LIBERATE DANIELE MASTROGIACOMO, E’ UN GIORNALISTA
SET DANIELE MASTROGIACOMO FREE, HE IS A JOURNALIST
أفرجوا عن دانييليه ماستروجاكومو، هو صحفي
دانييليه ماستروجاكو آزاد كنيد، او روزنامهﻨﮕارى هست
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Sèguèla, il rompi “balle”.
Mentre si sta dipanando la matassa dell’ultima inchiesta cosiddetta Valletopoli, quell’intreccio tra la tv dei gossip, la stampa dei gossip, che tanti personaggi ha dato anche alla pubblicità italiana, Jacques Sèguèla, grande vecchio della pub francese spara a zero contro la televisione italiana. Sa quello che dice, mica racconta balle.
«I cinque anni di governo Berlusconi hanno ucciso ogni differenza tra Rai e Mediaset». E ancora: «Il voyeurismo ha preso il posto del quoziente di intelligenza, l’inno italiano è diventata la bandana di Berlusconi» e «Michelangelo e Pavese hanno di che rivoltarsi nella tomba».
Jacques Sèguèla dice quello che pensiamo tutti, ma che facciamo fatica a dire, immersi ormai in una fetida coltre di mediazioni politiche: omologazione, appiattimento, volgarità e quindi perdita di qualità, sono per Seguela i mali cronici della tv nostrana.
Se da un lato specchio dell’omologazione tra tv pubblica e privata sono i contenitori domenicali («’Domenica in’ e ‘Buona domenica’ – ha detto – sono l’unica celebrazione del silicone made in Italy, lo stesso coronamento del vuoto, la stessa adorazione del vitello d’oro della mediocrità e della volgarità») dall’altro il più noto della pubblicità francese tratteggia un quadro altrettanto fosco dell’informazione tv: «Il giornalismo è diventato spettacolo di massa in cui l’effetto sostituisce il fatto e il culto del dramma uccide la riflessione. L’entertainment non è show, ma ‘peep show’, il voyeurismo ha preso il posto del quoziente di intelligenza, l’inno italiano è diventata la bandana di Berlusconi così come in Francia la marsigliese è diventata un rap. In questo modo la res pubblica diventa res diabolica. E Michelangelo e Pavese hanno di che rivoltarsi nella tomba».
Sèguèla non sente il bisogno di nascondersi dietro un dito, e dice quello che vede e pensa, anche della nostra pubblicità: «È una vergogna che i film siano continuamente interrotti dagli spot pubblicitari – dice e ricorda che il 18% di tutto il tempo televisivo è tempo pubblicitario – Troppa pubblicità uccide la pubblicità, è come i saldi che rappresentano il killer del commercio».
Apriti cielo. Siccome in Italia gli scandali non sono fatti, ma opinioni, ecco le opinioni degli “addetti ai lavori”.
In primis Giancarlo Leone, vicedirettore generale della Rai: «Non condivido affatto la sostanziale omologazione fra servizio pubblico e televisione commerciale. Il servizio pubblico ha una sua specificità centrata sull’informazione, una informazione che in tutta Europa non è capillare e frequente come la nostra». Balle ipocrite.
«Raccolgo la provocazione di Sèguèla come spinta a migliorarci, ma prima di buttar via tutto ci penserei su» dice Gina Nieri, consigliere di amministrazione Mediaset, convinta che «la nostra televisione sia tra le migliori al mondo. Abbiamo i migliori format che propongono anche le principali tv europee e Usa, un livello di informazione altissimo. I contenitori domenicali? Credo che ci siano margini di miglioramento, ma non è tutto volgare». Ancora balle.
Infine Renzo Lusetti, responsabile del Dipartimento informazione della Margherita, che ospitava il convegno cui è stato ospite Sèquèla, difende gli spot pubblicitari e auspica che proprio la pubblicità possa «diventare un baluardo per il pubblico, un punto di riferimento in un panorama che va mutando e nel quale la pubblicità diventa sempre di più specchio dei tempi». Balle spaziali.
Caro Jacques, per una televisione vera e una pubblicità buona, ce n’est qu’un début, continuons le combat. Beh, buona giornata.
L’amaro Giuliani.
Forse un pubblico ministero dovrà cercare le prove, con l’aiuto della polizia giudiziaria, un giudice per le indagini preliminari dovrà istruire il processo, una corte d’assise, quella con i giudici popolari potrà finalmente giudicare i responsabili della morte del giovane Carlo Giuliani.
Non lo ha deciso la magistratura italiana. “Evviva l’Europa. Andremo al processo”. Lo ha detto il padre di Carlo Giuliani dopo la decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Il tribunale ha accolto il ricorso della famiglia perché sia riaperto il caso sulla morte del figlio avvenuta durante gli scontri del G8.
E’ una buona notizia per il senso di giustizia che si aspettano i cittadini della Repubblica italiana. Allo stesso tempo è una pessima notizia per la nostra giustizia, perché la decisione è stata coartata dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo. Essa suona come un rimprovero alla legalità del nostro Paese. Un rimprovero, bisogna accettarlo, molto ben meritato.
Una volta Pasolini scrisse che sapeva chi aveva fatto le stragi, i complotti, i tentati golpe, ma semplicemente non aveva le prove. Perché le prove, in uno stato di diritto le deve cercare e dimostrare nelle aule di giustizia uno dei poteri dello Stato, il potere giudiziario.
Noi conosciamo la verità politica dei lunghi e sofferti anni della nostra democrazia, anni scanditi dall’intolleranza contro il dissenso e la protesta di piazza. E’un elenco lungo, molto lungo di misfatti impuniti, di morti ammazzati, di bombe esplose.
La ragion di stato voleva fosse un prezzo da pagare, c’era la Cortina di Ferro, c’era il Patto Atlantico, contrapposto al Patto di Varsavia. C’era la Guerra Fredda, ma il sangue versato sulle nostre strade e piazze, stazioni ferroviarie e treni, campi e officine, scuole e università era ancora caldo, quando le inchieste furono repentinamente archiviate, se non mai svolte.
Ancora una volta, dopo i fatti del G8 si sono inventate bugie che potessero attutire i colpi di manganello e di pistola, il fragore delle vetrine infrante, delle auto date alle fiamme. A piazza Alimonia Carlo Giuliani fu sparato e poi spappolato da una camionetta. Ma la Guerra Fredda era finita, non c’era nessuna giustificazione “storicamente plausibile” perché le forze dell’ordine fossero così ferocemente scatenate contro la folla manifestante.
Dopo il pronunciamento della Corte Europea per i diritti dell’uomo, Rifondazione comunista chiede una commissione di inchiesta. “Credo ci sia da fare chiarezza, senza criminalizzare nessuno, ma occorre stabilire chi ha voluto che a Genova finisse in quel modo”, ha detto il ministro Ferrero.
A noi, però, rimane il sapore amaro di un Paese che ha voluto con tutte le sue forze (di governo, di polizia e della giustizia) tornare indietro agli anni bui della Repubblica. L’amaro della vicenda di Carlo Giuliani, appunto. Beh, buona giornata.
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Da Megachip.info. Beh, buona giornata.
Dichiarazioni stupefacenti.
Il ministro degli Interni propone l’antidoping agli studenti. I ragazzi potrebbero dover sottoporsi alle analisi “ad, esempio, dopo le interrogazioni”. Forse in caso di prestazioni “sospette”. E se lo studente dovesse risultare positivo, spiega Amato, dovrebbe scontarne le conseguenze. “Perderebbe punti. E chiaramente l’interrogazione non sarebbe valida”.
Questo lo stupefacente ragionamento del ministro: “Noi oggi facciamo l’antidoping solo agli atleti. Perché non prevedere un uso più ampio di questo controllo e renderlo più sistematico, ad esempio all’uscita delle discoteche e a scuola?”.
Al convegno dell’Anci (l’associazione dei comuni) della Toscana sulla sicurezza, il ministro degli Interni Giuliano Amato lancia una nuova idea per combattere la droga: effettuare anche sugli studenti i controlli sull’assunzione di stupefacenti. Controlli finora riservati, appunto, esclusivamente agli atleti in gara. E’ una proposta che farà discutere, come sottolinea lo stesso ministro. “Bisogna pensare anche a cose del genere, anche se può apparire una cosa un po’ idiota”.
Una provocazione, ammette subito dopo. “Cose del genere, però, meritano di essere prese in considerazione. E poi, magari – spiega Amato – sostituite da altre”.
Ci pare molto “fumo” e niente arrosto. Un trip ultraproibizionista che porta solo al ridicolo. Su un problema serio.
Di questo passo, dovremmo fare l’antidoping ad ogni consiglio dei ministri, consiglio comunale, ad ogni riunione di partito, ai ogni convention aziendale, a ogni consiglio di amministrazione. E perché no, ad ogni esternazione nei talk- show. Ad ogni sentenza di tribunale, a ogni celebrazione di un matrimonio, ad ogni comizio, ad ogni cameriere quando ti presenta il conto, ad ogni barbiere (qui un emendamento dovrebbe prevedere l’antidoping prima del rasoio).
Cara, ti amo. Antidoping. Mamma ho fame. Antidoping. Vorrei un caffè. Faccia lo scontrino alla cassa e l’antidoping nel cesso.
Il ministro dice di essere stato molto impressionato da una inchiesta della tv: “Io spero che milioni di italiani – ha infatti concluso, commentando le immagini trasmesse dal TG1 l’altra sera – si siano raggelati davanti al servizio del telegiornale di Gianni Riotta.”
Scusi, signor ministro: quando ha visto il servizio delle Jene davanti al Parlamento, che facevano la prova “sudo-coca” che ha pensato? Ah, ci scusi: quello lo hanno censurato. A proposito, questo fatto non le è sembrato stupefacente? Beh, buona giornata.
Ora o “mais” più.
La cosa peggiore che Al Gore poteva fare a Bush, che gli scippò la Casa Bianca nel 2000, grazie a trucchi elettorali escogitati dal fratellino Jeb, governatore della Florida, è dire la verità sul futuro energetico del pianeta.
E’ una “scomoda verità”, che rende ridicoli, nonostante la ferocia delle guerre fin qui scatenate, i piani militari della Casa Bianca, alla disperata ricerca del possesso diretto dei pozzi di petrolio.
Al Gore ha detto che biocarburanti rappresentano l’unica soluzione possibile per ridurre le emissioni causate dalle tonnellate di carburanti utilizzate in tutto il mondo per i mezzi di trasporto.
Non lo ha mandato a dire attraverso il film, “Una scomoda verità”, con il quale ha vinto recentemente due Oscar. Lo ha detto di persona, intervenendo a Bruxelles ai lavori del ‘World Biofuels Markets’.
Parlando a braccio ad una platea da cui erano rigorosamente esclusi gli organi di stampa, l’ ex vicepresidente Usa dell’Amministrazione Clinton ha impressionato con le sue argomentazioni.
“Ci ha fatto abbastanza paura” ha detto uno dei presenti all’Ansa “diventa imperativo agire entro i prossimi cinque anni”. Seconda Al Gore, allo stato attuale c’é un 90%, 99% di possibilità che le emissioni di CO2 continuino ad aumentare. “Siamo come un malato a cui un medico diagnostica la possibilità di avere nel 90 %, 99% dei casi, un infarto”, ha detto. Al Gore si è spinto a sostenere che il problema assume una particolare gravità perché, se un tempo le variazioni avvenivano nell’arco di una generazione, ora si producono nel giro di mezza generazione, e questo ridotto spazio temporale non da molte possibilità di intervento.
I 1300 partecipanti provenienti da 54 paesi, che partecipano al ‘World Biofuels Markets’, convocati per sviscerare i più svariati aspetti legati al mondo dei biocarburanti (da una visione del mercato globale, allo sviluppo dell’industria, alle opportunità finanziarie e di investimento, ad aspetti squisitamente tecnici) sembra siano riamasti sotto shock.
