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Che sta succedendo all’economia europea/8.

Come far piangere gli speculatori, di LUIGI SPAVENTA-repubblica.it

IN CHE COSA consiste la speculazione? In un’imponente concentrazione di mezzi finanziari atta a provocare un esito che, pur se non altrimenti giustificato, fa vincere la scommessa. La speculazione si batte non con le deprecazioni né mandando i marines, ma facendo piangere chi ci ha provato: le lacrime di chi ci ha provato sono i soldi che gli si fanno perdere. Per far perdere i soldi alla speculazione, le autorità devono essere decise e dimenticare per un momento le regole del galateo.

I ribassisti ne fanno di tutte; dispongono dei mezzi tecnici più sofisticati; operano con una leva gigantesca, senza impegnare soldi propri. Se la pressione cresce (otto giorni fa al mercato dei derivati di Chicago si contavano 103.400 contratti al ribasso sull’euro, pari a quattro volte le posizioni lunghe, per un valore di quasi 17 miliardi di dollari) che cosa dovrebbero fare le autorità che tutelano la nostra stabilità? Consultare il manuale di buone maniere di Monsignor della Casa e reagire senza dare prova di maleducazione? Oppure togliersi i guanti e picchiare?

Nell’agosto del 1998, in esito alla crisi finanziaria del Sud-Est asiatico, quando finirono al tappeto le economie più dinamiche dell’area, la speculazione prese di mira con pesanti bordate la valuta e il mercato azionario di Hong Kong. Poiché i consueti strumenti di difesa (aumento dei tassi) non bastavano, l’autorità monetaria del territorio buttò alle ortiche l’ortodossia e decise di presentarsi in borsa come compratore di ultima istanza, in contropartita dei venditori a pronti e a termine, e acquistò azioni – azioni, si badi, non casti titoli di Stato – per 15 miliardi di dollari. Questa operazione (battezzata doppio slam, double whammy) inflisse gravissime perdite ai ribassisti, che dovettero abbandonare il terreno con gravi perdite. Vi fu anche un lieto fine: l’autorità monetaria rivendette gradualmente le azioni acquistate lucrando un profitto di 4 miliardi per le casse pubbliche (così come la banca centrale americana sta facendo profitti, rivendendo i titoli acquistati durante la crisi per sostenere le banche).

Non suoni eresia: la sola entità che possiede più mezzi di qualsiasi diabolico speculatore è una banca centrale che abbia il potere di emettere moneta. Solo quella banca centrale può essere compratore di ultima istanza di qualsiasi attività finanziaria che sia oggetto di un attacco speculativo ribassista, a condizione che quella attività sia denominata nella valuta che essa emette (per la Bce un titolo in euro, per la Federal Reserve un titolo in dollari).

Naturalmente questo è un rimedio estremo per mali estremi: per metterlo in opera si deve essere convinti che il valore mirato dalla speculazione non sia quello “giusto”; che senza turbolenze si potrebbe raggiungere un valore diverso e mettere in opera procedure più ordinate. Mi pare evidente che queste condizioni ricorrano oggi: occorre tempo per verificare il funzionamento del piano messo su per la Grecia; Spagna e Portogallo non meritano le frustate ad essi inflitte dai mercati solo per bastonare l’euro; il funzionamento dell’euro dovrà essere ripensato, ma non in un’affannosa emergenza. La Banca centrale europea è chiamata a fare la sua parte (“tutte le istituzioni… convengono di ricorrere a tutta la gamma di strumenti disponibili per garantire la stabilità”, recita il comunicato del Consiglio europeo di venerdì).

L’art. 123 del Trattato di Lisbona vieta esplicitamente alla Bce l’acquisto diretto di titoli di debito emessi dai governi o da altri enti del settore pubblico, ma non ne impedisce l’acquisto sul mercato, con operazioni che un tempo venivano definite di mercato aperto. Le dissertazioni sull'”azzardo morale” (nozione cara agli economisti) e sul rischio di inflazione non hanno pregio: lasciar prevalere i ribassisti quando si ritengano ingiustificati i loro obiettivi, quello sì è offrire occasione di azzardo morale; sappiamo che la massa monetaria creata occasionalmente (e quanta se ne creò per finanziare le banche!) può essere agevolmente riassorbita, anche liquidando nel tempo i titoli immessi nell’attivo anche con operazioni di acquisto. Altri espedienti sono opportuni, ma non sufficienti a battere la speculazione.

Un fondo di assistenza di qualche decina di miliardi? Ottimo, ma complicato da mettere in opera; soprattutto si indica alla speculazione che essa vince se riesce a mobilitare (magari solo sulla carta) una cifra maggiore. Più soldi resi disponibili dalla Bce alle banche? A poco servirebbero, posto che al momento le banche, di nuovo diffidenti l’una dell’altra, stanno depositando liquidità a Francoforte. È il momento del coraggio: si può riuscire a farli piangere gli speculatori, ma non con le chiacchiere di chi, come avrebbe detto Krusciov, non ha divisioni da mandare in combattimento. (Beh, buona giornata).

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Cosa sta succedendo all’economia europea/7.

(fonte: repubblica.it)
Dopo la maratona di ieri, durata oltre dieci ore, i ministri delle Finanze dell’Unione europea hanno trovato l’accordo per un piano salva-euro che potrebbe raggiungere i 720 miliardi. L’intesa è per 500 miliardi di aiuti europei cui si aggiungerà una cifra non precisata del Fondo monetario internazionale che secondo la presidenza di turno spagnola della Ue potrebbe arrivare a 220 miliardi. Al fondo non parteciperà la Gran Bretagna: “Voglio essere chiaro, la proposta di creare un fondo per la stabilità dell’euro è una faccenda che riguarda i paesi dell’Eurogruppo”, ha detto il titolare delle Finanze di Londra, Alistair Darlin.

Oggi volano le Borse dopo l’accordo sul piano anti-speculatori e l’annuncio che anche le banche centrali interverranno sui mercati. Piazza Affari si è impennata fin dall’apertura e sale di oltre il 7%. In avvio ben 16 titoli dell’indice Ftse non riuscivano a fare prezzo per eccesso di scostamento. A beneficiare soprattutto il settore bancario, più penalizzato nelle sedute della scorsa settimana dalle vendite. Unicredit e Intesa salgono di oltre il 15 e oltre il 14%, rialzi a due cifre anche per Mediobanca e Popolare di Milano.

Lisbona guadagna oltre l’8%, seguita da Bruxelles con oltre il 7,5. Oltre il 7 anche Parigi, seguita da Amsterdam (5%) e Francoforte e Londra oltre il 4. Atene è balzata di oltre 7 punti percentuali in apertura.

Forse più ancora che dalle decisioni dell’Ecofin il maxi-rimbalzo è provocato dall’annuncio che anche le banche centrali intervengono per sostenere la stabilità finanziaria. La Banca centrale europea, subito dopo la fine della riunione dei 27 a Bruxelles da Francoforte ha annunciato “misure eccezionali” sul mercato dei titoli di Stato e su quello dei cambi. L’intento, è scritto in un comunicato, è “di mettere fine alle disfunzioni” che sono state riscontrate dopo l’esplosione della crisi greca. Altra misura è stata concertata con la Fed, e le banche centrali di Canada, Inghilterra, Svizzera alle quali si è poi aggiunta quella giapponese. In sostanza i banchieri centrali hanno riattivato il meccanismo di scambio delle divise (swap) per facilitare l’approviggionamento in dollari delle banche della zona euro.

Misure necessarie, secondo la Bce, per fare fronte “alle gravi tensioni osservate sui mercati finanziari”. Buona la reazione dell’Euro che torna ad 1,30 nel cambio con il dollaro dopo che nei giorni scorsi era sceso sotto quota 1,26. “Il fondo rafforzerà e proteggerà l’euro, ma i problemi vanno affrontati alla radice” rafforzando la disciplina di bilancio” commenta il cancelliere tedesco Angela Merkel.

La prima Borsa a chiudere, dopo gli interventi di Ue, Fmi e banche centrali è stata quella di Tokyo: l’indice Nikkei chiude a +1,30% dopo due sessioni in calo. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/6.

Vertice salva-euro in bilico ,Dopo lo stop di Londra arrivano i dubbi di Berlino,di Fabio Grattagliano-sole24ore.com

La Germania ha proposto un piano di aiuti finaziari per i paesi della zona euro in difficoltà pari a una cifra di 600 miliardi di euro, con la partecipazione del Fondo monetario internazionale. Lo si apprende a margine della riunione dell’Ecofin

I ministri dell’economia e delle finanze dei 27 paesi Ue riuniti a Bruxelles per trovare una soluzione in grado di salvare in maniera strutturale l’euro e i paesi sotto minaccia della speculazione hanno preso una pausa. La riunione dell’Ecofin è stata al momento sospesa per consentire i lavori del Comitato economico e finanziario della Ue, l’organismo dedicato ad affrontare le modalità più tecniche del piano che sta cercando una sintesi in grado di accontentare tutte le posizioni espresse al tavolo dei ministri.

L’ultima bozza che circola
Se accolto dagli stati membri, il piano di aiuti finanziari sarebbe senza precedenti nella storia dei salvataggi. I 600 miliardi, l’ultima cifra che circola assieme alle bozze dei tecnici al lavoro, sarebbero così composti: 60 miliardi di garanzie dalla Commissione dell’Ue, 440 miliardi di garanzie dagli stati membri e 100 miliardi di euro di linee di credito messe a disposizione – se necessario – dal Fondo monetario internazionale. Nelle conversazioni telefoniche intercorse oggi tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il presidente francese Nicolas Sarkozy, sono servite – riferiscono fonti diplomatiche – a rafforzare l’asse con Washington per la partecipazione del Fmi. Il modello che verrebbe seguito per le garanzie degli stati membri sarebbe lo stesso usato per il caso Grecia. Germania e Olanda però si sono opposte al sistema di garanzie che era stato individuato nella proposta della Commissione. «È un’arma formidabile contro la speculazione», commentano fonti diplomatiche. «Se Francia e Germania sono unite e determinate è impossibile che la speculazione attacchi paesi come la Spagna o il Portogallo».

