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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Siamo tutti operai”. Ieri gli operai Fiat a Sanremo, oggi gli operai Alcoa in campo a Cagliari.

(fonte:la nuova sardegna).
Dopo la partecipazione di tre operai della Fiat di Termini Imerese al festival di Sanremo, approda oggi sui campi della serie A la protesta dei lavoratori dell’Alcoa. Prima dell’inizio di Cagliari-Parma, una delegazione degli operai sardi dello stabilimento di Portovesme, impegnati da mesi in una mobilitazione a sostegno della vertenza per il mantenimento della produzione di alluminio della multinazionale americana, ha sfilato per il campo con uno striscione, mentre dalle gradinate altri 200 operai, con il caschetto in testa, cantavano “Non molleremo mai”.

Applausi da tutto lo stadio mentre dalla Curva Nord gli ultras rossoblu, in segno di solidarietà, hanno risposto cantando “Siamo tutti operai”.

I lavoratori dell’Alcoa non sono nuovi a questo tipo di proteste, stavolta autorizzata dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni e con la collaborazione del Cagliari Calcio.

Recentemente hanno occupato l’aeroporto di Cagliari, bloccato la Statale 131 in Sardegna e manifestato per le vie di Roma e con presidi sotto Palazzo Chigi in occasione degli incontri nella Capitale per lo sblocco della vertenza. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Bonus ai top manager Fiat: “Se siamo tutti sulla stessa barca, come ci dicono sempre, come mai in due guadagnano quanto 3/400 operai?”

FIAT: FERRERO, VERGOGNOSI STIPENDI MARCHIONNE E MONTEZEMOLO (fonte: AGI)
‘I dieci milioni di euro regalati dalla FIAT a Marchionne e Montezemolo sono una vergogna in una situazione caratterizzata da Cassa integrazione e chiusura di stabilimenti. Se siamo tutti sulla stessa barca, come ci dicono sempre, come mai in due guadagnano quanto 3/400 operai? La Federazione della Sinistra propone che il governo metta un tetto alle retribuzioni dei manager delle aziende in crisi che utilizzano la cassa integrazione. Lo stipendio piu’ alto non puo’ essere piu’ di dieci volte lo stipendio dell’operaio che guadagna meno’. Lo afferma il portavoce della Federazione della Sinistra, Paolo Ferrero. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro

Quella gran voglia delle banche di riaumentare il costo del denaro.

La Federal Reserve ha aumentato il tasso di sconto di un quarto di punto, dallo 0,50% allo 0,75%. Ma ha tenuto a precisare che la decisione non implica un cambiamento della politica monetaria o delle prospettive per l’economia. E ha ribadito che i tassi rimarranno a livelli bassi per un periodo prolungato. In rialzo dello 0,25% anche il tasso di offerta minima creato a dicembre 2007 nel momento della recessione. A quando la Bce? Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

I lavoratori stranieri in Italia quadagnano il 21,6% in meno di quelli italiani.

Stipendi più bassi ai lavoratori stranieri
Un dipendente toscano guadagna in media 268 euro in più rispetto a un immigrato di Rosa Serrano-firenze.repubblica.it

Retribuzioni a due velocità in Toscana. Il gap salariale tra dipendenti toscani e stranieri si attesta a 268 euro a favore dei primi: se un lavoratore toscano mediamente riceve mensilmente 1.242 euro, uno straniero arriva appena a 974 euro, cioè il 21,6% in meno. Questo il dato più significativo che emerge dall’analisi effettuata dalla Fondazione Leo Moressa per Repubblica sulla base dei dati contenuti nella recente rilevazione Istat sulle forze di lavoro che per la prima volta contiene l’indicazione delle retribuzioni mensili nette degli occupati.

I dati sono relativi alle retribuzioni dei dipendenti del mese precedente alla rilevazione escluse altre mensilità (tredicesima, quattordicesima e voci accessorie non percepite regolarmente tutti i mesi, premi di produttività, arretrati, indennità per missioni, ecc.). Il dato toscano non si discosta molto da quello medio nazionale che evidenzia un differenziale retributivo del 22,8%. La percentuale di occupati di origine straniera in Toscana rappresenta il 9,4% del totale della forza lavoro. Le mansioni e le professioni svolte da lavoratori di origine straniera differiscono molto da quelle degli italiani: essi, infatti, per la maggior parte sono operai (75,8%), mentre per tale professioni gli italiani sono solo il 31,3%.

Quali le motivazioni di questo forte divario retributivo? Per Valeria Benvenuti che ha curato la ricerca, in molti casi la differenza nella retribuzione dipende soprattutto dall’anzianità dei dipendenti stranieri in un’impresa: la loro assunzione è più recente rispetto al lavoratore italiano e beneficiano, quindi, di un numero minore di scatti retributivi, anche a parità di mansioni.

A suo avviso, si deve considerare anche il fatto che il lavoro per lo straniero è la condizione necessaria per avere e per rinnovare il permesso di soggiorno. Questo legame indissolubile può portare all’accettazione da parte del lavoratore di condizioni occupazionali marginali, poco tutelate e, in alcuni casi, anche sotto pagate. Il tema del lavoro immigrato nella nostra regione è stato ampiamente trattato in una ricerca dell’Irpet curata da Michele Beudò dalla quale emerge la rilevanza strutturale dell’immigrazione per il sistema economico regionale indirettamente confermata anche dal fatto che le assunzioni degli stranieri risultano essere per la maggioranza (57%) a tempo indeterminato, un dato praticamente in linea con quello che riguarda gli italiani (59%).

Le occupazioni svolte dagli immigrati sono caratterizzate da mansioni di livello medio-basso e retribuzioni inferiori alla media. Per Beudò sono molteplici le motivazioni che producono questo differenziale retributivo: fra l’altro, i lavoratori immigrati, in molti casi, effettuano parte delle prestazioni lavoratori “a nero” e ciò comporta una riduzione della retribuzione ufficiale mensile certificata poi dall’Istat. Altri vengono assunti con una qualifica inferiore a quella effettivamente svolta: ad esempio, nell’edilizia uno straniero può essere assunto come manovale anziché come muratore e ciò comporta un differenziale sfavorevole rispetto al muratore italiano. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Emanuele si impiccato sul posto di lavoro che aveva perso.