E’ uno stato d’animo assolutamente condivisibile. Le ultime guerre scatenate dai Bush, che col petrolio hanno fatto fortuna, si stanno dimostrando sanguinose, dispendiose, sia in termini umani che finanziari.
Fanno male anche alla coscienza, e attentano alla nostra idea di libertà e giustizia, come dimostra l’emozione provocata dalla cattura del reporter Mastrogiacomo, di cui attendiamo con trepidazione notizie tranquillizzanti.
Il tutto per una maledetta una fonte di energia come il petrolio, capace di provocare un collasso al pianeta, in un arco di tempo inferiore al tempo previsto dai generali per vincere le guerre in Iraq e in Afghanistan o a quella che sta progettando il Pentagono contro l’Iran. Senza contare che ci sono due tecnici italiani dell’Eni, ancora ostaggi di una formazione militare nel Delta del Niger, che rivendica una migliore redistribuzione dei proventi dello sfruttamento del petrolio.
Solo ieri Parlamento italiano ha stanziato molti altri milioni di euro per finanziare le missioni militari nell’area geopolitica tra le più ricche di petrolio del pianeta.
Il fatto che proprio un leader statunitense sia venuto a dimostrare che tutto questo è inutile, dannoso e dannatamente molto pericoloso, fa davvero un certo effetto. Effetto serra, appunto. Beh, buona giornata.
La cattura di Daniele Mastrogiacomo in Afghanistan è un danno collaterale della scelleratezza della “guerra contro il terrorismo”.
Infatti, Mastrogiacomo non è stato rapito, ma catturato dai Talebani. E’ la differenza tra una “banda” e un “esercito”. Sotto occupazione militare da cinque anni, i Talbani hanno ancora il pieno controllo di gran parte del territorio dell’Afghanistan.
Se ne deve essere accorto anche Dick Cheney, il vice presidente degliUsa che pochi giorni fa è stato svegliato da una bomba, esplosa in una base americana a settanta chilometri da Kabul. E forse il botto lo ha fatto diventare più arrogante: i marines hanno aperto il fuoco contro la popolazione civile qualche giorno fa.
Il generale Mini, proprio sulle pagine di Repubblica, di cui Mastrogiacomo è corrispondente, il giorno stesso in cui è apparsa la notizia della sua cattura, ha detto che quella è stata una reazione dettata “dalla frustrazione” delle truppe americane che non riescono, proprio non riescono, ad aver ragione degli insorti. Non è un gioco di parole, ma un esercito non ha ragione del nemico quando ha torto.
La cattura di Mastrogiacomo dimostra che la guerra al terrorismo, invenzione propagandistica dell’Aministrazione Bush, è una battaglia persa: si pensava di fare una passeggiata in Afghanistan, che fosse il trampolino per aggredire l’Iraq e poi finalmente dare la spallata finale all’Iran. Balle: quando Bush si presentò vestito da top gun sulla portaerei sulla quale campeggiava lo striscione “mission accomplished” non voleva dire che avrebbe vinto in Iraq, ma semplicemente che aveva trascinato mezza Europa nel conflitto. Quella sì che è stata una missione compiuta.
Noi italiani siamo stati trascinati nelle guerra, anzi in due. Il governo di prima ha mentito: ci ha raccontato che si andava a fargli fare la pace, sia in Afghanistan che in Iraq.
Il governo di adesso ha difficoltà a dire che la verità di prima era una menzogna: siamo andati a fare un guerra, anzi due senza essere preparati, né nel corpo (di spedizione) né nell’anima (pacifista, non quella dei cortei, quella della Costituzione).
Uomini come Mastrogiacomo hanno corso rischi, come quelli che proprio lui sta correndo in queste ore, per cercare di raccontare come sia possibile quanto è stato possibile per le nostre missioni militari. Un lavoro complicato, pericoloso, al limite della professione, oltre che del pericolo di lasciarci la pelle: di Enzo Baldoni abbiamo ricevuto in cambio le ossa, per la liberazione di Giuliana Sgrena, abbiamo dovuto pagare il prezzo del cadavere crivellato di Callipari.
E’ giunto il momento di chiederci perché stiamo in Afghanistan, prima ancora di capire come ci siamo andati. Qui il problema non è andare via, il problema è che qualcuno ci spieghi perché ci siamo andati. Solo se qualcuno ha il coraggio di dire chiaramente il perché, troveremo il come uscirne.
Mastrogiacomo è andato lì proprio per raccontarci il perché. D’Alema e Parisi, rispettivamente ministri degli Esteri e della Difesa dovrebbe dirci chiaramente perché e smetterla di trattarci come bambini, cui non si possa dire fino in fondo tutte le verità.
Noi che vogliamo sapere perché saremo oggi alle 12,30 in piazza del Campidoglio a Roma: vogliamo Daniele Mastrogiacomo libero.
Se è vero che chi salva un uomo salva il mondo intero, chi salva un giornalista salva la libertà di stampa, cioè salva la libertà di sapere che cosa succede davvero, che è l’unica strada per sapere tutto quello che non ci hanno voluto far sapere. Anche se è una strada che passa per Kandahar. Beh, buona giornata.
La mejo tivvù.
“Viva l’Italia, pane e politica” è la prova provata che la Rai è viva. Viva la Rai.
In una giornata televisiva tra le più sceme del Terzo Millennio, con Baudo che faceva Masaniello per tutto il pomeriggio su Rai Uno, e la Perego su Canale 5 che ha organizzato la Vandea anti-servizio pubblico è arrivata, tra truci telefilm americani, di quelli morti, feriti, squartati e guanti di paraffina, la De Filippi e i suoi amichetti e la fiction ospedal-popolare di Rai Uno, a freddo, senza preavviso, è arrivata in onda su Rai Tre la Televisione, con la T maiuscola.
Quella che sfugge agli schemi, alle compatibilità del palinsesto, quella che fa spettacolo senza spettacolarizzare, che fa inchiesta senza spettegolare, che fa realtà senza reality, che fa denuncia senza piùùùù, sgnach, blegh e ohhhh, tipo le Jene.
Un cronista in mezzo alla strada, a Catanzaro a raccontare come si fa la politica in Italia. Sì, come si fa, chi la fa, perché la fa. Non era un documentario, non era una denuncia, non era costume né colore. Era il nostro Paese. E la Rai è sembrata la BBC.
La qual cosa rimanda al mittente, semplificandola, la domanda che ci facciamo da troppo tempo: cos’è la Tv di qualità? Eccola, è questa. E’ quella che nasce da una idea, che cresce facendola, che è ingenua, semplice, tenera: che guarda raccontando quello che vede, che non ha bisogno di costosi format.
Che vede, facendoti guardare chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. Che ti dice dove si coltiva quell’organismo geneticamente modificato che è il ceto politico del nostro Paese.
Che poi, dall’agone politico locale, arriva al regionale, e poi al Parlamento e poi, magari, anche al Governo. Ecco come si allevano i piccoli mostri, i satrapi, i tiranni che poi ci si piazzano sullo stomaco per decenni, entrano nella nostra vita civile e politica, dalla politica all’amministrazione pubblica, dal partito agli enti, nella pervicace ossessione del potere, fin su, magari fin dentro le istituzioni centrali, fin dentro la stessa Rai.
Allora, non c’è bisogno di rimpiangere “Viaggio in Italia” di Mario Soldati. Non c’è bisogno di fare tanti dibattiti. Non c’è bisogno di coinvolgere trust di cervelli. Se ci sono persone che sanno fare questa televisione in Rai, la Rai c’è.
Dobbiamo solo rimuovere le macerie che hanno seppellito, nel tentativo si soffocarle, persone che osano pensare, che osano lottare, che osano vincere: autori, giornalisti, conduttori, tecnici. Loro ci fanno bene, e fanno bene anche agli inserzionisti pubblicitari. Basta pane e cicoria. E’ tempo di “viva l’Italia, pane e politica”. Beh, buona giornata.
Sanremo. The winner is.
Le polemiche scatenate dal centro-destra lo dimostrano: il vincitore del Festival di Sanremo è Romano Prodi. Evocato sul palcoscenico dell’Ariston , con le sembianze del suo sosia, dopo che Pippo XII aveva evocato lo spettro del Bartali che ricompatto il Paese dopo l’attentato a Togliatti, Prodi vince il Festival, dopo la fiducia al Senato e lo scoppiettante dibattito alla Camera. La mini-crisi di governo è coincisa col 57 Festival. In questi giorni abbiamo sentito cantare tutti. Ma alla fine, è la canzone di Prodi che prevale, con successo di critica e di pubblico.
La crisi nasce all’interno della maggioranza e finisce tra le fila dell’opposizione, che sarebbe meglio chiamare d’ora in poi minoranza. Sono volati gli stracci tra i leader del centro-destra. Fassino, poi rompe in testa a Berlusoni il suo grissino di ferro. E tutti gongolano, soprattutto dalle parti della Lega e dell’Udc. Il Festival di Sanremo, come la fine della crisi di governo, ha ricompattato il Paese: tutti davanti alla tv, a schignazzare o a criticare, a cercare di vedere di nascosto l’effetto che fa, ma tutti davanti alla tv. E lo spettacolo ha dato ragione alla logica di sempre: tutto bene quello che finisce bene. In aula a Montecitorio abbiamo sentito le parole, a Sanremo la musica: in entrambi i casi, hano fatto la loro buona figura l’impegno, i temi sociali.
La vera doppia conduzione è stata quella di Pippo Baudo al Festival e quella del Capo dello Stato, durante la crisi. Una scelta perfetta, una coppia affiatata. Il Festival viene premiato dagli ascolti, la politica viene premiata dalla melodia della nuova riforma elettorale. Tutti contenti, anche gli sponsor, dell’una e dell’altro evento politico-canoro-mediatico.
Dunque, Prodi vince. E non veniteci a dire che Afghanistan, Tav, Dico e Dal Molin erano sole canzonette. Questi sono discorsi da dopo festival. Beh, buona giornata.
”Chiediamo che Dolce e Gabbana ritiri la pubblicità o che l’azienda sia richiamata al rispetto delle
regole”. Firmato tredici tra senatrici e senatori dell’Ulivo e di Forza Italia, tra cui, prima firmataria Vittoria Franco, presidente della commissione Cultura e responsabile nazionale delle Donne Ds.
Si tratta di un annuncio pubblicitario in cui si mima una violenza di gruppo su una donna, che molti avranno visto sui quotidiani italiani.
L’annuncio pubblicitario in questione aveva già fatto analogo scalpore in Spagna e D&C hanno deciso di ritirarla, non senza aver detto che si tratta di una foto artistica e che l’arte non è violenta.
In realtà, al netto della richiesta dei parlamentari italiani e anche della decisione, unilaterale, dei direttori delle testate che hanno pubblicato l’inserzione ( perché come tutti sanno il commerciale vende spazi pubblicitari, ma il direttore della testata ha l’ultima sempre l’ultima parola sull’opportunità della pubblicazione), inevitabilmente le polemiche diventano un moltiplicatore della comunicazione.
Vale a dire che ben consapevoli di fare qualcosa che va oltre le regole, al solo scopo di proporre una provocazione, nel momento stesso in cui si accetta la provocazione, la polemica è un valore aggiunto dell’investimento pubblicitario, oltrettutto molto prezioso, perché è gratis.
Rivolgersi al Giurì è alquanto velleitario: l’Istituto di autodisciplina prende decisioni successive all’uscita di una campagna “incriminata”, e ora che prende una decisione, in genere la campagna ha avuto il suo corso.
