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La delibera dell’Autorithy per le comunicazioni sulla digitalizzazione delle tv italiane danneggia il mercato e il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.

di Tommaso Valletti da lavoce.info
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. Ma in Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. E mentre all’estero i governi mettono all’asta senza limitazioni quelle liberate dalla tecnologia digitale, da noi la competizione riguarda solo tre canali e sarà riservata agli operatori televisivi. Di sicuro, la delibera danneggia lo sviluppo economico e inficia il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato, l’8 aprile, i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. La delibera prevede ventuno reti nazionali e definisce le procedure per la messa a gara del dividendo digitale. Il presidente Corrado Calabrò ha aggiunto che “in linea con quanto avviene in tutta Europa, la procedura pubblica sarà del tipo beauty contest”. Il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani, ha espresso la propria soddisfazione dopo l’emanazione della delibera che “rappresenta il primo passo formale di un percorso intrapreso in piena sintonia con la Commissione europea dopo mesi di intenso e costruttivo confronto. (…) Il percorso così delineato rappresenta un ulteriore stimolo all’azione lineare, coerente e costruttiva intrapresa da questo governo per lo sviluppo della comunicazione nel nostro paese, avviato con la progressiva digitalizzazione del comparto radiotelevisivo e con le misure favorevoli allo sviluppo della banda larga”. (1)

COS’È IL DIVIDENDO DIGITALE

Nulla di tutto ciò è vero. Non è vero che vi sia stato confronto. Non è vero che in tutta Europa si assegni il dividendo digitale con un beauty contest. Non è vero che queste misure favoriscano lo sviluppo della banda larga. Non è vero che nel nostro paese vi sia mai stata una linea coerente per lo sviluppo della comunicazione, in modo particolare, per quello che riguarda le frequenze elettromagnetiche.
Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto, di cosa stiamo parlando? Il passaggio dalla tv analogica alla tv digitale permette di utilizzare meno banda grazie alla maggiore efficienza delle tecniche digitali rispetto a quelle analogiche. Dunque, gli attuali canali, quando trasmessi con tecniche digitali, hanno bisogno di minori frequenze, liberando le vecchie, che possono essere assegnate ad altri usi e utilizzatori: è questo il cosiddetto “dividendo digitale”.

COSA ACCADE ALL’ESTERO

Le norme comunitarie, in verità molto generiche, impongono trasparenza e neutralità tecnologica nell’uso dello spettro. In concreto, ciò consiste in procedure a evidenza pubblica e non sottoposte a discriminazione nell’assegnazione.
Il Regno Unito ha deciso di allocare due terzi delle frequenze legate al passaggio dall’analogico al digitale a servizi radiotelevisivi, ma le procedure di assegnazione non sono note. Il restante terzo, un blocco comunque assai sostanzioso di 112 MHz, sarà messo all’asta senza vincoli sulle tecnologie o sugli utilizzi. L’analisi del governo britannico ha infatti concluso che quelle frequenze sono molto preziose e potenzialmente appetibili anche agli operatori mobili, o ai operatori fissi per la banda larga, o ad altri ancora. In mancanza di informazioni precise sui singoli business plan dei vari operatori, il governo farà l’unica cosa che abbia un senso economico: un’asta, senza restrizioni, assicurando che i diritti di proprietà siano rispettati e non si abbiano interferenze.
Anche la Francia sicuramente consentirà agli operatori mobili di concorrere per il dividendo digitale: uno studio commissionato dal governo stima a 25 miliardi di euro il beneficio di non limitare l’allocazione ai soli servizi televisivi. Il governo tedesco ha da poco annunciato che parte del dividendo digitale sarà utilizzato per offrire servizi wireless a banda larga. Per entrambi i paesi, tuttavia, non sono ancora note le modalità di assegnazione.
Negli Stati Uniti, circa un anno fa, sono state vendute all’asta frequenze a 700 MHz, molto vicine a quelle di cui stiamo parlando ora in Italia. In quell’asta sono stati incassati 19 miliardi di dollari per licenze vinte soprattutto da Verizon e AT&T, ma anche da nuovi operatori. Si trattava comunque della settantatreesima asta tenuta dalla Fcc a partire dal 1994 e oggi siamo già arrivati a settantanove: ecco un esempio di politica seria e capillare sulle frequenze. (2)