Il rifiuto di Londra. La ricerca di un meccanismo condiviso di stabilizzazione della moneta unica ha ricevuto un pesante stop dopo il rifiuto della Gran Bretagna a contribuire alla creazione del fondo. Anche la Germania starebbe creando qualche difficoltà sul fondo e in maniera particolare sul meccanismo di garanzie dei prestiti. «Voglio essere chiaro – ha detto il cancelliere dello scacchiere Allistair Darling – la proposta di creare un fondo per la stabilità dell’euro è una faccenda che riguarda i paesi dell’Eurogruppo. Quello che non faremo e non potremo è dare sostegno all’euro. La responsabilità di sostenere l’euro deve essere in capo ai membri dell’eurogruppo». Il rifiuto di Londra – che riguarderebbe solo la disponibilità di risorse al fondo e non uno stop politico alla creazione dello stesso – potrebbe spingere l’Ecofin verso l’ipotesi di limitare il meccanismo di prestiti garantiti ai soli 16 paesi della zona dell’euro.

Piano di salvataggio. Secondo le indiscrezioni le garanzie sul tavolo dovrebbero ammontare a 60/70 miliardi di euro: una cifra in grado di mobilitare sui mercati prestiti per almeno 600 miliardi. Se avere un fondo a 27 o a 16 «è una questione ancora in discussione», sottolineano fonti a Bruxelles. «Mai dire mai» ha detto il ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, arrivando alla riunione, mentre la collega spagnola Elena Salgado, ministro dell’Economia e delle Finanze e presidente di turno dell’Ecofin ha detto che «La Spagna non si prepara a ricorrere a nessun fondo» rispondendo alla domanda se Madrid si stesse accingendo ad usufruire del piano salva-Stati allo studio dei ministri della Ue.

Le opzioni sul tavolo. Tra le opzioni in gioco, una prevede che l’Ecofin approvi la costituzione di un Fondo di stabilizzazione sul modello già utilizzato in passato per gli aiuti a paesi non dell’eurozona (Lettonia, Ungheria e Romania): a intervenire in questi casi è l’articolo 143 del Trattato Ue in caso di grave minaccia di difficoltà nella bilancia dei pagamenti. Si tratterebbe di estendere anche ai paesi dell’eurozona la possibilità di ricevere supporto finanziario allargando l’ipotesi anche per difficoltà di approvvigionamento sui mercati per finanziare il debito sovrano. Fondendo le somme disponibili per i due strumenti si arriverebbe a una dotazione di oltre 100 miliardi di euro. Il problema è che l’articolo 143 è applicabile solo agli Stati dell’eurozona. La soluzione potrebbe arrivare grazie all’articolo 122 del trattato Ue, che prevede che il Consiglio dei 27 in caso di circostanze eccezionali possa decidere a maggioranza qualificata di concedere assistenza finanziaria a uno stato in difficoltà. L’ipotesi, in un primo momento osteggiata dal governo di Londra perché in questa evenienza la Gran Bretagna riteneva di poter essere “costretta” a fornire la propria quota di finanziamento, è ora valutata da Londra con maggior favore.

Banchieri riuniti. A Basilea i banchieri centrali della Bce attendono di capire quale ruolo sarà loro attribuito dall’Ecofin nella gestione del piano di difesa dell’euro e in special modo sulle modalità di acquisto di titoli di Stato in cambio di impegni precisi dei paesi sul risanamento dei bilanci. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/5.

La speculazione, l’Europa divisa e la speranza di Kohl, di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Per fortuna oggi si vota nel North-Rhine Westfalia (Cristianodemocratici al 34,3% e liberali al 6,5%: perdono il Nordreno-Westfalia, il land più popoloso, e non hanno più la maggioranza al Bundesrat, la Camera delle Regioni. Bene i socialdemocratici con il 34,5%, i Verdi (12,6%) e la sinistra radicale (6%), ndr). Dovrebbe essere una notizia trascurabile nel panorama della crisi finanziaria ma purtroppo, nella mancanza di regole europee comuni e condivise, le decisioni sono rimaste in mano agli stati nazionali e i governanti hanno agito tendendo conto non degli interessi di lungo periodo ma delle passioni popolari del momento . Si è verificato perciò lo scenario peggiore tra tutti quelli prevedibili, uno scenario in cui un problema di dimensioni quantitative modeste, come il deficit greco, ha prodotto le peggiori conseguenze possibili, sconvolgendo i mercati azionari ed obbligazionari di tutta Europa. Quando la politica non adempie al suo compito, la speculazione non può che approfittare del disorientamento generale e fare duramente il proprio gioco. Ed è questo che è avvenuto nella scorsa settimana, in cui l’attacco speculativo non solo ha provocato pesanti ribassi in borsa ma ha generato una catena di crisi di fiducia che ha reso più difficile e costoso il funzionamento dei crediti interbancari e ha infine messo a dura prova la solidità dei titoli di Stato di diversi paesi, con l’ovvia ultima conseguenza di attentare al cuore stesso dell’Euro.

La finanza (o forse meglio dire la speculazione finanziaria) ha travolto la politica perché essa ha per definizione interessi e obiettivi ben precisi mentre la politica europea non è stata in grado di preparare una forte strategia comune. Il prezzo di tutto ciò è elevatissimo: basti pensare che la metà del pacchetto di aiuti preparato qualche giorno fa sta ora andando in fumo per l’aumento dei tassi di interesse del debito pubblico greco, aumento dovuto proprio alla difficoltà, alla lentezza e alla scarsa convinzione con cui era stato preparato dagli “amici” europei.
Insomma la speculazione agisce quando sa di essere più forte della politica, più forte degli Stati. Oggi in Europa lo è.

Non solo perché è in grado di mobilitare enormi masse di denaro in un brevissimo periodo di tempo ( rapidità moltiplicata dagli automatismi con cui vengono dati gli ordini di acquisto o di vendita) ma anche perché tutto questo provoca ondate di panico nei possessori di titoli, allarmati da questi eventi improvvisi, imprevisti e della cui portata non sono in grado di rendersi conto. Nei giorni scorsi molti possessori di azioni sono corsi a vendere semplicemente per paura, così come sono corsi verso i Bund tedeschi altrettanti proprietari di obbligazioni pubbliche di diversi paesi.

Ad eventi così veloci si contrappone una situazione europea in cui nessuno ha il potere di agire con la necessaria rapidità e ogni decisione viene presa dopo che la speculazione ha raddoppiato la dimensione dell’intervento necessario. Questa è la ragione per cui l’attacco è stato mosso verso i paesi dell’Euro, anche se essi hanno in media un deficit molto molto inferiore a quello degli Stati Uniti o della Gran Bretagna ma hanno un potere politico frammentato, diviso e incapace di reagire agli eventi guardando in faccia alla realtà. Identica è la spiegazione sul contradditorio comportamento delle società di rating, che hanno promosso a pieni voti la banca Lemhan fino alla vigilia del fallimento e che ora gettano ombre di sospetto sull’Italia senza nulla dire riguardo all’enorme deficit di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Intanto a Bruxelles si continua a discutere sui possibili interventi urgenti della Banca Centrale Europea e su come i mercati reagiranno domani di fronte alle misure prese. Se cioè sarà sufficiente un’iniezione aggiuntiva di liquidità alle banche perché acquistino titoli di Stato dei paesi sotto tiro o se si andrà verso la più complessa e ipotetica possibilità che sia la BCE stessa a comprare direttamente tali titoli. Vedremo domani se la decisione presa sarà in grado di calmare la furia dei mercati ma teniamoci ben in mente che, in ogni caso, si tratta di un rimedio di breve periodo. Il problema resta quello di creare degli strumenti di politica economica per tutta l’area dell’Euro che permettano di evitare i disastri come quello greco e che, se accadono, rendano possibile imporre nuovi comportamenti in modo rapido e autorevole.

Ritorniamo quindi al nostro problema di costruire una politica economica europea da affiancare alla politica monetaria, una politica abbastanza forte da imporre e fare rispettare le regole comuni. E’ proprio quello che i leader europei non hanno nel passato voluto e che gli eventi di questi giorni costringeranno invece a fare. A meno che non si voglia la distruzione dell’Euro, cosa che a nessuno giova a cominciare dalla Germania. Quando fra poche ore si chiuderanno le urne nel North-Rhine Westfalia si dovrà quindi ricominciare a parlare del nostro futuro, che esisterà solo se sarà un futuro comune. Per ora l’unica voce ottimista che ho potuto ascoltare in Germania è quella dell’ex cancelliere Helmut Kohl che, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, mi ha rasserenato assicurandomi che la Germania è, nonostante tutto, pienamente consapevole del valore positivo ed indispensabile della solidarietà europea. Mi auguro proprio che abbia ragione.(Beh, buona giornata).

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L’attacco all’euro è colpa degli speculatori?

http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog

Ora la caccia allo speculatore è in cima alle preoccupazioni dei governi dell’Eurozona. Questo purtroppo conferma la debolezza della risposta europea a questa crisi. Quando s’invocano le oscure forze del capitale è un brutto segno.

La speculazione esiste, ha mezzi consistenti, io stesso ho raccontato le “cene segrete” di Wall Street tra gli hedge fund, sulle quali la magistratura e la Sec hanno aperto un’indagine per capire se ci fu collusione nell’organizzare gli attacchi all’euro.

Ma prendersela con la speculazione è come voler rompere il termometro perché ci dice che abbiamo la febbre alta.

Ricordiamo l’attacco guidato da George Soros nel 1992 contro lira e sterlina: fu possibile per l’altissimo debito pubblico dei due paesi, e l’insostenibilità della loro appartenenza al regime dei cambi quasi-fissi (allora lo Sme).

