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La bolla speculativa del Vaticano: “Nel corso degli anni si è progressivamenbte fatta strada la consapevolezza della necessità di migliorare la redditività del patrimonio immobiliare e finanziario”

Inchiesta G8, il Vaticano su Propaganda Fide:”Sono stati fatti errori di valutazione”-repubblica.it

In una lunga nota, la Santa Sede ha difeso oggi la “buona fama” del Dicastero per l’evangelizzazione dei popoli, già Propaganda Fide, pur ammettendo che esso, nell’amministrazione del proprio patrimonio immobiliare, può “essere esposto ad errori di valutazione e alle fluttuazioni del mercato internazionale”.

Propaganda Fide è finita nell’inchiesta sulla “cricca degli appalti”, in relazione alla gestione avvenuta sotto la guida del cardinal Crescenzio Sepe, dal 2001 al 2006, attualmente indagato per “corruzione” dai magistrati di Perugia.

Nel corso ”degli ultimi anni – si legge nella nota del Vaticano – si è progressivamente fatta strada la consapevolezza della necessità di migliorare la redditività” del patrimonio ”immobiliare e finanziario” di Propaganda Fide e, a questo scopo, ”sono state istituite strutture e procedure tese a garantirne una gestione professionale e in linea con gli standard più avanzati”.

Lo spiega una nota della Sala Stampa vaticana diffusa oggi per spiegare il funzionamento e i compiti della Congregazione dopo le recenti notizia giudiziarie che hanno coinvolto anche l’ex-prefetto, l’arcivescovo di Napoli card. Crescenzio Sepe. (Beh, buona giornata).

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L’Italia fa fiasco nel calcio. Nella politica. Nell’economia. Nella democrazia. Nella giustizia. Nei conti pubblici. Nella disoccupazione.L’Italia fa fiasco nel governo.

La stampa straniera ci deride, L’Equipe: “Italia, l’altro fiasco”-tgcom.com
Un misto di ironia e triste realtà nei titoli dei quotidiani online dopo la debacle azzura ai Mondiali sudafricani. I francesi de L’Equipe titolano “Italia, l’altro fiasco” riferendosi proprio alla loro eliminazione. In Spagna Marca titola in italiano: “Arrivederci Italia” e As: “Ridicolo Italia, fuori dal Mondiale”. Il Sun scrive anche: “Arrivederci”. Infine Bild: “Italien raus, quelli che nel 2006 hanno fatto kaputt della nostra estate di sogno”.

In Italia La Gazzetta dello Sport scrive “A casa con vergona”, mentre Tuttosport non ha dubbi. C’è un solo colpevole: Lippi. Il Corriere dello Sport titola: “Italia che vergogna, fuori e ultima nel girone”. Passando ai generalisti. “Mai così brutti: l’Italia torna a casa” scrive La Repubblica e Il Corriere della Sera: “Italia, addio al Mondiale”. Infine La Stampa: “Naufragio Italia, si torna a casa”. (Beh, buona giornata).

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A Pomigliano lo scontro capitale-lavoro all’epoca della globalizzazione della crisi econimica: “Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.”

A Pomigliano comincia l’epoca dopo Cristo, di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it
TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n’è una che è d’una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: “Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa”.
Il dopo Cristo per l’amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un’epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.

In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare. I sindacati che hanno firmato l’accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d’un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l’hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell’opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.

Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l’apripista d’un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.

Chi pensa di fermare l’alta marea costruendo un muro che blocchi l’oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell’opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?

Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l’obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell’epoca “prima di Cristo” debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell’epoca del “dopo Cristo”. Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.

Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall’emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l’inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, “buscando el levante por el ponente”, cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.

C’è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall’Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all’esame del G8 e del G20 appositamente convocati. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell’Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l’ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.

La Cina ha già risposto positivamente; l’Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell’Eurozona le seguenti domande: “Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell’Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l’entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell’occhio del ciclone?” (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all’interno dei paesi. Non c’è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.

Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell’articolo 41 della nostra Costituzione.
Quell’articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell’urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell’abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l’abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l’intento di stravolgere l’architettura democratica del patto sociale.

Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all’Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l’ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti. (Beh, buona giornata).

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Come la crisi economica diventa la crisi della democrazia occidentale.

Con la crisi democrazie a rischio, di Barbara Spinelli, la Stampa, 20 giugno 2010

In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.

Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato – l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 – ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».

La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l’altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.

Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro(…) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).

La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.

È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.

In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali.

Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma – quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi – sta precipitando».

Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.

La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.

Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.

L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica. (Beh, buona giornata).

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Non metteremo le mani nella tasche degli italiani? Ecco le conseguenze della manovra economica del governo, e la sudditanza politica della nuova giunta della Regione Lazio.

(fonte: ilmessaggero.it)
«Lo tsunami è arrivato – dice il capogruppo Pd alla Regione Lazio, Esterino Montino – L’aumento delle aliquote irpef e Irap oltre l’aliquota massima già in vigore dal 2006 è un dato di fatto.

Lo ha confermato oggi un autorevole esponente Pdl, esperto delle questioni legate alla sanita del Lazio. Putroppo è solo un carissimo antipasto che preleverà dalle tasche e dai bilanci delle imprese del Lazio 330 milioni.

A breve, infatti, e cioè dopo il 30 giugno, come scritto sui decreti del Commissario ad acta, seguiranno l’introduzione di ulteriori ticket su medicinali e specialistica e quello sul pronto soccorso.

Se a questo regalo della Polverini si aggiunge quello preparato dal sindaco Alemanno che prevede un ulteriore aumento dell’Irpef, raddoppio della retta per le mense scolastiche, e dal 2011 anche rinacari del biglietto metrebus e degli abbonamenti per il trasporto pubblico, si arriva ad un prelievo dalle tasche di cittadini e imprese di oltre 2 miliardi, vuol dire che si è deciso di affossare questa Regione.

Constato con profonda amarezza che l’unico atto di governo del centrodestra quando amministra è l’introduzione delle tasse. L’aumento di quelle regionali del 2006, infatti, derivò automaticamente dall’enorme disavanzo, 11 miliardi, prodotto per il 90% dalla stessa coalizione che governa oggi e di cui faceva parte il nuovo assessore Ciocchetti.

Siamo di fronte ad una stangata storica, proprio nel momento in cui la crisi morde di piu il tessuto produttivo regionale, proprio nel momento in cui aumentano i disoccupati.

L’aumento ulteriore delle aliquote Irpef e Irap regionali si poteva evitare. A febbraio la precedente amministrazione regionale aveva inoltrato richiesta formale dei Fondi Fas (Fondi aree sottoutilizzate, ndr) per coprire il disavanzo 2009.

L’impegno delle parti era che, a fronte della consegna dei provvedimenti richiesti, in particolare firma dei contratti e budget delle strutture private accreditate e piano di riordino della rete ospedaliera, quelle risorse sarebbero state disponibili. I due atti erano pronti. La data ultima per provvedere allo sblocco era quella del 19 maggio.

La Presidente bucò deliberatamente quell’appuntamento, e, nonostante fosse stata nominata Commissario un mese prima, il 23 aprile, non consegnò alcun documento, chiudendo cosi la possibilità di utilizzare le risorse Fas e aprendo la strada all’aumento delle tasse.

Non aver evitato il nuovo salasso è dunque responsabilità diretta, assoluta e documentata della presidente Polverini che è stata impegnata, e lo è ancora, a formare la sua Giunta: la più cara d’Italia e con assessori Avatar al posto degli eletti dal popolo. Si è toccato il fondo». (Beh, buona giornata.

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A Pomigliano la Fiat tenta di andare a mille contro gli operai. Intanto la 500 la fanno in Polonia.

(fonte: Agenzia Ansa).
”Marchionne la smetta e si vergogni”: cosi’ Giorgio Cremaschi ha replicato all’ad Fiat che aveva attaccato i sindacati. ”Se ci riesce – ha detto il segretario della Fiom – impari a fare l’imprenditore per tutti quegli industriali meno famosi e ricchi di lui che riescono a farlo in Italia rispettando leggi, contratti e Costituzione”. Marchionne aveva detto: ”A Termini Imerese si e’ scioperato perche’ giocava l’Italia e cosi’ si fa a Pomigliano e negli altri stabilimenti”.
Beh, buona giornata.