IL CASO ITALIA

E l’Italia? Continuiamo con le solite critiche al nostro paese? Purtroppo sì, e a ragion veduta. In Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. Pur senza entrare nel merito del far west delle tv private e delle continue procedure di infrazione che la Comunità europea ci commina, non si è mai voluto comprendere il valore economico delle frequenze elettromagnetiche e il costo legato a una loro assegnazione inefficiente. Si sono effettuate due aste: una nel 2000 per l’Umts e una l’anno passato per il Wi-Max. Ma sono due casi che purtroppo non hanno fatto scuola. Il 40 per cento delle frequenze è in mano al ministero della Difesa che non paga nulla per il loro utilizzo. E potrebbe anche non utilizzarle affatto. Nel Regno Unito, per esempio, il ministero della Difesa paga per le frequenze, il che ha comportato risparmi e la restituzione di quelle inutilizzate. Eppure, seguendo alcuni passi elementari, lo Stato italiano potrebbe incassare 2 miliardi di euro all’anno, oltre a liberare risorse che favoriscono lo sviluppo economico. (3)
La delibera sul dividendo digitale prevede che quattro canali siano dati a Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia, due a ReteA e uno a Europa TV. Quanto ai restanti cinque canali, alcuni dettagli portano a pensare che a Rai e Mediaset sarà assegnato un ulteriore canale a testa. Restano quindi solo tre canali su cui sarà effettuato un beauty contest limitato a operatori televisivi. Nulla di preciso si sa a proposito delle frequenze per le 500 tv private, anche se è facile prevedere che si troveranno anche quelle prima o poi, sempre gratis o quasi.
La delibera danneggia sicuramente lo Stato e dunque i cittadini: non porterà ad alcun incasso, salvo briciole. Danneggia lo sviluppo economico, perché non abbiamo alcuna idea di come sono stati selezionati gli operatori prescelti. Di sicuro, colpisce tutti gli operatori che non siano televisivi, perché gli operatori mobili, ad esempio, non potranno concorrere per ottenere frequenze di cui sono assetati. Di certo inficia il pluralismo, visto che Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni. (Beh, buona giornata).

(1) Vedi anche Beauty contest per l’assegnazione delle frequenze in linea con gli altri Paesi Ue.
(2) http://wireless.fcc.gov/auctions/default.htm?job=auctions_home.
(3) C. Cambini, A. Sassano e T. Valletti (2007), Le concessioni sullo spettro delle frequenze, in U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà (a cura di), “Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica”, Il Mulino, Bologna.

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Il gruppo editoriale Espresso nell’occhio del ciclone della “quarta crisi”.

A Roma il CdA di Gruppo Editoriale L’Espresso ha approvato i risultati consolidati del primo trimestre 2009

Nei primi mesi del 2009 l’ulteriore peggioramento del quadro macro-economico ha determinato una contrazione degli investimenti pubblicitari ancora più accentuata di quella manifestatasi nell’ultima parte del 2008. Secondo i dati pubblicati da Nielsen Media Research, il mercato pubblicitario nel suo complesso ha registrato nel primo bimestre del 2009 una flessione del 19,5% rispetto al 2008.

La contrazione, seppur con diversa intensità, ha riguardato tutti i mezzi ad eccezione di internet, la cui crescita tuttavia ha subito un forte rallentamento. I ricavi netti consolidati del Gruppo nel primo trimestre 2009 ammontano a 215 milioni, registrando una flessione del 18% rispetto al corrispondente periodo dell’esercizio precedente (262,3 milioni ).

I ricavi pubblicitari, pari a 109,3 milioni, mostrano una riduzione complessiva del 26,8%; la stampa quotidiana, in flessione del 22,4%, registra un calo più contenuto rispetto al mercato, grazie alla migliore tenuta dei quotidiani locali. I restanti mezzi mostrano andamenti sostanzialmente in linea con le evoluzioni dei mercati di riferimento. I ricavi diffusionali, esclusi i prodotti opzionali, sono pari a 65,8 milioni (-1,6% rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente).

I ricavi dei quotidiani sono in linea con i valori del 2008, mentre i periodici mostrano una leggera flessione. In termini di diffusioni, la Repubblica e L’Espresso hanno registrato flessioni più significative (rispettivamente -21,4% e -24,6%) imputabili, sostanzialmente, alla decisione di sospendere o ridurre alcune formule distributive ad alto contenuto promozionale, scarsamente remunerative. I quotidiani locali, infine, registrano diffusioni in linea con quelle dei primi tre mesi del 2008, confermando la maggior tenuta di questo settore rispetto alla crisi del mercato.