Per altro, le decisioni dell’Istituto sono vincolanti, non tanto per l’azienda, quanto per le testate o le emittenti, che sono tenute a non mettere in onda o pubblicare inserzioni pubblicitarie censurate dal Giurì. I tredici parlamentari avrebbero fatto meglio a chiedere ai direttori dei più importanti quotidiani italiani di spiegare il motivo per cui hanno deciso di pubblicare quell’ inserzione: nelle redazioni ormai comanda solo il marketing?
Per il resto, è inutile entrare nel merito della rappresentazione che propone l’annuncio incriminato. Utile invece è prendere in considerazione una fatto molto semplice, che taglia la testa al toro a ogni tentazione censoria e a ogni valutazione moraleggiante sul ruolo della pubblicità.
Il fatto è questo: quando una azienda fa pubblicità esprime non solo offerte commerciali, ma il modo di pensare della marca, i suoi valori, la sua collocazione nelle problematiche sociali, che spesso sono quelle che pensa l’imprenditore.
Allora la domanda è: condividete questo modo di vedere la donna, da parte di Dolce e Gabbana? Se è sì, continuerete ad acquistare e indossare quella griffa, se è no, beh, la conseguenza è semplice.
Se i giornali fanno certe scelte per via del registratore di cassa, le aziende cambiano modo di pensare, proprio per via del registratore di cassa. A voi decidere.Questo vale, ovviamente sia per gli abiti che per i giornali. That’s all, folks. Beh, buona giornata.
Più multe per Totti.
Daniela Serafini, la mamma di Ilary Blasi e suocera di Francesco Totti, è ufficialmente un vigile urbano di Roma. Ieri ha indossato per la prima volta la divisa.
La cerimonia per l’assunzione di 451 nuovi agenti, si è svolta nella sede della Polizia Municipale di Roma. Per Daniela Serafini la destinazione assegnata è il 15/o Gruppo ossia la zona compresa tra Viale Marconi e Corviale. Oggi il primo vero giorno di lavoro in mezzo al traffico della capitale.
Speriamo che non faccia come il genero, che ogni tanto sputa, dà spintoni e si ficca il pollice in bocca. Né come la figlia che da un po’ se messa in testa di fare la jena.
A parte ogni altra considerazione, la signora Serafini sta per fare un lavoro non facile: quello di sfatare il mito dei parenti che vivono alle spalle della notorietà e delle prebende di subrette e calciatori.
Beh, buona giornata.
Ricevo e volentieri posto
L’Oscar di Al Gore
CURZI.LA RAI SI IMPEGNI SULLA QUESTIONE AMBIENTALE
Di fronte alla crisi della politica – evidente negli ultimi decenni in tutto il mondo occidentale e non solo in questi giorni in Italia – appare ragionevole e urgente, come non mai, la fuoruscita dal pantano delle parole e dell’autoreferenzialità attraverso il sentiero dell’impegno ecologico. Perciò l’idea di promuovere la massima diffusione anche in Italia di un film-documentario come “Una scomoda verità” di Al Gore, premiato lunedì notte con l’Oscar, non va considerata una semplice istanza morale ma una vera e propria proposta politica da accogliere e da realizzare. Ha ragione il presidente della Regione Toscana, Claudio Martini: il servizio pubblico televisivo dovrebbe verificare con convinzione la possibilità di mandare in onda in prima serata quel documento sulle conseguenze dell’effetto-serra di cui tutti, da tempo, dicono un gran bene. Dovrebbe trattarsi ovviamente di una iniziativa da concretizzare in linea con la vocazione e la capacità che storicamente ha la Rai di creare eventi, quando decide di farlo.
La questione ambientale, peraltro, dovrebbe essere fra le prime opzioni, se non la prima in assoluto – in considerazione delle ultime previsioni di un sempre più vicino rischio di collasso del pianeta – che il servizio pubblico dovrebbe assumere nella totalità della sua programmazione e dei suoi contenuti. Si tratterebbe di un impegno, dovuto, sul prodotto capace almeno di attenuare l’ossessiva attenzione riservata, spesso impropriamente, a organigrammi e nomine.
Snobbato dalle cancellerie di mezzo mondo, osteggiato pervicacemente dall’amministrazione Bush, l’effetto serra vince un Oscar, anzi due, se si conta il premio alla colonna sonora. E, ironia della sorte, lo vince proprio l’artefice del protocollo di Kyoto, Al Gore, all’epoca vice presidente degli Usa, quando l’inquilino della Casa Bianca era Bill Clinton.
“Una scomoda verità” è il documentario di Davis Guggenhein, interpretato, appunto da Al Gore con le musiche di Melissa Etherige, che con due Oscar si piazza al terzo posto nella graduatoria dei film più premiati quest’anno dall’Academy di Hollywood, dopo “The Departed” di Scorzese che ne ha vinti quattro e “Il labirinto del fauno”, di Eugenio Caballero e Pilar Revuta di Telecinqo, l’emittente spagnola posseduta da Mediaset: c’è del comico, perché sia il titolo del film che i premi (fotografia, scenografia e trucco) fanno proprio pensare al capo di Mediaset. Ma questa è un’altra scomoda verità.
Il documentario di cui parlano, già uscito nelle sale italiane lo scorso gennaio, e che forse chi non lo ha visto sarebbe bene lo facesse, è una dura requisitoria contro gli effetti dell’effetto serra, vale a dire il surriscaldamento del pianeta, che lascia assolutamente freddi i governi dei paesi più industrializzati, e quindi più colpevoli della distruzione dell’eco-sistema del pianeta Terra.
Non c’è dubbio che succedono cose strane: i ghiacciai si squagliano, i mari salgono, dopo la fine delle mezze stagioni, ci stiamo giocando le stagioni intere, come è successo per il nostro inverno quest’anno. Ma tra le cose strane c’è appunto il fatto che un documento di puntuale denuncia dello stato di salute del pianeta venga considerato un fatto artistico, tanto da venere premiato, e niente di più, tanto da venire sistematicamente ignorato dalla politica e dall’economia. Una volta il cinema riusciva a influenzare la politica.
Oggi sembra il contrario, con il rischio che appena si spengono le luci del palcoscenico, il discorso si chiude. C’è un altro fatto che sembrerebbe confermare questa stramba tendenza. Secondo il New York Post, Angelina Jolie è stata ammessa al prestigioso “Council on Foreign Relations” per discutere di politica internazionale tra Kissinger e Alan Greenspan. L’attrice si e’ aggiudicata un riconoscimento riservato a pochissimi dal think-tank con base a New York, ritenuto tra i più snob d’America, e che annovera tra i suoi membri anche Condoleeza Rice, Dick Cheney, Colin Powell.
Nel darne notizia il quotidiano New York Post riporta reazioni entusiastiche degli appartenenti al Council . ”L’idea di avere Angelina Jolie e Henry Kissinger nella stessa organizzazione è illuminante”, dice al giornale Gordon Adams, quotato professore di relazioni internazionali.
C’è da augurarsi che la Jolie, al primo incontro, indossi di nuovo i panni di Tomb Rider e, alla prima occasione, faccia secchi quei mostri cattivi che fanno le guerre e distruggono il pianeta.
Signora Jolie, non si fidi, quelli son capaci di tutto, anche di rubare una vittoria elettorale, come fecero a Al Gore nel 2000. Beh, buona giornata.
Arrivederci, ragazzi.
Fausto Bertinotti ha detto che l’azione del governo Prodi non è la bussola dell’azione politica dei partiti della sinistra, nell’ambito della coalizione di centro-sinistra.
Piero Fassino ha detto che dissentire dall’azione del governo non significa necessariamente votare contro la coalizione di centro-sinistra. Entrambi sembrano rispondere, con colpevole ritardo, al monito del capo dello Stato: siccome non ci sono alternative, vi rinvio alle Camere. Fate buon uso di questa chance, anche perché è l’ultima possibile.
Sono i fondamentali della politica in un Paese a democrazia parlamentare e sembra strano, molto, troppo strano debbano essere riscoperti nelle ore che ci separano dalla possibile riconferma dell’esecutivo al Parlamento.
Votammo Prodi nelle Primarie, per cacciare Berlusconi, ma il berlusconismo ce lo siamo ritrovati nelle legge elettorale, che ha condizionato il nostro consenso al centro-sinistra. Con Berlusconi eravamo sull’orlo del baratro: l’altro giorno al Senato, grazie alla vostra insipienza, abbiamo fatto un piccolo, ma drammatico passo in avanti. Come in una buffe delirante, avete cercato di tirarci per i capelli dentro i vostri i disturbi psicotici: non vi abbiamo scelto come nostri rappresentati al Parlamento, ci avete costretto a farlo, grazie alle liste bloccate. E oggi ne vediamo le conseguenze, che continuate a voler scaricare su di noi, come si scarica su amici e parenti il disagio psichico: ci avete gelato, fatto arrabbiare, messo di cattivo umore.
Siete stati bocciati dal Senato, avete inscenato la crisi e adesso dovemmo anche compatirvi? Chi vi dà il diritto di fare politica al posto nostro, mentre dimostrate che della politica conoscete solo la faccia più brutale, cinica e autoreferenziale? Ci chiedete di metterci nei vostri panni, e inciampate sui lacci delle vostre scarpe.
C’è una domanda urgente, che non rivolgiamo più a voi, a nessuno di voi, ma chiediamo semplicemente a noi stessi: che intenzione abbiamo di fare del nostro futuro?
Ci avete costretti a essere disposti a tutto, pur di salvare un minimo, diciamocelo, davvero un minimo, di dignità democratica. Quella che ci hanno non solo insegnato, ma lasciato in eredità politica coloro che prima di noi, anche solo per via anagrafica, hanno affrontato a mani nude il difficile territorio dello sviluppo della democrazia del nostro Paese. Di quelli siamo figli e quello vorremmo tramandare ai figli.
Ancora una volta, ci avete estorto fiducia, mica avevamo alternative. Ma voi ci sarete debitori una volta di più: ormai sarete costretti a restituire gli interessi, il capitale che avete sperperato non lo recupereremo mai più.
Noi, nonostante voi, abbiamo deciso che il nostro futuro sarà fatto di militanza nel raccontare apertamente fatti, ma soprattutto nel fornire senza infingimenti quello che i fatti significano.
Per essere, volta per volta, protagonisti dei fatti politici e militanti del loro significato sociale. Senza mediazione né mediatori: voi avete preso il treno, noi forse tempo, ma siamo in grado di recuperarlo, il tempo perduto.
Sarà il tempo della politica, del sociale, della pace, dell’uguaglianza sociale, della creatività, della liberazione dagli schemi e dagli stereotipi della pantomima della sinistra radicale. Quel tempo è adesso: nel momento stesso in cui avete finito di essere una soluzione, siete diventati parte integrante del problema.
Voi continuerete a frequentare i talk show, dove vi trastullate a perdere tempo, noi staremo tra amici, colleghi, vicini di casa, abitanti del quartiere, cittadini dei villaggi, dei piccoli paesi, delle città. Nei luoghi di lavoro, in famiglia, a scuola, nelle università. E dove fosse necessario e utile al pub, a teatro, nello spogliatoio della palestra. Perché siamo persone, non solo elettori.
Saremo dolci quando ci vorranno amari, gentili quando ci vorranno duri, cattivi quando ci vorranno buoni, arrabbiati quando ci vorranno saggi. Troveremo nuovi accordi col nostro disaccordo, sintonie con le anomalie, una nuova grammatica nella vostra sgangherata sintassi: sul precariato, sulla Tav, sulle basi Usa, sulla Rai e le televisioni, sul conflitto d’interessi, sui Dico. Sulla pace, la solidarietà, il Welfare, il lavoro salariato, lo sfruttamento intellettuale, l’ambiente, la cultura, l’informazione.