Soros precipitò il crollo della lira, l’uscita dallo Sme, ma così facendo costrinse l’Italia ad accettare un risanamento dei conti pubblici (Amato) che era necessario in quanto tale: eravamo avviati su una china distruttiva, per comportamenti irresponsabili delle nostre classi dirigenti.

Oggi la situazione non è diversa: dalla corruzione dei passati governi greci, all’ostinazione della Germania nel rifiutare un governo europeo dell’economia, ogni nazione è messa di fronte al conto degli errori accumulati in molti anni.

La speculazione ci si arricchisce sopra. Ma nessuno denunciava la speculazione quando era di segno opposto: rafforzava l’euro, consentiva alle banche europee di rimpinguarsi i bilanci con finanziamenti a tasso zero. C

‘è un’attenzione asimmetrica ai danni degli speculatori. Li si scopre malvagi e distruttivi solo quando le loro scommesse disturbano uno status quo consolidato.

L’ultima grande crisi che ebbe come suo epicentro l’Asia, quella del 1997, fu l’occasione anche là di alte grida contro il complotto della finanza occidentale. Il premier malese Mahatir divenne famoso per le sue denunce contro le congiure degli speculatori angloamericani.

Da allora però l’Asia, più che prendersela con gli speculatori, ha imparato una lezione diversa. Oggi le nazioni orientali hanno le finanze pubbliche più in ordine del mondo, i conti con l’estero in attivo, ricche riserve valutarie per consentire alle banche centrali di difendere le rispettive monete. E dietro tutto questo, ci sono delle economie reali con i “fondamentali” in ordine: a cominciare dalla competitività.

Questo andrebbe ricordato, perché se l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sulla “caccia all’untore”, è un comodo diversivo per i nostri governi e banchieri centrali, ma è pseudo-economia. (Beh, buona giornata).

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La crisi sistemica mette in crisi anche la CGIL.

Conclusione: il sindacato è spaccato, di Francesco Piccioni, inviato a Rimini-ilmanifesto.it

Finisce con un voto a maggioranza il congresso più difficile nella Cgil da oltre quindici anni a questa parte. Guglielmo Epifani, nel tirare le conclusioni, se ne rammarica ma è convinto che bisogna andare avanti nella direzione da lui indicata. Ed esplicita i punti di divisione anche con più chiarezza di quanto non sia stato fatto in tutto il dibattito congressuale.

La questione non controversa è chiara: c’è una “crisi sistemica”, al punto che ormai la riconosce come tale anche il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. E ci sono effetti certi che stanno per abbattersi sulla società e il mondo del lavoro, anche per la evidente “asimmetria tra la debolezza della risposta degli stati e la forza dei mercati o della speculazione”. Bisogna “trarne le conseguenze”, e la comunità europea dovrebbe quantomeno prevedere un “fondo monetario”, un’”agenzia di rating”, dei bond europei per investimenti continentali; per governare l’integrazione. L’alternativa seguita finora è stata invece “lasciarla a se stessa” oppure “rinchiudersi negli stati-nazione”. I “silenzi di Tremonti” si contrappongono al “grido” rappresentato dalla “manovra correttiva” da 25-30 miliardi, di cui non si conoscono ancora i contenuti, ma si possono facilmente immaginare (“retribuzioni dei dipendenti pubblici, tagli a scuola, ricerca, sanità, pensioni”).

Finora, dice Epifani, abbiamo visto “un primo tempo della crisi” di cui stiamo ancora pagando i costi in termini di occupazione e diritti; e già se ne aggiunge un secondo.

Il rischio, in Italia come altrove, è di “drammatizazioni sociali forti”. Fin qui la Cgil si è mossa “con grade senso di responsabilità nazionale” (cita ad esempio la “soluzione ponte” proposta dalla Fiom nel corso delle trattative sull’ultimo contratto), e altrettanto vuole fare nel “secondo tempo”. Proprio per questo chiede al governo “di fermarsi un attimo e riflettere”, prima di definire la manovra finanziaria nel Dpef: “fermando il processo di smantellamento legislativo dei diritti dei lavoratori proprio durante la crisi”. Altrimenti si andrebbero a sommare caduta dell’occupazione e dei diritti, con conseguenze difficili da governare. Resta dunque in campo la richiesta di “un piano per l’occupazione”, che deve essere per tutta la Cgil “il cuore dei nostri obiettivi, non uno tra gli altri”.

Sul dissenso interno, però, vuole essere preciso: “il primo punto di divisione è su come si risponde a questo attacco contro il lavoro”. E rivendica il percorso fatto con i 40 contratti di categoria siglati da un anno e mezzo, che per lui dimostrano la possibilità di “svuotare” di senso “l’accordo separato sul modello contrattuale”, riducendo il danno; mentre per la “mozione 2” (ma anche secondo Cisl e Uil, seppure “da destra”) lo avrebbero accettato di fatto.

Il secondo punto riguarda il rapporto tra conflitto, democrazia interna e contrattazione. Che “stanno assieme”, ma “il conflitto è funzione della contrattazione; non si può fare un conflitto troppo a lungo senza arrivare a un accordo”. Finché c’è uno spazio, uno spiraglio, un’interstizio il compito è “contrattare”. Non accetta insomma l’idea che un sindacato debba darsi un limite oltre cui non si può andare, che ci possa essere una situazione in cui “non c’è niente da fare”, perché “così saremmo comunque subalterni alle scelte altrui”. E quindi, “se il segretario della Cisl viene qui a dire che su alcuni argomenti possiamo lavorare insieme, la Cgil deve dire sì”. L’esempio è quello dell’elezione delle Rsu nella scuola, bloccate pretestuosamente da due anni e ora “concesse” dalla Cisl.

Sa già che “il documento conclusivo sarà approvato a maggioranza”, ma con questo “il congresso dà un mandato chiaro al gruppo dirigente”, che si tradurrà anche sulle scelte relative alle strutture. Difende, infine, la scelta di introdurre in statuto una nuova regola che affida al solo direttivo confederale il compito di esprimersi su accordi tra sindacati diversi. E lo fa citando il caso in cui la Fiom votò contro una delibera già presa dal direttivo. Un passaggio non apprezzato da Gianni Rinaldini, che ricorda come l’emendamento anche da lui proposto il giorno prima avesse l’obiettivo di evitare il ripetersi di simili “incidenti”, chiedendo che “le categorie venissero sentite prima delle decisioni del direttivo”. Far passare una richiesta di consultazione preventiva per un diritto di disconoscere decisioni confederali “è intellettualmente non onesto”; “se quella regola non c’è mai stata nello statuto della Cgil, una ragione ci sarà pure”.

La mozione “la Cgil che vogliamo” al completo presenta una dichiarazione di voto contrario al documento finale. Le ragioni sono ribadite in modo sintetico. L’accordo separato del 22 gennaio 2009 “non è emendabile”, non è indicata una piattaforma che illustri quale “nuovo sistema contrattuale” vuole la Cgil; non sono indicati obiettivi chiari in merito di lotta alla precarietà (centralità del contratto a tempo indeterminato, riduzione delle forme di accesso al mercato del lavoro, ecc.), né la necessità di una legge che regoli democrazia e rappresentatività sindacale. Nel confuso finale degli ordini del giorno, ne passa poi anche uno con cui la Cgil chiede il “ritiro immediato delle truppe in Afghanistan”. Un sindacato grande, dove possono sempre accadere molte cose. (Beh, buona giornata).

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Che succede all’economia europea/4.

Potesse la Grecia fare la svalutazione…di Paul Krugman-sole24ore.com

C’è ancora qualcosa da dire sulla crisi del debito greca? Secondo me, sì. Molti osservatori sottolineano che difficilmente la Grecia riuscirà ad applicare le misure di risanamento prescritte dal piano di salvataggio. Come dice senza giri di parole Charles Wyplosz, del Graduate Institute of International Studies di Ginevra, «il piano non funzionerà».
È il caso di osservare, però, che anche una ristrutturazione del debito non sarebbe granché utile per alleviare il fardello che pesa sul governo di Atene.

Per capire perché, immaginiamo che cosa succederebbe se la Grecia smettesse semplicemente di pagare il suo debito. A quel punto, tutto quello che dovrebbe fare sarebbe tenere a zero il disavanzo primario: in altre parole, dovrebbe incassare, attraverso le tasse, tanto quanto spende (dove per spesa si intende tutto quello che non sono gli interessi sul debito).
Ma ricordiamo che la Grecia in questo momento presenta un disavanzo primario enorme, pari complessivamente, nel 2009, all’8,5 per cento del prodotto interno lordo. Perciò, anche se il Governo greco dichiarasse la totale insolvenza sul suo debito, sarebbe comunque tenuto a imporre misure di austerità.
Ne consegue, dunque, che una ristrutturazione del debito servirebbe a poco, a meno di non pensare (cosa che sembra inverosimile) che ottenendo il condono del debito esistente il Paese ellenico sia in grado di accedere a nuovi e consistenti prestiti. L’unica strada per alleviare in modo significativo le pene della Grecia sarebbe quella di trovare un modo per limitare i costi dell’austerità di bilancio, e in questo senso la ristrutturazione non sarebbe utile.

Sarebbe utile invece una svalutazione. Ma uno studio (ormai diventato un classico) realizzato nel 2007 da Barry Eichengreen di Berkeley, che ha fortemente influenzato le mie opinioni sull’euro, descrive in dettaglio i motivi che rendono pericolosa una svalutazione. Eichengreen sostiene che qualsiasi tentativo di lasciare la zona euro esige tempo e preparazione, e che nel periodo di transizione vi sarebbero assalti agli sportelli dagli effetti devastanti.
In questi giorni, tuttavia, sto riconsiderando la faccenda. Più nello specifico, mi sembra probabile che la Grecia sia destinata a precipitare in una crisi politica interna, oltre che economica. La sua situazione attuale è simile a quella dell’Argentina nel 2001. Allora, l’Argentina aveva introdotto un piano di convertibilità (che nelle intenzioni avrebbe dovuto ancorare in via permanente il peso al dollaro) che sembrava irreversibile per le stesse ragioni per cui oggi sembra irreversibile l’euro. Le autorità temevano che per abrogare quel provvedimento sarebbe stato necessario un prolungato dibattito legislativo, e che un dibattito del genere avrebbe innescato devastanti assalti agli sportelli. Vi ricorda qualcosa?