I ricavi dei prodotti opzionali ammontano a 35,8 milioni con un calo di appena il 7,9% in un contesto di mercato in forte contrazione, grazie al buon riscontro di pubblico ottenuto anche dalle nuove iniziative del periodo. Il margine operativo lordo consolidato è pari a 16,7 milioni con una flessione del 53,2% rispetto ai 35,6 milioni del primo trimestre 2008.

Va segnalato che l’impatto sul conto economico della drastica riduzione della raccolta pubblicitaria è stato attenuato dalla riduzione del 12% dei costi operativi, derivante essenzialmente dai piani di azione già messi in atto. Il risultato operativo consolidato è pari a 6 milioni (25,4 milioni nel primo trimestre del 2008) e il risultato netto consolidato registra una perdita di 2,5 milioni (utile di 10,5 milioni nel corrispondente periodo dell’esercizio precedente).

La posizione finanziaria netta consolidata è passata da -278,9 milioni di fine 2008 a -248,8 milioni al 31 marzo 2009 con un avanzo finanziario di 30,1 milioni equivalente a quello generato nel primo trimestre del 2008.

Prevedibile andamento della gestione
L’andamento del trimestre nonché le evidenze a disposizione sul mese di aprile confermano la drastica riduzione degli investimenti pubblicitari e non lasciano intravedere, allo stato attuale, alcun segnale di ripresa in un contesto generale che resta di forte incertezza, favorendo la riduzione degli investimenti o il loro rinvio.

Per far fronte all’evoluzione critica del mercato, e nello specifico del settore editoriale, il Gruppo ha già messo in atto una serie di misure di contenimento dei costi che hanno permesso, sin dal primo trimestre, di compensare in parte gli effetti del crollo della pubblicità. È tuttavia evidente, sulla base dei risultati del primo trimestre, la necessità di realizzare ulteriori azioni di contenimento dei costi, a partire da una semplificazione societaria e organizzativa e da una significativa reingegnerizzazione dei processi.

Parallelamente, il Gruppo mantiene l’impegno nella valorizzazione delle proprie testate e dei brand attraverso lo sviluppo dei propri contenuti sulle nuove piattaforme, con particolare riguardo ai siti web delle testate locali, e all’adozione, senza significativi investimenti, di nuovi miglioramenti qualitativi nella stampa e nella grafica dei propri giornali, tra i quali l’estensione nel corso dell’esercizio del full color alla quasi totalità dei quotidiani locali. Inoltre, il management intende continuare a rafforzare le competenze manageriali del Gruppo, presidiando le aree di maggiore criticità ai fini dello sviluppo. (Beh, buona giornata).

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E Obama inventò l’e-democracy.

di Lorenzo Montagna, commercial director Yahoo! Italia

Tutto il percorso che ha portato Barack Obama alla 44ma presidenza degli Stati Uniti, dalle primarie alla candidatura ufficiale, dall’Election Day all’Inauguration Day, è stato caratterizzato da un nuovo approccio ai media, in particolar modo internet. Usando le sue stesse parole, un ‘cambiamento’ totale che rivoluzionerà per sempre il rapporto tra web, politica e democrazia. Sicuramente Obama non è stato il primo personaggio politico ad affacciarsi al web, ma è quello che l’ha fatto con più convinzione e maggiore determinazione.

L’epoca pre-Obama è caratterizzata dall’uso non mirato e marginale del web per fare propaganda politica. Si restava, comunque, nell’ambito di una comunicazione one- to-many, dove i commenti (se presenti) restavano senza risposta e la partecipazione era inesistente. Ecco, la partecipazione. Il merito di Obama (e del suo staff) è stato passare dalla comunicazione al dialogo, allargando la possibilità di partecipazione prima a pochi gruppi di sostenitori e poi, a macchia d’olio, a un intero partito, a un paese, al mondo.

Obama ha sicuramente tratto vantaggio dal web, ma è vero anche il contrario. La sua elezione ha fatto da traino a un media che aveva bisogno della consacrazione al di fuori della cerchia degli addicted. Aveva bisogno di uno shock, di un evento che dimostrasse a tutti le sue straripanti potenzialità di aggregazione e di interattività. Così come lo sbarco sulla Luna nel 1969 fu determinante per l’affermazione della tv, 40 anni dopo l’elezione di Obama lo è per internet: un’esperienza aggregante che un’intera generazione ricorderà di aver vissuto soprattutto online.