Noi non chiederemo, noi diremo. E diremo che Prodi deve governare, cioè gestire l’esistente, ma noi saremo creativi, immaginifici, desiderosi, critici, cinici, simpatici, cattivi e ironici: non ci interessa una quota del mercato della politica, ma una quota di futuro nelle contraddizioni sociali, economiche, culturali, dunque politiche del nostro Paese.
E lo faremo spassionatamente con tutti: cattolici e atei, cristiani e musulmani, comunitari ed extracomunitari, donne, uomini, omosessuali e transgender, intellettuali e proletari. Con i volontari e i volenterosi. Con il popolo dei cococo e quello della partita iva. Insomma, con tutti quelli disposti a ragionare e a fare qualcosa di buono, significativo e utile, a partire dalla comunicazione, verso tutti i problemi che ci pone la globalizzazione: non solo delle merci, ma delle persone, dei loro sogni, dei loro traguardi.
Voi, allo stato dei fatti, siete diventati impossibili a un altro mondo possibile. Arrivederci, ragazzi. Beh, buona giornata.
Jurassic Italia.
La crisi del governo Prodi riporta l’Italia nella dimensione di piccolo paese, anzi di paese piccolo piccolo. Con un classe politica che non ha nessuna voglia di essere all’altezza dei compiti di una società moderna e dinamica.
Sul colle più alto in queste ore stanno salendo gli omini più bassi: chiedono, concionano, rivendicano, ipotizzano e, negandosi, si candidano. Neanche nelle riunioni di condominio ormai va più di moda rivendicare sfacciatamente i millesimi della propria autorevolezza. Ma pure questo è quello che sta andando in scena di giorno e in onda di sera, in questo o quel talk show.
Siamo all’italietta permalosa e scorreggiona, come quella del Cavaliere che viene rappresentato da Libero di Feltri come un tappo di spumante che va in culo all’avversario Prodi. Bell’esempio di buon gusto e di buon giornalismo. Gli hanno dato del tappo e neanche se ne ha a male.
Ma quella disgustosa vignetta, purtroppo è la foto del giorno dopo, quella in cui Andreotti, pare, si dice per conto del Vaticano, Cossiga pare, si dice per conto del Pentagono, Pininfarina forse, si dice per conto di Confindustria hanno fatto cadere il governo, con l’aiuto di due puri e duri (di comprendonio) della sinistra radicale e di un certo De Gregorio, filone e paravento, rappresentante di un partito-uomo di cui molti hanno la tessera, anche se non lo dicono chiaramente, il partito “Francia o Spagna, basta che se magna”.
Eccolo il consueto, scontato, trito e ritrito combinato disposto tra mediocrità politica, rendite di posizione e furbizie individuali di un Italia che non intende lasciarsi sorprendere dal nuovo e non vuole sorprendere il futuro, fosse anche solo quello prossimo venturo: faccio cadere il governo senza sapere neanche perché l’ho fatto, così, solo per fare vedere che ci sono. E’ nella mia natura, risponderebbe lo scorpione al rospo che lo traghettava nell’altra sponda del fiume.
Nel bene o nel male, l’azione di governo tentava di far riferimento alle categorie politiche della modernità, del rimettersi in carreggiata, del fare qualcosa che rimanesse per il futuro della nostra economia e delle relazioni sociali. Insomma, una roba per tutti, in seno all’Europa e in corsa verso le sfide della globalizzazione. Ma il ceto politico, le satrapie conservatrici, insomma i cosiddetti poteri forti hanno trovato un’alleanza, potremmo dire anche solo oggettiva, con le velleità personalistiche di rappresentanza dei movimenti di carattere sociale. Il risultato non è solo nella crisi di governo, ma nella crisi profonda della rappresentanza politica nella nostra democrazia.
Ci siamo svegliati male, in un paese dei cavilli, degli agguati, dei tradimenti, del passato remoto. La politica italiana non riesce a fare a meno dei dinosauri: siamo lenti, storditi, jurassici, destinati all’estinzione nella competizione democratica, sociale ed economica in Europa e nel mondo.
Ce lo ricorda, proprio in queste ore Michael Deppler, il direttore per l’Europa del Fondo Monetario Internazionale: la performance dell’economia italiana è stata “deludente” e il processo di liberalizzazione “deve essere rafforzato”. Il Fmi sottolinea che l’esecutivo italiano deve proseguire con le liberalizzazioni. “Tutto ciò è ora certamente ostacolato dalla crisi di governo”, ha aggiunto Deppler perché il processo di liberalizzazione “ha bisogno di impegno politico e di consenso”. Tutto il contrario di quello che sta avvenendo.
Basterà la saggezza del Capo dello Stato a far capire in queste ore agli ospiti che si alternano nei colloqui per risolvere la crisi qual è la posta in gioco? Basterà alla sinistra scendere in piazza per difendere Prodi per sentirsi al passo coi tempi? Beh, buona giornata.
Il governo viene battuto al Senato sulle linee guida di politica estera. Chi non ha sentito il discorso di D’Alema, lo può trovare su Internet. La domanda è: che ha ascoltato quelle parole, come ha potuto votare contro? Non parlo solo dei due senatori in forza all’Unione, ma anche di quei 24 astenuti, o di larga parte dell’opposizione. Non c’è una ragione valida.
L’imboscata era pronta ed è scattata, a prescindere. Si potrà dire che Angela Finocchiaro, presidente dei senatori dell’Unione ha ancora una volta sbagliato i conti. Si potrebbe dire che quei due senatori della sinistra radicale hanno fatto un gesto inconsulto, quello di uscire dall’aula.
Si potrebbe far notare la pesante astensione di Andreotti. Comunque chi aveva progettato la trappola l’ha fatta scattare. Qualcuno ha pensato che poteva essere una normale giornata di trabocchetti parlamentari, tanto sulle linee guida il governo non rischiava se non un semplice incidente di percorso. E invece Prodi ha deciso di accettare la sfida: è andato a Quirinale e ha rassegnato le dimissioni del governo dell’Unione.
Il presidente Napoletano comincia subito oggi le consultazioni. Poi Prodi, che comunque ha vinto le elezioni, potrebbe essere incaricato di formare un nuovo governo. Le cose non saranno più come prima. Diliberto e Giordano hanno bruciato la loro parabola nel governo in soli 9 mesi. E’ alquanto patetico leggere le dichiarazioni, postume di fedeltà al governo da parte della segreteria del Prc e di Rossi del Pdci. La frittata è fatta, adesso mangiatevela, cari signori.
Prodi poteva far finta di niente, subire oppure, come ha fatto subito, innalzare il livello dello scontro interno alla maggioranza. Ha innalzato lo scontro, è salito al Quirinale. La sinistra radicale ha sbagliato tutto, ha tirato troppo la corda, e adesso ne pagherà le conseguenza. L’errore di Bertinotti, che affondando Prodi aprì la strada al governo Berlusconi, si è ripetuto: quando la storia si ripete è grottesca. Proprio come grottesca è stata la giornata di oggi al Senato.
Bisognerebbe congratularsi per la capacità di cogliere la palla al balzo del senatore Andreotti, che tira così la volata a ipotesi di rafforzamento della componente centrista nella prossima maggioranza. Belzebù è più arzillo che mai. Ma queste sono le tecnicalità del Palazzo.
Forte, cocente è la delusione dell’elettorato di centro-sinistra, che si sente tradito dalle congiure di cortile. Forse ha ragione Veltroni, che si è affrettato a dire che la colpa di quanto è avvenuto è il meccanismo ad orologeria innescato da quella sciagurata legge elettorale, ordita contro la governabilità da Berlusconi, prima delle scorse elezioni.
La crisi di governo sarà rapida, perché sanno tutti che la fase economica è troppo delicata per non avere subito un governo dotato di autorevolezza. Non c’è il pericolo che torni Berlusconi, ma la certezza che il programma dell’Unione verrà fortemente ridimensionato, in senso molto più moderato. E di questo sapremo chi dovremo ringraziare nei prossimi giorni. Beh. buona giornata.
Ecce homo.
Questo è il discorso del Ministro degli Esteri al Senato, che oggi è stato bocciato per due voti. Se foste stati eletti al Senato della Repubblica, avreste votato contro questa visione della politica estera del nostro Paese?
“Discorso di Massimo D’Alema vice presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri al Senato della Repubblica 21.2.2007
D’ALEMA, vice presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri.
Signor Presidente, signori senatori, ringrazio il Senato della Repubblica per l’opportunità che mi offre di illustrare le linee della politica estera italiana perseguita dal Governo Prodi.
Abbiamo alle spalle settimane non facili, ma sono convinto che le comunicazioni di oggi ed il dibattito che ne seguirà permetteranno un bilancio oggettivo dei risultati che l’Italia ha conseguito in questi mesi. Sono anche persuaso che questa discussione ed il consenso che, spero, si potrà ottenere dal Senato saranno la base per nuove e impegnative prove che attendono il nostro Paese nei mesi che vengono.
Questo dibattito ha i caratteri di un dialogo: è pertanto evidente che il Governo è qui non soltanto per illustrare la sua azione, ma anche per ascoltare le considerazioni che verranno fatte nella discussione, per tenerne conto anche allo scopo di arricchire e precisare la nostra piattaforma. Questo dibattito è stato preparato da un confronto pubblico assai animato, nel corso del quale è stata proposta al Ministro degli affari esteri una serie di prove obbligatorie, di questioni che dovrebbero essere affrontate per forza, di trappole senza uscita: se D’Alema dirà questo, allora sarà vero; se dirà quest’altro, allora… e così via.
Personalmente sono ben consapevole di quanto sia giustamente accesa la discussione. Vorrei contribuire ad un dibattito il meno possibile strumentale, il più possibile aperto, libero, allo scopo di definire il quadro di valori delle scelte condivise nel modo più ampio possibile e allo scopo di misurare il consenso, senza il quale nessuna politica estera può essere ragionevolmente portata avanti in modo credibile nel confronto internazionale. E, da questo punto di vista, non vi nascondo che, in verità, nella struttura del mio discorso non avevo previsto e non ho previsto in alcun modo di parlare di Vicenza, anche perché non avrei nulla da aggiungere a quanto ha detto il Presidente del Consiglio, che segue personalmente lo sviluppo di questa situazione. Ma è del tutto evidente che se dal dibattito del Senato emergeranno interrogativi, questioni, proposte, non mi sottrarrò dal rispondere, precisando gli intendimenti del Governo.
Ma vorrei, appunto, parlare della politica estera e vorrei, se mi permettete, anticipare una conclusione generale: la politica estera del Governo è stata coerente con le grandi scelte condivise su cui si è sempre fondata, nella sua tradizione migliore, la politica estera italiana; coerente con i princìpi ed i valori ispiratori del programma di Governo e quindi, come è giusto e doveroso, coerente con gli impegni assunti verso i nostri elettori e – mi permetto di aggiungere – coerente con gli interessi strategici del nostro Paese, così come abbiamo cercato di interpretarli in una fase internazionale difficile. La coerenza è un presupposto essenziale per una politica estera efficace. È la condizione per essere riconoscibili, prevedibili, autorevoli: senza queste condizioni un grande Paese difficilmente può incidere sullo sviluppo degli avvenimenti internazionali.
Lasciatemi ricordare, anche se potrebbe apparire superfluo, quali sono i punti di riferimento, le grandi coordinate entro le quali si muove l’azione internazionale dell’Italia.
Direi che, innanzitutto, tali coordinate sono definite dall’articolo 11 della Costituzione la quale definisce due aspetti essenziali: in primo luogo, il rifiuto della guerra come principio a cui si ispira tutta l’azione di politica internazionale del Paese; in secondo luogo, e coerentemente con il rifiuto della guerra, la scelta di fare dell’Italia un soggetto attivo nella complessa architettura di istituzioni e di alleanze internazionali che si sono formate dopo la Seconda guerra mondiale allo scopo di prevenire e governare i conflitti rifiutando, appunto, la guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali.
