e modernizzare questo Paese, era stata la sfida lanciata al Cavaliere dalla Marcegaglia. Draghi, con parole più sfumate, dice esattamente la stessa cosa. È significativo che a convergere su questa “piattaforma” riformista, contrapposta al “format” populista, stavolta ci siano anche i sindacati.

Sarà anche vero – come sostiene Giulio Tremonti in un’irrituale intervista “a orologeria” uscita ieri sul Sole 24 Ore, guarda caso proprio nel giorno delle Considerazioni finali – che la Banca d’Italia è solo “un’autorità tecnica”, che la vera e unica “sovranità appartiene al popolo” e che “la responsabilità politica è del governo che ne risponde”. Ma resta il fatto che Berlusconi sembra essere rimasto il solo a non capire che il puro galleggiamento, per questo Paese, è inutile. Non ci sarà nessuna quiete, dopo la “tempesta perfetta” che ha travolto noi, e che prima o poi rischia di travolgere anche lui. (Beh, buona giornata).

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La crisi e gli italiani: e pensare che la pubblicità diceva che la vita comincia a 50 anni.

La crisi ha colpito anche le categorie di lavoratori che sembravano più garantite
Dal 1995 per la prima volta la crescita dei senza lavoro supera quella degli occupati
Maschio, sposato, di mezza età
Per l’Istat è il “nuovo disoccupato”
Dal Rapporto Annuale emerge anche una maggiore vulnerabilità degli immigrati
Un milione e mezzo di famiglie ha gravi difficoltà per il cibo, i vestiti e il riscaldamento
di ROSARIA AMATO-repubblica.it

Aumentati nel 2008 i disoccupati maschi tra i 35 e i 54 anni

ROMA – Tra i 35 e i 54 anni, maschio, residente al Centro-Nord, con un livello di istruzione non superiore alla licenza secondaria, coniugato o convivente, ex titolare di un contratto a tempo indeterminato nell’industria. E’ il “nuovo disoccupato”, secondo la descrizione che ne fa il Rapporto Annuale dell’Istat. Perché la crisi non ha prodotto solo disoccupati ‘di lusso’ come i manager, non si è accanita solo sulle categorie da sempre in Italia ai margini del mercato del lavoro: i meridionali, i giovani, i precari, le donne. La novità della crisi è che a perdere il lavoro sono “i padri di famiglia”, le figure di riferimento, che magari portavano a casa stipendi mediocri, ma tali comunque da permettere ad altre persone (moglie, convivente, figli o altri parenti) di condurre un’esistenza dignitosa.

Più disoccupati anche tra gli stranieri. La crisi non ha risparmiato neanche gli stranieri, e anche in questo caso, i più colpiti sono stati gli uomini di età media: “L’andamento dell’ultimo anno – si legge nel Rapporto – segnala un forte calo delle donne disoccupate con responsabilità familiari, soprattutto di quelle con figli, arrivate a incidere non più del 70 per cento a fronte del 78 per cento di tre anni prima. Al contrario, gli effetti della crisi sembrano aver investito i loro coniugi/conviventi uomini, la cui incidenza è invece aumentata in maniera significativa, specie negli ultimi tre trimestri”.

Va peggio alla fascia 40-49 anni. Tanto che nel quarto trimestre del 2008 la quota dei disoccupati stranieri arriva a superare il 10 per cento del totale dei senza lavoro, contro il 6,1 per cento del primo trimestre del 2005. “In particolare – rileva l’Istat – gli stranieri tra i 40 e i 49 anni accusano più degli altri gli effetti della fase recessiva, e spiegano circa il 50 per cento dell’incremento della disoccupazione maschile”.

Il deterioramento del mercato. Dunque i due fenomeni sono collegati. I maschi adulti con carichi familiari, italiani o stranieri, sono diventati i più vulnerabili in una situazione di generale peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro: infatti nel 2008, per la prima volta dal 1995, la crescita degli occupati (183.000 unità) è inferiore a quella dei disoccupati (186.000 unità).