L’Obama-mania è culminata il 20 gennaio con l’Inauguration Day, un evento che ha messo a dura prova la resistenza del mezzo e che ha fatto registrare un incredibile boom di contatti. Yahoo! Notizie, per esempio, negli USA è stato visitato da più di 9 milioni di utenti unici (1), piazzandosi al terzo posto tra i portali di news e confermandosi un punto di partenza ideale per informarsi in rete, mentre su Flickr (2) 3.439 utenti hanno seguito live la cerimonia caricando più di 13.500 foto direttamente da Washington o dedicate all’evento. Così il tanto citato ‘popolo della rete’ è stato definitivamente sdoganato passando da nicchia a opinion maker, allargando il proprio bacino a tutti coloro i quali volevano sentirsi parte della rivoluzione in corso. Ecco perché, al di là dell’importanza storica, l’elezione di Obama sarà ricordata come uno degli eventi più coinvolgenti della storia. Questa è anche l’opinione dei nostri utenti che recentemente hanno collocato l’evento subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle e la morte di Giovanni Paolo II in un sondaggio lanciato da Yahoo! Notizie (3).

Obama ha capito per primo il vero funzionamento della rete intesa non più come vetrina espositiva, ma finalmente come un intreccio di connessioni e ne ha sfruttato appieno le potenzialità del buzz. Tutto ciò che Obama ha detto, fatto e pensato durante la campagna elettorale è stato condiviso attraverso le più famose piattaforme del web. Non mostrato, ma condiviso. Le 53.526 foto caricate sul suo account Flickr sono state viste e commentate milioni di volte, ma non sono rimaste un fenomeno confinato alla rete, sono state riprese da tutti i siti, le televisioni e i giornali del mondo.

Il segnale che qualcosa sta cambiando, e che internet sta passando da media di nicchia a comun denominatore di molti, è il passo deciso verso forme di e-democracy concrete.

Alcune pubbliche amministrazioni, le più lungimiranti, stanno aprendo canali di interazione con i cittadini, altre si limitano alla messa in rete di documenti o alla digitalizzazione di procedure.

Alcuni personaggi politici stanno aprendo canali video e incentrando le proprie campagne sull’online.

Obama docet e sull’onda del suo successo segnalerei la campagna di comunicazione del ‘Plan E’, la soluzione alla crisi economica messa a punto dal governo Zapatero. Un lastminute website chiaro e funzionale dove il premier e i ministri spagnoli spiegano con video e immagini i piani del governo per uscire dalla crisi. È assente la parte ‘2.0’ di interazione e commento, ma è apprezzabile il tentativo d’importazione del modello web-centrico USA. (Beh, buona giornata).

Note:

1 Fonte: Nielsen Online , NetView Custom Analysis, 22 gennaio 2009

2 http://www.flickr.com/groups/inauguration2009/

3 Coinvolti più di 6.000 votanti. I risultati sono su http://it.notizie.yahoo.com/sondaggi/42319-risultati-wv.html

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La “quarta crisi” colpisce ancora duro il New York Times.

Editoria, Usa/ La New York Times Co. perde 74,5 milioni di dollari nel primo trimestre- da blitzquotidiano.it

Le brutte notizie per la New York Times Co. non sembrano finire mai. L’azienda, proprietaria dell’omonimo quotidiano, del Boston Globe e di 15 altri giornali, nel primo trimestre ha visto i suoi ricavi pubblicitari precipitare del 27 per cento.

Le perdite sono state pari a 74,5 milioni di dollari, o 52 centesimi per azione, molto peggio delle previsioni degli analisti. Nel primo trimestre del 2008 le perdite erano state appena di 335 mila dollari. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
The Huffington Post

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“L’audience come misura del mondo.”

Televisione misura del mondo
di MARCO BELPOLITI da lastampa.it

Uno degli aspetti che più colpiscono nell’attuale processo d’omologazione in corso è l’idealizzazione del banale e dell’insignificante. Certo c’è stata «la casalinga di Voghera», assurta al rango d’intellettuale di riferimento dopo il patronage d’Alberto Arbasino, ma adesso tocca agli intellettuali di X Factor. Secondo Walter Siti, che ne ha scritto sulla Stampa sabato scorso, si tratta di un programma seguito da nutriti gruppi d’ascolto di cui farebbero parte scrittori e intellettuali di grido, che dibattono tra loro, non più di Marx e Nietzsche, di Adorno e Horkheimer, bensì di Morgan e Mara Maionchi.