Senza lavoro si muore. Suicidio a Torino
di Daniele Cardetta

Aveva 28 anni Emanuele, ragazzo trovato impiccato la mattina del 12 febbraio in un magazzino nella cittadina nel torinese di Vinovo. Ha scelto di uccidersi proprio lì, nei magazzini della sua cooperativa, la Tecnodrink, che aveva appena perso la commessa per la quale stava lavorando.

Emanuele, che lascia un fratello e la madre, era benvoluto da tutti i colleghi e per lui il lavoro rappresentava quasi una seconda casa, probabile dunque che il malessere sul posto del lavoro lo abbia spinto alla tragica decisione.

Infatti a inizio anno ci fu un amara sorpresa per Emanuele. La Carlsberg aveva deciso di non rinnovare nessun contratto con le piccole cooperative in Italia passando direttamente a fare affari con la multinazionale Coca Cola.

Da quel punto in avanti il rischio per Emanuele della cassa integrazione si era fatto sempre più concreto, così come l’angoscia di rischiare di rimanere senza lavoro vista la forte crisi che sta colpendo il torinese e il Piemonte.

Negli ultimi tempi Emanuele era sempre più depresso anche se nessuno dei suoi colleghi avrebbe potuto immaginare un gesto così estremo. Di lavoro dunque si può morire, e non solo per incidenti sul posto di lavoro ma anche di depressione per paura di perderlo.

La speranza è che la vicenda del povero Emanuele serva a fare riflettere perché purtroppo di ragazzi nelle sue condizioni che rischiano di perdere definitivamente il posto di lavoro ce ne sono troppi e tanti di loro devono convivere quotidianamente con le preoccupazioni di un futuro sempre più incerto e drammatico. E c’è chi assicura che il peggio debba ancora venire. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

C’è chi fa qualcosa per la crisi economica in Italia.

(fonte: il blog di paolo ferrero):

ARANCIA METALMECCANICA IN TUTTA ITALIA. DOMANI ALLE 10.00 A TORINO A PIAZZA CASTELLO IL PORTAVOCE DELLA FEDERAZIONE PAOLO FERRERO A VENDERE LE ARANCE IL CUI RICAVATO SOSTIENE LE LOTTE DELLE/I LAVORATRICI/ORI
13 Febbraio 2010

Arancia Metalmeccanica continua a svilupparsi in tutta Italia. Da oggi, e per tutta la settimana, si venderanno in molte parti d’Italia 10 mila kg di arance il cui ricavato servirà a sostenere le casse di resistenza dei lavoratori in lotta.
Arancia Metalmeccanica ha fino ad oggi venduto circa 50 mila kg di arance in tutta Italia per sostenere le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici, per portarle con i banchetti dai presidi delle fabbriche in lotta al centro delle città.
La Federazione della Sinistra ha scelto di essere utile nella crisi e di rimettere al centro la solidarietà tra le/i lavoratrici/ori e tra queste/i ed il territorio, motivo per cui l’iniziativa riscuote successo.
La scorsa settimana a Bergamo e provincia sono stati fatti 12 banchetti vendendo 3000 kg di arance con i lavoratori della Pigna e della Frattini.
Questa settimana i banchetti di Arancia Metalmeccanica saranno in Sicilia per sostenere la lotta dei lavoratori di Termini imerese, in Umbria per sostenere la lotta dei lavoratori della Merloni, nel Lazio a Civitavecchia, a Milano per i lavoratori di MAFLOW (Trezzano sul Naviglio), METALLI PREZIOSI (Paderno Dugnano), LARES (Paterno Dugnano), MARCEGAGLIA (Milano) e OMNIA SERVICE (Milano). in Toscana per i lavoratori di Agile ex Eutelia.
A Brescia per alimentare le casse di resistenza dei lavoratori in lotta.

Domani mattina, a Torino, in p.zza Castello, dalle 10.00 in poi sarà presente il portavoce della Federazione della Sinistra Paolo Ferrero.
Le/i lavoratrici/ori di Agile ex Eutelia e la Federazione della Sinistra oltre ad organizzare l’iniziativa per la vertenza in attto, vogliono ricordare a tutti che non si può morire di lavoro o di non lavoro.

Per questo hanno deciso di dedicare l’iniziativa ad Emanuele, il ragazzo suicidatosi ieri a Torino dopo aver saputo del suo licenziamento.
(Beh, buona giornata).

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La crisi? Non ne siamo ancora usciti.

«Siamo ancora dentro la crisi, e purtroppo il 2010 sarà ancora peggiore del 2009 dal punto di vista dell’occupazione: ci aspettano altri 10-12 mesi di grande sofferenza». Guglielmo Epifani, segretario generale della CGIL dixit. Ben buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Ripresa economica in Italia? Non ci siamo.

I dati dell’Istituto per l’anno passato, quello della recessione, fissano il Pil a -4,9%. Si tratta del dato peggiore dal 1971 (da quando è iniziata la serie storica). In particolare è stato il Pil del quarto trimestre, sceso dello 0,2% rispetto ai tre mesi precedenti, a cogliere di sorpresa il mercato. Gli analisti contattati dall’agenzia Bloomberg avevano stimato una crescita dello 0,1%. Su base tendenziale il Pil del quarto trimestre è diminuito del 2,8%.

La diminuzione congiunturale del Pil è il risultato di una riduzione del valore aggiunto dell’industria, di una sostanziale stazionarietà del valore aggiunto dei servizi e di un aumento del valore aggiunto dell’agricoltura.

Confrontando con gli altri Paesi del G7, nel quarto trimestre il Pil è aumentato in termini congiunturali dell’1,4% negli Stati Uniti e dello 0,1% nel Regno Unito. In termini tendenziali, il Pil è aumentato dello 0,1% negli Stati Uniti ed è diminuito del 3,2% nel Regno Unito.