Questa complessa architettura di cui l’Italia è protagonista, fino al punto di riconoscere in Costituzione una rinuncia o una cessione della propria sovranità nel nome di un principio di governo condiviso, multilaterale, dei grandi problemi internazionali, questa complessa architettura è costituita dalle Nazioni Unite, innanzitutto, dal sistema delle Nazioni Unite, che è non soltanto struttura portante delle nuove relazioni internazionali, ma che è anche fonte di legittimità delle scelte internazionali, dalla adesione attiva dell’Italia alla costruzione europea e dalla partecipazione del nostro Paese all’Alleanza atlantica.
Queste tre grandi scelte che si sono via via affermate nel corso del dopoguerra come grandi scelte condivise sono quelle in cui si traduce la partecipazione del nostro Paese alla ricerca di un equilibrio internazionale che costituisce, appunto, l’asse di una politica estera condivisa.
Vedete, la situazione ottimale per l’Italia è quella in cui la priorità europea, il sistema delle Nazioni Unite e la relazione atlantica si potenziano a vicenda a favore di quelle soluzioni pacifiche cui guarda, appunto, l’articolo 11 della Costituzione; la situazione peggiore, il disequilibrio è quando ciascuna delle nostre priorità entra in conflitto con le altre. Quando ciò accade, la politica estera italiana diventa strutturalmente più debole, più incerta, e il Paese si divide.
Sì tratta di quanto è accaduto negli anni successivi al drammatico attacco terroristico dell’11 settembre 2001 con le divisioni internazionali, in particolare, di fronte all’intervento in Iraq. Sono stati anni di lacerazione per l’Europa; un pilastro della nostra politica è stato colpito. Sono stati anni in cui è stato indebolito e marginalizzato il sistema delle Nazioni Unite, anni anche nei quali si sono coltivate vuote illusioni nelle soluzioni unilaterali, anni in cui gli equilibri alla base della politica estera italiana sono stati anch’essi stravolti, cosa che ha indebolito l’Italia in un’Europa più debole e ne ha fatto smarrire la voce in un sistema delle Nazioni Unite già largamente emarginato.
Era questa la situazione quando siamo arrivati al Governo. Oggi il contesto è diverso ed è, in qualche modo, più favorevole ad un multilateralismo efficace. Tutti hanno imparato qualcosa dalle dure lezioni della storia, inclusa la difficoltà ad imporre soluzioni unilaterali, come dimostra il travagliato dibattito apertosi negli Stati Uniti d’America dopo il risultato dell’elezione di midterm e l’aperta discussione sulle prospettive della politica americana, conferma – se volete – del carattere aperto, forte di una grande democrazia che sa interrogarsi anche sui suoi errori e sa cercare la via per cambiare strada.
La lezione vale anche per l’Italia, confermando quanto rientri nei nostri migliori interessi operare a favore di un rafforzamento politico dell’Unione europea e di un rilancio delle Nazioni Unite, di soluzioni pacifiche e multilaterali alle crisi internazionali. Tutto questo rientra negli interessi strategici del nostro Paese ma, insieme, riflette i valori che ispirano la nostra politica estera.
La convinzione del Governo è che solo istituzioni multilaterali forti, capaci di decidere e di agire riusciranno a promuovere quei valori essenziali: la pace, la democrazia, i diritti umani, il diritto allo sviluppo da cui dipende a lungo termine anche la sicurezza internazionale.
Se il contesto è in parte cambiato, il problema vero è come riuscire ad esercitarvi una vera influenza. Abbiamo fissato degli obiettivi chiari nel programma dell’Unione; abbiamo definito i principi e i valori che li orientano. Il punto è come progredire nei fatti concretamente. Questi primi mesi di politica estera possono essere letti in questa chiave: un’azione tenace, paziente, graduale, ma coerente, per incidere sulla realtà della politica internazionale, e per incidere non soltanto attraverso le parole e le prese di posizione, anche se le parole contano, ma attraverso gli impegni e le assunzioni di responsabilità.
Tre sono le direttrici di azione perseguite dalla nostra politica estera che illustrerò: la prima è il rilancio dell’unità europea; la seconda è la necessità di una svolta in Medio Oriente e nella lotta al terrorismo; la terza: un allargamento degli orizzonti e delle relazioni internazionali del nostro Paese.
La prima direttrice è, appunto, lo sforzo per il rilancio dell’integrazione europea per cercare di sbloccare la situazione di crisi, la vera e propria impasse politica e costituzionale in cui l’Unione Europea è entrata dal 2004 in poi. L’Italia ha attivamente sostenuto, e sostiene, la decisione della Presidenza tedesca dell’Unione Europea che considera chiusa la pausa di riflessione e che avvia il percorso che nelle prossime settimane conoscerà tappe decisive per giungere ad un accordo istituzionale entro le elezioni europee del 2009. L’Unione non può ripresentarsi ai cittadini europei senza avere dato una risposta al bisogno di rinnovamento e di rafforzamento delle sue istituzioni democratiche. Se il dibattito costituzionale è finalmente ripreso, questo è stato anche grazie all’impulso venuto dal nostro Paese.
A quale soluzione dobbiamo tendere per i prossimi mesi? Dico con chiarezza che l’obiettivo che l’Italia intende perseguire è quello di salvaguardare nella misura più ampia possibile i contenuti, e in particolare i contenuti innovativi, del Trattato firmato a Roma nel 2004, già ratificato da 18 Paesi, che sono espressione di una larga maggioranza non solo di Stati membri, ma anche di cittadini dell’Unione Europea.
Salvaguardare i progressi segnati dal Trattato piuttosto che adottare una visione minimalista è essenziale perché l’Europa a 27 sia in grado di decidere, e quindi di funzionare e di corrispondere alle attese dei cittadini. Come ha affermato il Presidente della Repubblica nel suo recente discorso a Strasburgo, non si può seriamente sostenere che l’Unione non abbia bisogno, dopo il grande allargamento, di una ridefinizione del quadro d’insieme dei suoi valori e dei suoi obiettivi e di una riforma dei suoi assetti istituzionali.
Lavorare ad un progetto di Costituzione per l’Europa non ha rappresentato un esercizio formalistico, non ha rappresentato un capriccio o un lusso, ma ha corrisposto ad una profonda necessità dell’Europa nell’attuale momento storico. Ancora, che cosa è decisivo per rendere vitali i progetti e per far crescere sul serio un’Europa dei risultati? È decisiva la forza delle istituzioni e dell’impegno politico.
Questo è, appunto, l’impegno politico dell’Italia, di un Paese consapevole che istituzioni più forti ed efficienti sono la condizione perché l’Europa allargata possa affrontare con successo le nuove sfide della sicurezza, della lotta al terrorismo, della gestione dei flussi migratori, degli approvvigionamenti energetici, dei cambiamenti climatici.
Nella visione del Governo italiano, d’altra parte, integrazione e allargamento devono continuare a combinarsi. La porta dell’Europa deve restare aperta ai Balcani occidentali e alla Turchia. Ciò corrisponde a interessi diretti dell’Italia per ragioni geopolitiche ed economiche – pensiamo ai Balcani – e di sicurezza, non soltanto dal punto di vista del mantenimento della pace, ma anche dal punto di vista della lotta alla criminalità. È evidente che soltanto nel seno dell’Europa e delle istituzioni europee i Paesi dei Balcani potranno trovare finalmente quella pacifica convivenza cui aspirano dopo lunghi anni di una tragica guerra civile balcanica e poi di una fragile tregua.
Oggi si tratta di avere chiaro un punto essenziale: non saremmo in grado di gestire la delicata questione dello status finale del Kosovo se togliessimo dal tavolo negoziale, che investirà il Consiglio di Sicurezza, la prospettiva della partecipazione per la Serbia e per i Paesi vicini all’Unione Europea. Essere nell’Unione Europea è anche un modo di sdrammatizzare il problema dei confini e tragici conflitti di natura nazionalistica. Conoscete già la posizione che abbiamo assunto e che sta guadagnando terreno sul tavolo europeo: la possibilità di scongelare i negoziati per l’accordo di stabilità e associazione con Belgrado, subordinandone la effettiva entrata in vigore al pieno rispetto degli impegni della Serbia verso il Tribunale internazionale dell’Aja; è un approccio già tenuto con la Croazia, Paese candidato a diventare membro dell’Unione entro pochi anni. Le controversie che ancora solleva la storia confermano l’importanza di un destino comune, di un futuro europeo.
Più lungo e più delicato è lo scenario per la Turchia, ma anche in questo caso, tuttavia, tenere aperta la porta rientra negli interessi europei, perché ciò permetterà di impostare su basi cooperative e non conflittuali i rapporti con un grande Paese a maggioranza islamica e con un peso decisivo nella regione mediorientale. È evidente che, nel tempo in cui c’è chi teorizza lo scontro di civiltà, il processo di adesione all’Unione Europea di un grande Paese islamico è la risposta migliore ed è il modo di affermare i valori europei e il carattere inclusivo dei nostri valori, appunto, la democrazia politica, la libertà individuale, la coesione sociale, fondamento di una grande comunità che non conosce confini religiosi o di civiltà.
È evidente che l’Europa non potrà continuare ad allargarsi all’infinito. L’assenza di confini ne indebolisce anche l’identità internazionale. Nell’area di vicinato, ad Est del Mediterraneo, l’Europa dovrà essere in grado di costruire rapporti di partnership più solidi nel confronto con la Russia. Una politica europea più unitaria, anche in campo energetico, è la condizione di una minore vulnerabilità e di una maggiore coerenza nel reciproco interesse. L’Italia ha, in questi mesi, sviluppato un rapporto bilaterale molto attivo verso Mosca e, nello stesso tempo, ha sviluppato un’azione per sollecitare un impegno comune europeo in questa direzione. Abbiamo vitale bisogno di una politica energetica comune, così come abbiamo bisogno di concreti passi verso un Trattato post Kyoto che includa gli Stati Uniti e le grandi economie emergenti in un nuovo patto ambientale.
La posizione italiana è che anche la relazione transatlantica sarebbe consolidata, non indebolita da un aumento della coesione europea. L’Unione Europea continua ad avere bisogno, anche per essere unita, di un rapporto solido con gli Stati Uniti. L’Italia è favorevole ad un rafforzamento dei legami diretti tra Washington e Bruxelles, tra Stati Uniti e Unione Europea in quanto tale.
Infine, è nostra convinzione che gli europei riusciranno a rispondere alle sfide che hanno di fronte (sicurezza, competizione globale e questione ambientale) solo se l’Unione non si chiuderà all’interno, ma se riuscirà a proiettarsi all’esterno e ad essere un attore sulla scena internazionale. Questa è la svolta da compiere che l’Italia ha cercato di favorire con scelte conseguenti. Faccio due esempi. Il primo è la spinta che abbiamo esercitato nell’agosto scorso per ottenere che fosse il Consiglio europeo a ratificare politicamente l’invio di contingenti europei in Libano, cosa avvenuta ed avvenuta per la prima volta. È la prima volta cioè che l’Unione Europea decide di partecipare ad una missione delle Nazioni Unite, non soltanto per decisione di singoli Paesi, ma con una deliberazione del Consiglio europeo.
Il secondo è lo sforzo che stiamo compiendo in questi mesi per armonizzare le posizioni europee nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di cui l’Italia è membro non permanente in questo biennio, come risultato di un’elezione pressoché plebiscitaria (186 voti su 192 disponibili nell’Assemblea generale) che non ha quasi precedenti e che di per sé dimostra che l’impegno multilaterale dell’Italia è apprezzato da una vasta comunità internazionale.