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Stanno “usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate.”

L’alternativa a Marchionne, di Guido Viale – il manifesto.

Non c’è alternativa. Questa sentenza apodittica di Margaret Thatcher per la quale è stato creato anche un acronimo (Tina: there is no alternative) è la silloge del cosiddetto «pensiero unico» che nel corso dell’ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno «scientifiche» da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (a parole, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche);

poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell’industria dai piedi d’argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio, usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate. Così la ricetta che non contempla alternative oggi è libertà dell’impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall’art. 41 della Costituzione italiana.

A enunciarlo in forma programmatica è stato Berlusconi, subito ripreso dal ministro Tremonti e, a seguire, dall’autorità sulla concorrenza, che non ha mai mosso dito contro un monopolio. A tradurre in pratica quella ricetta attraverso un aut aut senza condizioni, subito salutato dagli applausi degli imprenditori giovani e meno giovani di Santa Margherita Ligure, è stato l’amministratore delegato della Fiat, il Valletta redivivo del nuovo secolo. Eccola. Limitazione drastica (e anticostituzionale, ma per questi signori la Costituzione va azzerata; e in fretta!) del diritto di sciopero e di quello di ammalarsi.

Una organizzazione del lavoro che sostituisce l’esattezza cronometrica del computer alla scienza approssimativa dei cronometristi (quelli che un tempo alla Fiat si chiamavano i «vaselina», perché si nascondevano dietro le colonne per spiare gli operai e tagliargli subito i tempi se solo acceleravano un poco per ricavarsi una piccola pausa per respirare). Una turnazione che azzera la vita familiare, subito sottoscritta da quei sindacalisti e ministri che due anni fa erano scesi in piazza per «difendere la famiglia»: la loro, o le loro, ovviamente. È un ricatto; ma non c’è alternativa. Gli operai non lo possono rifiutare e non lo rifiuteranno, anche se la Fiom, giustamente, non lo sottoscrive. L’alternativa è il licenziamento dei cinquemila dell’Alfasud – il «piano B» di Marchionne – e di altri diecimila lavoratori dell’indotto, in un territorio in cui l’unica vera alternativa al lavoro che non c’è è l’affiliazione alla camorra.

Per anni, a ripeterci «non c’è alternativa» sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari e soprattutto bancarottieri. Adesso, forse per la prima volta, a confermarlo con un referendum, sono chiamati i lavoratori stessi che di questo sopruso sono le vittime designate. Ecco la democrazia del pensiero unico: votate pure, tanto non c’è niente da scegliere.

Effettivamente, al piano Marchionne non c’è alternativa. Nessuno ci ha pensato; neanche quando il piano non era ancora stato reso pubblico. Nessuno ha lavorato per prepararla, anche quando la crisi dell’auto l’aveva ormai resa impellente. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato necessario averne una, anche se era chiaro da anni che prima o poi – più prima che poi – la campana sarebbe suonata: non solo per Termini Imerese, ma anche per Pomigliano.

Ma a che cosa non c’è alternativa? Al «piano A» di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano – e vendano – sei milioni di auto all’anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.

Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all’«opinione pubblica» e al paese, è invece subordinato alla «ripresa» del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all’anno. Come dire: «il piano A» non si farà mai.

Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l’entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l’ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all’anno: il doppio delle vendite pre-crisi. Un’autentica follia.

Dunque il «piano A» non è un piano e non si farà. L’alternativa in realtà c’è, ed è il «piano B». Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e governo (che agli «errori» delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l’impianto – cosa tutt’altro che scontata – a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non «tirerà» come si era previsto

Hai voglia! Il mercato europeo dell’auto è in irreversibile contrazione; l’auto è un prodotto obsoleto che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: «tirano», per ora, solo i paesi emergenti – fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch’essi – ma le vetture che si vendono là non sono certo quelle che si producono qui: né in Italia né in Polonia.

Anche se la cosa non inciderà sulle scelte dei prossimi mesi, è ora di dimostrare che non è vero che non c’è alternativa.

L’alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo – e dei nostri consumi – a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l’automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all’efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all’agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all’edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro – e persino le emissioni a un certo punto verranno tassate – mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l’inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall’efficienza nell’uso dell’energia.

L’industria meccanica – come quella degli armamenti – può essere facilmente convertita alla produzione di pale e turbine eoliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione. Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare – densificando l’abitato – dalle fondamenta.

Ma chi finanzierà tutto ciò? Se solo alle fonti rinnovabili fosse stato destinato il miliardo di euro che il governo italiano (peraltro uno dei più parsimoniosi in proposito) ha gettato nel pozzo senza fondo delle rottamazioni, ci saremmo probabilmente risparmiati i due o tre miliardi di penali che l’Italia dovrà pagare per aver mancato gli obiettivi di Kyoto. Ma anche senza incentivi, le fonti rinnovabili si sosterranno presto da sole e i flussi finanziari oggi instradati a cementare il suolo, a rendere irrespirabile l’aria delle città, impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni per rendere sempre più sterili i suoli agricoli, a sostenere un’industria delle costruzioni che vive di olimpiadi, expo, g8, ponti fasulli e montagne sventrate potranno utilmente essere indirizzati in altre direzioni. È ora di metterci tutti a fare i conti!

Ma chi potrà fare tutte queste cose? Non certo il governo. Né questo né – eventualmente – uno di quelli che abbiamo conosciuto in passato; e meno che mai la casta politica di qualsiasi parte. Continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita e stanno riportandoci all’età della pietra. La conversione ecologica si costruisce dal basso «sul territorio»: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città.

Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato «spazio pubblico», senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell’attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative: dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali.

E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas (non ci sono solo i «giovani imprenditori» di Santa Margherita); e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.
Il tessuto sociale di oggi non è fatto di plebi ignoranti, ma è saturo di intelligenza, di competenze, di interessi, di saperi formali e informali, di inventiva che l’attuale sistema economico non sa e non vuole mettere a frutto.

Certo, all’inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l’organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?
(Beh, buona giornata).

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La Fiat porta Pomigliano d’Arco in Polonia: localizza la delocalizzazione.

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2010

Marchionne e Tremonti, con l’imposizione del “modello Pomigliano”, vogliono dimostrare a tutti i costi (costi pesantissimi, per gli operai) che aveva ragione il vecchio Marx a sostenere che il sistema capitalistico, per massimizzare il profitto, tende a precipitare il salario del lavoratore al minimo necessario per la mera riproduzione fisica della forza-lavoro. Per dirla in soldoni, a salari di fame.

Qualche operaio, che pure si appresta a subire il diktat di Marchionne, ha detto che saranno condizioni di lavoro “da schiavi”. Si sbaglia, ma solo perché in Italia ci sono le condizioni di lavoro-schiavitù di Rosarno. Verso le quali tenderanno comunque le condizioni di tutti i lavoratori salariati, se verrà interiorizzata – come sempre più avviene anche presso coloro che ne sono vittime – la “sovranità della globalizzazione”.

La cui logica è semplice: i capitali, nel senso finanziario e degli impianti, possono spostarsi liberamente, e così anche la forza-lavoro necessaria, ma senza portarsi dietro i diritti e le conquiste, salariali e non, che i lavoratori hanno ottenuto in un paio di secoli di lotte. In questo modo è lapalissiano che le condizioni dell’operaio italiano si avvicineranno progressivamente, e con ritmi che diventano sempre più rapidi, a quelle dell’operaio di Shanghai o bene che vada di Bucarest, visto che il padrone altrimenti trasloca l’intera produzione nei paesi dove il salario è letteralmente da “fame” e i diritti sindacali un miraggio.

Se la “profezia” di Marx risultò clamorosamente sbagliata fu infatti solo perché le lotte dei lavoratori, e dell’opinione pubblica che le appoggiò, portò i governi a imporre camicie di forza al “capitale” e al grado di plusvalore che potesse essere spremuto lecitamente dalla forza lavoro. Le otto ore, per dire, la proibizione del lavoro minorile, e poi le condizioni igieniche, di sicurezza, la tutela dei sindacalisti, fino insomma allo “statuto dei lavoratori”.