Ma alla fine del 2001, l’economia argentina era allo sfascio. Il governo impose misure d’emergenza nel tentativo di contenere la situazione, fra cui una serie di restrizioni sui prelievi bancari. La conseguenza fu che la tesi contraria all’abrogazione del cambio fisso con il dollaro perse di validità, e nel 2002 l’Argentina passò a un tasso di cambio fluttuante.
È davvero impossibile che qualcosa di simile possa succedere in Grecia? E se accadesse, non si rischierebbe di mettere in discussione l’appartenenza alla zona euro anche di altri Paesi?
Questo dramma è ancora lontano dalla conclusione.

Il 2 maggio, l’Unione Europea ha approvato il pacchetto di aiuti da 110 miliardi di euro che punta a impedire il default greco. Gli Stati membri della zona euro hanno accettato di contribuire con 80 miliardi di euro, mentre il resto verrà dal Fondo monetario internazionale.
Il Governo tedesco, che aveva manifestato grande riluttanza ad accorrere in aiuto della Grecia, ha accettato di mettere a disposizione 22 miliardi di euro. In una dichiarazione al parlamento, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto che il piano di salvataggio rappresenta «niente di meno che il futuro dell’Europa e il futuro della Germania in Europa», aggiungendo che la Germania aveva «una responsabilità speciale per l’Europa e oggi l’eserciterà».

In cambio, la Grecia ha accettato di applicare una serie di rigide misure di austerità, che includono l’obbligo di ridurre il disavanzo nell’ordine dell’11 per cento del prodotto interno lordo, l’aumento delle tasse, la stabilizzazione del debito pubblico e drastici tagli al settore pubblico, compresi tagli alle pensioni e l’eliminazione delle gratifiche per i dipendenti pubblici.
I tagli hanno scatenato la rabbia in tutta la Grecia, dove un cittadino su tre lavora per lo Stato. Il 4 maggio, i dipendenti pubblici, inclusi gli insegnanti e il personale ospedaliero, sono scesi in sciopero, e da quel momento sono seguiti altri scioperi e manifestazioni. Il 5 maggio, i disordini sono sfociati in tragedia con la morte di tre persone ad Atene a seguito dell’incendio appiccato a una banca dai manifestanti.

Le turbolenze politiche hanno prodotto ripercussioni sui mercati finanziari, unitamente alla paura degli investitori di un allargamento del contagio ad altri Paesi della zona euro, in particolare la Spagna e il Portogallo. Il 5 maggio, l’euro ha toccato il livello minimo sul dollaro negli ultimi 12 mesi, attestandosi a 1,2886 dollari.

© 2010 NYT – distribuito da The NYT Syndicate

(Traduzione di Fabio Galimberti)

(Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/3.

Atene e Roma società del ricatto, di BARBARA SPINELLI-lastampa.it

Ci vorranno non mesi ma anni, perché la Grecia trovi la forza, in se stessa, di assumere il fardello molto pesante di sacrifici che il primo ministro George Papandreou ha presentato giovedì alle camere. Molti demoni dovrà combattere, molte tribolazioni le si accamperanno davanti man mano che si snoderà la via stretta del risanamento, e in cuor loro i greci l’hanno appreso, in queste settimane di prova: non sono tutti esterni, i demoni; non vengono tutti dal mercato o dalle agenzie di rating le minacce, i sospetti, gli assalti. I mali della Grecia sono in massima parte interni: sono parte della sua storia, dell’uso che è stato fatto di essa, delle memorie paralizzanti che l’impacchettano. Se la resistenza ad accettare la nuova austerità è così vasta, se il coraggio di Papandreou fatica a imporsi, è perché dietro di lui c’è un paese smagato, disunito, radicalmente sfiduciato.

È una sfiducia che ha radici antiche e che risale all’impero ottomano, ma che non ha vissuto una catarsi nel dopoguerra. Lo Stato non ha tratto vigore dalla resistenza al nazifascismo, supinamente ha accettato per decenni di essere una guarnigione della Nato, ha consentito alla dilatazione di un potere militare abnorme: un potere che gli Stati Uniti hanno sfruttato a piacimento, nella guerra fredda. Fin dal dopoguerra Washington ha appoggiato costantemente le destre, non esitando a distruggere le energie della Resistenza e ad appoggiare la dittatura dei colonnelli fra il ’67 e il ’74. L’ingresso greco in Europa e nell’Euro non ha coinciso con uno Stato redento, e oggi i frutti avvelenati di quell’occasione mancata si toccano con mano. Nel giorno del grande esame ­ lo Stato in bancarotta ­ non c’è quella che Leopardi chiama una società stretta, addomesticatrice di egoismi e interessi particolari. Sono scettici e disillusi soprattutto i giovani, che hanno visto degradarsi ai vertici il senso dello Stato, dilagare una corruzione senza limiti, estendersi l’impunità di politici e partiti complici nella difesa dello status quo.

I manifestanti ateniesi domandano questo, in sostanza: come fidarsi di uno Stato che non si è limitato a truccare bilanci ma ha tragicamente fallito la propria rigenerazione? Il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papachelas, afferma che per uscire dal marasma servono misure non solo economiche, ma politiche, civili. Quel che urge recuperare non è l’identità offesa della Nazione, come reclamano alcuni, ma la dirittura e l’equità dello Stato: «La sola vera cura è un emendamento costituzionale ­ concordato fra i politici ­ che annulli l’immunità di cui godono ministri e parlamentari, la riduzione del numero dei parlamentari a 200, l’invio di farabutti ed evasori fiscali davanti alle corti o in carcere». Se la crisi vuol essere catarsi, devono emendarsi le scelte economiche ma anche le usanze della politica. Sullo stesso giornale, Nikos Xydakis chiede una «rinascita antropologica».

È il motivo per cui sono tante le somiglianze tra Grecia e Italia, e degne di esser studiate. Negli ultimi giorni si è parlato di un rischio Italia, oltre che spagnolo e portoghese: in genere a torto, per quanto riguarda la nostra economia, il risparmio delle famiglie, la salute delle banche, il deficit dello Stato. Finanziariamente, Roma non vacilla come Atene. È vero anche che la Resistenza non è stata svilita e soppressa con l’aiuto delle forze alleate, come nella guerra civile greca. Nella nostra storia antica e recente abbiamo potuto contare su uomini e istituzioni profondamente fedeli alla res publica, e non siamo stati tormentati, come in Grecia, da una casta militare potenzialmente sovversiva. Ma se si guarda alla fiducia che i cittadini hanno nell’imperio della legge e nella cosa pubblica, le affinità sono impressionanti. Esiste anche in Italia una fondamentale diffidenza verso lo Stato, la legge. Alcune regioni a Sud sono dominate da mafie che di tale miscredenza si nutrono da un secolo. Esiste a Nord e a Milano un disprezzo delle istituzioni pubbliche, del civismo, della legalità, non meno annoso e intenso. Anche qui lo sforzo di rinascere tarda a mobilitarsi. Tarda a nascere una destra autentica, che con Fini fabbrichi futuro e riempia il temibile vuoto. Tarda a sinistra un rapporto non intimidito con il conflitto.

Anche l’anniversario dell’unità d’Italia, lo prepariamo dolendoci più della scarsa identità comune che dell’incultura dello Stato. Si può certo vivacchiare senza cultura dello Stato, della legalità: sia i greci che gli italiani lo fanno da decenni. Ma quando arriva l’ora della prova, l’assenza di fiducia rischia di divenire un fatale cappio al collo per chi impone sacrifici. La gente semplicemente non segue, si sparpaglia, si scinde in mille corporazioni ingovernabili. Per aderire a sacrifici, la società deve pur sempre riconoscersi nello Stato risanatore: nella sua affidabilità, nella sua vocazione a mantenere la parola data, nella rettitudine dei suoi servitori. È la ragione per cui Daniel Cohn-Bendit, intervistato giovedì da la Repubblica, invita a riflettere sulla società e lo Stato ellenico, oltre che sull’economia: «Uno Stato in cui in Grecia non s’identifica nessuno o quasi nessuno. È sempre stato lo Stato degli altri, lo Stato dei ricchi e dei potenti, ognuno lo ha strumentalizzato per sé. È sempre apparso lo Stato dei corrotti, e la gente ha partecipato alla corruzione. Adesso bisogna cambiare tutto questo, ma ci vuole tempo».

Il deputato europeo ammira Papandreou, e critica chi confonde i manifestanti ateniesi con i pochi estremisti che il 5 maggio hanno provocato la morte di tre impiegati della Marfin Egnatia Bank. Il lettore, ascoltando queste parole, avrà legittimamente l’impressione di sentir narrata anche l’Italia: la nascita di uno Stato contaminato dalla corruzione fin dall’inizio della Repubblica, il peso esercitato da potentati esterni interessati all’esistenza di uno Stato parallelo e incontrollato, i patti stretti dalla politica con l’illegalità e la malavita, la magra incidenza che ha avuto Mani Pulite nell’ultimo ventennio, l’impunità dei politici, la magistratura sabotata. Non diversamente dalla Grecia, l’Italia è decaduta fra il dopoguerra e oggi perché piano piano si è creato, fra i partiti, un pericoloso consenso in difesa dello status quo: status quo fondato sulla svalutazione dello Stato, della legalità. Viene in mente, più che attuale, l’allarme lanciato il 22 febbraio ‘98 dal giudice Gherardo Colombo, in un’intervista a Giuseppe D’Avanzo sul Corriere: il male, disse, era in Italia la diffusa società del ricatto, non affermatasi di recente ma fin da quando gli americani, pur di esser facilitati nello sbarco in Sicilia, chiesero aiuto alla mafia.