Incoraggianti invece i dati del Bollettino statistico della Banca d’Italia sul debito pubblico italiano, che nel dicembre 2009 si è attestato a 1.761,191 miliardi di euro, rispetto ai 1.784,168 miliardi segnati a novembre.

Ma non quelli sulle entrate: nel 2009 le entrate tributarie si sono attestate a quota 401,677 miliardi di euro, in calo del 2,5% rispetto ai 412,318 miliardi di euro del 2008. Tuttavia a dicembre le entrate tributarie sono tornate a crescere, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, dopo tre mesi di cali consecutivi, sempre in rapporto al mese corrispondente del 2008.

Nell’ultimo mese dell’anno le entrate si sono attestate infatti a quota 71,363 miliardi di euro, in crescita dell’1,4% rispetto ai 70,362 miliardi di dicembre 2008. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Un fantasma si aggira per il mondo globale, il fantasma dell’uguaglianza.

Ritorno all’uguaglianza-da Micromega.
Un saggio di Richard Wilkinson e Kate Pickett evidenzia la stretta correlazione fra alte disuguaglianze sociali e bassi indici di “sviluppo umano” nei Paesi ad economia avanzata. Uno strumento utile per capire le nostre società e per ripensare una sinistra ancora smarrita dopo la fine ingloriosa dell’epopea blairiana.

di Emilio Carnevali

“La ragione fondamentale per cui in alcune epoche della mia vita ho avuto qualche interesse per la politica o, con altre parole, ho sentito, se non il dovere, parola troppo ambiziosa, l’esigenza di occuparmi di politica e qualche volta, se pure più raramente, di svolgere attività politica, è sempre stato il disagio di fronte allo spettacolo delle enormi disuguaglianze, tanto sproporzionate quanto ingiustificate, tra ricchi e poveri, tra chi sta alto e chi sta in basso nella scala sociale, tra chi possiede potere, vale a dire capacità di determinare il comportamento altrui, sia nella sfera economica sia in quella politica e ideologica, e chi non ne ha”.

Così scriveva Norberto Bobbio in un suo fortunato pamphlet pubblicato negli ultimi anni della propria vita (Destra e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica. Alla figura di Bobbio è dedicato il nuovo numero di MicroMega in edicola da venerdì 5 febbraio, contenente fra le altre cose un interessante saggio di Maurizio Franzini che interviene su alcuni degli argomenti trattati anche nel presente articolo).

Eppure il tema della lotta alla disuguaglianza sembra essere stato quasi rimosso dall’agenda programmatica e finanche dalla retorica propagandistica delle formazioni progressiste europee (quantomeno quelle afferenti all’area del Pse). Fra le enormi responsabilità storiche e politiche che dobbiamo attribuire all’epopea del New Labour non vi è solo la scellerata guerra in Iraq a fianco di George W. Bush (rivendicata con ostinata arroganza da Tony Blair nei giorni scorsi di fronte alla commissione d’inchiesta del suo Paese), ma anche la cesura storica compiuta con le ragioni fondanti della sinistra europea: la lotta alla disuguaglianza. Sulla scia del motto denghista “arricchirsi è glorioso”, Blair ha accreditato presso la sinistra del continente gran parte dei luoghi comuni ereditati dal periodo thatcheriano, primo fra tutti quello sulla incompatibilità di una società dinamica, efficiente, competitiva e “felice” con le antiche ricette “egualitariste” del laburismo inglese.

Ci è voluta la peggiore crisi globale dal dopoguerra – e il tracollo elettorale delle forze socialiste in quasi tutta Europa – per cominciare a rimettere in discussione alcuni degli assunti sui quali quella sfortunata epopea si è costruita.
Un aiuto prezioso in questo senso ci viene proprio da un libro di due ricercatori britannici, Richard Wilkinson e Kate Pickett: La misura dell’anima. Perché le disuguaglianza rendono più infelici (pubblicato recentemente in Italia da Feltrinelli, pp. 299, euro 18).

La tesi di fondo è che elevate disuguaglianze (elevati differenziali di reddito fra le varie fasce della popolazione) sono alla base della maggiore incidenza di una grande quantità di problemi sanitari e sociali nei paesi ad economia avanzata. Il libro raccoglie un’enorme massa di dati frutto di ricerche internazionali relative a otto parametri principali (scomposti nei singoli capitoli in molteplici sottoparametri): grado di fiducia sociale; disagio mentale (inclusa la dipendenza dall’alcol e dalle droghe); speranza di vita e mortalità infantile; obesità; rendimento scolastico dei bambini; gravidanze in adolescenza: omicidi; tassi di incarcerazione; mobilità sociale.

Fra i paesi ricchi, all’aumentare della sperequazione dei redditi aumenta anche l’indice di diffusione di un dato problema e diminuisce la presenza di fattori positivi quali la “fiducia sociale”. Gli “estremi” dell’arco della disuguaglianza sono costituiti da Svezia e Giappone da una parte e Usa, Gran Bretagna e Portogallo dall’altra: l’eterogeneità dei Paesi accomunati da medesimi livelli di disuguaglianza ci mostra come essa non sia strettamente legata a fattori di matrice culturale né necessariamente dipendente da un unico modello economico-politico: un assetto egualitario può essere perseguito sia con politiche fiscali redistributive e generosi sistemi di welfare (Svezia) sia con una maggiore uniformità dei redditi di mercato, al lordo di imposte e sussidi (Giappone).