Il “modello Pomigliano” di tutto questo fa carta straccia (con gli straordinari ad libitum l’orario vero diventa di oltre nove ore giornaliere). Ma passerà, se continuerà la “guerra tra poveri”, precari contro occupati, disoccupati contro precari, e tutti contro gli immigrati. Perché la ricchezza complessiva in Italia continua a crescere, seppure in modo rallentato, ma cresce a dismisura la sua distribuzione diseguale. Contro questa esplosione del privilegio dovrebbero unirsi le vittime della crisi, anziché ingrassarne i responsabili dividendosi. (Beh, buona giornata).

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Formigoni sbugiarda Berlusconi: “Questa manovra economica mette le mani nelle tasche degli italiani”.

(fonte: blitzquotidiano.it)
“Se la manovra non cambia saremo costretti a tagliare i servizi o ad aumentare le tasse, cioé a mettere le mani nelle tasche dei cittadini. E’ il contrario della politica che il centrodestra sostiene”. E’ quanto afferma il Governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, in una intervista a Repubblica in cui spiega che “gli sprechi sono a Roma, non nelle regioni virtuose”.

Secondo Formigoni occorre “dividere i tagli per i quattro comparti pubblici: ministeri, Regioni, Province e Comuni. Una modifica elementare che renderebbe la manovra sopportabile”. In caso contrario, rileva, “gli effetti ricadrebbero sui contributi alle imprese, sul trasporto locale, l’ambiente e la scuola. Proprio i capitoli di spesa che passeranno alle Regioni con il federalismo”.

Formigoni dice di non contestare la manovra, né la sua entità, ma precisa che “se i tagli saranno orizzontali, uguali per tutti, regioni virtuose e non, sarà come non aver cambiato nulla. Se lo Stato ci taglierà altri fondi saremo costretti a scegliere tra introdurre nuove tasse, tagliare i servizi o le strutture della sanità: tutte ipotesi. Beh, buona giornata

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Il governo ha mentito sulla crisi:” Il 60% degli italiani considera i problemi economici (disoccupazione e prezzi) prioritari, nell’agenda delle emergenze da affrontare.”

IL SONDAGGIO
Italia, sfida alla crisi.Il cattivo umore di un Paese
Nella rilevazione Demos-Coop emerge una maggiore ansia per l’economia e meno paura degli immigrati. Gli ultimi mesi hanno cambiato il termometro del Paese, di ILVO DIAMANTI-repubblica.it

L’economia e la società attraversano tempi duri. Come avviene da anni, per la verità. La differenza è che oggi gli italiani ne sembrano consapevoli. Dopo un lungo periodo durante il quale apparivano convinti che, comunque, sarebbero riusciti a superare anche questa crisi. Perché noi italiani “ce la caviamo sempre”, tanto più quando tutti ci danno per spacciati. Questa volta, però, qualche serio dubbio, al proposito, affiora. È ciò che suggerisce il sondaggio condotto da Demos-Coop per l’Osservatorio sul Capitale sociale.

Quasi il 60% degli italiani, infatti, considera i problemi economici (disoccupazione e prezzi) prioritari, nell’agenda delle emergenze da affrontare. Tre anni fa, questa componente della popolazione era di 20 punti più ridotta: il 37%. Un segno che il clima d’opinione sta cambiando in fretta. In peggio. La maggioranza degli italiani pensa, infatti, che, fino a ieri, il governo abbia mentito, sulla crisi. Ostentando un ottimismo fuori luogo.

Né consola il fatto che altrove, in Europa, le cose vadano peggio. Anzi, metà delle persone intervistate, non a caso, teme che anche da noi capiti quel che è successo in Grecia. Questo brusco cambiamento d’umore, come abbiamo sottolineato una settimana fa, dipende, sicuramente, dalla manovra finanziaria del governo. Che promette sacrifici molto duri, ai cittadini, dopo mesi e mesi di rassicurazioni. Ma il pessimismo è suggerito, soprattutto, dal peggioramento della condizione familiare. Che ha raggiunto livelli di guardia.

Il 18% degli italiani, nel sondaggio Demos-Coop, dichiara che, nella sua famiglia, qualcuno ha perso il lavoro (5 punti in più di due anni fa). Il 24% sostiene che un familiare è stato messo in cassa integrazione (il doppio rispetto al 2008). Infine, il 27% degli intervistati (5 punti in più di due anni fa) afferma di aver dovuto ricorrere a prestiti presso genitori, parenti oppure amici. Considerando questi segni di difficoltà, il 17% delle famiglie italiane appare in condizione di grave disagio. Due anni fa questa cerchia era già ampia, ma si fermava al 12%.

Un ulteriore 30% degli intervistati manifesta episodi di difficoltà familiare. Due anni fa era il 22%. Il profilo degli italiani in difficoltà economica risulta piuttosto chiaro. Si tratta di persone che risiedono, maggiormente, nel Mezzogiorno (anche se il peso della cassa integrazione è rilevante anche nel Nord). Di età media (40-55 anni), ma anche giovane (25-40 anni). Occupati (o disoccupati) come lavoratori dipendenti del settore privato. Ma le difficoltà colpiscono, in misura superiore alla media, anche i lavoratori autonomi.

Il montare della crisi economica e occupazionale ha largamente “saturato” lo spazio delle preoccupazioni, ridimensionando le paure suscitate dalla criminalità comune e dagli immigrati – perlopiù connessi, in un binomio inscindibile. L’atteggiamento verso gli immigrati, in particolare, sembra cambiato profondamente, sotto diversi profili.

Si è ridotta la quota di coloro che li percepivano come un pericolo per la sicurezza, ma anche per l’occupazione. Mentre si è ridotto il peso di chi vede negli stranieri una “minaccia all’identità e alla religione”. Parallelamente, è cresciuta la disponibilità a considerarli una risorsa per la nostra economia. Oltre che dalle preoccupazioni economiche, questo cambiamento del clima di opinione è stato favorito dalla minore intensità della campagna mediatica sui temi dell’immigrazione e della sicurezza (come mostrano i dati dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza).

Non vanno, tuttavia, trascurati gli effetti della diffusione dei rapporti con gli stranieri, messa in luce dall’Osservatorio Demos-Coop. Ci riferiamo alla crescente presenza degli stranieri nei luoghi di vita e di lavoro degli italiani. Come colleghi, amici, collaboratori, studenti, genitori di figli che studiano e giocano insieme ai nostri figli. Tutto ciò li ha resi meno “altri”, agli occhi degli italiani.

La crisi, tuttavia, può distogliere lo sguardo dal problema della sicurezza personale. Ma alimenta, comunque, la diffidenza. Tra gli italiani in maggiore difficoltà, infatti, la sfiducia nel futuro è molto superiore alla media. Ma anche la sfiducia negli altri e, in particolare, verso gli stranieri. Le persone in difficoltà economica familiare, infatti, risultano anche le meno tolleranti e disponibili verso gli immigrati. Percepiti come concorrenti. Nell’accesso al mercato del lavoro, ma anche ai servizi.

La percezione della crisi, tuttavia, sta indebolendo anche la fiducia nella politica. La quota di popolazione che esprime un giudizio positivo sull’operato del governo è, infatti, del 42% (il livello più basso degli ultimi 2 anni). Ma scende al 34% tra le persone in difficoltà economica e occupazionale. La stessa, esatta tendenza emerge nei confronti del premier: 42% di giudizi positivi nella popolazione; 34% nella componente sociale più precaria. Ma anche il consenso per Tremonti, che supera il 50% nella popolazione, tra i più “marginali” si riduce al 40%.

Si tratta di una novità. Visto che, negli ultimi anni, il governo Berlusconi aveva attraversato le crisi economiche senza pagare un prezzo significativo, dal punto di vista del consenso politico. Ora qualcosa si è rotto, in questo meccanismo.

Anche se ciò non implica, necessariamente, una svolta. Visto che il giudizio verso l’opposizione e il suo leader resta egualmente basso: nella popolazione come tra le persone socialmente in difficoltà. Il che suona come un avvertimento. Perché i mutamenti del sentimento sociale si traducano in termini elettorali occorre un’alternativa credibile e creduta. Che ancora non c’è. (Beh, buona giornata).