La disoccupazione si fa adulta. Perdono il lavoro i titolari di un contratto a termine, o atipico. Ma vengono licenziati anche i titolari di un contratto a tempo indeterminato ( 32 per cento nel 2008). In dettaglio, questa l’analisi dell’Istat: “Un disoccupato su quattro ha un’età compresa tra i 35 e i 44 anni, mentre l’aumento delle persone tra 35 e 54 anni spiega quasi i due terzi dell’incremento totale della disoccupazione. Si è passati nel tempo da una disoccupazione da inserimento, essenzialmente concentrata nei giovani con meno di 30 anni fino alla metà degli anni Novanta, a una sempre più adulta. Nel corso del 2008 questa tendenza ha accelerato”.

Più ‘padri’ atipici o precari. La crisi ha colpito di più le famiglie con figli, a loro volta vittime di un mercato del lavoro che più che mai li respinge (il tasso di occupazione dei ‘figli’, pari al 42,9 per cento, nel 2008 è sceso di sette decimi di punto rispetto al 2007). E allora, accanto alla disoccupazione dei ‘padri’, si registra un peggioramento del tipo di lavoro. “Tra il 2007 e il 2008 i padri con un’occupazione part time, a termine o con una collaborazione sono 17.000 in più; quelli con un’occupazione ‘standard’ 107.000 in meno”: cioè tra i tanti che vengono licenziati, qualcuno riesce a riciclarsi con un lavoro precario. Tra padri e figli, i più colpiti sono quelli meno istruiti, che al massimo hanno un diploma di scuola media superiore.

Le famiglie che non arrivano a fine mese. La diminuzione o il venir meno dei redditi da lavoro produce povertà. L’Istat individua circa un milione e 500.000 famiglie (il 6,3 per cento del totale) che arrivano alla fine del mese “con grande difficoltà” e che, nell’81,1 per cento dei casi, dichiarano di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 700 euro. In questo gruppo ci sono le famiglie indietro con il pagamento delle bollette, che non possono permettersi di riscaldare adeguatamente l’abitazione (45,8 per cento). Hanno difficoltà ad acquistare vestiti (62,9 per cento) o ad affrontare le spese per malattie (46,6 per cento). In genere le famiglie di questo gruppo contano su un unico percettore di reddito con un livello di istruzione non superiore alla licenza media, di età inferiore ai 45 anni. Ci sono poi 1,3 milioni di famiglie che hanno difficoltà leggermente inferiori, ma che spesso, a causa dei redditi bassi (nella maggior parte dei casi possono contare su un unico percettore di reddito che ha la licenza media inferiore), hanno difficoltà nei pagamenti, nell’acquisto di alimenti e vestiti, e anche nel riscaldamento della casa.

Le famiglie ‘agiate’ sono 10 milioni. All’altro estremo si collocano le famiglie agiate: 1,5 milioni che arrivano alla fine del mese “con facilità o con molta facilità”, 8,6 milioni che lamentano solo qualche difficoltà sporadica, “imputabile più allo stile di consumo che a vincoli di bilancio stringenti”. Abitano soprattutto al Nord, con una prevalenza di residenti in Trentino Alto Adige e in Valle d’Aosta.

Le famiglie con difficoltà relative. Al centro si collocano le famiglie che non hanno difficoltà economiche eccessive, ma che non risparmiano (spesso si tratta di anziani); le famiglie giovani gravate da un mutuo per la casa, che assorbe una parte più che consistente del reddito disponibile; e infine le famiglie cosiddette ‘vulnerabili’. Si tratta di 2,5 milioni di famiglie, il 10,4 per cento del totale: sono a basso reddito, una parte ha una casa di proprietà, una parte vive in affitto. La loro vulnerabilità è data dal fatto che contano su un solo percettore di reddito, che nel 41,4 per cento dei casi ha preso soltanto la licenza elementare. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: sciopero delle maestranze Mediaset, ma nessuno lo dice.

Mediaset in sciopero bella notizia (oscurata)-il manifesto.it

Udite udite. E diffondete. Forse è l’unico modo per permettere a questa notizia di raggiungere più orecchie possibile: i lavoratori di Mediaset sono in sciopero. Difendono i loro salari e chiedono che vengano ripristinate le “normali relazioni sindacali”. Ma oggi devono prima di tutto lottare contro il silenzio. La loro astensione dal lavoro, infatti, sembra non interessare a nessuno.