Colpisce il fatto che le persone esposte allo sguardo ammirato di molti, se non di tutti, non siano più modelli alti, personaggi di rilievo intellettuale o morale, quanto piuttosto uomini e donne modesti, anonimi, assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. Realtà e spettacolo si avvicinano sempre più, così che il secondo ha inglobato la prima. Del resto, lo spettacolo non assolve più alla sua naturale funzione di rappresentare, drammatizzare, far riflettere, appassionare, svolgendo il ruolo catartico per cui era nato, ma s’identifica sempre più con la realtà stessa, così che non esiste più alcuna differenza tra le due cose: tutto è spettacolo, anche la vita, soprattutto quella intima.

Gli psicoanalisti, interessati a quello che accade fuori dalle loro stanze, da tempo ci stanno indicando un aspetto della trasformazione in corso, di cui il voyeurismo e l’esibizionismo televisivo, tipico dei nuovi programmi, ne è la spia più diffusa: una progressiva carenza di identità prima ancora che di valori. Anna Maria Pandolfi, in un preveggente studio di qualche anno fa, postulava per la società attuale un assetto narcisistico estremamente fragile e povero, per il quale «essere visti e conosciuti o solo guardati, quale che sia il prezzo che per ciò si paga, sembra essere l’unico rimedio a un pericoloso vissuto di non valore o addirittura di non esistenza».

L’audience come misura del mondo. La televisione, meglio la neotelevisione berlusconiana – modello straordinario di un ordinario «pensiero unico» -, ha realizzato proprio questo, secondo una tendenza omologante e appiattente a cui anche gli intellettuali raffinati – o presunti tali – si sono equiparati e genuflessi: tutti osservano la stessa cosa. Chi dice, o mostra, cose diverse, chi esce dal coro, con provocazioni oppure con un persistente silenzio, viene immediatamente eliminato. Non è più solo un’invenzione da intellettuali francesi, bensì un dato inconfutabile: la realtà mediatica ha sostituito nella testa di menti illuminate e di scrittori, che si vorrebbero trasgressivi, la realtà fattuale.

Jean Baudrillard, ci ricorda Anna Maria Pandolfi, in alcune pagine illuminanti e terribili, peraltro inascoltate, ci aveva avvisato diversi anni fa: quando tutto è esposto alla vista, non c’è più nulla da vedere. Il nulla sotto forma di rumore di fondo, schiamazzo, pseudo-discussione, è diventato la forma stessa della società italiana dell’inizio del XXI secolo attraverso il suo strumento mediatico più efficace: la televisione. Qualche giorno fa un’importante personalità istituzionale ha sostenuto con una boutade che non era il caso d’insistere sulle responsabilità nei crolli delle case, degli ospedali, degli edifici pubblici dell’Aquila.

Il senso di colpa o la vergogna, sottintendeva l’intervento autorevole dell’uomo politico, non hanno più alcun senso perché rivolti verso il passato. Il futuro è quello che conta. Ma quale futuro? Chi è capace di reggere la presenza del proprio o altrui errore, di ammetterlo o combatterlo, possiede, ricorda la psicoanalista Pandolfi, un Sé sufficientemente saldo e un’identità abbastanza definita per poter entrare nell’area della conflittualità, tollerare la colpa e sopportare la depressione che ne consegue.

Al contrario, chi rigetta tutto questo, dimostra il bisogno «di essere visto e parlato, per garantirsi della sua propria esistenza e negare il vuoto e la futilità del suo mondo interno e, ora, anche di quello esterno, tra i quali peraltro la distinzione non è più così netta». C’è solo da augurarsi che intellettuali intelligenti e acuti, scrittori bravi e di successo, si risveglino dal sonno della ragione che, non partorisce solo mostri, come ci avvisava Goya, ma anche e soprattutto il vuoto di una pseudo-vita omologante e banale. (Beh, buona giornata).

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Togliere la pubblicità dalla tv pubblica non ha aiutato le televisioni francesi a resistere alla “quarta crisi”.

I 3 milioni in più di telespettatori che il 5 gennaio 2009 hanno assistito alla prima serata senza pubblicità sul principale canale pubblico francese, non hanno confermato nel tempo l’interesse verso l’esperimento voluto da Nicolas Sarkozy

La legge per togliere la pubblicità dalla Tv pubblica, fortemente voluta dal presidente francese un anno fa, sembrerebbe non aver giovato all’intero sistema televisivo. Promulgata il 7 marzo scorso, ha visto la sua applicazione con due mesi d’anticipo grazie all’adesione spontanea, suggerita da Sarkozy , delle due reti ammiraglie France2 e France3 che hanno tolto la pubblicità dai loro palinsesti.