Naturalmente, da un punto di vista metodologico, fotografare la correlazione fra alta disuguaglianza e alti livelli di disagio sociale non significa dimostrare automaticamente la sussistenza di un rapporto causa-effetto (tanto più nell’impossibilità di manipolare per via sperimentale le disparità economiche nei paesi che costituiscono il campione al fine di esaminare su base comparativa gli effetti di tali variazioni). Eppure gli argomenti con cui i due ricercatori cercano di provare questo legame di causalità sono spesso assai persuasivi, sia per i singoli parametri esaminati (che, come detto, sono trattati con il supporto di un’impressionante quantità di rilevamenti empirici), sia per l’impostazione più generale del rapporto fra disuguaglianza e “sviluppo umano”. Per questo ultimo aspetto il “meccanismo di trasmissione” è individuato dalla “qualità delle relazioni sociali”, giudicata tenendo conto della coesione sociale, della fiducia e del coinvolgimento nella vita della comunità.

Il fatto che i due autori siano degli epidemiologi rende di particolare interesse la parte del libro relativa a “salute fisica e speranza di vita”. Da una parte si dimostra che la spesa pro-capite degli Stati per l’assistenza sanitaria e la disponibilità di apparecchiature all’avanguardia non sono necessariamente correlate al grado di salute della popolazione (macroscopico il caso degli Usa, con una spesa sanitaria enorme e livelli di performance del sistema imbarazzanti); dall’altro si sottolinea l’importanza crescente che nei paesi ricchi assumono i “fattori psicosociali” – molto più legati a dinamiche relazionali che al tenore di vita materiale in senso stretto – per il benessere fisico degli individui.

Due sono infine i passaggi che contribuiscono a sfatare alcuni dei miti sui quali più ha insistito una certa sinistra “liberal” smaniosa di spostare il baricentro dell’iniziativa politica dall’“eguaglianza sostanziale” (roba da mettere in soffitta come un ferro vecchio, si diceva…) alla più moderna “eguaglianza delle opportunità”, dall’attenzione per i ceti più svantaggiati ad una visione interclassista preoccupata di non spaventare troppo i piani alti pena il venir meno delle ambizioni maggioritarie.

In primo luogo le analisi di Wilkinson e Pickett dimostrano come le società più egualitarie sono anche quelle con una maggiore mobilità sociale. Là dove esistono grandi disparità nei punti di arrivo, la struttura sociale si cristallizza, la segregazione geografica dei poveri si accentua, le classi diventano ‘caste’ a tenuta stagna e “i poveri devono far fronte non soltanto alla propria indigenza, ma anche alla miseria dei propri vicini”.

In secondo luogo questi studi mettono in evidenza come la disuguaglianza “non esplica i suoi effetti deleteri unicamente sulle persone meno abbienti, bensì sulla stragrande maggioranza della popolazione”. L’influenza positiva che le politiche egualitarie hanno sui parametri presi in esame in questa ricerca sono solo in minima parte riconducibili al miglioramento delle condizioni di chi “sta in basso”; non capire ciò, sostengono gli autori, “tradisce una mancata comprensione di importanti processi che condizionano le nostre vite e le società di cui facciamo parte”.

Ecco un esempio tratto dal libro che aiuta a chiarire il concetto: “Se negli Stati Uniti la speranza di vita media è di 4,5 anni più bassa rispetto al Giappone non è perché il 10 per cento più povero degli americani ha una speranza di vita 10 volte più bassa (cioè di 45 anni), mentre il resto della popolazione vive mediamente altrettanto a lungo dei giapponesi. Come spesso afferma l’epidemiologo Michael Marmot, anche risolvendo tutti i problemi di salute dei poveri la maggior parte delle difficoltà associate alle disuguaglianze di salute resterebbero inalterate. In altre parole, anche considerando i soli americani bianchi, i loro tassi di mortalità sono più alti di quelli prevalenti nella maggior parte degli altri paesi sviluppati”.

“Liberté, Égalité, Fraternité”, recita il motto della rivoluzione francese. Negli ultimi trent’anni, con la controrivoluzione neoliberista inaugurata dai governi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, sembrava che l’Eguaglianza e la Fraternità fossero passate di moda. Col risultato che nemmeno la Libertà se l’è passata tanto bene.
Oggi, invece, sono i vari Tony Blair a finire in soffitta. Speriamo che ci rimangano il più a lungo possibile. (Beh, buona giornata).

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In Italia la matematica è una pessima opinione.

L’Istat, Bankitalia e il balletto sui numeri dei disoccupa
Apprendisti e stregoni al lavorodi Roberta Carlini, da robertacarlini.it

Mediamente, andiamo abbastanza male in matematica, e i più seri esperti di formazione si preoccupano di questa lacuna della nostra scuola. Ma di qui a ignorare del tutto i numeri, come se fossero inconoscibili entità, anche quando si tratta di fare solo addizioni e sottrazioni, ce ne corre. Eppure, ogni volta che nel nostro dibattito politico spunta un numero, se ne parla così: Tizio dice che quel numero è X, Caio dice che è Y, scontro tra Tizio e Caio. Come se non fosse possibile risalire alla verità – oppure, spiegare le diverse ipotesi che sono alla base delle due verità – e capire se è Tizio o se è Caio che sta dicendo una colossale balla.

Il siparietto si ripete ogni volta che qualcuno si azzarda a dare i dati sul lavoro. Evidentemente, anche se da tempo i lavoratori sono trascurati da destra e da sinistra – sostituiti dalle più appetite categorie dei consumatori, risparmiatori, utenti, o ancora padani, imprenditori o altro -, la questione brucia. E brucia soprattutto in tempi di crisi. L’Istat, che con una sua indagine fa la rilevazione dello stato delle cose, si è trovato abbastanza in difficoltà quando, qualche mese fa, il governo ha ridicolizzato il modo in cui quell’indagine si fa – metodo statistico, che segue standard internazionali. Poi ha appaltato all’esterno la rete dei lavoratori – per lo più giovani, precari come tutti – che fanno le domande sulla cui base si stila l’indagine. La cosa ha preoccupato molti, e ha fatto conoscere a tutti il paradosso dei precari che vanno in giro a fare domande sulla altrui precarietà. Ma – assicura il presidente dell’Istat, economista stimato a livello internazionale – tutto ciò non mette in discussione la serietà e la attendibilità dei dati. Che, da un po’, vengono forniti mensilmente anziché trimestralmente. L’ultimo bollettino parla di una disoccupazione all’8,3%. Su questi dati poi altri economisti e altri statistici fanno ricerche, analisi, ragionamenti. E gli ultimi ragionamenti hanno dato luogo all’ultimo siparietto: la disoccupazione “vera”, ha detto la Banca d’Italia, è sopra il 10%. “Dati scorretti”, ha detto il governo, e hanno riportato le tv e i giornali. Senza preoccuparsi di dare al pubblico – evidentemente considerato troppo ignorante per care qualche operazione aritmetica – elementi in più per capirci qualcosa. Così, sembra che tra il ministro dell’Economia e il governatore della Banca d’Italia si sia svolto l’ennesimo battibecco da chiacchiera politica, uno scontro da salotto tv. Mentre si parla di cose cruciali: quante persone sono senza lavoro in Italia? Quante senza alcun reddito? Come vivranno quest’anno, l’anno prossimo? Come metteranno insieme il pranzo con la cena?