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L’Italia batte il record assoluto del debito pubblico. Complimenti al governo.

Debito pubblico a livelli record: ad aprile si è attestato a 1.812,790 miliardi di euro, il livello assoluto più alto mai raggiunto. Lo comunica la Banca d’Italia. A marzo si era attestato a 1.797,7 miliardi, mentre nell’aprile 2009 il debito pubblico ammontava a 1.749,28 miliardi di euro.

Dal supplemento al Bollettino Statitistico della Banca d’Italia emerge inoltre che le entrate sono in calo nei primi quattro mesi del 2010. Le entrate tributarie nel primo quadrimestre del 2010 si sono attestate infatti a quota 104,794 miliardi di euro, in calo dell’1,86% rispetto ai 106,787 miliardi registrati nel primo quadrimestre 2009. Nel solo mese di aprile le entrate, calcolate da via nazionale con il metodo della cassa, sono state pari a 25,122 miliardi (25,771 miliardi ad aprile 2009). Beh, buona giornata.

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Per rilanciare l’economia italiana, cambiamo governo non la Costituzione.

Lasciate in pace la Costituzione, per liberalizzare sfidate le corporazioni, di Romano Prodi-ilmessaggero.it

Non posso nascondere di essermi sorpreso quando qualche giorno fa ho letto che, per dare un contributo alla liberalizzazione della nostra economia, bisognava assolutamente modificare l’articolo 41 della nostra Costituzione. Anche se già lo conoscevo, mi sono tuttavia preso cura di rileggere il suddetto articolo che, come tutti gli articoli della prima parte della nostra Carta fondamentale, brilla per semplicità e chiarezza.

Esso scrive che “l’iniziativa privata è libera”. E aggiunge semplicemente che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà (opportuna questa insistenza sulla libertà) e alla dignità umana”. Come ovvio completamento, l’articolo aggiunge che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Terminata questa lettura mi sono messo il cuore in pace, nella sicurezza che né la lettera né lo spirito di quest’articolo mai avrebbero messo in rischio o semplicemente resa più difficile la libertà di intrapresa in quanto in qualsiasi sistema, anche nel più liberista, la legge ha il compito di dettare le norme di comportamento perché l’esercizio dell’attività economica non rechi danno all’esercizio dei diritti dei cittadini, sia che essi si organizzino in forma individuale che associata.

Tutti noi abbiamo infatti il diritto di essere tutelati dalla legge riguardo ai requisiti igienici o sanitari di un prodotto o della pericolosità di un giocattolo, così come in ogni parte del mondo i lavoratori e gli imprenditori trovano nella legge (italiana o europea) i diritti e gli obblighi che derivano dall’esercizio della propria attività. È peraltro evidente che, se esistono regolamentazioni eccessive, queste possono e debbono essere eliminate dall’attività legislativa, affidata all’iniziativa del Governo e del Parlamento.

Assolta la Costituzione da qualsiasi colpa in materia, mi è sorto il sospetto che potesse essere stata la Corte Costituzionale, attraverso le sue interpretazioni, ad impedire una maggiore liberalizzazione della nostra economia. Ho letto tuttavia a questo proposito un esauriente articolo dell’ex presidente della corte Valerio Onida che dimostra che mai la corte in tutta la sua storia ha dichiarato l’illegittimità di una legge liberalizzatrice e che, al contrario, esistono numerose decisioni che hanno rimosso limiti ingiustificati alla libertà di iniziativa contenuti nelle leggi nazionali o in quelle regionali.

Tranquillizzato su tutti i fronti, ho quindi ritenuto la proposta come un semplice errore o come un ormai rituale messaggio di avversione allo spirito (visto che non è possibile farlo alla lettera) della nostra Costituzione.

L’ipotesi dell’inconsapevole errore è stata poi esclusa dal fatto che il presidente del Consiglio è ritornato ripetutamente sull’argomento ribadendo la necessità di una riforma dello stesso articolo 41, alla quale proposta, per abbondanza, il ministro dell’Economia, ha aggiungo ieri l’altrettanto inutile proposta di abolire l’altrettanto innocuo articolo 118 della Costituzione.

Non riuscendo a raggiungere altre spiegazioni razionali per simili comportamenti, sono ricorso alla mia esperienza passata quando, insieme con l’allora ministro Bersani, ci accingemmo a fare un programma sistematico e generalizzato di liberalizzazioni e mi è facilmente saltato alla memoria il panorama di impressionanti proteste che ci veniva dalla piazza. E ricordo benissimo che nessuno agitava il libretto della Costituzione ma cartelli minacciosi nei confronti del Governo come risposta corale e violenta alla presunta violazione delle prerogative, dei diritti e dei privilegi delle categorie interessate.

Ed allora mi sorge il sospetto che l’accusa rivolta alla Costituzione e l’inutile scelta di un cammino tortuoso per procedere alla semplice riduzione di lacci e laccioli sia il comprensibile desiderio di evitare le rumorose manifestazioni e le reazioni, anche spesso incontrollate, delle infinite categorie e corporazioni che su questi lacci prosperano non da decenni ma da secoli.

E vorrei anche aggiungere che, sempre secondo la mia esperienza, lo scontento e le pressioni non prendono solo la via dell’opposizione, ma anche le insidiose strade degli alleati di governo. In poche parole, a fare sul serio queste riforme, si perdono consensi e voti. Posso in coscienza dire che le abbiamo ugualmente portate avanti, pur con la piena consapevolezza delle possibili conseguenze negative, anche se non arrivo al punto di affermare che il mio Governo sia caduto esclusivamente per questo motivo. Auguro quindi buon lavoro al ministro Tremonti. Sulle conseguenze sul Governo veda lui. (Beh, buona giornata).

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Dopo i costi della crisi, ci tocca pagare i costi della speculazione.

I COSTI DEL CAPITALISMO LI PAGHINO QUELLI CHE LI STANNO PRODUCENDO, NON I LAVORATORI!
Sulla Grecia ci stanno truffando-paoloferrero.it

La vicenda della crisi greca è un esempio da manuale di una grande truffa in cui la speculazione guadagna e i lavoratori pagano. I giornali dicono che i governi europei stanno lottando contro gli speculatori e i mercati finanziari per difendere l’Euro. Si tratta di una balla colossale. In realtà i governi e i mercati finanziari stanno tutti dalla stessa parte contro i lavoratori. Vediamo perché:

In seguito all’attacco fatto dagli speculatori alla Grecia, i governi europei hanno dato un prestito alla Grecia condizionato al fatto che in Grecia si taglino i salari, le pensioni, lo stato sociale. Il governo Greco, con i soldi del prestito pagherà gli interessi sul suo debito a Banche e speculatori, interessi che sono aumentati a causa dell’attacco speculativo. Il governo Greco restituirà i soldi del prestito ai governi europei grazie ai sacrifici imposti ai lavoratori greci. In pratica i soldi del prestito vanno a banche e speculatori e quei soldi li mettono i lavoratori greci.

Dopo la Grecia, i governi europei hanno stanziato 600 miliardi di euro per far fronte ad eventuali speculazioni verso altri paesi e le borse hanno festeggiato crescendo del 10%. E’ evidente che gli speculatori fanno bene a festeggiare perché questo vuol dire che dopo aver guadagnato sulla Grecia, adesso potranno ripetere l’offensiva su altri paesi avendo a disposizione 600 miliardi su cui fare affari. Dappertutto si ripeterà lo stesso scenario: attacco speculativo su un paese per volta (Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia o Gran Bretagna), richiesta di pesanti sacrifici ai lavoratori per poter accedere al prestito europeo e conseguente versamento del prestito nelle tasche delle banche e degli speculatori. Si tratta di una truffa colossale che pagheranno innanzitutto i lavoratori dei paesi sottoposti ad attacchi speculativi, ma che avrà effetti negativi sui lavoratori di tutti i paesi. Infatti se si peggiorano le condizioni di lavoro in un paese queste si diffondono anche negli altri.

Ci sono soluzioni alternative: certo!