Di loro non parlano neanche le agenzie di stampa. Paradossale ma vero: accade “qualcosa” – qualcosa di inedito, c’è da dire – nella più grande azienda di comunicazione italiana, e i protagonisti faticano a bucare lo schermo. Ma tant’è, a Berluscolandia.
I fatti: Cgil, Cisl e Uil hanno indetto per oggi uno sciopero dei lavoratori della Videotime di Roma. La Videotime è la società licenziataria di Mediaset-Rti che lavora nei centri di produzione “Palatino” e “Elios”. Qui vengono registrati programmi molto seguiti: dal Tg5 a Matrix a Forum. I lavoratori della Videotime si occupano anche del programma “Uomini e Donne” di Maria De Filippi, che però viene registrato a Cinecittà. Si tratta dei tecnici, della parte di produzione, dei parrucchieri, dei truccatori, dei sarti. Insomma, di tutto il personale che serve per mettere in piedi un programma.

Ebbene, dall’anno scorso sono tempi di magra. Mediaset dice di essere in crisi (ricavi netti nell’anno 2008: +9%, utile netto: +14,3%) e per questo stringe la cinghia: niente più diaria per gli esterni, fermi i passaggi di livello, diminuzione dei premi di produzione, azzeramento della politica retributiva. Questo è quanto denunciano i sindacati: “Un esempio – spiega Roberto Crescentini, delegato fistel-Cisl della Rsu di Videotime – sabato registriamo Matrix. I lavoratori hanno chiesto di lavorare in straordinario. Ma l’azienda ha chiesto ai parrucchieri solo quattro ore di lavoro, e non sette. Alla domanda: perché? La risposta è stata: l’azienda è in crisi. Figurarsi – dice Crescentini – noi siamo i primi a non voler affossare l’azienda e a capire che è in corso una grave crisi economica e finanziaria. Ma Mediaset è in crisi?”. La domanda è pertinente, visto che, racconta Crescentini: “Alla puntata di Forum in cui era ospite Barbara D’Urso, Mediaset ha pagato un parrucchiere 1.300 euro. Come anche viene pagato tutti i giorni un parrucchiere per la conduttrice Rita Dalla Chiesa, ad un prezzo che ci pare esorbitante, visto il momento: 700 euro”. Insomma, dicono i lavoratori, se bisogna fare sacrifici che li facciano tutti.

Secondo il dato dei sidnacati lo sciopero è andato benissimo: l’adesione ha sfiorato il tetto del 95%. Ultima chicca: il Comitato di redazione del Tg5 ha inviato un comunicato di solidarietà ai lavoratori di Videotime. Il comunicato, a quanto pare, doveva essere letto durante l’edizione odierna. Ma è stato stoppato. Ci sono notizie più importanti. (Beh, buona giornata).

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La crisi economica, il convitato di pietra delle elezioni europee.

DOVE MORDE LA CRISI IN EUROPA di Jean Pisani-Ferry -lavoce.info
Col passare dei mesi la crisi nata negli Stati Uniti è diventata sempre più europea. Basta guardare i dati. Eppure, le risposte sono scarse, come se si faticasse a prendere coscienza dell’enormità del disastro. Gli Stati Uniti hanno intrapreso un programma di rilancio dell’economia che per ampiezza supera di gran lunga i piani europei. In gioco c’è la credibilità dell’Unione Europea. Le elezioni per il Parlamento europeo avrebbero potuto essere la buona occasione per un dibattito approfondito su molti temi cruciali. Peccato non sia stata colta in nessun paese.

Diciotto mesi fa, la crisi nata dai mutui subprime sembrava essere solo americana e si discuteva degli effetti che avrebbe avuto sul resto del mondo. Ma, col passare dei mesi, è divenuta sempre più europea. Basta osservare alcuni dati.