A chiunque si guardi intorno e non guardi solo le reti Rai e Mediaset (dove, ci avverte Ilvo Diamanti, alla disoccupazione si dedica solo il 7% delle notizie, limitando la nozione di “notizie” a quelle che evidenziano fatti gravi e contesti critici, insomma escludendo i servizi sulle mostre canine e simili), risulta chiaro che le persone che intorno a noi perdono il lavoro, o ne vedono ridimensionate le ore, o il salario, aumentano ogni giorno. I precari intervistatori dell’Istat registrano infatti ogni mese un nuovo record, fino ad arrivare all’ultimo: 8,3% di disoccupati ufficiali. Cosa significa? Secondo gli standard internazionali, sono “disoccupate” le persone che sono in età da lavoro, che non hanno un lavoro (non l’hanno mai avuto, o l’hanno perso), e che hanno cercato attivamente lavoro nel mese precedente l’intervista con l’Istat. Se uno, in quel momento, non sta lavorando perché è in cassa integrazione, oppure è a casa ma l’ultima ricerca di lavoro l’ha fatta oltre un mese prima dell’intervista, non rientra ufficialmente tra i disoccupati. Pur in questa definizione alquanto ristretta, il tasso di disoccupazione è crescente e preoccupante. Ma cosa succederebbe, si è chiesta la Banca d’Italia, se aggiungessimo anche i lavoratori in cassa integrazione e quelli che potrebbero tornare a lavorare ma non cercano neanche più lavoro (in molti casi non perché non ne hanno bisogno, ma perché sono scoraggiati, pensano che è inutile cercare tanto non si trova lavoro)? Aggiungendo – addizione, operazione non difficile – i lavoratori in cassa integrazione e i lavoratori “scoraggiati”, nel novero dei disoccupati abbiamo ben 800.000 persone in più: il numero dei disoccupati sale a 2.600.000, e il tasso di disoccupazione oltre il 10%.

A questo punto, la valutazione si fa più facile: non esistono dati corretti e dati scorretti – in questo caso – ma dati che tengono conto di alcune variabili e dati che non ne tengono conto. Chi pensa che non valga la pena contare le decine (forse centinaia) di migliaia di uomini e donne che non cercano lavoro perché scoraggiati e scoraggiate, e che non valga neanche la pena di contare i cassintegrati perché tanto appena la Cig finirà torneranno al lavoro e troveranno il loro posto lì ad attenderli – chi la pensa così può attenersi al dato ristretto sulla disoccupazione, che comunque non è confortante. Chi invece pensa che quell’esercito di persone comunque appartiene alla fascia problematica della società, perché è (o presto sarà) senza un reddito, darà ragione alla Banca d’Italia nel suo tentativo di illuminare a giorno la situazione dell’occupazione in Italia. Operazioni e convinzioni legittime – c’è stato perfino qualcuno, nella scienza economica, che si è inventato il concetto di “disoccupato volontario”, dunque tutto è possibile nella teoria. Quel che non è possibile, nella pratica, è cercare di oscurare con la confusione sui numeri la realtà. Fatta di molti occupati in meno, uomini e donne. Persone che hanno perso il lavoro: prima i più precari, i collaboratori; poi quelli con i contratti temporanei non rinnovati; poi i lavoratori a tempo indeterminato, che per la prima volta dal ‘99 scendono numericamente (meno 0,7%, 110.000 posti in meno, tra il terzo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2009).

Di tutti costoro, solo pochi hanno avuto, e hanno, la protezione della cassa integrazione. Moltissimi invece non hanno avuto alcuna copertura a compensazione del salario perso. Il che spiega anche la dinamica del reddito e dei consumi nell’anno appena trascorso: le famiglie hanno comprato di meno (-2,1% la riduzione degli acquisti, nonostante un effetto-droga degli incentivi per le auto), il reddito disponibile è sceso dell’1,5%. Ovviamente ne segue un effetto a catena negativo: le imprese che vendono le loro merci in Italia, di fronte a questa situazione, prevedono il peggio, non investono e (ben che vada) non assumono. E la famosa ripresa si allontana.