1) Il modo più semplice per bloccar questo gioco al massacro sulle spalle dei lavoratori è che la Banca Centrale Europea, quando un paese è sottoposto ad un attacco speculativo, intervenga immediatamente e senza condizioni ad acquistare i titoli di stato di quel paese. In questo modo l’attacco speculativo risulta inefficace, gli speculatori ci perdono e i lavoratori non devono fare nessun sacrificio per ingrassare i banchieri.
2) L’immediata rottura di ogni rapporto con i paradisi fiscali.
3) L’immediata nazionalizzazione degli istituti bancari di rilevanza nazionale che sono risultati impegnati in attività speculative
4) L’immediata modifica del Trattato di Maastricht, sostituendo le politiche restrittive di bilancio, alibi usato per tagliare servizi sociali e pensioni, distruggere diritti dei lavoratori, precarizzare il lavoro, con politiche finalizzate a redistribuire la ricchezza e a creare posti di lavoro, attraverso la riconversione ambientale dell’economia e la riduzione dell’orario di lavoro.

Per questo ci opponiamo a questo piano europeo approvato dal governo Berlusconi e chiediamo ai sindacati di costruire la mobilitazione. Occorre bloccare questo nuovo attacco ai lavoratori e ai pensionati che oggi avviene in Grecia e domani in Italia. (Beh, buona giornata).

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Come in Grecia, brutte notizie per i dipendenti pubblici in Italia.

La manovra in preparazione da parte del governo punta a raccogliere oltre un terzo dei 25 miliardi totali previsti finora con una stretta sugli statali.

Tra il mancato rinnovo del contratto e risparmi su assunzioni e voci integrative dello stipendio il Tesoro conta di arrivare alla cifra di 8 miliardi. Il blocco delle assunzioni, con l’immediato alt alle deroghe previste, potrebbe scattare immediatamente con l’entrata in vigore del decreto, e dunque con effetti già sul 2010. Novità anche in campo previdenziale. Allo studio un inasprimento dei criteri di accesso all’indennità di accompagnamento legata alla pensione di invalidità.
(Beh, buona giornata).

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I satrapi del neo-liberismo promettono lacrime, sangue e bugie.

Dopo l’eurobailout,di Pino Cabras-megachipdue.info

Chissà perché le borse hanno gioito così tanto, dopo l’annuncio dei 750 miliardi di euro approvati nel pieno dell’emergenza della speculazione.
Chissà perché i titoli delle banche si apprezzavano più degli altri.
Sarà perché le banche avevano ormai qualcuno che si impegnava a comprare i loro crediti inesigibili.

La Banca Centrale Europea è ora disposta a creare moneta dal nulla con regole nuove pur di salvarli, banche e banchetti.
Il crescendo di allarmi sui debiti sovrani ha una base autentica, di certo. Quei debiti abnormi ci sono, perché gli Stati si sono sovraccaricati di compiti spesso contraddittori, insostenibili, gravati da corruzioni e clientele portate a consumare oggi le risorse di domani.

Meno autentico è il momento in cui l’allarme viene esasperato. Sono stati gli speculatori a scegliere i tempi e i modi: le iene assaltavano gli gnu più isolati e più piccoli, rendendo un servizio alle bestie più grandi e malate, ma ancora capaci di nascondere il loro stato. Dosando gli allarmi dove volevano i predatori, i tassi di interesse per i titoli di stato greci dovevano salire vertiginosamente e il loro rating precipitare appena sopra il valore della carta straccia: così era facile comprarli a man bassa, con la convenienza nel medio termine di lucrare interessi doppi o tripli rispetto a pochi mesi fa. Stesso meccanismo contro Portogallo e Spagna: profezie che minacciavano di autoadempiersi, nel fragile gioco della finanza sempre basata sulle aspettative.

A coprire gli azzardi dei corsari globali è stata ora definitivamente trascinata la costruzione europea nel suo insieme.
In teoria la finanza dovrebbe lubrificare l’economia sottostante, avrebbe lì la sua giustificazione residua. Invece l’«economia della truffa» in cui siamo sempre più avvitati ha cambiato da molto tempo ragione sociale. La finanza è totalmente diseconomica, succhia risorse dall’economia reale, tosa oltre l’intollerabile i contribuenti, è una bomba a tempo contro qualsiasi infrastruttura della vita civile di interi popoli. La solita cerchia che comprende Goldman Sachs e altre volpi a guardia del pollaio beneficia di questo ulteriore salto del debito e consolida la sua dittatura sulle linfe finanziarie del mondo.

Gli Stati sono stati spinti negli ultimi due anni verso i limiti estremi della loro capacità d’indebitarsi e di sciupare i bilanci. Negli esempi più vistosi, come il debito USA o quello britannico (proprio a casa di chi ci insulta come PIGS) è evidente che i debiti sono oltre la soglia della possibilità di ripagarli. Si possono inventare avvitamenti della spirale sempre più sofisticati, si può fare ad esempio questo “upgrade” europeo, con la BCE che compra l’inacquistabile, ma qualcuno pagherà. Data la dimensione del debito che va a rivelarsi, si pagherà per decenni.

Intanto che i sistemi politici e i mondi sindacali – poiché non hanno un pensiero alternativo all’altezza – evocheranno a lungo come un mantra il miraggio della crescita, dovranno invece da subito fare i conti con il suo contrario, la decrescita.
La decrescita è già in campo. Per ora è congelata, quel tanto che dà respiro ancora ai predatori finanziari, pronti però ad approfittare fra breve della nuova corsa ai differenziali d’interesse fra economie irrimediabilmente ingolfate ed economie appena più in salute.

Le lacrime e sangue imposte dai banchieri degraderanno la base contributiva e perciò le finanze pubbliche, sempre meno in grado di fronteggiare l’aumento della disoccupazione e della integrazione dei redditi di chi è costretto a sospendere il lavoro.

I 750 miliardi del “bailout” all’euro sono una cifra enorme, decisa in un weekend. Dovrebbe valere la pena stanziarli per un obiettivo in grado di coincidere con interessi profondi dei popoli coinvolti. A ben pensarci, però, questa cifra servirà solo a tenere in piedi un sistema che avrebbe senso se facesse il suo mestiere, cioè dare credito a chi fa impresa, ma che invece ne fa un altro: scremare risorse in favore di un gruppo di criminali legalizzati. Loro, i protagonisti principali della crisi delle finanze private, hanno passato il testimone alle finanze pubbliche. Il sistema bancario ombra non si taglia nulla. Gli Stati taglieranno stipendi e scuole, come già fanno, e molto molto altro.

Ogni tanto un Obama, una Merkel o un Sarkozy promettono sfracelli contro i padroni di Wall Street. Ma dopo un po’ si sbracano e offrono altra liquidità, a botte di centinaia di miliardi. Verranno ripagati con totale ingratitudine da Soros a dagli altri filantropi del suo stampo. Perché questi prima si fanno salvare, poi – autodefinendosi come «i Mercati» – pretenderanno che gli Stati si dimostrino meno cicale e più formiche, con i soliti tagli e le solite ricette da massacro sociale che funzioneranno come le patologie iatrogene, malattie di cui credono di essere la cura. L’erario si assottiglierà fino a fornire il pretesto per rinnovati allarmi-insolvenza.

A quel punto, la cura proposta per il disastro provocato dalle banche e dalle tecnocrazie finanziarie sarà: più banche e più tecnocrazie.

Loro infatti non si espongono e non appariranno. La faccia esposta alla rabbia dei defraudati sarà quella dei Papandreu di turno, dei politici sempre meno votati e meno legittimati (già dilaga l’astensionismo alle urne), mentre le facce di bronzo, le lingue di legno e i culi di pietra dei Goldman Draghi irradieranno il rassicurante tepore della tecnofinanza.

Quei 750 miliardi decisi nel weekend dal Consiglio Economia e Finanza dell’Unione Europea non servono dunque agli interessi profondi dei popoli coinvolti. Per poter servire avrebbero dovuto essere accompagnati da misure drastiche di altro tenore: abolire i derivati, punire con mandati di cattura internazionali chi pratica le tecniche ribassiste, chi usa gli algoritmi per le speculazioni da realizzare in frazioni di secondo e tutto il casinò delle sofisticherie tecnofinanziarie che usurpano la parola «mercati». L’Europa doveva semplicemente ricollocare tutto ciò sotto la fattispecie «truffa».