È in quegli anni che «si è stabilito un rapporto di “quieto vivere” con questa organizzazione criminale, che ha caratterizzato decenni della nostra storia. (…) Il compromesso in Italia è stato sempre opaco e occulto. (…) Negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti». La democrazia degenera così, secondo l’ex magistrato di Mani Pulite: non a causa di una conflittualità troppo accesa e dai toni troppo alti, che sono anzi il suo sale. Le «nuove regole della Repubblica vanno organizzate non attorno al conflitto, ma attorno al compromesso». È quest’ultimo che va imbrigliato, assai più del conflitto. È straordinario come la crisi metta in luce proprio questa verità, apparentemente paradossale: se usciremo dalla crisi rinnovati, se sapremo radunare le forze in caso di tracolli, è perché avremo smosso gli opachi patti dello status quo. Non se difenderemo una democrazia fondata sulla discussione, la critica, il disvelarsi del nascosto e del sommerso. La crisi ha questo, di catartico. Porta alla luce difetti di fondo, politici e culturali più che finanziari. Suona il campanello: la ricreazione è finita. Dà nuovo senso ai tentativi di rigenerazione, anche quelli insabbiati e morti. La strada stretta consiste nel riconoscerlo.
(Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/2.

Potere e mercati, la prova verità, di SERGIO ROMANO-corriere.it

Le grandi crisi non bastano purtroppo a rinsavire quelli che ne sono direttamente o indirettamente responsabili. Ma hanno l’effetto positivo di rendere evidenti alcune verità che prima della crisi apparivano poco convincenti o erano addirittura negate. Abbiamo sempre saputo che la mancanza di un governo europeo dell’economia avrebbe reso l’unione monetaria incompiuta e vulnerabile. Sapevamo che i divieti e le punizioni inseriti su pressioni tedesche nel Trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità non avrebbero mai impedito a un Paese di commettere errori e soprattutto avrebbero convinto la speculazione che il Paese in pericolo non sarebbe stato salvato. Sapevamo che i compiti assegnati alla Banca centrale europea erano troppo rigidamente limitati e che fare da sentinella all’inflazione può essere in alcuni casi una politica insufficiente, se non dannosa. E sapevamo infine che gli aiuti, quando sono tardivi e vengono decisi soltanto dopo penose discussioni inconcludenti, sono sempre più costosi di quanto sarebbero stati se concessi tempestivamente. La Germania ha frenato gli altri maggiori Paesi della zona euro perché temeva che gli aiuti alla Grecia avrebbero mal disposto gli elettori del Nord Reno Westfalia verso la coalizione di governo.
Ebbene, il pacchetto è stato varato dal Bundestag alla vigilia del voto. I tempi, per Angela Merkel, non potevano essere peggiori. Ma di questo non può che rimproverare se stessa.

La crisi, dunque, ha sgombrato il terreno da alcune false verità. Resta da capire se i Paesi dell’eurozona sapranno correggere gli errori. La giornata di avant’ieri, potrebbe essere, in questa prospettiva, memorabile. Il presidente del Consiglio italiano e il presidente francese sembrano essersi accordati sulla necessità di un fondo monetario europeo a cui attingere per aiutare un Paese in crisi. Il presidente della Commissione ha detto che occorre rafforzare Eurostat (l’ufficio statistico dell’Ue) e fornirgli gli strumenti per accertare la verità dei conti pubblici degli Stati membri. La Banca centrale europea potrebbe prendere in garanzia, per i suoi prestiti, anche le obbligazioni deprezzate del governo greco e acquistare titoli di Stato per stabilizzare i mercati. Un’agenzia di rating europea potrebbe ridurre l’ingiustificata influenza delle agenzie americane. L’eurogruppo, infine, potrebbe assumere maggiori responsabilità e diventare la prefigurazione di un governo europeo dell’economia.

Molto dipende da tre importanti riunioni che si terranno oggi, prima dell’apertura dei mercati: il consiglio dei governatori della Bce, l’Ecofin, e un G7 dell’ultima ora in teleconferenza.
Ma se verranno adottate, queste misure avranno alcuni punti in comune: rafforzeranno le istituzioni europee a scapito delle sovranità nazionali, saranno un passo verso il completamento dell’Unione monetaria e l’integrazione europea. Faranno capire ai mercati che l’Europa non intende farsi ricattare dalla speculazione. E avranno l’effetto di ridare all’Italia uno spazio europeo che aveva finora trascurato. Tanto più se gli aiuti alla Grecia saranno votati sia dalla maggioranza sia dall’opposizione.
So che molto dipende dalle reazioni dei mercati, domani. C’è troppo denaro in giro per il mondo che è alla ricerca di selvaggina e si comporta come zavorra mal collocata sul fondo di una nave in tempesta. Ma qualche speranza, oggi, è possibile. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/1.

I giorni terribili dell’attacco all’euro di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it

Due giorni terribili e una terribile nottata tra i capi dei governi europei, mentre crollavano le Borse di tutto il continente e Wall Street addirittura precipitava di mille punti in pochi minuti. Un errore umano? Molto peggio: l’errore umano aveva messo in moto le tecnologie computerizzate che avevano trasmesso l’ordine di vendere a tutti gli operatori collegati in rete. Così la tecnologia amplifica e soverchia le manchevolezze degli umani, dei quali sempre più spesso diventa padrona.
Quei minuti di panico si sono tuttavia protratti per tutta la giornata sulle due sponde dell’Atlantico; la riunione dei leader europei è durata otto ore, con lo spettro di che cosa potrà accadere lunedì alla riapertura dei mercati.

Lo spettro dell’affondamento dell’euro ha dato loro il coraggio che fin qui gli era
mancato. Soprattutto era mancato ad Angela Merkel, cioè alla Germania e alla Bundesbank che ne rappresenta il cuore monetario, ancora nostalgico del marco, abbandonato in favore della concezione europeistica di Kohl. C’è voluto un intervento diretto di Barack Obama sulla cancelliera della Germania federale per farle comprendere che la fase dei “se” e dei “ma” doveva essere superata e che non era più questione di giorni ma di ore se non addirittura di minuti per prendere le decisioni necessarie. Si vedrà domani se i mercati si stabilizzeranno e se la speculazione concederà alla politica una pausa di respiro.

I provvedimenti decisi dal vertice europeo sono stati, finalmente, all’altezza della sfida: la disponibilità della Bce, ovviamente con decisione autonoma, ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco e la decisione della Commissione di Bruxelles di mobilitare 70 miliardi di euro accantonati nel bilancio dell’Unione per far fronte alle calamità naturali e usarli invece per prestiti immediati ai Paesi in difficoltà.
La frustata che gli speculatori hanno dato ai governi li ha finalmente risvegliati dall’ipnosi e li costringerà a reagire?

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La novità delle ultime quarantott’ore è questa: i governi hanno capito che l’attacco della speculazione non è più soltanto contro la Grecia. L’obiettivo è assai più alto, il dissesto dell’economia greca ne è stato soltanto il detonatore, ma ormai è chiaro quale sia il bersaglio: l’euro, la moneta unica europea, la tenuta del sistema europeo e la sua necessaria evoluzione politica. L’aveva già scritto qualche giorno fa Mario Pirani su queste pagine e l’ha detto giovedì scorso con chiarezza il ministro Tremonti alla Camera. C’erano solo cinquantotto deputati ad ascoltarlo e quasi tutti dell’opposizione, il che non depone a favore della sensibilità europeistica del nostro Parlamento e sottolinea il suo inguaribile provincialismo.

A questo punto le domande che dobbiamo porci sono tre: perché la speculazione attacca l’Europa, le sue Borse, la sua moneta? Quali sono, tecnicamente e politicamente, i punti deboli dell’Unione europea? Quali sono le terapie necessarie per difenderci? Possiamo aggiungere anche una quarta domanda: chi sono gli speculatori? È mai possibile che abbiano tanti mezzi e tanto coraggio da partire in battaglia contro una struttura di dimensioni continentali che coincide con l’area più ricca del mondo?

Questa quarta domanda è preliminare alle altre e va dunque affrontata per prima. La speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni. La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato. Il mercato consiste in un luogo organizzato dove si registrano – attraverso la domanda e l’offerta – le aspettative di un’immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l’aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo.

La crisi di due anni fa partì dalla bolla immobiliare americana e si propagò con la velocità del fulmine in tutto il mondo. Fu la prima vera prova della globalizzazione finanziaria. Si confrontarono le aspettative ribassiste e deflazionistiche con la risposta dei governi, a cominciare da quello americano. I governi riuscirono a gestire la crisi e a controllare le aspettative ma pagarono un prezzo altissimo: dovettero iniettare sul mercato migliaia di miliardi di liquidità accumulando debiti immensi. Sono stati chiamati “debiti sovrani” e “fondi sovrani” sono stati chiamati gli enti preposti alla loro gestione.

L’uscita dalla crisi prevede che i debiti sovrani siano riassorbiti gradualmente ma in un periodo relativamente breve di tre o quattro anni. Ogni sistema, ogni fondo sovrano effettuerà l’operazione di assestamento secondo i propri mezzi e le proprie scelte; l’inflazione sarà inevitabilmente una scelta comune, non facile da guidare e difficilissima da far accettare alle pubbliche opinioni. Ma ancora più difficile sarà l’assestamento basato sul taglio di spese, inasprimento di imposte, disagio sociale. Il caso greco ne è la più lampante dimostrazione anche perché è maturato su un terreno politicamente e socialmente friabilissimo.
Adesso è la volta dell’Unione europea, la crisi si è concentrata su quell’obiettivo. Come ha ricordato Tremonti, la parola crisi in greco significa discontinuità.