Risultato: i dati d’ascolto di France Télévisions, almeno fino ad ora, confermano un’audience in leggero calo: France 3 passa dal 12,9% di dicembre 2008 al 12,1% del febbraio 2009, mentre quella delle reti private Tf1 e M6 è rimasta sostanzialmente invariata, intorno rispettivamente al 26% e all’11%.

Con lo ‘stop’ alla pubblicità sulla tv pubblica dalle ore 20.00 in poi, a guadagnarci è stata soprattutto la tv digitale terrestre, che offre passaggi pubblicitari a tariffe convenienti e vanta una buona fetta d’audience.

A quattro anni dal lancio oltralpe, che ha portato nelle case francesi ben 14 canali gratuiti in aggiunta a quelli analogici, oltre ai 14 a pagamento, l’audience dei canali digitali a febbraio ha toccato quota 14% e secondo NPA Conseil, arriverà al 25% nel 2012, mentre i canali tradizionali si attesteranno al 60% (contro l’attuale 73% e l’89,8% del 2004). Il resto sarà occupato dai canali pay del cavo e del satellite.

Nonostante le premesse, l’esperimento francese non ha prodotto l’ipotizzato dirottamento delle risorse pubblicitarie dal piccolo schermo pubblico a quello privato. Come riportato a firma di Edoardo Segantini sul Corriere della Sera di lunedì 20 aprile, a cambiare destinatario, secondo gli obiettivi del governo, dovevano essere 800 milioni di euro di spot: il grosso, circa 480 mln, sarebbe andato alle reti nazionali private Tf1 (di Martin Bouygues, amico personale del presidente) e M6, del gruppo tedesco Bertelsmann. 160 mln a radio, stampa e affissioni, 80 a Internet e 80 ai canali digitali terrestri .

Che cosa è avvenuto in realtà lo spiega Augusto Preta, di ITMedia Consulting: anziché trasferire su altri media la pubblicità prima pianificata sulle reti pubbliche, dice l’analista, gli inserzionisti hanno semplicemente soppresso gli investimenti. In buona parte per effetto della crisi economica. Particolarmente pesante il bilancio di Tf1, prima rete privata di Francia, che nei primi due mesi del 2009 ha visto i suoi ricavi pubblicitari lordi diminuire del 20,3% rispetto allo stesso periodo del 2008, con una caduta del titolo in Borsa del 50 per cento. Ma anche M6 ha perso il 10% degli incassi da spot.

Secondo Stefano Carli di Affari e Finanza, il problema sta nel fatto che Sarkozy aveva previsto di compensare la perdita dei mancati ricavi pubblicitari di France 2 e 3 con un contributo del 3% sul fatturato pubblicitario, calcolato sull’anno precedente, delle altre Tv e lo 0,9% dei ricavi da banda larga delle telecom. Il resto è a carico dello Stato. Un controsenso dal punto di vista economico: Tf1 ha registrato -20% di spot nel 2008 e M6 -10% e pagheranno per una pubblicità mai arrivata.

Per ora in Francia sono in corso accese polemiche, mentre in Italia la proposta di Bondi di creare un sistema analogo a quello francese ha trovato a commento un silenzio quasi assoluto. Soltanto i canali digitali terrestri possono brindare visti i ricavi pubblicitari in crescita dell’85%. Ma in ogni caso, dal punto di vista del sistema, si tratta di pochi milioni di euro guadagnati a fronte delle centinaia persi dai maggiori network nazionali. In un mercato depresso, ‘gli inserzionisti stanno tentando di ottimizzare i loro investimenti’, ha spiegato Philippe Nouchi di ZenithOptimédia, centro media affiliato alla holding francese Publicis.

Inizialmente, Tf1 aveva approfittato dell’oscuramento degli spot sulla Tv pubblica per aumentare le proprie tariffe serali. Cosa che chiaramente non è stata ben accolta dal mondo della pubblicità. C’è stato un vero e proprio braccio di ferro con i grossi advertiser, tra cui probabilmente Danone (assente dagli schermi di Tf1 dall’inizio dell’anno) e Colgate .