UN CONFRONTO DI DATI

1. La produzione industriale è diminuita, rispetto ai massimi livelli raggiunti, del 18 per cento nella zona euro contro il 13 per cento negli Usa. Nell’aprile 2008, il Fmi prevedeva, per il 2009, un tasso di crescita dello 0,6 negli Stati Uniti e dell’1,2 nella zona euro. Oggi, prevede un calo del Pil del 2,8 negli Usa e del 4,2 in Europa. Altre previsioni sono dello stesso tenore. Anche se gli indicatori avanzati suggeriscono che la ripresa è prossima in Francia, in Italia e nel Regno Unito, la recessione rischia di essere più forte in Europa.

2. Nell’ambito della zona euro, Spagna e Irlanda sono alle prese con una depressione immobiliare che, nel caso dell’Irlanda, è ulteriormente aggravata dal tracollo bancario. L’anno prossimo il tasso di disoccupazione spagnolo toccherà il 20 per cento. I tassi di interesse sui titoli di Stato, che fino all’anno scorso erano ovunque quasi gli stessi, sono ora molto diversi gli uni dagli altri. La Grecia, conosciuta per la sua negligenza in fatto di finanze pubbliche, e l’Irlanda, il cui debito pubblico triplicherà in tre anni, chiedono prestiti a due punti percentuali di tasso di interesse in più rispetto alla Germania.In queste condizioni, non c’è più solo da chiedersi se possa avvenire una crisi finanziaria in uno Stato della zona euro, ma di chi – tra Fmi e i suoi partner – potrà soccorrerlo al bisogno

3. L’Europa centrale e orientale vive una violenta crisi, probabilmente della stessa portata di quella asiatica del 1998. A parte la Polonia, che probabilmente soffrirà solo di una moderata recessione, gli altri Stati della regione, la cui crescita si basava principalmente sul risparmio straniero, sono colpiti in pieno dal mancato afflusso di capitali esteri. I paesi baltici, quest’anno, vedranno una caduta della produzione del 10 per cento, l’Ungheria e la Romania del 5 per cento. La Lettonia, seguendo il programma del Fmi, si è impegnata a ridurre i salari e la spesa pubblica, con intervento rispetto al quale la politica deflazionistica di Laval – nella Francia degli anni Trenta – era all’acqua di ros

4. Il Fmi ha appeno rivisto le sue stime sulle perdite delle banche e sulla necessità di capitali freschi. Stima che, nel periodo 2007-2010, le banche europee (zona euro e Gran Bretagna) subiranno perdite per 1.200 miliardi di dollari dei loro attivi, contro i 1.050 negli Stati Uniti. Ma soprattuto, rispetto a questo ammontare, le banche europee hanno accertato a oggi perdite per 260 miliardi di dollari (meno di un quarto) contro i 510 miliardi degli Stati Uniti. Le banche europee, dunque, dovrebbero ricapitalizzare per 500 miliardi di dollari, quelle statunitensi per 275 miliardi. In poche parole, le banche europeee hanno ancora due terzi del cammino di fronte a loro, mentre quelle americane sono sono già a metà strada. Alcuni ministeri del Tesoro europei contestano tali cifre, ma non hanno finora saputo darne altre. Del resto quello che le valutazioni dell’Fmi sottolineano è proprio la totale assenza di valutazioni comuni sulla situazione, da parte degli europei. I mercati finanziari ne hanno ovviamente tratto le conseguenze: i titoli delle banche europee sono scesi in borsa molto più di quelli delle banche americane.

Tutti questi fattori sono, del resto, interdipendenti. Se l’Europa va peggio degli Stati Uniti, ciò dipende sia dal fatto di essere maggiormente esposta al commercio mondiale, sia dal fatto che alla crisi mondiale si aggiungono le sue crisi interne, sia infine dalla brutta situazione delle sue banche. Se l’Europa dell’Est è in crisi è perché i suoi sbocchi europei si sono chiusi e le banche occidentali non le fanno più credito. Se l’Austria è in allarme per le sue banche, dipende dalla sua forte esposizione in Europa centrale. E così via. La difficoltà consiste non nello sbrogliare la matassa delle cause, cosa in fondo facile, bensì nel trovare risposte e soluzioni.