Non sarebbe stato uno scandalo nazionalizzare le banche. E anziché promettere in caso di necessità l’acquisto dei bond dalle banche, gli Stati avrebbero dovuto dotarsi della possibilità di acquistarli direttamente. Il boss della Goldman Sachs, il signor Lloyd Blankfein, avrebbe così abbassato la cresta, specie se gli fosse arrivato anche un simpatico avviso che gli spiegasse di non mettere piede in Europa per i prossimi 50 anni.

La globalizzazione avrebbe avuto una svolta equilibratrice. Così però non è stato.

Il re neoliberista è nudo. E dobbiamo urlarlo con forza. Le sue ricette non hanno legittimità, né possono più proclamarci che “There Is No Alternative”. La TINA è finita. Prima la politica lo capirà, meglio sarà. I partiti che in questi anni hanno solo provato a temperare con retorica compassionevole l’agenda neoliberista non l’hanno ancora capito. Ma in giro si muovono altri spettri, che parlano di un’altra politica e un’altra economia. (Beh, buona giornata).

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Come fa chi ha provocato la crisi a farci uscire dalla crisi? Semplice: ci tolgono i soldi dalle tasche, ci tolgono il futuro del futuro dei figli. E’ il neo-liberismo, bellezza!

E’ cominciata: tutta l’Europa per sopravvivere “mette le mani nelle tasche” dei suoi cittadini-blitzquotidiano.it

Piaccia o no ai governi dei singoli Stati, l’Europa per sopravvivere e non fare bancarotta “metterà le mani nelle tasche” di greci, spagnoli, portoghesi, francesi, tedeschi, inglesi, italiani…I governi di tutta Europa se lo sono reciprocamente promesso, non avevano alternative. Si sono però “dimenticati” di dirlo con chiarezza ai rispettivi governati. Per questa “omissione” hanno una sola robusta ma insufficiente attenuante: i cittadini di ogni paese fanno fatica a capire prima ancora che a digerire. E quindi, poichè non c’è “miglior sordo di chi non vuol sentire”, i governi mormorano, borbottano ma non parlano chiaro. Ogni giorni i cittadini d’Europa leggono o sentono in tv: 700 e passa miliardi stanziati come scudo per la crisi finanziaria. Oppure: la Bce compra i titoli di Stato dei paesi in forte deficit. I cittadini leggono, sentono e archiviano il letto e il sentito nel “cestino” di ciò che non li riguarda direttamente, di ciò che non tocca le loro tasche. I cittadini pensano, ostinatamente vogliono pensare che quei miliardi e quei soldi siano soldi di “altri”, soldi degli Stati e delle Banche Centrali. Così non è, presto i cittadini d’Europa vedranno che sono soldi “loro” perchè i soldi degli “altri” non esistono se non nella fantasia.

E’ fresca d’inchiostro la nuova ipotesi di “Patto economico” elaborata dalla Commissione Europea che i governi nazionali dovranno sottoscrivere la prossima settimana. C’è scritto che bisogna “prevenire” i casi di eccessivo defcit e debito pubblici. Che tutti i paesi devono sottostare ad esame e verifiche semestrali di quanto spendono, che chi sfora incassa “sanzioni automatiche”, che le sanzioni sono di fatto multe in denaro che finiscono in “depositi fruttiferi” che i songoli governi non amministrano più. C’è scritto insomma che la politica economica e finanziaria dei singoli paesi deve essere “coerente” con quella di tutti gli altri Stati. C’è scritto che italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, portoghesi, greci e tutti gli altri devono reciprocamente rendersi conto di come spendono i loro euro. Diminuzione di sovranità per ogni paese? Certamente sì. Ma, se non piace, Barroso, presidente della Commissione Europea, parla chiaro: “Se i governo non vogliono l’unione economica, tanto vale dimenticarsi dell’unione monetaria e rinunciarvi”. Se non piace, addio euro, ciascun per sè e dio per tutti. I paesi deboli svaluteranno la moneta e avranno la maxi inflazione, i paesi debolissimi avranno default e bancarotta, quelli forti si faranno male ma sopravviveranno.

Vale la pena di “tradurre” cosa significhi il nuovo “Patto economico”, quello senza il quale l’Europa si scioglie e l’euro si squaglia e ciascuno resta solo con i suoi debiti. Significa che entro il 2012/2013 tutti i paesi d’Europa devono avere un deficit annuo rispetto al Pil intorno al tre per cento (l’Italia è sopra il cinque, la Grecia intorno al 15, Gran Bretagna e Spagna intorno al dieci…). Significa anche che chi ha un debito pubblico pari o superiore al cento per cento del Pil, qui purtroppo l’Italia guida la classifica dei debitori, deve smetterla di accumulare debito. Deve smetterla se vuole che dei suoi debiti rispondano e siano garanti anche gli altri Stati, governi e cittadini europei.

In Spagna Zapatero ha già “tradotto”: meno cinque per cento di stipendio ai dipendenti pubblici. Ha “tradotto” a denti stretti Zapatero, ma non poteva non “tradurre”. “Traduzione” portoghese: meno sei per cento sugli stipendi pubblici e privatizzazione di grandi compagnie pubbliche, cioè meno soldi per i dipendenti e meno dipendenti. Traduzione francese: meno dieci per cento complerssivo della spesa pubblica, regola del pensioni due e assumi uno nella Pubblica amministrazione, cancellazione di 500 esenzioni e agevolazioni fiscali per le aziende private. Traduzione tedesca: addio al calo delle tasse promesso in campagna elettorale. Traduzione greca: via la tredicesima e la quattordicesima per i pubblici dipendenti, stipendi congelati per i dipendenti privati, aumento dell’Iva. La traduzione inglese ancora non c’è, Cameron si è appena insediato ma tutti sanno che i Conservatori taglieranno le spese per il Welfare britannico, nè i laburisti avrebbero potuto fare diversamente se avessero vinto le elezioni.

E la “traduzione” italiana qual è? Per ora suona come 26 miliardi di minor spesa in due anni, per ora. Due miliardi in meno tra Sanità e spesa farmaceutica, circa dieci miliardi in meno di spesa tra ministeri ed Enti locali, probabile blocco dei contratti, cioè niente aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici. E niente calo delle tasse, neanche a parlarne. Forse addirittura un rinvio del federalismo se federalismo dovesse significare maggior spesa immediata prima dei vantaggi futuri.

Tutti dunque “metteranno le mani nelle tasche” dei loro cittadini. E lo faranno perchè altrimenti quelle tasche si “sfondano” o restano piene di soldi svalutati o di debiti impossibili da garantire. Sarà dura, amara, inevitabile e sarà meglio di ogni possibile alternativa. Sarebbe anche meglio che ce lo dicessero, con coraggio politico e civile. Più ce lo nascondono e più allevano una reazione isterica delle pubbliche opinioni, quella reazione che vogliono evitare. (Beh, buona giornata).

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Guardate “Il Grande Fratello”, guardate “L’Isola dei Famosi”, andate nei centri commerciali,litigate per un paio di scarpe firmate, siate gli ultimi della vostra classe, che è più fico che saperne di più. Bravi coglioni: vivete in un Paese in cui chi lavora guadagna meno che nel resto d’Europa, e paga più tasse. Continuate a fòtterneve, non leggete: che tanto quelli fottuti siete voi.

Salari italiani tra i più bassi nella classifica dei Paesi Ocse. L’Italia si colloca per gli stipendi al 23mo posto, con guadagni inferiori al 16,5% rispetto alla media dei trenta Paesi che fanno parte dell’organizzazione di Parigi. Particolarmente penalizzati gli italiani single e senza figli, i cui salari restano ai livelli più bassi tra i paesi Ocse, superati anche dagli stipendi in Spagna e Grecia, mentre l’Italia vanta una pressione fiscale sulle retribuzioni ai livelli più elevati. I dati sono riferiti al 2009 e l’Italia si colloca nella stessa posizione dell’anno precedente. E’ quanto risulta dal Rapporto ‘Taxing Wages’ dell’Ocse.