L’esperienza francese ha dunque trovato un grosso ostacolo proprio nella crisi economica che ha impattato sulla globale crisi del mondo dei media, quella che è stata definita la “quarta crisi”. A cui si vanno ad aggiungere forti resistenze da parte dei network televisivi commerciali, che proprio non si rassegnano all’idea del calo tendenziale della tv nella filiera della comunicazione commerciale. Ad esempio, la contrarietà di Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset alla diminuzione della pubblicità dalle reti pubbliche italiane si spiega nel forte timore che se anche in Italia prendesse il via l’esperimento francese, ciò potrebbe comportare un dirottamento degli investimenti pubblicitari Rai verso Sky, invece che nelle casse del Biscione. Beh, buona giornata.

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La crisi economica sta facendo a pezzi la pubblicità italiana.

Dopo un gennaio nero per l’adv (-18,7% ), prosegue anche a febbraio il trend negativo degli investimenti pubblicitari. Nel complesso, nel bimestre la Televisione presenta una flessione del -16% e la Stampa registra un calo del -27,4%. In diminuzione anche gli investimenti sulla Radio (-27,2%), sull’Outdoor (-36,2%), sul Cinema (-27,1%) e sulle Cards (-52,5%). Solo l’adv on line cresce del +3,9% .

Secondo Nielsen Media Research continua il difficile momento dell’advertising: dopo un gennaio nero (-18,7%), anche a febbraio i risultati non sono positivi e la diminuzione complessiva del primo bimestre 2009 si attesta a -19,5% rispetto al corrispondente periodo del 2008. La contrazione riguarda, con diversa intensità, tutti i mezzi ad eccezione di Internet. Wind, Ferrero e Volkswagen con circa 70 milioni euro di spesa guidano la classifica dei top spender.

Complessivamente le aziende attive in comunicazione sono 6.721 (erano 7.552 a gennaio-febbraio 2008) con un investimento medio di 155 mila euro (-9,3% ).

L’analisi dei mezzi mostra per la Televisione, considerando sia i canali generalisti che quelli satellitari (marchi Sky e Fox), una flessione sul bimestre del -16,0% . Tra i principali settori si evidenzia il calo di Alimentari (-14,7%), Auto (-17,6%), Telecomunicazioni (-2,7%) e l’exploit di Enti/Istituzioni (+39,2%).

La Stampa, nel suo complesso, ha un calo del -27,4%. I Periodici diminuiscono del -29,6% con l’Abbigliamento a -34,6%, la Cura persona a -28,7% e l’Abitazione a -16,8%.

I Quotidiani a pagamento mostrano una flessione del -26,4% con l’Auto e l’Abbigliamento , i due settori più importanti, che riducono gli investimenti rispettivamente del -45,3% e del -45,2%. E’ soprattutto la Commerciale Nazionale a frenare con una diminuzione del -33,9%, ma sono in calo anche la Locale (-16,7%) e la Rubricata/Di Servizio (-21,6% ).

In contrazione anche la Free Press (-25,3%). I primi due mesi dell’anno fanno registrare variazioni negative anche per la Radio (-27,2%), per l’Outdoor (-36,2%), per il Cinema (-27,1%) e per le Cards (-52,5% ).

Il Direct mail passa da 101 milioni del gennaio-febbraio 2008 a 79 milioni nel gennaio-febbraio 2009 (-22,0%). Performance, invece, positiva per Internet che cresce del +3,9% superando gli 83 milioni .

Da gennaio, con i dati storici relativi a tutto il 2008, Nielsen rileva un nuovo mezzo, l’Out of home tv, le televisioni degli aeroporti e della metropolitana di Telesia , società controllata da Class Editori. La raccolta nei primi due mesi di quest’anno è stata di circa 1 milione euro con un decremento del -7,9% sul corrispondente periodo del 2008. Beh, buona giornata.

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Il terremoto, una mano santa per la popolarità di Berlusconi.

Il premier e il sisma. Fiducia in crescita
Le conseguenze politiche del terremoto
di Renato Mannheimer da corriere.it

La tragedia del terremo­to ha avuto inevitabil­mente anche effetti po­litici e ripercussioni sull’opi­nione pubblica. In due direzioni principali. La prima è stata l’improvviso instaurarsi di un clima meno conflittuale tra le forze politi­che. Di fronte a una situazio­ne così drammatica, molte delle tradizionali dispute tra i partiti sono state accantonate dalla necessità di operare di comune accordo per reagire il più rapidamente e il più ef­ficacemente possibile al­l’emergenza. La seconda con­seguenza è costituita dalla forte accentuazione della dif­ferenza di popolarità tra le principali forze politiche, con un netto accrescimento del vantaggio, già consisten­te, acquisito dal presidente del Consiglio. Berlusconi ha confermato le proprie capaci­tà comunicative e la sua abili­tà nell’instaurare, spesso al di là di ogni intermediazione, un rapporto e un colloquio di­retto con la «gente».