MANCANO LE RISPOSTE

Tuttavia, le risposte europee sono scarse, come se si faticasse a prendere coscienza dell’enormità del disastro. Gli Stati Uniti hanno intrapreso un programma di rilancio dell’economia su due anni, la cui ampiezza supera di gran lunga i piani europei, anche tenendo conto della differenza di misura dei sistemi pubblici e dei loro effetti di stabizzazione automatica. La Federal Reserve americana, da parte sua, ha azzerato i tassi di interesse e si è lanciata in un programma d’acquisto di attivi finanziari pubblici e privati. In Europa, ci si muove con maggiore cautela e in maniera esitante, sia da parte degli Stati, sia da parte della Bce, che ha abbassato i suoi tassi col contagocce ed è solo parzialmente impegnata nelle operazioni di “alleggerimento quantitativo”. Persino nel settore in cui la sua politica è meno convincente, vale a dire quello della crisi bancaria, Barack Obama ha perlomeno sottoposto tutte le grandi banche al medesimo stress test. In Europa, ogni paese si affanna a dichiarare che le proprie banche sono in condizioni migliori di quelle degli Stati vicini.

Difficile spiegare questa differenza di atteggiamento. Infatti, non solo in Europa la congiuntura è più negativa e il bisogno di capitali da parte delle banche più forte, ma l’economia è assai più dipendente dal settore bancario. Per ogni dieci euro di indebitamento delle aziende non-finanziarie, nove euro sono rappresentati da prestiti bancari nella zona euro, contro i sette del Regno Unito e i sei degli Stati Uniti. In altri termini, molte aziende americane riescono ad aggirare un sistema bancario deficitario, emettendo titoli di debito sul mercato dei capitali (anche a costo che sia la Fed stessa ad acquistare quei titoli), mentre in Europa, soprattutto nella zona euro, ciò è permesso solo alle grandi aziende.

UNA SFIDA ESISTENZIALE

Sostanzialmente, l’Unione Europea è sottoposta a una sfida esistenziale, sfida che invece non si pone per gli Stati Uniti. Sono in gioco infatti sia la sua credibilità in quanto istituzione sia quella coesione costruita con un faticoso processo di integrazione.

È in gioco la sua credibilità, perché è proprio in situazioni come queste che i cittadini valutano la qualità di un sistema politico. Gli europei si ricorderanno sicuramente, per decenni, ciò che avranno appreso durante questa crisi acuta e il loro atteggiamento futuro nei confronti dell’istituzione dipenderà da come essa ha reagito. Ora, se è vero che nell’ottobre 2008, di fronte al rischio di crollo del sistema finanziario, i paesi della zona euro e la Gran Bretagna si sono coordinatiper fornire una risposta comune e che qualche settimana più tardi, con il pericolo incombente della recessione, hanno convenuto di lanciare programmi comuni di risanamento finanziario, è anche vero che l’attuazione dei programmi è stata a dir poco disomogenea. In generale, resta il dubbio se un sistema edificato per tempi “di pace”sia altrettanto valido per quelli “di guerra”. Come è chiaro dal Patto di Stabilità stesso, il sistema di governo europeo si basa proprio sull’idea che una politica comune prudente serva a evitare le crisi, ma non prevede una capacità istituzionale di gestirle, qualora sopravvengano.

Persino due pilastri dell’integrazione europea, quali il mercato unico e l’allargamento ad altri Stati membri, ne risultano scossi. Come ha detto Charles Goodhart, sappiamo adesso che le banche “vivono globali, ma muoiono nazionali”, perché solo gli Stati-nazione possiedono i mezzi per intervenire, onde evitare il loro fallimento. E quando gli Stati forniscono il loro appoggio alle banche, si aspettano in contropartita che esse concedano crediti alle famiglie e alle aziende nazionali, non a quelle dei paesi vicini. Ciò mina le fondamenta di un mercato unico costruito sull’ipotesi che le banche del futuro ignorino le frontiere. Per quanto riguarda l’allargamento dell’Unione, se ne rimette in questione l’opportunità per via della battuta d’arresto di un modello di crescita che, in molti paesi dell’Est, si basava sulla domanda di capitali esteri per finanziare gli investimenti. Ma la richiesta di sicurezza che oggigiorno si è impossessata dei mercati internazionali dei capitali minaccia la stabilità dei nuovi paesi membri e fa dubitare che, in un prossimo futuro, possano convergere ai livelli di benessere dei paesi occidentali. Come risposta, l’Unione ha incrementato le risorse disponibili per il sostegno finanziario dell’Europa centro-orientale, ma è contraria a intraprendere strategie regionali ed esita sull’allargamento della zona euro.