Il peso di tasse e contributi sui salari, il cosiddetto cuneo fiscale che calcola la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto effettivamente finisce in tasca al lavoratore, è in Italia al 46,5%, rileva ancora il rapporto Ocse. Nella classifica dei maggiori trenta Paesi, aggiornata al 2009, l’Italia è al sesto posto per peso fiscale sugli stipendi, dopo Belgio (55,2%), Ungheria (53,4%), Germania (50,9%), Francia (49,2%), Austria (47,9%). Il peso di tasse e contributi sui salari in Italia è rimasto stabile dal 2008 al 2009, registrando solo un lieve (-0,03%). L’Italia occupa infatti nella classifica Ocse la stessa posizione, la sesta, rispetto all’anno precedente.

In Italia, precisa ancora l’Ocse, hanno un impatto rilevante sulla differenza tra salario lordo e netto anche i cosiddetti ‘pagamenti obbligatori non fiscali’, rappresentati dal tfr, che aumentano la pressione di un ulteriore 3%. “Aggiungendo questa variabile – spiega un economista dell’ Ocse in un incontro con la stampa – il prelievo obbligatorio sui salari in Italia sale oltre il 49%, portando il Paese a superare la Francia in termini di quota di imposizione”. I ‘pagamenti obbligatori non fiscali’, secondo la definizione dell’Ocse, sono pagamenti che il lavoratore o il datore di lavoro devono versare per legge, ma non al governo, come i contributi in fondi pensione privati o pagamenti per polizze assicurative. Il loro impatto sui redditi delle famiglie, e sul costo del lavoro, è differente da quello delle imposte tradizionali, dato che spesso si tratta di contribuzioni nominali, che il lavoratore riottiene quando lascia il posto o va in pensione (come, appunto, nel caso del Tfr). Beh, buona giornata.

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“Obama si conferma come il “quarto uomo” o arbitro fuori campo che contribuisce alla cabina di regìa dell’Unione europea.”

Perché Wall Street si scopre euro-entusiasta-http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog

Nelle prime reazioni di mercati, politici ed esperti Usa al piano europeo. quasi tutte positive, traspare l’idea che lo scatto di decisionismo dell’Eurozona è per molti aspetti “made in Usa”:

1) Gli americani vedono nel combinato tra il maxifondo Ue da 700 miliardi e l’intervento della Bce ad acquistare titoli di Stato una replica perfetta del loro “piano Tarp”: il fondo da 700 miliardi (di dollari) che nell’ottobre 2008 l’allora ministro del Tesoro Paulson fece approvare al Congresso con il decisivo aiuto esterno di Obama (allora candidato). Perciò qui battezzano il piano europeo “Le Tarp”, aggiungendoci un tocco francese. Naturalmente il Tarp serviva a salvare dalla bancarotta la finanza privata, “Le Tarp” deve salvare dalla bancarotta gli Stati sovrani.

2) Il piano Paulson traduceva nel campo della finanza la “dottrina Powell”: in guerra devi andarci solo quando puoi mettere in campo forze smisuratamente superiori all’avversario. Quindi per impressionare i mercati niente mezze misure.

3) Il piano Paulson ottenne l’obiettivo immediato (il collasso del sistema bancario è stato evitato) però ha lasciato in eredità all’America problemi enormi di deficit, debito.

4) Lo stesso vale per il parallelo tra la Bce e la Fed. Anche la banca centrale americana fu costretta a una serie di strappi alle regole, interventi inusuali per dare liquidità alle banche ed anche comprare titoli di Stato Usa. Le resta in eredità una politica monetaria “drogata” che in futuro può rilanciare l’inflazione. Per gli americani il piano europeo ha le stesse caratteristiche: efficacia immediata, rinvio del conto da pagare.

5) Infine Obama si conferma come il “quarto uomo” o arbitro fuori campo che contribuisce alla cabina di regìa dell’Unione europea: ancora domenica si sono segnalate le sue telefonate a Merkel e Sarkozy. Ormai sembra quasi normale che un presidente americano intervenga regolarmente nel corso dei vertici europei per “aiutarli” a raggiungere il risultato desiderato.
(Beh, buona giornata).

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Il maxi piano salva- euro e un piccolo pianista da piano bar.

Angela Merkel, una delle vere protagoniste del vertice di emergenza della Eu ha detto: “Il maxi-piano è necessario per garantire il futuro dell’euro. E’ necessario attaccare i problemi alla radice e combattere realmente le cause delle tensioni che pesano sulla moneta unica”.

Il ministro francese delle Finanze Cristine Lagarde ha evitato di attribuire meriti al proprio Paese: “Abbiamo serrato le file per salvare l’euro”.

“L’eurozona sta certamente riguadagnando fiducia. I nostri fondamentali sono buoni”, sostiene il presidente della commissione Ue, Jose Manuel Barroso.

Dopo il piano “la Bce si aspetta ora una politica di rigore nei bilanci pubblici dai governi europei”, ribadisce il presidente della Bce Jean Claude Trichet. “Per noi – ha spiegato riferendosi alla richiesta fatta dall’Ecofin a Spagna e Portogallo – questo impegno è stato assolutamente decisivo”. Silenzio sulla portata degli interventi: “E’ la Bce che decide”.

E poi, ecco il perepèperepè, paraponzi ponzi pù: “Un impulso fondamentale allo sblocco dei serrati negoziati sul piano di salvataggio dell’euro ieri all’Ecofin l’ha dato il presidente Berlusconi quando, poco prima dell’1 di notte, ha chiamato al telefono il cancelliere Merkel”, recita un comunicato di Palazzo Chigi. Pitipitù, pitipitù, paaaa! Meno male che Silvio c’é, come i supplì, al telefono. Beh, buona giornata.

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Che sta succedendo all’economia europea/9.

CRISI FISCALE, CONTAGIO E FUTURO DELL’EURO, di Marco Pagano-lavoce.info

Cerchiamo di capire il terremoto finanziario che sta scuotendo Eurolandia. Perché gli scenari paventati da giornali e televisione si stanno susseguendo in modo così tumultuoso che non è facile seguirne la logica. Crisi fiscale, contagio, collasso della moneta unica: potrebbe diventare uno tsunami ben peggiore di quello dei mutui subprime. Ma il modo per arginarlo c’è, rafforzando le strutture comunitarie e sovranazionali. Trasformando la crisi in un’occasione storica per l’Europa.

Crisi fiscale, contagio, collasso dell’euro … Cerchiamo di capire cosa sta succedendo, perché gli scenari paventati da giornali e televisione si stanno susseguendo in modo così tumultuoso che non è facile seguirne la logica. Invece è proprio in situazioni di emergenza come questa che è importante fare chiarezza, proprio per evitare che si realizzino gli scenari peggiori e individuare la via di uscita.
Punto primo. Quando uno stato sovrano accumula un livello molto elevato di debito, gli investitori cominciano a temere che esso non sia “sostenibile”, cioè che lo Stato non riuscirà a restuire capitale e interessi generando avanzi di bilancio in futuro (cioè un gettito fiscale superiore alla spesa pubblica). In questo caso, chiedono tassi di interesse maggiori per acquistare nuovo debito pubblico, poiché vogliono essere compensati per il rischio di insolvenza. Ciò in realtà aggrava il pericolo di insolvenza, perché appesantisce i conti pubblici, per cui alla fine arriva il momento in cui non c’è più un tasso di interesse capace di compensarli del rischio di insolvenza: allora essi smettono di sottoscrivere il debito pubblico. Questa è la crisi fiscale, e ha solo due esiti possibili, che fra l’altro non si escludono tra loro: 1) l’insolvenza da parte dello stato, con conseguente ristrutturazione del debito (come ha fatto l’Argentina); 2) la “monetizzazione” del debito, che viene acquistato dalla banca centrale immettendo moneta nell’economia e quindi causando inflazione e deprezzamento del tasso di cambio.