Ecco perché i numeri – e i balletti sui numeri – non sono innocenti. Forse se si riconoscesse la profondità del problema, si sarebbe anche portati a muovere qualcosa, nelle leve della finanza pubblica, per avviarsi verso qualche soluzione. A dire il vero, il ministro dell’economia si è spinto fino a dire che la sola forma di deficit pubblico “moralmente accettabile” riguarda quel che si deve pagare ai lavoratori per la cassa integrazione: cioè, se si dovrà sforare per sostenere questi lavoratori, lo faremo, pare aver detto Tremonti. Ma andiamo a guardare quel che ha appena fatto, nell’anno che si è chiuso: l’Italia (il suo bilancio pubblico) ha già sforato, lo Stato è andato in rosso per il 5,6% del Pil. Rispetto al 2008, nel 2009 si sono avuti 31 miliardi di deficit in più. Ma non per la cassa integrazione e il sostegno ai lavoratori. Quasi tutto il maggior deficit è stato infatti dovuto a un effetto spontaneo del ciclo economico: la riduzione delle entrate tributarie, dovuta alla riduzione della produzione. Meno spontaneo, e forse indotto da un certo clima di tolleranza che si è diffuso nell’imminenza dell’arrivo del condono per i capitali illegali all’estero, è stato il modo in cui si è ripartita questa riduzione delle entrate fiscali: scese per tutti i settori, tranne che per l’imposta sui redditi da lavoro dipendente. Mentre in alcuni settori il gettito si riduceva molto di più di quanto fosse giustificato dalla crisi economica, le ritenute d’acconto sul lavoro dipendente restavano stabili. Inoltre, pur tuonando contro le banche e inneggiando a Robin Hood, Tremonti ha dato alle banche una delle poche spese discrezionali in più decise l’anno scorso, 4,1 miliardi per sostenerle nella crisi sottoscrivendo le loro obbligazioni.

Dunque il deficit pubblico è già salito nel 2009, ma non solo (e non prevalentemente) per aiutare i senza-lavoro. Per i quali il 2010, apertosi all’insegna del balletto sui numeri, non preannuncia per ora grandi novità: se non il fatto che, purtroppo, per molte lavoratrici e lavoratori il passaggio dalla cassa integrazione alla disoccupazione sarà ufficiale. (Beh, buona giornata).

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La fine della crisi arriva presto, cioè fra dodici mesi. Buon anno!

“Il momento propizio per ritirare le misure di aiuto pubblico all’economia messe in pista per affrontare la crisi dei mesi scorsi potrebbe arrivare presto, gia’ alla fine di quest’anno”. Lo ha detto il candidato commissario alla Concorrenza, Joaquin Almunia, che nella precedente edizione della Commissione guidata da Manuel Barroso era commissario agli Affari economici e monetari. Beh, buona giornata.

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Ma quale ripresa: in Italia Pil a -5,2 e tasso di disoccupazione a 8,3.

Nubi nere continuano a caratterizzare la situazione economica. I dati dell’Istat non lasciano dubbi. Si parte dal brusco innalzamento del deficit-pil nei primi nove mesi del 2009, un dato quasi raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Si prosegue con l’occupazione che, a novembre, è diminuita di 389.000 unità rispetto allo stesso mese del 2008 e di 44.000 rispetto ad ottobre. Sempre secondo l’Istat il tasso di disoccupazione a novembre ha raggiunto l’8,3%, il dato più alto da aprile 2004.

Deficit-Pil. Nei primi tre trimestri del 2009, comunica l’istat, l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche in rapporto al pil è stato del 5,2%, contro il 2,8% di gennaio-settembre del 2008 (era 6,1% al termine del secondo trimestre del 2009). Solo nel terzo trimestre dell’anno scorso il disavanzo pubblico è stato pari al 3,3% (era 3,2% ad aprile-giugno), più che raddoppiato rispetto all’1,3% dello stesso periodo del 2008. Nel terzo trimestre del 2009 il saldo primario è stato positivo e pari a 2,244 miliardi (era 14,921 miliardi nello stesso periodo del 2008), con un’incidenza positiva sul pil dello 0,6%, mentre era +3,9% a luglio-settembre dell’anno prima.

Nei primi nove mesi del 2009, il saldo primario rispetto al pil è negativo e pari allo 0,8%, contro il +2,3% dello stesso periodo del 2008. A luglio-settembre, aggiunge l’istituto di statistica, il saldo corrente (risparmio) è stato negativo e pari a 940 milioni, contro il valore positivo di 6,499 miliardi dello stesso trimestre dell’anno precedente, con un’incidenza negativa sul pil pari allo 0,2% (+1,7% nello stesso periodo del 2008). Nei primi nove mesi del 2009, inoltre, il saldo corrente in rapporto al pil è negativo e pari al 2,3% (era +0,3% nei primi tre trimestri del 2008).

Disoccupazione. Il tasso di disoccupazione a novembre ha raggiunto l’8,3%, il dato più alto da aprile 2004. A novembre 2008 il tasso di disoccupazione si era attestato al 7,1%. Le persone in cerca di occupazione nel mese erano 2.079.000, cioè 313.000 in più rispetto ad un anno prima e 30.000 in più rispetto ad ottobre. Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 26,5%, segnando una riduzione di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente contro un aumento di 2,9 punti percentuali rispetto a novembre 2008.

Occupazione. L’occupazione a novembre è diminuita di 389.000 unità rispetto allo stesso mese del 2008 e di 44.000 rispetto ad ottobre. Lo rileva l’Istat sulla base dei dati destagionalizzati precisando che il calo tendenziale è dell’1,7% mentre quello congiunturale è dello 0,2%.

Eurozona. La disoccupazione nell’eurozona a novembre ha toccato quota 10% rispetto al 9,9% di ottobre. E’ il dato destagionalizzato diffuso da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, che precisa come si tratti del tasso più elevato da agosto 1998. Nel novembre 2008 il dato era pari all’8%. I dati sono stati diffusi da Eurostat, secondo cui i disoccupati nell’Eurozona sono 15,712 milioni nell’area euro a novembre (+185 mila da ottobre) e 22,899 milioni nell’Ue (+102 mila). Beh buona giornata.

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Col Pil a-5% e il debito pubblico al 117% si chiude un terribile 2009. Mentre il giornale di Confidustria premia il ministro dell’Economia “uomo dell’anno”. Sembra uno scherzo, ma è tutto vero.

UN PREMIO PER GIANNI-la voce.info
In quest’anno di crisi, con l’economia che fa meno 5 e il debito pubblico tornato al 117 per cento del pil, il maggiore quotidiano economico italiano ha voluto istituire, per la prima volta nella sua storia, un premio all’uomo dell’anno nell’economia italiana.