La posta in gioco è quindi altissima. Tuttavia, con una presidenza attualmente tenuta da un paese in cui è caduto il governo e una Commissione che presa tra i due fuochi del Trattato attuale e quello in corso di ratifica, termina il suo mandato senza sapere quando sarà sostituita, la guida dell’Unione Europea è semi-vacante.Quanto alle elezioni per il Parlamento europeo, che avrebbero potuto essere la buona occasione per dibattere su tutti questi problemi, si presentano come un avvenimento di debole intensità politica. È un vero peccato. Il 2009 passerà alla storia come l’anno delle occasioni perdute? (Beh, buona giornata).

Traduzione dal francese di Daniela Crocco

* Il testo in lingua originale è pubblicato su Telos.

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Fiat-Opel, Marchionne scopre difficoltà politiche: “Forse ci avrebbe pensato prima, se non fosse stato un po’ troppo coccolato dal silenzio e dalla acquiescenza di politici e sindacati italiani. Morale, la mancanza di dissenso fa male, non solo alla democrazia. Fa proprio male e basta.”

Fiat, Opel e l’auto europea. Una occasione perduta sul calcolo elettorale
di Marco Benedetto-blitzquotidiano.it

Sergio Marchionne, dopo avere risollevato la Fiat dall’abisso in cui era precipitata alcuni anni fa (come sempre la sconfitta è orfana) ha giocato due carte ambiziose e coerenti con un ragionamento strategico semplice e fondamentale: un’azienda che produce poco più di un milione di auto all’anno e perde quote di anche nel suo mercato di casa non può andare molto distante.

L’idea non è nuova, perché la perseguì il grande risanatore (in condizioni politico – ambientali molto peggiori di Marchionne) della Fiat, Vittorio Ghidella. Quella volta il discorso era con la Ford. Finì male, per le divergenze tra i vertici della Fiat che si manifestarono allora. Ma il concetto è sempre quello.

Marchionne ha giocato con coraggio, abilità e una durezza poco italiane. Con una carta, quella americana, ha vinto; con l’altra, quella tedesca, appare di ora in ora sempre meno probabile che ce la faccia. Lo stesso Marchionne ha cominciato realisticamente a ricooscere le difficoltà del percorso che ha davanti.

Non c’è nulla che sorprenda nella divergente evoluzione sui due lati dell’Atlantico, anzi, in un certo senso, sono speculari nelle ragioni che ne sono alla base. In entrmbi i casi, c’è da dire, che i governi americano e tedesco hanno agito secondo una pura logica elettorale, del tipo: navigazione a vista, senza alcun riguardo per l’interesse di più lungo respiro dell’industria dell’auto nei due continenti.

Il presidente americano Barack Obama ha scelto Fiat come partner per Chrysler per le stesse ragioni per le quali qalla fine i politici tedeschi sceglieranno Magna: perchè le due scelte sono quelle che costano meno in termini occupazionali. Obama include nella sua base elettorale i lavoratori dell’auto, che si era parzialmente alienato all’inizio della vicenda General Motors e Chrysler per l’approccio troppo in stile Wall Street dei suoi interventi pubblici in materia. La logica industriale, l’interesse di lungo periodo dell’America portavano a una fusione tra GM e Chrysler, con la nascita di un gigante americano capace di competere da pari con i giapponesi. Ha scelto gli italiani, perché limitate, al di là dei discorsi, sono le sinergie possibili, soprattutto quelle che possono portare a tagli di occupazione a Detroit e dintorni. Questo in futuro potrebbe portare a interrogarsi, parlando in italiano, sulla convenienza per Fiat dell’operazione senza gli altri elementi del puzzle disegnato da Marchionne.