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Perché la speculazione attacca la moneta europea, le sue Borse, le sue banche? La risposta è semplice: la speculazione attacca i fondi sovrani europei, cioè la struttura finanziaria dell’Unione attraverso gli Stati che la compongono e cerca di colpire la stessa Banca centrale europea, cioè il cuore dell’Unione, il solo ente veramente autonomo e veramente federale che gli Stati abbiano finora saputo esprimere.
La speculazione, cioè l’insieme delle forze che operano nei mercati internazionali, sa da tempo che la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano. Questa situazione le conferisce il massimo di indipendenza, ma al tempo stesso il massimo di solitudine e di fragilità. La politica monetaria è interamente nelle mani della Bce e di conseguenza sono di sua esclusiva spettanza la quantità di moneta in circolazione, il tasso ufficiale di sconto, le operazioni di mercato aperto.

Ma gli Stati membri mantengono il completo dominio delle rispettive politiche di bilancio, delle rispettive politiche fiscali, della spesa pubblica sia nazionale sia locale, degli incentivi, delle pubbliche retribuzioni, dell’organizzazione del “welfare”. I meccanismi di coordinamento sono blandi e nella maggioranza dei casi si risolvono in raccomandazioni. Il bilancio amministrato dalla Commissione di Bruxelles non ha alcuna vera flessibilità.

Insomma l’Europa è ancora lontanissima dall’essersi data una struttura federale e politiche comuni, anzi unificate, con massicci trasferimenti di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo nel campo della politica estera, di quella della difesa, dei diritti e dei doveri, delle elezioni parlamentati e del governo dell’Unione.
La speculazione conosce perfettamente questa situazione ed ha interesse a bloccare qualsiasi sviluppo dell’Unione verso un assetto federale. L’ideale per le forze di mercato è che esso sia regolato il meno possibile e che il potere economico, soprattutto nei suoi aspetti finanziari, sia il solo dominante nello spazio globale del pianeta.

Questa è dunque la posta, la quale tuttavia comporta anche una contro-indicazione: se gli Stati nazionali membri dell’Unione hanno chiaramente capito la pericolosità estrema dell’attacco, vorranno e sapranno elaborare una risposta che sia all’altezza della crisi? Vorranno affrontare il problema della sovranazionalità europea cedendo all’Unione la parte politica della loro sovranità? O si limiteranno a rendere più strette le maglie del coordinamento tra le loro politiche nazionali?

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La crisi in corso contiene dunque un pregio, l’abbiamo già detto: ha reso attuale e non oltre procrastinabile il tema dello Stato federale europeo. Purtroppo non sembra che l’evidenza e l’urgenza di risolverlo siano in grado di indurre le classi dirigenti e le opinioni pubbliche nazionali a varcare finalmente la soglia di un vero federalismo. Mancherà certamente il contributo della Gran Bretagna, ancora irretita dal mito anglosassone e dalla relazione speciale tra Londra e Washington.
Quanto agli Stati europei del continente, non sembra che dispongano di una visione europea unitaria. Una classe dirigente europea e un’opinione pubblica europea capaci di sospingerli e costringerli non esistono. Ci sono singoli individui e ristretti ambiti sociali minoritari, niente di più.

Se debbo esprimere un’opinione personale, credo che l’attacco in corso contro l’attuale sistema europeo si attenuerà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, ma non sarà affatto sgominato. Verrà contenuto, questo è probabile, ma preparerà ulteriori ondate. Voglio dire insomma che la crisi non è alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi con tutta la sua terribilità.
(Beh, buona giornata).

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La crisi greca è solo la miccia accesa di un bomba nel sistema economico globale.

L’innesco di una crisi sistemica, di Pino Cabras – Megachip.

Con il precipitare della crisi greca si confermano le analisi di chi non era compromesso con la propaganda o con i pii desideri. La crisi si colloca nel solco di una crisi molto più vasta, una crisi sistemica. Si poteva comprendere da subito. Chi ha causato la crisi, ossia il sistema bancario ombra, punta ancora ai soliti suoi superprofitti, soverchiando i poteri collocati più alla luce del sole.

I giganti della speculazione di Wall Street sanno che il dollaro, l’architrave della finanza mondiale, dovrà cedere, perché allo stato è impossibile rifinanziare la valanga di titoli del debito pubblico statunitense che verrà a scadere fra pochi mesi. Perciò va fatta crollare l’alternativa monetaria disponibile, l’euro, e creare un bisogno forzoso ed estremo di dollari.

Nel frattempo, con i meccanismi delle “profezie che si autoadempiono”, da loro dominati attraverso spaventose entità criminali (le agenzie di rating), gli speculatori decidono i tempi e i modi dei crolli, su cui hanno scommesso montagne di soldi con la certezza – a breve – di vincere.

Lo schema somiglia al crollo del 2008-2009. Allora affossavano le banche, che sapevano gravate di scommesse impossibili su debitori insolventi. Ora affossano gli stati sovrani, che sanno esposti verso trucchi creati dagli stessi speculatori e verso piramidi di debiti fuori controllo. Ecco Standard & Poor’s , Moody’s e Fitch a decidere ancora quando un titolo deve andare all’inferno.

Se ne fregano di avere una pessima reputazione e di non essere attendibili agli occhi di chi usa la ragione per valutare la loro “oggettività” nelle valutazioni. I meccanismi legali sono inesorabilmente dalla loro parte. La Banca Centrale europea non può acquistare i bond spagnoli o greci se il loro rating non raggiunge una certa soglia. Così, chi decide il rating può decidere quando e come far cadere i pezzi di un sistema. Stati interi.

E questo gioco da padroni dell’universo è condotto dagli speculatori non solo a dispetto di ciò che abbiamo chiamato reputazione, ma perfino nonostante le inchieste del Congresso, della Sec e della Fed. Così, per capire quali sono i veri “poteri forti”.

L’annuncio delle facce di bronzo di Goldman Sachs e JP Morgan Chase è che non si parla più di 45 miliardi di euro per salvare Atene, ma di almeno 600 miliardi di euro per salvare il “Club Med” dell’euro. Una cifra superiore a quanto dissanguò le casse Usa per impedire il collasso totale nel 2008, quando i contribuenti furono salassati per 700 miliardi di dollari, una parte dei quali allegramente finiti nei bonus dei “Masters of Universe”.

Con l’uso di titoli derivati “credit default swaps” (Cds), la speculazione anziché assicurarsi contro la bancarotta (problema di medio termine), vi ci punta direttamente per guadagnarci subito, creando contagio finanziario, di cui non avverte la minima responsabilità. Nella sua ottica, questi al momento saranno problemi insolubili delle banche europee.

Lo ricorda Federico Rampini su «la Repubblica» del 29 aprile 2010: «Un’inchiesta del Department of Justice accusa i più importanti hedge fund (Soros, Paulson, Grenlight, Sac capital) di aver concordato un attacco simultaneo all’euro, in una cena segreta l’8 febbraio a Wall Street. Il giorno dopo, 9 febbraio, al Chicago Mercantile Exchange i contratti futures che scommettevano su un tracollo dell’euro erano schizzati oltre 54.000, un record storico. Con Goldman Sachs e Barclays in buona vista nelle cronache su quelle grandi manovre.»

La grande finanza anglosassone sta decidendo che gli europei saranno divisi in nordici e sudici. Noi sudici a ciucciarci il default, da subito.

In realtà anche la Gran Bretagna è seduta su una voragine di debiti e bugie contabili, che si rinvia il più possibile, almeno a dopo le elezioni politiche.

E sullo sfondo, irrisolvibile con gli strumenti ordinari, c’è il nodo più grosso, gli USA.

Tanti Stati, non solo i PIGS mediterranei, per coprire i debiti e le scadenze, avranno scelte estremamente costose da fare: aumentare le imposte, scatenare l’inflazione per ridurre il peso del debito, altrimenti fare bancarotta. Quel che è peggio, queste situazioni possono addirittura arrivare in contemporanea, anche negli Stati Uniti.

La politica sarà investita naturalmente da tensioni e novità di enorme portata, che spazzeranno via interi sistemi.
(Beh, buona giornata).

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Il Federalismo della disoccupazione giovanile.

(fonte: ilmessaggero.it)
Nel 2009 in sei Regioni il tasso di disoccupazione dei giovani tra 15 e 24 anni è risultato superiore al 30%: in Sardegna è al 44,7%, in Sicilia al 38,5%, in Basilicata al 38,3%, in Campania al 38,1%, in Puglia al 32,6%, in Calabria al 31,8% e nel Lazio al 30,6%. Sul versante opposto le Regioni con la disoccupazione più bassa sono la Toscana con il 17,8%, la Valle d’Aosta con il 17,5%, il Veneto con il 14,4% e il Trentino-Alto Adige con il 10,1%.

A scattare la fotografia sulla disoccupazione giovanile è la Confartigianato nelle elaborazioni flash appena pubblicate e che vede il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) arrivato a marzo 2010 al picco del 27,7%, 2,9 punti percentuali in più rispetto ad un anno prima. Se si prende a riferimento il tasso di occupazione, in otto regioni si riscontra un tasso inferiore al 20%: i valori più bassi in Campania (12,9%), seguita dalla Calabria (13,4%), la Basilicata (13,6%), la Sicilia (14,2%), la Sardegna (15,5%), il Molise (17,7%), l’Abruzzo e la Puglia (18,4%).

I tassi di occupazione più alti Confartigianato li registria in Valle d’Aosta con il 27,8%, in Emilia-Romagna con il 28,1%, in Lombardia con il 28,8%, in Veneto con il 30,2% e in Trentino-Alto Adige con 34,2%. La più bassa occupazione dei giovani tra 15 e 24 anni in Campania con il 12,9%, in Calabria con il 13,4%, Basilicata con 13,6%, Sicilia con 14,2% e Sardegna con il 15,5%.
(Beh, buona giornata).

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Come si dice in lingua greca “come mai sempre in culo agli operai”?

Luce verde di Bruxelles agli aiuti alla Grecia, che oggi ha presentato un piano «solido e credibile» per la Ue ma drastico per i cittadini e soprattutto per i lavoratori del settore pubblico che si vedranno tagliare indennità, 13ma e 14ma mensilità e congelare stipendi e pensioni.