Per concludere su questo punto non in modo retorico ma nei fatti, la politica estera italiana é stata prima di tutto in questi mesi una politica europea, il che significa una politica favorevole all’integrazione europea, come dimostra l’importanza degli sforzi compiuti insieme alla Germania per sbloccare l’impasse del trattato costituzionale, e significa una politica volta ad aumentare il grado di coesione europea sulle grandi questioni internazionali, dal Medio Oriente alla questione energetica.
Il Governo Prodi è un Governo europeista, anche perché ha dimostrato di non volere scaricare su Bruxelles il peso di responsabilità nazionali. Non abbiamo usato l’Europa per deresponsabilizzare l’Italia; abbiamo responsabilizzato l’Italia per rafforzare l’Unione Europea.
Nei mesi scorsi – passo al secondo tema – l’Italia non ha recuperato peso soltanto in Europa; lo ha recuperato anche sulla scena mediorientale. La pacificazione del Medio Oriente richiede oggi un impegno politico, diplomatico, economico, di sicurezza senza precedenti, che deve accomunare, per riuscire, attori internazionali e regionali. L’alternativa è un Medio Oriente fuori controllo, caratterizzato dalle ripercussioni della crisi in Iraq, da guerre civili striscianti, dalla diffusione del fondamentalismo.
Dobbiamo scongiurare lo scenario di uno scontro di civiltà tra Islam e Occidente, uno scenario estremamente pericoloso che produrrebbe solo vinti senza vincitori, con costi altissimi in termini di destabilizzazione regionale e di diffusione del terrorismo. Per sconfiggere il terrorismo la condizione, invece, è quella di isolarlo innanzitutto all’interno dello stesso mondo arabo ed islamico. Questo è uno dei primi obiettivi dell’azione dell’Italia che può fare leva sul rilancio di tradizionali rapporti di amicizia con il mondo arabo, che si erano alquanto appannati negli ultimi anni. Direi che c’è una vasta percezione, nel mondo arabo, del fatto che l’Italia è tornato ad essere un Paese amico; amico, naturalmente, sia d’Israele che degli arabi e, in quanto tale, in grado di esercitare un ruolo sul cammino della distensione e della pace.
Il secondo obiettivo, strettamente collegato, è che una nuova coalizione internazionale, fondata sul rapporto fra il Quartetto, ossia Unione Europea, Stati Uniti, Nazioni Unite…
La nuova coalizione, fondata sul Quartetto (Unione Europea, Stati Uniti, Nazioni Unite, Russia) e le componenti che potremmo definire più moderate del mondo arabo, deve riuscire a tradursi in progressi reali lungo tutto l’arco della crisi che ormai collega, attraverso le fratture tra sciiti e sunniti, l’instabilità in Iraq, la crisi libanese, il fronte israelo-palestinese.
Guardiamo anzitutto all’Iraq. Abbiamo disposto il ritiro del contingente italiano perché schierato in Iraq dopo un’operazione militare che era stata decisa in modo unilaterale, senza mandato delle Nazioni Unite, e con motivazioni – il possesso di armi di distruzione di massa – che si sono dimostrate infondate. Il ritiro dei soldati italiani dall’Iraq è stato, quindi, una scelta coerente con l’impostazione politica e programmatica della coalizione di Governo e rispondente sul piano operativo alla necessità di voltare pagina.
Abbiamo ritirato dall’Iraq i soldati italiani, ma non abbiamo ritirato il nostro appoggio economico e civile alla popolazione irachena. Lo dimostra la firma a Roma, nel gennaio scorso, del Trattato bilaterale di amicizia e di cooperazione con l’Iraq, conclusa in occasione della visita del ministro degli esteri iracheno Al Zibari.
Alla decisione sul ritiro dall’Iraq è seguita la risposta italiana al conflitto in Libano, nell’estate scorsa, con la nostra partecipazione alla missione UNIFIL rafforzata, di cui l’Italia ha assunto il comando, altro segnale – se mi permettete – di un riconoscimento del ruolo che il nostro Paese viene assumendo nello scenario mediorientale.
Ho avuto già occasione per spiegare le dinamiche e le ragioni di fondo che ci hanno indotto fin dall’inizio a svolgere un ruolo attivo di primo piano, un ruolo che dalla Conferenza di Roma in poi, organizzata insieme agli Stati Uniti, ha pesato positivamente sugli sviluppi della crisi.
Mi preme oggi ricordare soltanto l’importanza particolare della crisi libanese che conteneva in sé un doppio rischio, in parte ancora presente: innanzitutto, quello di destabilizzare un Paese democratico appena emerso da decenni di guerra civile, rischio di fronte al quale tuttora persiste la necessità di un forte impegno internazionale a sostegno delle istituzioni democratiche libanesi e del Governo, che è espressione della maggioranza scelta dai cittadini; in secondo luogo, quello di amplificare le tendenze negative emerse sulla scena mediorientale dal 2001 in poi, tendenze che avrebbero trovato, a seconda del modo in cui si sarebbe conclusa la crisi libanese, una conferma ulteriore o una possibilità di arresto.
Sulla base di questa doppia motivazione abbiamo visto nella crisi libanese una sfida che non potevamo ignorare. I fatti ci hanno dato per ora ragione. La stabilizzazione del Libano è certamente un obiettivo non ancora raggiunto – come dimostrano gli avvenimenti delle ultime settimane – ma possiamo dire che, con il cessate il fuoco tra le parti in conflitto internazionalmente garantito, è stato possibile separare le dinamiche interne libanesi dal fronte esterno di una guerra con Israele. E non solo.
In Israele si fa strada la consapevolezza che la sicurezza dello Stato ebraico può essere difesa meglio da una garanzia internazionale in cui l’Europa gioca un ruolo essenziale piuttosto che attraverso il ricorso a risposte militari nazionali.
Voglio sottolineare due punti importanti: come primo la forza UNIFIL, che non è un esercito occidentale schierato di fronte ad una minaccia islamica; è una forza internazionale nella quale, a fianco dei militari europei, vi sono i militari della Turchia (scelta importante), del Qatar e di altri Paesi islamici. Il secondo punto, che a me pare di grandissimo rilievo in questo scenario, è che l’Europa è tornata a giocare un ruolo attivo. Israele ha accettato per la prima volta lo spiegamento di una forza internazionale lungo i suoi confini come garanzia della sicurezza di Israele, apertamente dicendo che l’esperimento del Libano potrebbe anche essere la premessa per il dispiegamento di una forza internazionale a Gaza e nella Cisgiordania.
Dunque, la missione libanese è importante per molte ragioni: al di là della portata specifica, rappresenta un possibile punto di svolta.
Lasciatemi dire che nel Libano (purtroppo questo ha scarso rilievo nell’informazione nazionale, ma fortunatamente ne ha su quella internazionale) i nostri militari, così come in altri scenari, stanno svolgendo un lavoro di straordinario rilievo. Non solo, come è evidente, dal punto di vista militare, della sicurezza, dell’interposizione, della progressiva riduzione verso lo zero degli incidenti che lungo il confine israelo-libanese hanno caratterizzato nel corso degli anni una turbolenza e una minaccia continua: stanno svolgendo anche uno straordinario lavoro di assistenza delle popolazioni , di sminamento dell’area colpita dalla guerra, di prevenzione degli incidenti, fino ad un lavoro di istruzione nelle scuole per evitare che i bambini libanesi vengano colpiti dalle cluster bomb.
Come accennavo, sono d’altra parte evidenti i legami tra l’evoluzione in Libano e la situazione israelo-palestinese. In questi anni si è sostenuto da più parti che la questione palestinese avesse perso la sua centralità: non era vero e la tesi del Governo italiano, così come di larga parte della diplomazia europea, è opposta. Il conflitto israelo-palestinese rimane la chiave di tutti i conflitti mediorientali (questa è fermamente la mia opinione), e risolvere la questione palestinese, accelerare la ricerca di una soluzione, è diventato ancora più urgente nel momento in cui la situazione palestinese contribuisce alla crisi interna di gran parte dei Governi della regione favorendo l’ascesa di movimenti fondamentalisti che cercano di appropriarsi della bandiera della causa palestinese.
Abbiamo a lungo incoraggiato, come Italia e come Europa, la creazione di un Governo palestinese di unità nazionale. Sono andati nella stessa direzione gli sforzi compiuti dall’Arabia Saudita con l’organizzazione dell’incontro alla Mecca tra Abu Mazen e Khaled Meshaal, sforzi che abbiamo attivamente e direttamente sostenuto.
Dopo tale incontro, e dopo il vertice trilaterale di due giorni fa tra Condoleezza Rice, Abu Mazen e Ehud Olmert, siamo forse giunti ad una possibile svolta positiva. Il Governo palestinese e il suo programma non sono ancora noti: la cautela è d’obbligo. L’accordo della Mecca è comunque un’occasione che dobbiamo, l’Europa e il resto della comunità internazionale, saper valorizzare e non perdere. Se quell’accordo fallisse, l’unica prospettiva sarebbe quella della ripresa di una sorta di guerra civile strisciante nei Territori: una tragedia per i palestinesi, ma anche un motivo in più di insicurezza per Israele. Noi non vogliamo consentirlo.
Ciò che è essenziale è che il nuovo Governo riconosca gli accordi sottoscritti dall’Autorità Nazionale Palestinese con Israele, consentendo così ad Abu Mazen di avviare un negoziato con Israele a nome dell’intera comunità palestinese.
D’altro canto, che interesse potrebbe avere Israele a fare la pace con metà dei palestinesi?
È evidente che il processo di pace richiede un coinvolgimento dell’intera comunità palestinese. Soprattutto, ciò che è essenziale è che il nuovo Governo si impegni contro la violenza, promuovendo immediatamente e finalmente con la liberazione del caporale Shalit quello scambio di prigionieri che sarebbe un segno di distensione nei rapporti israelo-palestinesi, bloccando il lancio di missili, favorendo l’estensione della tregua in vigore a Gaza, alla West Bank, condizione appunto perché cessi la violenza in tutta la Regione. Si tratta di un passaggio estremamente delicato, di un momento davvero difficile ed importante.
Ne abbiamo parlato ieri con la collega israeliana Tzipi Livni e con il presidente Abu Mazen. L’uno e l’altra hanno sentito il bisogno di informare l’Italia e di chiedere una nostra partecipazione attiva per definire le questioni ancora aperte nelle settimane che verranno. Per questo ritengo che sarà necessaria una missione nella regione oltre che urgente una discussione a livello europeo, perché, pur apprezzando l’iniziativa americana, di Condoleezza Rice, credo che far diventare il “quartetto” un singolo Paese rischi in realtà di indebolirne l’azione e di ridurre il consenso internazionale.
L’Italia continuerà ad essere partecipe di questo processo, di questi sforzi, in un passaggio – ripeto – molto delicato e difficile, ma che potrebbe essere un tornante decisivo per accelerare il cammino della pace.
Infine, la diplomazia italiana sta applicando le sanzioni all’Iran, decise nel dicembre scorso dal Consiglio di sicurezza, secondo il regolamento europeo approvato il 12 febbraio scorso nel Consiglio affari generali.
L’Italia non si sottrae alle sue responsabilità, ma ritiene anche che per raggiungere risultati effettivi sia indispensabile tenere unito il fronte dei Paesi membri del Consiglio di sicurezza. È l’unica vera pressione politica che potrebbe spingere l’Iran a riprendere il negoziato. Come ha dimostrato il caso della Corea del Nord, un’impostazione negoziale efficace può anche produrre risultati importanti, come la rinuncia all’ambizione nucleare.