Obama avrebbe forse potuto seguire un’altra linea, quella di compensare i tagli all’occupazione derivanti dal colosso dell’auto all- american con interventi di aiuto sociale, versione americana della casaa integrazione o del prepensionamento. Ci sono i precedenti. Quando agli inizi degli anni ‘80 i giornali passarono alle nuove tecnologie di composizione “a freddo”, ottennero il consenso alla drastica riduzione di organici che ne conseguiva garantendo l’impiego a vita ai lavoratori in esubero. Ma i giornali lo fecero con i propri denari, scommettendo sullo sviluppo che ne sarebbe venuto.

L’industria dell’auto americana, però, è in fallimento e non può quindi finanziare garanzie ai lavoratori; né lo può lo Stato, perché i soldi, e sono tanti, servono anche per altre emergenze e l’emergenza più grossa, secondo il governo americano, è garantire la salvezza del sistema bancario. Di qui la necessità per Obama di trovare qualcuno che, per un complesso di ragioni, anche industrali, potesse prestarsi al gioco.

Le stesse identiche ragioni sono quelle che muovono Angela Merkel, cancelliere tedesco, e i suoi colleghi, di destra come di sinistra. La crisi è profonda, c’è da rimettere in moto tutta l’industria tedesca, a cominciare dall’ex Germania dell’est che è un po’ come il Meridione per l’Italia del dopoguerra, non ci sono soldi per garantire il posto di lavoro ai lavoratori dell’auto, che sono certamente una minioranza privilegiata nella classe operaia tedesca. Con l’aggravante che, mentre Obama è di sinistra e interventi di tipo sociale possono trovare collocazione nella sua ideologia, la Merkel è anche di destra e fin dall’inizio della crisi Opel, mesi fa, ha sempre detto che a salvare la casa automobilistica non ci pensava nemmeno (salvare la Opel con intervento pubblico avrebbe avuto poi un’altra conseguenza: quella di aiutare un azionista americano, essendo Opel posseduta da GM).

Nel caso di Opel, la strada proposta da Marchionne era quella giusta, se si voleva ragionare in termini di interesse europeo complessivo: sarebbe nato un colossetto dell’auto, che avrebbe fatto fare ad entrambe le case quel salto di dimensione di cui hanno disperatamente bisogno). Certo ci sarebbero stati forti tagli all’occupazione e infatti i primi in Germania a schierarsi contro la proposta Fiat sono stati i sindacati.

Poi i dubbi hanno guadagnato momento in Italia come in Germania. Data la situazione delle finanze pubbliche dei due paesi, non si poteva nemmeno pensare, non parlare, di contributi o interventi sociali. E poi ci sono le elezioni: e non a caso ai sindacati tedeschi si sono accodati i politici, in Germania tutti, in Italia quelli al governo. Finalmente anche i sindacati italiani, prima troppo impegnati a fare politica e a scimmiottare Berlusconi sul palcoscenico dell’Abruzzo, hanno parlato.

E qui viene una considerazione: senza volere ridurre il valore di Marchionne, nessuno che fosse in età adulta e consapevole negli anni di piombo, prima della svolta impressa alla Fiat e all’Italia dalla gestione di Ghidella, può ignorare le diverse condizioni ambientali in cui operò il management Fiat negli anni ‘70 e quelle in cui opera adesso (vero è che nei vent’anni dopo Ghidella, pur operando in una condizione di strapotere rispetto al sindacato, la gestione della Fiat non impedì che l’azienda scivolasse nel precipizio).

In Italia, però, la posizione di politici e sindacati può essere solo difensiva. Il pallino in mano ce l’hanno i tedeschi: il Governo centrale, le varie regioni che pesano molto più che da noi, essendo la Germania un vero stato federale fin dal 1870, e i sindacati, il cui peso è maggiore che in Italia perché sono organici alla gestione delle imprese.