Non ci saranno tagli salariali per il settore privato, ma saranno ridotti straordinari e indennità di licenziamento e resa più elastica la possibilità di mandare a casa i lavoratori. Il Paese è chiamato a fare «grandi sacrifici» per «evitare la bancarotta», ha detto oggi il premier greco Giorgio Papandreou, annunciando l’accordo tra governo, Commissione Ue, Bce e Fmi sul programma pluriennale di risanamento dei conti che farà guadagnare ad Atene gli aiuti della zona euro e del Fondo monetario, sotto forma di prestiti bilaterali.

L’ammontare degli aiuti – che per il ministro francese dell’Economia Christine Lagarde sarà tra i 100 e i 120 miliardi di euro su tre anni – sarà annunciato oggi a Bruxelles nella riunione straordinaria dell’Eurogruppo dedicata all’attivazione del meccanismo di aiuti per Atene. Secondo il piano di austerity che ha presentato oggi il ministro delle finanze Giorgio Papaconstantinou, l’Iva sarà aumentata del 2% e arriverà fino al 23%. Saliranno poi del 10% le tasse su carburanti, alcolici e sigarette e aumenteranno anche quelle sui beni di lusso e sulle lotterie. In tutto, il governo prevede di risparmiare 30 miliardi di euro fino al 2012 – oltre i 4,8 miliardi già annunciati per il 2010 – e di ridurre il deficit dall’attuale 14% sotto il 3% del Pil entro il 2014.

Per la Commissione Ue, il piano di rigore che non ha precedenti in Eurolandia è «solido e credibile» e gli aiuti sono «decisivi per la stabilità della zona euro». Perciò il presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, ha chiesto ai ministri di attivare il meccanismo di prestiti, che per Papandreou salveranno il Paese dalla bancarotta. Si tratta, per il ministro delle Finanze greco, della cifra più alta mai concessa ad un Paese, che proteggerà Atene dall’esposizione sui mercati fino al 2012. L’accordo, ha spiegato Papandreou, comporterà «grandi sacrifici» per i greci. «Si tratta di sacrifici duri ma necessari, senza i quali la Grecia farebbe fallimento», e «evitare la bancarotta è la linea rossa» che il governo non vuole oltrepassare, ha aggiunto il premier socialista.
(Beh, buona giornata).

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Artefice della crisi greca è una classe politica poco seria e una delle banche d’affari più famose al mondo: Goldman Sachs. Investitori e cittadini vengono frodati da chi dovrebbe proteggerli e nessuno se ne accorge perché è facile muoversi sotto il radar dei controlli finanziari.

di Loretta Napoleoni-www.caffe.ch/news/firme/47284.

Finanza ed economia sono invischiate in una singolare catena di Sant’Antonio. Percorriamola a ritroso. Questa settimana la Grecia, che da un mese é sull’orlo della bancarotta, ha chiesto aiuto al Fondo Monetario. Ha un buco finanziario di 300 miliardi di euro. Sembra una storia degli anni ‘70 quando il FMI era l’autoambulanza delle agonizzanti economie occidentali colpite dall’epilessia energetica.

Artefice della crisi greca é una classe politica poco seria e una delle banche d’affari più famose al mondo: Goldman Sachs che in cambio di lauti compensi ha manipolato i conti dello stato facendoli apparire molto più solidi di quello che erano. L’equivalente insomma del falso in bilancio di un’impresa. Eppure per decenni questa banca ha fornito al Tesoro americano spavaldi ministri delle finanze, gente che ha svolto anche e sopratutto un’attivita’ di controllo e regolamentazione del sistema finanziario.

La scorsa settimana la Sec, la Security and Exchange Commission statunitense, ha accusato Goldman Sachs di frode nei confronti di altri clienti, l’accusa e’ di essersi approffittata dei propri clienti nella formazione e vendita di un fondo di mutui spazzatura americani con la complicità di un grosso hedge fund di Wall Street.

A gennaio uno studio di avvocati di Pasadena, in California, ha citato in giudizio per frode 5 membri della Sec. Tra il 2004 ed il 2007 avrebbbero archiettato vendite di azioni fittizie utilizzando una società finanziaria canadese per un valore di quasi 3 miliardi di dollari.

Se volessimo potremmo continuare il nostro viaggio a ritroso, ma bastano questi fatti per farci capire che il problema attuale dell’economia e della finanza occidentale é il sistema di controllo. Ebbene il presidente Obama questa settimana ha presentato il tanto atteso programma di riforma finanziaria, peccato che non aiuti a riparare questa falla.

Investitori e cittadini vengono frodati da chi dovrebbe proteggerli e nessuno se ne accorge perché é facile muoversi sotto il radar dei controlli finanziario. Esistono troppi organi preposti tutti con poteri limitati, nessuno ha dunque una visione di grand’angolo e nessuno ha le risorse per fare bene il suo lavoro. Il presidente Obama vorrebbe allargare il numero dei controllori, propone addirittura di un organo gestito dai consumatori all’interno della Riserva federale con i poteri di regolarne i prestiti alle banche. Perché non razionalizzare invece l’intero sistema e creare un’unica e potentissima istituzione? Perche’ per far passare la riforma finanziaria Obama ha bisogno dell’approvazione del Congresso dove non ha una maggioranza schiacciante. E la sua riforma piace poco.

Difficle dunque mettere fuori legge la catena di Sant’Antonio della finanza globalizzata. La limitazione che il presidente vorrebbe imporre alle banche, e cioé l’obbligo di giocarsi in borsa soltanto i soldi propri o quelli dei clienti consenzienti, sarebbe auspicabile ma bisognerebbe verificare come questo consenso viene raggiunto. Anche il contenimento dell’investimento bancario negli hedge funds e nelle società di private equities necessita di un controllo statale capillare Persino che al momento non é possibile. Persino il contenimento dell’attività dei i lobbisti, i grandi burattinai di Washington, ha bisogno di un rigido sistema di controllo. Ma concepire un organo in grado di ‘spiare’ il comportamento dei membri del Congresso sarebbe inconcepibile in America. Il problema quindi persiste: chi controlla i controllori? (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

L’Italia dell’Era Berlusconi: disoccupazione 8,8%; disoccupazione giovanile 27,7%, la più alta d’Europa. Proprio un bel Primo Maggio!

Solo in un anno, da marzo 2009 a marzo 2010, sono stati persi 367 mila posti di lavoro. Si tratta di una riduzione consistente, spiega l’Istat, che in termini di percentuale si traduce in un calo dello 0,2 per cento rispetto a febbraio e dell’1,6 per cento rispetto a marzo 2009. Il tasso di occupazione è così pari al 56,7% (inferiore, rispetto a febbraio, di 0,1 punti percentuali e di 1,1 punti percentuali rispetto a marzo dell’anno precedente). Il numero delle persone in cerca di occupazione risulta pari a 2 milioni 194 mila unità, in crescita del 2,7% (+58 mila unità) rispetto al mese precedente e ben del 12% (+236 mila unità) rispetto a marzo 2009.

Il tasso di disoccupazione, invece, si innalza ai massimi dal secondo trimestre del 2002: sempre secondo l’Istat, si è attestato a marzo all’8,8%, lo 0,2% in più rispetto al mese precedente e l’1% rispetto a marzo 2009. In forte rialzo anche il tasso di disoccupazione giovanile, pari al 27,7%, in calo dello 0,4% rispetto al mese precedente e in aumento di 2,9 punti percentuali rispetto a marzo 2009. Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

Partigiani dei lavoratori.

di Marco Ferri – da 3D n. 12 del 24 aprile 2010. (pubblicato anche da megachipdue.info).

I lavoratori di Eutelia hanno ottenuto, da un tribunale, che l’azienda vada in amministrazione controllata. Per vie legali. Questo vuol dire che potrebbero accedere alla cassa integrazione. C’è chi parla di vittoria. Va bene. Ma va davvero bene? No.

Se i diritti dei lavoratori di questo nostro Paese sono legati alle tecnicalità delle leggi amministrative, è difficile pensare a un traguardo, figuriamoci a una vittoria politica e sindacale. È, invece, la misura, per altro colma, di come venga trattato il lavoro salariato nell’Era del berlusconismo, che altro non è che la faccia grottesca del neo liberismo in economia, politica, relazioni industriali.

Tuttavia si deve gioire per il destino dei lavoratori di Eutelia, non per convinzione, ma per obbligo. Ma è anche un obbligo ricordare che questo Paese deve molto ai lavoratori. La classe operaia ha decisamente contribuito alla nascita della nostra democrazia. Lo sciopero nelle fabbriche del nord Italia nel marzo del 1943 aprì la strada alla Resistenza. Gli operai furono attivi protagonisti della lotta partigiana fino a salvare le fabbriche, impedendo che fossero distrutte durante la ritirata degli occupanti nel ‘45. La nostra Costituzione dà un riconoscimento formale e sostanziale al ruolo dei lavoratori: è nell’art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul Lavoro”.

Nel dopoguerra, la classe operaia italiana ha partecipato alla ricostruzione, ha dato impulso alla democrazia, ha abbattuto le gabbie salariali, cioè la divisione dei salari per aree geografiche. La classe operaia in Italia ha fatto da barriera invalicabile contro tutti i tentativi golpisti degli anni ‘70. Ha ottenuto lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori. La classe operaia ha favorito l’integrazione delle grandi emigrazione dal sud, ha gestito la grande incazzatura degli studenti del ‘68, le rivendicazioni femministe, e, più recentemente, le istanze degli immigrati di prima e seconda generazione. La classe operaia in Italia è stata capace di far volare fino al cielo della politica la Sinistra, per poi punirla e appoggiare la Lega al nord: una ricerca della Fiom di Brescia ha svelato che la maggioranza dei suoi tesserati è anche iscritta alla Lega Nord di Bossi.

Gli echi del 25 Aprile, festa della Liberazione, suonano così, quest’anno. Non si può dimenticare il contributo dei lavoratori alla nascita della democrazia. Ma non si deve dimenticare che il progressivo disinteresse alla condizione materiale del Lavoro è in Italia il maggior alleato “oggettivo” alla Vandea berlusconista.