DALLA GRECIA ALL’ITALIA

Punto secondo. Nel caso della Grecia, la seconda strada – quella della monetizzazione – era esclusa dalla sua appartenenza all’area dell’euro: il governo greco non poteva imporre alla Banca centrale europea (Bce) di acquistare i propri titoli del debito pubblico, per cui la sola strada aperta era quella dell’insolvenza e della ristrutturazione del debito, a meno di non ottenere prestiti da altri paesi a tassi inferiori a quelli richiesti dal mercato. Ma perché i paesi dell’area dell’euro hanno deciso di fare questo sacrificio? Come si è visto in questi giorni, dopo non poche indecisioni lo hanno fatto soprattutto per timore del “contagio”. Ma cos’è questo contagio? Qui veniamo alla parte più interessante della storia.
Punto terzo: il contagio. Ammaestrati dalla crisi della Grecia, gli investitori hanno cominciato a sospettare che altri paesi con elevato debito pubblico – Portogallo, Spagna, Italia – possano trovarsi in una situazione simile. Perché? Come i governi di questi paesi si sono affrettati a spiegare, i loro conti pubblici non sono nello stato drammatico di quelli greci. Allora perché gli investitori sono preoccupati? Perché rischiano i propri soldi in una scommessa perdente? Perché, come dicono gli economisti, in questa partita tra Stati sovrani e investitori ci possono essere “equilibri multipli” (1): anche quando uno Stato non è molto indebitato, gli investitori possono cominciare a temere che, non volendo alzare la pressione fiscale oltre un certo livello “politicamente sostenibile”, in futuro esso potrà voler ricorrere alla ristruttrazione o alla monetizzazione del debito, o a entrambe. Nel timore che questo accada, essi spingono i tassi a livello talmente alto che “la loro profezia si autoavvera”: a quei tassi, lo stato che altrimenti avrebbe fatto fronte ai suoi debiti finisce davvero per dover davvero ristrutturare o monetizzare il debito, cioè per non ripagarlo interamente.
Quindi tutto dipende dalla “fiducia” degli investitori: se e fin quando la fiducia c’è, si resta nell’“equilibrio buono” con tassi di interesse moderati e mercati tranquilli; quando la fiducia scompare, si salta all’“equilibrio cattivo”, quello in cui c’è la crisi fiscale. Il “contagio” che la crisi greca ha scatenato è stato proprio questo: ha indebolito la fiducia degli investitori anche verso stati che avrebbero potuto continuare a navigare in acque tranquille se avessero continuato a godere della loro fiducia. Si noti fra l’altro che l’onere stesso del salvataggio della Grecia sta appesantendo i conti pubblici di Portogallo, Spagna e Italia, e anche questo ha contribuito a indebolire la fiducia nella loro solidità di debitori.

LA BORSA E LA SPECULAZIONE

Punto quarto: il rifinanziamento del debito pubblico. I paesi in questione sono esposti alla crisi fiscale (l’“equilibrio cattivo”) nella misura in cui sono costretti a ricorrere ai mercati per il rifinanziamento del debito pubblico, e quindi a seconda di quanto debito pubblico scadrà nei prossimi mesi. Ciò a sua volta dipende dalla scadenza media del debito pubblico: se il debito pubblico è per lo più a lunga scadenza, la quantità di debito da rifinanziare in un dato intervallo di tempo è piccola, e anche doverlo fare a tassi elevati è un costo sopportabile. In questo caso, il rischio di crisi fiscale è escluso. Se invece il debito è per lo più a breve termine, cosicché la quantità di debito da rifinanziare è elevata, il rischio di crisi fiscale esiste, come dimostrato da Giavazzi e Pagano (1990). (2) L’argomentazione è simile quella usata nel valutare la solvibilità delle imprese delle banche, in cui il “rollover risk” derivante dall’indebitamento a breve è uno dei fattori che determina il rischio di fallimento.
Punto quinto: il deprezzamento dell’euro. Perché l’euro si sta deprezzando? Una possibile risposta è che man mano che la crisi si allarga ad altri grandi paesi dell’area dell’euro, il rischio di monetizzazione del debito pubblico da remoto si fa più concreto. Se la Grecia può essere salvata (forse) dagli altri paesi dell’area euro, questo non può certo valere per l’imponente debito pubblico di Italia, Spagna e Portogallo. A quel punto, il rischio che la Bce debba monetizzarlo esiste, e i timori di inflazione che ne derivano potrebbero spiegare il deprezzamento dell’euro. Ma poiché ciò metterebbe a repentaglio la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, e rappresenterebbe un imponente trasferimento di risorse dai paesi forti dell’euro a quelli deboli, è uno scenario poco probabile.
Una spiegazione alternativa del deprezzamento dell’euro è il timore della rottura dell’eurosistema, uno scenario fino a poco tempo fa impensabile: proprio per non essere chiamati a contribuire alle finanze dei paesi deboli dell’area dell’euro con la monetizzazione del debito, i paesi forti potrebbero spingere quelli deboli al di fuori dell’eurosistema. Ovviamente questo è uno scenario drammatico, in quanto la ridefinizione dei confini della moneta unica difficilmente potrebbe avvenire senza impressionanti scossoni. E inoltre nel frattempo la crisi fiscale potrebbe tradursi nell’insolvenza sul debito pubblico di vari paesi dell’area dell’euro, con effetti globali devastanti: considerato che il debito pubblico di questi paesi è massicciamente presente nei bilanci di banche e assicurazioni di tutto il mondo, e soprattutto dell’area dell’euro, potrebbero determinarsi catastrofiche reazioni a catena in tutto il sistema finanziario. Il “contagio” diventerebbe davvero globale. Al confronto, la crisi innescata dai mutui “subprime” diventerebbe un pallido ricordo.
Ciò spiega perché le borse stanno crollando, e perché i governanti siano molto preoccupati, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Tuttavia, le invettive dei governi contro gli “speculatori” e i “mercati” sono infantili. La parola “speculatore” nasce dal latino specula (vedetta), e indica chi cerca di “guardare lontano”, e quindi metaforicamente “prevedere il futuro”. Nel momento in cui un qualsiasi risparmiatore decide se sottoscrivere i titoli del debito pubblico, anch’egli cerca di “guardare lontano”, e in questo senso in qualche misura siamo tutti speculatori. E tutti contribuiamo a determinare l’andamento dei mercati, perfino quando decidiamo di non servircene. Sta ai governi dimostrare che in questo momento speculatori e mercati stanno sbagliando previsioni e scommesse.

RECUPERARE LA FIDUCIA DEI MERCATI

Ma esiste un modo di recuperare la fiducia dei mercati? Poiché l’origine del problema è nella politica fiscale, il modo di recuperarla è sul fronte del fisco: occorre dare segnali forti e coordinati che gli stati deboli dell’area dell’euro sono capaci di “mettere a posto” i propri conti pubblici, accettando un monitoraggio e una disciplina comunitaria molto forte sulle proprie finanze.
Ciò vuol dire limitare significativamente la sovranità fiscale degli stati membri, dopo aver già accettato di delegare quella monetaria alla Bce. Ma occorre andare ben oltre la fragile disciplina del trattato di Maastricht e del patto di stabilità, assoggettando direttamente le leggi di bilancio degli stati membri dell’Unione a limiti comunitari vincolanti e a istituzioni dell’Unione Europea che li facciano valere. Non è affatto cosa di poco conto: difficile da realizzare e politicamente dolorosa, come le dimostrazioni e i morti di Atene dimostrano. I governi e soprattutto i parlamenti nazionali saranno disposti a farlo? Se sì, allora da questa crisi l’Europa riemergerà più forte di prima, e procederà verso il completamento della sua struttura sovranazionale con l’introduzione graduale di istituzioni fiscali federali, ovvero la naturale controparte della Bce.
Potrebbe anche essere l’occasione per colmare finalmente il deficit democratico dell’Unione Europea, poiché è naturale che decisioni vincolanti di natura fiscale siano prese da organismi rappresentativi. In tal modo, i limiti alla sovranità fiscale nazionale avrebbero una legittimazione democratica sovranazionale, invece di essere visti come diktat di organismi tecnico-burocratici o di comitati di ministri degli stati membri. Se i paesi dell’euro avranno il coraggio di accettare questa grande sfida, non solo la fiducia tornerà sui mercati, ma questa crisi diventerà l’occasione di una svolta storica nella costruzione europea. (Beh, buona giornata).

(1) Si veda ad esempio Guillermo Calvo, “Servicing the Public Debt: The Role of Expectations,” American Economic Review, September 1988.
(2) Francesco Giavazzi e Marco Pagano, “The Management of Public Debt and Financial Markets,” in High Public Debt: the Italian Experience, edited by L. Spaventa and F. Giavazzi, Cambridge University Press, Cambridge, 1988.

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