E qui entra in scena Magna, l’alternativa a Fiat: è un’azienda di componentistica, non produce auto, le sinergie possibili sono minime. Ai politici interessa il consenso, perché il consenso si traduce in voti; e i politici tedeschi non fanno eccezione. La loro scelta era scritta nel muro. Marchionne ha combattuto a testa bassa, con la determinazione di chi crede, con ragione, alla bontà del suo progetto. Ma venerdì sera ha cominciato a guardare in faccia la realtà, riconoscendo che si tratta di una partita complessa e che in Germania ci sono le elezioni, che possono influire sulle scelte. L’onestà di queste parole fa onore a Marchionne. Forse ci avrebbe pensato prima, se non fosse stato un po’ troppo coccolato dal silenzio e dalla acquiescenza di politici e sindacati italiani. Morale, la mancanza di dissenso fa male, non solo alla democrazia. Fa proprio male e basta. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Scuola

I soldi finti del governo: la scuola.

di SALVO INTRAVAIA-repubblica.it

Per salvare la scuola pubblica dalla bancarotta i genitori devono mettere mano al portafogli. Più di 250 dirigenti scolastici dell’Asal (l’Associazione scuole autonome del Lazio) hanno consegnato ai genitori una lettera sulla “grave situazione finanziaria”. Faremo “di tutto per garantire il diritto allo studio e, nello stesso tempo, il contenimento della spesa – scrivono – Ma nelle attuali condizioni le due cose non sono più conciliabili e diventa indispensabile il versamento del contributo deliberato dal Consiglio d’istituto per contribuire alla sopravvivenza”. Insomma: senza l’intervento dei genitori la scuola pubblica si ferma. “Non è una situazione nuova – spiega Paolo Mazzoli, presidente dell’Asal – ma ora è diventata grave e, per il prossimo anno, è giusto che l’opinione pubblica conosca la realtà”.

La situazione è critica ovunque. Le scuole italiane, in questi cinque mesi del 2009, non hanno ricevuto neppure un centesimo per le cosiddette spese di Funzionamento didattico-amministrativo (toner, fotocopie, cancelleria, detersivi), i fondi per le supplenze sono stati ridotti del 40 per cento e per le visite fiscali, obbligatorie col decreto Brunetta anche per un giorno d’assenza, non ci sono fondi. Mancano, inoltre, i soldi per i corsi di recupero estivi nella scuola superiore che coinvolgeranno mezzo milione di studenti. Finora, gli istituti hanno tamponato con i cosiddetti residui di bilancio che sono presto svaniti. “Le scuole – segnala Francesco Scrima, leader della Cisl scuola – vantano un credito nei confronti dello Stato per un miliardo di euro”. Dal 2007 il budget per le supplenze è stato ridotto di 250 milioni. E da ottobre le scuole sono costrette ad richiedere, e pagare, alle Asl le visite fiscali anche per un solo giorno di malattia.

“Abbiamo calcolato – spiega Mazzoli – che la spesa complessiva nazionale per pagare i medici di controllo si aggira attorno ai 100 milioni”. Ma non è dato sapere se il calo delle assenze di questi mesi compensa questa spesa aggiuntiva. Così le scuole sono costrette a richiedere “contributi volontari” alle famiglie che oscillano tra i 20 ai 120 euro l’anno. Il ministero sa perfettamente che la scuola sta per crollare sotto il peso dei debiti. Basta vedere le tante interpellanze presentate in aula e in commissione. Le ultime sono del 21 e del 12 maggio, dell’8 aprile e del 5 marzo. Il grido d’allarme arriva dalle scuole di Parma, Piacenza, Settimo milanese, Crema, Bologna, Firenze, Palermo. E qualche settimana prima da Lecco, Ancona, Bergamo e dalla Sardegna. “Istituti costretti ad elemosinare la carta igienica, alunni che restano senza docente per molte ore, forte riduzione del recupero scolastico, annullamento dell’ora alternativa alla Religione, aule chiuse perché inagibili e aumento del rischio”. “Le misure di contenimento della spesa – ha risposto due giorni fa il sottosegretario all’Istruzione, Giuseppe Pizza – hanno comportato, come in altri settori pubblici, una riduzione delle risorse finanziarie determinando le note difficoltà”. (Beh, buona giornata).

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