E come si apprende dal titolo di testa del 31 dicembre 2009, “le grandi firme del Sole 24 Ore” lo hanno attribuito a Giulio Tremonti, ministro dell’Economia. Secondo posto a Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat. Il terzo posto a Emma Marcegaglia, Presidente di Confindustria.

Anche lavoce.info non poteva mancare all’appuntamento con i grandi premi di fine anno. Abbiamo così istituito il Premio Indipendenza 2009. E siamo lieti di annunciare che lo abbiamo assegnato a Gianni Riotta, direttore del Sole 24 Ore per il coraggio mostrato nel premiare nell’ordine: 1) il più grande azionista dei più grandi soci di Confindustria, colui che decide quanti soldi dare alle imprese che versano le quote associative a Confindustria, nonché suo grande sponsor per la guida del quotidiano di Confindustria; 2) l’amministratore delegato del più grande gruppo privato socio di Confindustria, proprietaria del Sole 24 Ore; 3) la presidente di Confindustria, proprietaria del Sole 24 Ore.

Nell’assegnare a Riotta il prestigioso riconoscimento vorremmo porgli due domande, una facile e una più difficile, nella tradizione delle sue interviste ruvide ed affilate.

Prima domanda: come ha accolto Emma il riconoscimento di “uomo dell’anno”? In tempi di sconfinamenti di genere, la risposta non è ovvia.

Seconda domanda, quella difficile: chi sono le grandi firme del Sole24Ore? Ne abbiamo interpellate alcune a caso, tra gli economisti maggiormente citati nelle publicazioni scientifiche e riconosciuti a livello internazionale, che collaborano al giornale.

Nessuno aveva mai sentito parlare del concorso e del premio. Meglio così. In simili atti di coraggio solo ed unicamente il comandante deve esporsi. Che tempra quel Gianni! (Beh, buona giornata).

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Le previsioni sull’andamento della crisi economica del Ministro dell’Economia del Governo italiano: “ho molta fiducia nella saggezza degli italiani, dei lavoratori, degli imprenditori”.

Il futuro degli uomini dipende dagli stessi uomini e volerlo sapere a prescindere dall’uomo è arroganza e superstizione: lo ha detto il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in un’intervista rilasciata al Tg1 delle ore 20 del 3 gennaio.

«Il nostro futuro non è un destino fisso, un progresso o un declino inevitabile – dice Tremonti – Il nostro futuro dipende da noi, dalla nostra libertà, responsabilità, dalla nostra saggezza, dalla nostra speranza. Io per esempio, per questo tempo che stiamo vivendo, ho molta fiducia nella saggezza degli italiani, dei lavoratori, degli imprenditori. E’ per questa ragione che ho speranza. Il futuro degli uomini non è né un oroscopo, né un software, né un palinsesto, né un programma di computer».

Noi pensavamo che il futuro dell’Italia fosse una prerogativa delle scelte di politica economica del Governo. Noi pensavamo che il ministro dell’Economia facesse delle scelte con la consapevolezza di un coerente progetto di rilancio della nostra economia. Macché: lui “ha speranza”, lui “ha fiducia”.

Tornano alla mente le parole di un immobiliarista che qualche tempo fa ebbe a dire, con disarmante candore: “troppo facile fare il fro… col cu… degli altri”. Beh, buona giornata.

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Il 2010 sarà l’anno della disoccupazione.

L’occupazione e’ calata ad ottobre, su base annua, dell’1,9% mentre nei primi 10 mesi di quest’anno il decremento e’ stato dell’1,4%. Lo segnala l’Istat. Sempre ad ottobre, rispetto a settembre, non c’e’ stata invece alcuna variazione. Tornando invece al confronto con il mese di ottobre 2008, l’Istat evidenzia che il calo dell’1,9% e’ da intendersi al lordo della cig. Al netto, infatti, il calo e’ ancora piu’ accentuato e nell’ordine del 3,7%.
(Beh, buona giornata).

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Come per la crisi finanziaria, come per la crisi economica, come per la crisi energetica, i governi del mondo non sono capaci di prendere decisione vere neppure sul Clima. Prendiamone atto.

Copenaghen, ore 16:23 (fonte: AGI)

CLIMA: SI CHIUDE VERTICE, PAESI RASSEGNATI “PRENDONO ATTO”
Con un’intesa minimalista e che ha lasciato tutti insoddisfatti si e’ chiuso ufficialmente poco fa, dopo 13 giorni di passione, il vertice di Copenaghen. In un comunicato tutte le nazioni, anche quelle che fino all’ultimo hanno osteggiato l’intesa e che ieri sera gridavano allo scandalo, alla fine hanno “preso atto” che, anche se non sufficiente, il documento passera’ comunque alla storia come l’accordo di Copenaghen e servira’ da base di lavoro per il futuro. Beh, buona giornata.

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Conferenza sul Clima di Copenhagen: c’è stato del marcio in Danimarca.

Copenhagen, la «grande delusione» vista dalla Nigeria, di Marina Forti-il manifesto

Verranno fuori con una dichiarazione politica senza vera sostanza, giusto per non dire che torniamo a casa con le mani vuote, dice Nnimmo Bassey: questa conferenza di Copenhagen «è una grande delusione». Da un anno Bassey è il presidente di Friends of the Earth International, grande rete ambientalista internazionale con affiliati sia nel Nord che nel Sud del pianeta. Nigeriano, architetto di formazione, nel ’93 è stato tra i co-fondatori di Environmental Right Action (Era), organizzazione che ha cominciato a legare i diritti umani alle questioni ambientali: e forse non esiste luogo dove la relazione tra i due sia più evidente che nel delta del fiume Niger, una delle regioni mondiali più ricche di petrolio e gas naturale, devastata dall’inquinamento, dove le pacifiche proteste sono state represse in modo brutale – è là che in quegli anni ’90 il governo nigeriano, allora una dittatura militare, ha risposto alla protesta contro la Shell nella regione Ogoni del Rivers State, nel delta, facendo impiccare 9 dirigenti del movimento tra cui lo scrittore Ken Saro-Wiwa.