È in questo contesto che la lotta dei lavoratori di Eutelia va valutata. Non sottovalutata.
(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La cifra della comunicazione delle cifre.

Durante i mesi duri e bui della grande crisi economica che ha sconvolto il mondo globalizzato, la tendenza a tenere nascosti i dati preoccupanti è stata palese, per certi versi sfacciata. Lo hanno fatto i governi, figuriamoci se non lo dovevano fare le agenzie di pubblicità. Certo, ci sono stati anche momenti grotteschi: ‘in controtendenza con l’andamento del mercato’ si citavano risultati a due cifre, contemporaneamente si mandavano via persone, però, coerentemente, anche i tagli sono stati a due cifre.

Qualche settimana fa, ho letto una dichiarazione del CEO di un’agenzia italiana, il quale sosteneva di aver chiuso il 2009 con un + 50%, nonostante la sua agenzia non avesse fatto alcuna nuova acquisizione nel corso dell’anno. Sono rimasto di sasso: il nostro eroe deve aver finalmente inventato la pietra filosofale, quella che gli alchimisti hanno cercato inutilmente per tutto il Medio Evo, quella, per intenderci che si credeva potesse ‘creare’ l’oro. Complimentoni. Chissà che marca di alambicchi ha usato.

Comunque, poiché siamo nella stagione delle trimestrali, cominciano a circolare i dati relativi ai primi tre mesi dell’anno. Siccome va sempre e comunque di moda ‘l’ottimismo’ vedremo rispuntare segni più. Che però non sono del tutto veri. Cito a memoria la trimestrale di un noto network, potrei sbagliare di qualche decimale: a fronte di una chiusura 2009 negativa del 8,4%, il noto network in questione dichiara un +1,5 nei primi tre mesi del 2010. Urca, dirà qualcuno, che bravi. E no, cari miei: o nella notte di Capodanno tra il 2009 e il 2010, magicamente si sono recuperati 8,4 punti di svantaggio, per poi salire a 1,5, oppure, quel +1,5 va semplicemente sottratto al l’8,4. Risultato? Chiuso l’anno con- 8,4 si riparte da +1,5, cioè da -7,3.

Certo questi trucchetti di tipo cosmetico vengono fatti anche dai ministri dell’Economia dei paesi sottoschiaffo per la crisi. In Italia, per esempio, l’anno si chiude con un rapporto deficit-Pil a -5,5%. Siccome c’è chi sostiene che nel 2010 ci potrebbe essere una ripresa dello 0,5, vorrà dire che invece che -5,5, il risultato sarà di -5%. Dice: però non è carino dirlo così all’opinione pubblica. Meglio dirgli che c’è una crescita, piuttosto che una riduzione delle perdite. Fate un po’ come volete, ma, come diceva Totò, ‘è la somma che fa il totale’. Beh, buona giornata.

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Il Gruppo Espresso muove i primi passi fuori dalla quarta crisi?

Si è riunito ieri Il Consiglio di Amministrazione di Gruppo Editoriale L’Espresso, presieduto da Carlo De Benedetti, che ha approvato i risultati consolidati del primo trimestre dell’esercizio 2010.

I ricavi netti consolidati del Gruppo nel primo trimestre 2010 ammontano a 213,6 mln di euro, importo sostanzialmente in linea (-0,7%) con quello registrato nel corrispondente periodo dell’esercizio precedente (215,0 mln). Al netto dei prodotti opzionali, il fatturato registra una crescita del 6,5%. I ricavi diffusionali, esclusi i prodotti opzionali, sono pari a 65,3 mln, in linea con i 65,8 mln del corrispondente periodo dell’esercizio precedente.

Sul fronte della diffusione, La Repubblica e L’espresso hanno registrato leggeri incrementi delle vendite in edicola. Le diffusioni complessive mostrano, invece, una flessione interamente imputabile alla soppressione della distribuzione promozionale, ancora in vigore nel primo trimestre del 2009, ad alberghi e scuole (per queste ultime è stato sviluppato un servizio internet dedicato).

I ricavi pubblicitari, pari a 121,6 mln, sono cresciuti dell’11,2% rispetto al primo trimestre 2009. La raccolta sui mezzi del Gruppo, escludendo quindi i mezzi di terzi e le nuove concessioni acquisite, è aumentata dell’8,4%. La raccolta delle radio del Gruppo registra nel trimestre una crescita a due cifre (+24,4%. Anche la stampa mostra un’evoluzione positiva (+5,2%) che interessa sia i quotidiani che i periodici. Infine, la raccolta su internet è aumentata del 18,7%.I ricavi dei prodotti opzionali ammontano a 22,8 mln, in calo del 36,3% rispetto al corrispondente periodo del 2009.

I costi operativi totali sono stati ridotti del 9,1% rispetto al primo trimestre del 2009, andamento che, considerati i risparmi già conseguiti nel primo trimestre del 2009, è in linea con l’obiettivo del piano che prevede un taglio complessivo dei costi del 17% rispetto all’esercizio 2008 (base di riferimento per la formulazione del piano di riorganizzazione aziendale). Il margine operativo lordo consolidato è pari a 30,4 mln (16,7 mln nel primo trimestre 2009) ed il risultato operativo consolidato è pari a 21,2 mln (6 mln nel primo trimestre del 2009).

In definizione lo sbarco, a maggio, di Repubblica sull’iPad. (Beh, buona giornata).

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Telecom Italia manda via 6.800 dipendenti, mentre l’amministatore delegato si è aumentato lo stipendio del 75% (3,4 milioni di euro annui). E agli azionisti un miliardo di euro di dividendi.

Telecom, annunciati 4.500 nuovi tagli- In 5 anni 13mila lavoratori a casa
Critiche della Cgil: solo un piano finanziario e non industriale-ilmessaggero.it

Un taglio di 6.800 posti di lavoro: è questo il piano annunciato da Telecom Italia ai sindacati da realizzare entro il 2012. Erano 2.300 i tagli già previsti dall’azienda (ma non erano ancora stati realizzati) nei precedenti piani, 4.522 sono invece gli ulteriori tagli, frutto dell’aggiornamento piano industriale presentato lo scorso 13 aprile. «Si tratterebbe, se prendiamo in esame il quinquennio 2008-2012, – sottolinea Emilio Miceli, segretario dello Slc-Cgil – di 13.000 esuberi complessivi, il 20% dei lavoratori dell’azienda in Italia».

Cgil: piano finanziario e non industriale. Il piano è stato presentato oggi dal copo delle risorse umane Antonio Migliardi. Domani è attesa una nota congiunta mentre il 26 aprile è stato convocato il coordinamento nazionale unitario del gruppo, durante il quale verranno esaminate le decisioni dell’azienda e decise le eventuali forme di lotta. «La cosa più insopportabile – spiega Miceli – è che l’obiettivo è quello di poter giungere ad un aumento del dividendo e alla riduzione del debito di 5 miliardi: nessun cliente in più, nessun piano di rilancio, nessun investimento per innovare». Si tratta secondo Miceli di «un piano finanziario e non industriale», senza prospettiva di rilancio, che va a colpire «solo la parte più debole dell’azienda». Piano apprezzato invece dai mercati come sostiene Gaetano Miccichè, direttore generale di Intesa Sanpaolo (azionista di Telecom).

Bernabé aveva annunciato snellimento. In occasione della presentazione dell’aggiornamento del piano, l’amministratore delegato Franco Bernabè, che quest’anno ha visto il suo stipendio toccare i 3,4 milioni di euro (un ritocco all’insù del 75% sul 2009), aveva preannunciato l’intenzione di “snellire” l’azienda per permettere agli investitori una progressiva diminuzione del debito e un contestuale aumento dei dividendi dopo che quest’anno i soci si sono divisi 1 miliardo di euro in cedole, su un utile di 1.581 milioni di euro (in calo di quasi 600 milioni sul 2008). Beh, buona giornata

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L’Italia può dare l’addio a Capitan Findus.

Unilever prepara vendita Findus Italia. In pericolo 600 posti di lavoro a Cisterna
Il 26 incontro con i sindicati. Tra le società interessate la Permira. Operazione tra i 600 e 700 milioni di euro-il messaggero.it

Il gruppo anglo-olandese Unilever sarebbe sul punto di cedere la Findus Italia. Ad affermarlo diverse agenzie straniere citando fra i principali interessati all’acquisizione i gruppi di private equity Permira e Lion Capital, e la BC Partners. L’operazione viene valutata dagli analisti tra i 600 e i 700 milioni di euro.

Trattative dalla prossima settimana. Goldman Sachs è la società incaricata di curare l’operazione e, stando ad alcune indiscrezioni, già la prossima settimana Unilever potrebbe avviare la trattativa.

L’allarme dei sindacati a Cisterna. Le voci su una possibile cessione dello stabilimento Findus di Cisterna di Latina, dove sono occupati circa 600 lavoratori e dove si producono surgelati e i famosi Quattro salti in padella da tempo allarmavano i sindacati. Il prossimo 26 aprile è previsto un incontro fra sindacati e Unilever sul futuro delle attività italiane del gruppo.

Fra i possibili pretendenti alla Findus Italia ci sarebbero, sempre secondo quanto riferisce Reuters, anche la BC Partners già proprietaria della francese Picard, distributore di cibi surgelati e la Pai Partners che ha nel suo portafoglio United Biscuits e Yoplait. La società europea di privare equity Permira, data fra le favorite, ha nel suo portafoglio il gruppo di surgelati Birds Eye Iglo, mentre Lion Capital è titolare di Findus Group quest’ultimo però non ha legami con Findus Italia. Findus Group prima di passare a Lion Capital era infatti di proprietà della Nestlè. Unilever, che fra l’altro produce il tè Lipton e lo shampoo Sunsilk, del suo business europeo dei cibi surgelati ha finora mantenuto solo Findus Italy, dopo aver ceduto nel 2006 Birds Eye e Iglo a Permira per 1,7 miliardi di euro.
(Beh, buona giornata).

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