Oggi riceveremo a Roma il capo dei negoziatori iraniani, Ali Larijani, e torneremo ad insistere con lui per chiedere all’Iran un gesto aperto e ragionevole di adesione alle richieste della comunità internazionale. Tuttavia, è evidente all’indomani delle vicende della Corea del Nord e dell’Iran (che è in pieno svolgimento), che ci troviamo di fronte ad un problema più generale, alla necessità cioè di rilanciare una strategia complessiva di non proliferazione e di riduzione degli arsenali nucleari.
La mia opinione è che in parte un’occasione sia stata perduta dopo la fine della guerra fredda e che vi sia addirittura il rischio di una ripresa della corsa agli armamenti, innanzitutto tra Stati Uniti e Russia. La Comunità internazionale non ne ha bisogno ed anche per questo, nel corso della nostra recente visita in Giappone, d’intesa con il Governo giapponese, abbiamo ritenuto di dover rilanciare un dibattito internazionale proprio sui temi della non proliferazione e del disarmo nucleare, nella convinzione che questo potrà essere uno dei temi della presidenza giapponese del G8 a cui l’Italia vorrà dare un proprio contributo di iniziative e di proposte.
Lasciate che a questo punto io affronti una delle questioni più delicate e controverse e che, tuttavia, è a pieno titolo parte dell’iniziativa internazionale dell’Italia in questa complessa regione, nella quale si sviluppa il conflitto con il terrorismo e con il fondamentalismo, vale a dire le ragioni della presenza italiana in Afghanistan, innanzitutto nella sua componente militare di quasi 2.000 soldati schierati a Kabul e ad Herat, che ringrazio come tutti i nostri militari impegnati all’estero per il loro straordinario impegno.
Si tratta, come è noto, di una missione condotta dalla NATO più 13 Paesi non membri della NATO sotto mandato delle Nazioni Unite. Nella sua componente civile, anch’essa importante, è una missione in crescita, come dimostra anche l’aumento delle risorse che il Governo intende mettere a disposizione e che riteniamo debba ancora crescere.
Lo abbiamo detto chiaramente nella riunione dei Ministri degli esteri della NATO a Bruxelles nel gennaio scorso: “La pacificazione dell’Afghanistan non è missione della NATO, è una missione delle Nazioni Unite all’interno della quale la Nato, insieme ad altri Paesi, svolge una delicata ed essenziale funzione militare, ma la missione è innanzitutto politica e civile”. Lo ripeteremo nel Consiglio di sicurezza.
L’Italia ha chiesto ed ottenuto di poter essere il Paese leading, quello che promuove e organizza il dibattito sul rinnovo del mandato della missione civile delle Nazioni Unite (UNAMA), che si svolgerà a marzo, e di essere anche relatore nel dibattito sul rinnovo del mandato per la missione militare, che si svolgerà ad ottobre.
Abbiamo dunque rivendicato per noi, con tutti i rischi del caso, il compito di essere il Paese che nell’ambito del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite imposterà la discussione sui futuri compiti dell’ONU sul piano civile, politico e militare in Afghanistan.
È del tutto evidente che la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, dopo l’abbattimento del regime dei talibani, non ha ancora prodotto gli effetti sperati. Sono stati ottenuti risultati importanti, che non credo possano essere sottovalutati: la liberazione dell’Afghanistan da un regime oppressivo, oscurantista, totalitario, che ignorava i più elementari diritti umani, in particolare quelli delle donne; la creazione di prime istituzioni democratiche; la formazione di un esercito nazionale; la ripresa delle scuole, sia pure in un Paese segnato ancora da alti tassi di analfabetismo, il faticoso avvio di un processo di ricostruzione economica.
Sono risultati importanti. Ancora qualche giorno fa, nella Conferenza internazionale con le donne afghane, che si è svolta a Roma, abbiamo sentito tante testimonianze significative di persone che, grazie all’impegno internazionale, hanno ritrovato la possibilità di vivere liberamente la propria vita, di lavorare, di affermarsi come cittadini di un Paese normale, pure attraversato da un così tragico conflitto.
Credo che dobbiamo discutere con l’Afghanistan. Dobbiamo discutere con le personalità politiche che rappresentano quel Paese. Dobbiamo discutere innanzitutto con loro i compiti futuri della comunità internazionale e lasciate che – aprendo una piccolissima parentesi – lo dica non soltanto come Ministro degli esteri ma, se mi permettete, anche come uomo di sinistra. Gran parte della classe dirigente afgana di oggi è rappresentata da persone che hanno combattuto da posizioni democratiche e progressiste il regime oppressivo dei talibani. Il Ministro degli esteri dell’Afghanistan, costretto all’esilio dal regime dei talibani, dopo il massacro di tutta quella parte della società afgana che aveva sostenuto il Governo comunista, è stato a Colonia un militante dei Verdi, consigliere comunale, direi una personalità formatasi nella sinistra europea che è tornato nel suo Paese grazie alla caduta di un regime oscurantista e totalitario.
Credo che con queste forze, con queste personalità dobbiamo discutere come sviluppare una strategia più efficace allo scopo di ottenere i risultati che ci proponiamo. E’ del tutto evidente…
La convinzione del Governo italiano è che per vincere la sfida in Afghanistan si debba rafforzare l’impegno civile, l’impegno politico, l’impegno economico. La convinzione del Governo italiano è che sarebbe un gravissimo errore che la NATO si isolasse, facendo della missione afghana una sfida solo della NATO.
La missione afghana è innanzi tutto una sfida dell’intera comunità internazionale, delle Nazioni Unite e dell’insieme dei Paesi del mondo, tra i quali – faccio osservare – non ve n’è neppure uno che sostenga la necessità di ritirare le forze internazionali dall’Afghanistan, dal momento che tutti i Paesi del mondo – tra i quali ne cito due piuttosto importanti nella regione: la Russia e la Cina – ritengono che un ritorno dei talibani sarebbe una tragedia non accettabile, anche per loro. La Cina ha 93 chilometri di confine con l’Afghanistan.
È dunque necessario impegnare l’insieme di questi Paesi in uno sforzo comune. È necessario impegnare l’Unione Europea in quanto tale. Il Consiglio europeo ultimo ha approvato una nuova missione, cosiddetta PESD, per la preparazione delle forze di polizia afghana; missione europea, che vedrà, quindi, una presenza dell’Unione in quanto tale nella missione afgana.
In questo senso va l’impegno internazionale dell’Italia. In questo senso va la Conferenza che abbiamo promosso, d’intesa che le Nazioni Unite e con il Governo afgano, sullo Stato di diritto, il cui obiettivo è quello dell’adozione di un nuovo piano di azione per il funzionamento della giustizia e la tutela dei diritti umani in Afghanistan. In questo senso va la richiesta italiana di una Conferenza internazionale per la pace in Afghanistan, capace di coinvolgere tutti i Paesi della regione e tutti i Paesi e le istituzioni internazionali a differente titolo impegnati in Afghanistan.
Questa proposta, che ci ha visti in un primo momento isolati, raccoglie via via maggiori consensi: sia la disponibilità, dichiarata in Italia qualche giorno fa, del Governo afgano, che ha rappresentato una novità importante, sia il consenso di altri Paesi europei. È di ieri il documento congiunto tra il Governo spagnolo e il Governo italiano. La Spagna tra l’altro schiera le proprio forze armate a fianco delle nostre, in una missione che è comune. È di ieri il documento congiunto del Governo spagnolo e di quello italiano, in cui, appunto, si richiede – questa volta insieme – l’organizzazione di una Conferenza internazionale per la pace in Afghanistan.
Vedete, non ci nascondiamo e non ho nascosto le difficoltà di questa sfida. Non ci nascondiamo e non ho nascosto le responsabilità che l’Italia si è assunta, ma, come il Senato può facilmente comprendere, una linea di responsabilità comporta anche dei vincoli e dei doveri. È una scelta difficile rimanere lì, in uno scenario così drammatico, ma essendo lì possiamo chiedere di essere relatori nel Consiglio di sicurezza; essendo lì possiamo batterci per una conferenza internazionale per la pace. Se non ci fossimo più, rompendo la solidarietà europea, venendo meno ad un mandato dell’ONU, non potremmo più avere diritto di esercitare il nostro peso nella comunità internazionale.
Ecco perché quello che noi chiediamo al Parlamento è di avere il consenso necessario per affrontare i rischi, ma anche nella consapevolezza che affrontare quei rischi è la condizione per sviluppare in modo autorevole quell’azione per la pace in cui l’Italia è impegnata con l’adesione, il sostegno e la solidarietà di altri Paesi e di altre forze internazionali.
Avrei molti punti da aggiungere sulle scelte internazionali compiute in questi mesi, ma lasciate che mi limiti ad enunciare qualche tema e a ricordare qualche titolo. Ci siamo sforzati di allargare gli orizzonti, come ho detto, dell’azione internazionale dell’Italia, guardando a grandi aree del mondo che sono protagoniste del processo di globalizzazione e rispetto alle quali l’Italia aveva mantenuto nel corso degli ultimi anni un atteggiamento distante e, talora, ostile, guardando alla sfida della competizione internazionale più con timore (i dazi), che non con fiducia nelle possibilità di un grande paese come l’Italia. Missioni italiane sono state in Cina, in India, in Giappone e in Brasile. In tutti questi Paesi si sono riallacciate relazioni politiche e si sono determinate anche nuove opportunità…
Non vorremmo apparire come dei sostenitori acritici delle virtù taumaturgiche della globalizzazione. Sappiamo che la globalizzazione è una sfida, una sfida difficile, ma siamo convinti che i suoi effetti vadano governati attraverso la cooperazione internazionale.
Mi pare che questa rinnovata, ampia azione internazionale dell’Italia risponda agli interessi di un grande Paese, la cui capacità di rispondere alle sfide competitive, il cui dinamismo e la cui creatività sono, appunto, le condizioni per vincere.
Interpretare in modo dinamico gli interessi generali del Paese significa anche guardare con lungimiranza a Paesi percepiti con minore rilievo strategico. Penso ad un continente dimenticato per antonomasia, ma non dall’Italia, e in questo caso, in verità, neppure negli anni recenti, cioè l’Africa, dove il presidente Prodi si è recato poche settimane fa per assistere, unico Capo di Governo non africano invitato, al vertice dell’Unione Africana. Anche questi sono segnali di un’attenzione nostra e di un’attenzione verso di noi. L’Africa è teatro sia di crisi umanitarie che politiche tra le più drammatiche, dal Darfur alla Somalia, dove l’Italia ha un ruolo importante da esercitare come parte del gruppo di contatto. Per l’Italia l’Africa è un continente vicino. Basti pensare all’enorme problema dei flussi migratori, al quale stato dedicato un primo summit euro-africano lo scorso novembre a Tripoli.
Infine, abbiamo dato rilievo ad una dimensione della politica estera che è l’impegno intorno a grandi questioni di principio che toccano valori fondamentali come quello dei diritti umani. Ne è testimonianza la campagna promossa alle Nazioni Unite per la moratoria universale delle esecuzioni di condanne a morte nel quadro di una campagna per l’abolizione completa della pena capitale nell’ambito di una iniziativa che non può che essere di lungo periodo in quanto punta a mutare comportamenti collettivi consolidati. Sono stati già conseguiti risultati di rilievo, tra cui la dichiarazione presentata in Assemblea generale dall’Unione Europea, sottoscritta già da svariate decine di Paesi. Ci stiamo adoperando perché si arrivi in tempi ravvicinati ad un dibattito e ad un voto nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Nell’azione internazionale dei mesi scorsi abbiamo dovuto tenere conto di un vincolo evidente, difficilmente eludibile: il vincolo della finanza pubblica, che ha imposto di contenere risorse e, di conseguenza, ambizioni. Abbiamo cercato di rispondervi con azioni di razionalizzazione e in prospettiva di più ampia riforma.