Dunque «delusione»: ma cosa vi aspettavate da Copenhagen?
Che i governi qui riuniti fossero in grado di giungere a un accordo che riconosce il principio della giustizia climatica, finanzia le misure necessarie a mitigare il cambiamento del clima, in cui i paesi industrializzati si impegnano a seri tagli delle emissioni di gas di serra in casa propria e non solo attraverso il meccanismo degli offsets (i «meccanismi flessibili» che permettono di scrivere a proprio credito progetti ambientali finanziati in paesi poveri, ndr). E che fissa tempi e verifiche chiari. Ma di tutto questo qui non vedo nulla.

Chi ne ha la responsabilità?
Prima di tutto c’è un problema di mancanza di trasparenza. Troppe riunioni riservate, bozze di documenti che circolano in segreto, lo stile della presidenza danese ha una parte di responsabilità. Portano responsabilità anche i paesi del Annex 1 (i 37 paesi industrializzati elencati nel Protocollo di Kyoto, tenuti a tagliare le loro emissioni di gas di serra secondo quote precise, ndr): è chiaro che non sono qui per rafforzare il Protocollo di Kyoto ma per indebolirlo, fare manovre politiche a breve temine. Chi ha mostrato senso di leadership è Lula: il Brasile sta finanziando le sue misure per riconvertire l’industria nazionale e tagliare le emissioni, e aiuta anche altri paesi più poveri. E lo fa su base volontaria, senza pre-condizioni.

Come cittadino di un paese africano «in via di sviluppo», ma anche grande produttore di petrolio, cosa si aspetta che faccia qui il governo della Nigeria?
Vorrei che venisse a dire che mette fine, da subito, a una delle maggiori fonti di gas di serra nel mio paese, il gas flaring – il gas disperso da soffioni non controllati. E’ un problema pazzesco, circa 24 miliardi di metricubi di gas all’anno dispersi nell’atmosfera, una perdita di 25 miliardi di dollari l’anno. Invece qui hanno detto che vogliono legare il gas flaring ai Meccanismi di sviluppo pulito, cioè farsi finanziare interventi che dovrebbero già fare come obbligo di legge, e che non faranno mai.

Lo sfruttamento di petrolio e gas ha inquinato il delta innescando dagli anni ’90 un ciclo terribile di proteste e repressione.
E non è finita: nel 1999 è finita la dittatura militare ma non la grave violazione dei diritti umani. Prosegue la devastazione di comunità locali, non c’è lo stato d’emergenza ma continuano uccisioni e violenza, e l’inquinamento: in media una perdita di greggio al giorno. Come stupirsi che sia nata una lotta armata. L’amnistia? Di solito tregue e amnistie seguono un processo di negoziato, nel delta invece è stata annunciata dall’alto e ora ci sono segnali che sta collassando. Perché non ha fondamenta solide, non sono state affrontate le questioni di fondo: mancano investimenti in infrastrutture e sviluppo, non c’è stata alcuna bonifica, restano povertà, abbandono. Problema di fondo, posto fin dai movimenti degli anni ’90, il controllo delle risorse: ormai lo stato centrale trasferisce fino al 30% del reddito del petrolio, ma va nelle tasche della burocrazia non allo sviluppo economico e sociale.

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La crisi è un dolo. Infatti a Dolo i carabinieri arrestano due casalinghe che rubano al supermercato. Casalinghe disperate? Il dolo? Roba da mangiare.

Due casalinghe di Marghera rubano merce e alimentari per 165 euro al supermercato Alì di Dolo e vengono arrestate in flagranza per furto aggravato dai carabinieri della Tenenza di Dolo. Ora si trovano in carcere alla Giudecca in attesa di un processo con rito direttissimo che dovrebbe tenersi nei prossimi giorni proprio a Dolo.

È quanto successo martedì scorso a S.M. di 53 anni e A. L. (55), entrambe casalinghe di Marghera con una situazione familiare alle spalle davvero pesante, fatta di disoccupazione e problemi reali di sostentamento. Le donne, incensurate, forse in preda alla disperazione hanno deciso di agire e far razzia in un supermercato per passare un Natale con la famiglia sicuro almeno dal punto di vista alimentare.

Il fatto ha suscitato molto scalpore a Marghera dove da tempo diversi consiglieri di Municipalità denunciano una situazione sociale sempre più pesante.

«Al di là del fatto in sé che non conosco e che è condannabile – dice Bruno Gianni, consigliere dei Comunisti Italiani – resta la situazione di questo quartiere che, con la crisi, è diventata sempre più pesante. Ci sono decine e decine di famiglie sull’orlo della miseria per la perdita del posto di lavoro. Questi episodi possono essere visti anche come una spia del disagio in atto». Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia

La quarta crisi: al Sole 24ore due anni di stato di crisi, 37 giornalisti lasciano il quotidiano.

Sembrerebbe essere stato raggiunto un accordo tra editore e comitato di redazione in merito alla riorganizzazione de Il Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria. Secondo l’intesa, 37 giornalisti lasceranno la testata per pensionamento o prepensionamento nel corso dei due anni di stato di crisi. E’ previsto un incentivo all’esodo inversamente proporzionale all’età contributiva e al reddito. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro

Fini copre il Governo per mettere fuori gioco l’opposizione sulla nuova legge Finanziaria: dopo il fuori onda, rientra nei ranghi. Più veloce della luce.

In Parlamento si discute di corsa della nuova legge Finanziaria. C’è poco tempo: Berlusconi ha altri problemi. La maggioranza della Commissione bilancio taglia corto sugli emendamenti dell’opposizione.”Il rispetto del regolamento è stato totale”. Gianfranco Fini dixit. Ancora una volta, il futuro leader del centrodestra conferma la sua attitudine all’obbedienza. Con buona pace degli estimatori di una alternativa all’interno dello schieramento di destra: da Almirante a Berlusconi, lui, Fini, non è mai stato fuori linea, semmai fuorionda. Beh, buona giornata.

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