Vorrei sottolineare alcuni risultati non disprezzabili: innanzitutto, l’incremento della spesa per aiuti pubblici allo sviluppo, praticamente raddoppiata, dai 374 milioni agli oltre 600 del 2007, insufficienti e che, tuttavia, testimoniano di una volontà del Governo di rilanciare l’azione italiana di lotta alla povertà, come asse della nostra azione internazionale.
Nel frattempo, abbiamo messo a punto e presentato al Parlamento un primo progetto di riforma della cooperazione allo sviluppo, a cui diamo e do molta importanza: una riforma lungamente attesa, che spero il Parlamento ci aiuti adesso a realizzare al più presto e che armonizzerebbe l’assetto italiano al principio prevalente in altri Paesi europei e la separazione tra indirizzo politico, che resterà di competenza del Ministero degli affari esteri, e gestione operativa, affidata ad una struttura tecnica, aperta alla collaborazione con le Regioni, con i Comuni, con i donatori privati per rendere più efficace e meglio coordinata l’azione italiana di solidarietà. Stiamo anche lavorando alla struttura del Ministero degli esteri con l’obiettivo di ridurre le spese al minimo compatibile e di rendere più efficiente, razionalizzandola, la rete diplomatica e consolare.
Considero – ma voi direte: è naturale – il bilancio di questi mesi di lavoro come bilancio positivo. Non è intenzione del Governo né mia enfatizzare successi, anche perché siamo consapevoli della difficoltà delle sfide nelle quali siamo impegnati. Tuttavia, l’Italia c’è in diversi scenari essenziali e c’è con un ruolo di protagonista. In questa difficile fase delle relazioni internazionali non possiamo permetterci di essere né cinici, né sognatori. Non vogliamo rinunciare alla nostra ispirazione ideale, né possiamo rinunciare ad un lucido realismo necessario per tradurre questa ispirazione in un’azione politica efficace nel quadro dei rapporti di forza esistenti.
La politica estera italiana attuale è nella continuità con la tradizione migliore della politica estera dell’Italia repubblicana. Abbiamo praticato nei fatti la priorità del multilateralismo, un riferimento per noi obbligato, tra l’altro alla luce del dettato della Costituzione repubblicana che ho citato all’inizio della mia esposizione: rifiuto della guerra, ma anche coraggioso riferimento ad una possibile limitazione della sovranità, nel nome di un impegno della comunità internazionale.
So bene che le scelte della politica estera, le singole scelte della politica estera possono via via mettere a disagio una parte del Senato e una parte dell’opinione pubblica. Nel valutare gli effetti complessivi di una politica, ciò che si chiede non è l’adesione entusiasta ad ogni singolo passaggio, ma, appunto, la valutazione di un disegno complessivo e di un’azione complessiva, dei suoi indirizzi, dei suoi risultati, dei valori cui si ispira.
Credo che questa azione sia coerente e mi sono sforzato di dimostrarlo con il programma con il quale la maggioranza di Governo si è presentata agli elettori.
Una cosa è certa: un Paese come l’Italia, che non è una grande potenza, non può ingaggiare sfide così delicate e complesse come quelle nelle quali siamo impegnati senza un consenso politico forte e chiaro. Di questo abbiamo bisogno.
Il Governo italiano non può trovarsi nelle prossime settimane ad affrontare la difficile sfida, ad esempio, dell’atteggiamento internazionale verso un nuovo governo palestinese, o la difficile discussione sul cambio di strategia in Afghanistan nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, o la difficile sfida sul tema della pena di morte (che, come voi sapete, irrita diversi grandi Paesi) senza aver la certezza di un consenso e di una stabilità.
Non lo si può chiedere a nessuno e certamente il Governo non lo potrebbe fare.
Dunque, noi siamo qui a chiedere questo consenso, a chiedere il consenso più ampio possibile per continuare nel difficile, impegnativo cammino della pace.”
Ti telefona uno e ti dice: ti ho mandato una mail. Leggi la mail e quello ti scrive: poi ne riparliamo al telefono. Insomma, tutti ti dicono che ti hanno detto qualcosa, invece di dirti che cosa vogliono dirti. Che il mondo sia pazzo lo sapevamo, ma che stiamo diventando deficienti ce ne accorgiamo solo quando qualcuno ci fa incazzare.
Una ricerca pubblicata sul CyberPsychology and Behavior nel 2004 spiega il fenomeno dell’arroganza via e-mail con diverse motivazioni: l’anonimato della rete, il fatto di non vedere gli altri direttamente, l’intervallo di tempo che intercorre fra l’invio di un messaggio di posta elettronica e il momento in cui il destinatario lo leggerà. Ma anche la esagerata consapevolezza di sé favorita dal passare ore da soli online, o ancora la mancanza di una figura di riferimento autorevole in rete. A volte l’effetto disinibizione può essere positivo, come nel caso di qualcuno eccessivamente timido, che invece su internet riesce a comunicare senza filtri in modo più efficace. Ma il rovescio della medaglia è quella che rischia di diventare maleducazione e rasenta la molestia.
Chi dal vivo è gentile ed educato, rischia di trasformarsi in un maleducato quando è protetto dall’anonimato della rete. E’ quello che sostiene uno studio pubblicato nel 2002 sul Journal of Language and Social Psychology. Nell’esperimento descritto coppie di studenti universitari che non si conoscevano fra loro, si comportavano in modo cortese ed impeccabile quando si trovavano ad interagire di persona. Ma appena comunicavano tra loro in chat, diventavano aggressivi ed eccessivamente spinti.
Justin Kruger e Nicholas Epley, ricercatori della Business School dell’Università di Chicago hanno dimostrato come la chiarezza delle email sia altamente sopravvalutata.
Kruger ed Epley, con cinque esperimenti successivi che hanno via via verificato e ampliato i risultati, hanno chiesto a dei volontari di trasmettere messaggi via email o telefono sinceri o sarcastici. Chi scriveva era convinto, nel 75% dei casi, che il destinatario avesse identificato correttamente il tono del messaggio. Sebbene questo fosse vero per i destinatari del messaggio telefonico, tra coloro che avevano ricevuto le email, solo il 56% era stato in grado di percepire il messaggio in modo appropriato. A fare maggiore chiarezza non serviva neanche il tipo di rapporto esistente tra scrivente e destinatario, perché i malintesi ci sono in egual misura tra amici, conoscenti o estranei.
Conclusione: niente nella comunicazione scritta può rimpiazzare il linguaggio non verbale, fatto di ‘segnali paralinguistici’ e ‘segnali prossemici’. Quando ci si dice qualcosa faccia a faccia, chi parla non usa solo le parole, ma il tono della voce e la gestualità, che arricchiscono il messaggio e forniscono all’ascoltatore importanti chiavi di interpretazione.
Le lettere tradizionali erano usate su base mensile o settimanale, la posta elettronica è usata molto più di quella vecchia maniera, ha rimpiazzato il telefono, spesso negli uffici si manda un’email, anche quando sarebbe più facile parlarsi direttamente. Pensateci bene, quante volte avete usato una e-mail e poi vi siete resi conto che la velocità della posta elettronica ha ulteriormente impoverito il già povero (rispetto alla comunicazione a voce) linguaggio scritto, con conseguenti e spesso spiacevoli equivoci?
Secondo la ricerca di Kruger ed Epley , non è solo un limite dell’email, qualcosa di intrinseco al mezzo, ma anche un atteggiamento del tutto umano, un eccesso di egocentrismo. Secondo i ricercatori americani tutti, per abitudine, sovrastimiamo la nostra abilità di comunicare via email, per un eccesso di autostima. Benché consapevoli dell’ambiguità dei nostri messaggi, non riusciamo ad ammettere che il nostro interlocutore potrebbe interpretarli in maniera diversa. Questo è dovuto al fatto che seppure cerchiamo di metterci nei panni degli altri e di immaginarne il punto di vista, i sentimenti o i pensieri, usiamo pur sempre noi stessi come punto di riferimento. Non riusciamo insomma ad andare oltre la nostra esperienza soggettiva e nel caso delle email sopravvalutiamo le nostre abilità di scrittori.
La cosa migliore da fare è parlare quando bisogna parlare, scrivere quando bisogna scrivere. E quando si scrive, scrivere come se fosse una lettera, con tutte le cautele e le buone abitudini della posta scritta. Per esempio, è meglio cominciare con una ‘caro’ e finire con ‘cordiale saluto’. Come se usaste la penna. Avere poco tempo, non significa avere fretta. Le comunicazioni sbrigative sono di per se irritanti: scritte, parlate o lette che siano.
La migliore forma di empatia è la buona educazione, proprio perché empatia fa rima con cortesia. Beh, buona giornata.
La doccia fredda su milioni di italiani è l’aumento del 20 per cento del prezzo dei biglietti dei treni. “Non e’ pensabile che le tariffe Fs si muovano con aumenti del 20% e pensioni e retribuzioni con aumenti del 2%”. La denuncia viene da Adiconsum, una delle associazioni dei consumatori. “Il Governo deve intervenire per respingere questa pretesa di Trenitalia”, ha affermato il segretario generale di Adiconsum, Landi, per il quale “non sono accettabili richieste di aumento slegate da programmi di investimento sulla qualita”. Critico anche Mastrantoni di Aduc, un’altra associazione dei consumatori che sottolinea che Trenitalia dovrebbe “offrire un servizio all’altezza”.
La scoperta dell’acqua calda arriva invece dall’Istat, l’istituto ufficiale delle statistiche, secondo cui l’inflazione, causata proprio dall’aumento delle tariffe, tra cui, evidentemente quelle dei trasporti, colpisce in prima istanza le famiglie povere del nostro Paese. Roba da non credere. Ma la vera notizia è che la condizione economica e di conseguenza sociale di milioni di italiani non fa proprio notizia. Che anche questa è una non novità. Però, visto che il grande impoverimento delle famiglie italiane è avvenuto durante gli anni del governo precedente, ci si sarebbe aspettato che almeno queste problematiche fossero al centro, non dico dell’azione del governo, ma almeno del dibattito politico.
Oggi, il Ministro degli Esteri D’Alema presenta le linee guida della politica del governo italiano. Tutti i riflettori sono puntati su questo “avvenimento”: la sinistra radicale pungola, il governo dondola, l’opposizione gongola. Si vede che la politica estera è diventato un rifugium peccatorum, nel quale inanellare teorie, mostrare i denti, fare bei giri di valzer, sfoggiare l’abito mentale della festa.
Ciò che colpisce non è tanto la distanza tra la condizione sociale di milioni di persone e la marcata distanza del ceto politico. Quanto il fatto che a nessuno venga in mente che il paese reale se la passa male. Che Vicenza , l’Afghanistan e i Dico sono le rose, ma ogni tanto sentiamo il bisogno di parlare anche del pane.
Basterebbe che verdi, rifondaroli e comunisti italiani invece che sinistra “radicale” avessero più piacere a farsi definire “sociale”. In modo da mettere nell’agenda politica il semplice fatto che se le previsioni dicono che nel 2007 l’economia italiana crescerà attorno al 2%, questo beneficio non venga negato a chi fatica a cucire il pranzo con la cena.
E su questo, invece che sull’astrattezza della politica vogliano concretamente misurare la capacità di pungolare l’azione del governo Prodi, il quale fa bene a portarsi appresso gli industriali italiani in giro per il mondo a fargli vedere come si fa a diventare competitivi nei mercati globali, ma farebbe meglio, almeno una volta, se se li caricasse su un treno di pendolari in Italia: vuoi vedere che l’emergenza crescita quelli la toccano con mano?
Magari diventerebbe chiaro a tutti che un paese diventa competitivo se riesce a essere competitivo nella diffusione del benessere interno. A chi pensasse questo sia facile populismo, basterebbe ricordare una semplice massima: il denaro non fa la felicità, figuriamoci la miseria. Beh, buona giornata.