Gli ultimi sondaggi confer­mano questo quadro. Quasi metà dell’elettorato (48%) ritie­ne che, al di là del proprio giu­dizio in merito, il Cavaliere sia riuscito oggi a riscuotere più fiducia di prima. Questa opi­nione è relativamente più pre­sente tra chi è politicamente simpatizzante per il centrode­stra: ma anche tra gli elettori del Pd la convinzione che Ber­lusconi abbia ottenuto un van­taggio è assai diffusa (36%).

Se si approfondisce l’anali­si e si interrogano i cittadini non tanto sulle loro conside­razioni di carattere generale, quanto sulla propria reazione alle iniziative del Cavaliere, l’immagine del successo di Berlusconi viene meglio deli­neata e chiarita nelle sue com­ponenti. Più di un quarto de­gli italiani (26%) dichiara di avere incrementato la pro­pria personale fiducia nel Pre­sidente del Consiglio proprio a seguito del suo comporta­mento in Abruzzo. Costoro sono naturalmente in gran parte già elettori del centro­destra e ne riproducono le ca­ratteristiche sociali (anziani, casalinghe, possessori di tito­li di studio medio-bassi). Ma anche una quota — modesta, ma significativa: poco meno del 10% — di votanti per il Pd «confessa» di provare, dopo il terremoto, più fiducia in Berlusconi.

Negli ultimi giorni, insom­ma, il Cavaliere ha visto incre­mentare ulteriormente la pro­pria popolarità, grazie special­mente alla mobilitazione del proprio elettorato già acquisi­to, ma anche attraverso la conquista delle simpatie di un piccolo segmento dei vo­tanti per l’avversario. La con­seguenza è un ulteriore allar­gamento del grado di consen­so goduto nel Paese — oggi superiore al 50% — e, ciò che forse è più importante, un au­mento della percentuale di in­tenzioni di voto per il Pdl che oltrepassano oggi il 45% e, se­condo alcuni, si avvicinano al 50%. (Beh, buona giornata).

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Spagna: via la pubblicità dalla tv pubblica?

Spagna; Zapatero: “drastica riduzione” pubblicità in Tv di Stato
Roma, 14 apr. (Apcom) – La Spagna come la Francia: Madrid mira a ridurre la pubblicità nella televisione pubblica. E l’annuncio viene dal presidente del governo socialista, José Luis Rodríguez Zapatero, che lo ha detto oggi a deputati e senatori del Psoe riuniti in seduta plenaria per discutere le prossime leggi che l’esecutivo invierà in Parlamento. Il leader socialista ha annunciato che il governo manderà alle Camera una nuova proposta di legge sulla riforma del settore audiovisivo; un precedente testo nella scorsa legislatura si era arenato per mancanza di consenso. Nella nuova legge sarà indicato come obbiettivo proprio quello che chiedevano le televisioni commerciali. Ovvero, come ha detto Zapatero caldamente applaudito dai suoi stessi parlamentari, “una drastica riduzione della pubblicità nella tv di Stato”, i canali della TVE. In novembre, la Unione delle televisioni commerciali (Uteca) aveva ribadito all’esecutivo l’esigenza che la Tve non trasmetta pubblicità e che si finanzi esclusivamente con fondi pubblici, e la richiesta che la tv di Stato si concentri a trasmettere eventi per cui non entri in competizione con le televisioni commerciali. Sotto tiro in particolare il pagamento da parte della Tve di 60 milioni di euro per i diritti di vari campionati di calcio, cifra che secondo l’Uteca è il triplo di quanto avevano precedentemente pagato le tv private. La decisione di Zapatero rischia di ridurre di parecchio il raggio d’azione della tv pubblica, rendendola di fatto dipendente in modo totale dalle sovvenzioni del governo in carica (che, caso raro in Europa, non prevede un canone diretto dei telespettatori). Va ricordato che dopo il ritorno della democrazia, Tve – con un unico canale generalista al quale qualche anno dopo se n’è aggiunto uno regionale – non è mai stata sottoposta a un processo di “lottizzazione”, ma occupata in toto dall’esecutivo al potere. Di fatto, Tve è sempre stata un strumento a disposizione dei governi ma non dei partiti, che hanno alleati più preziosi – e in teoria più al riparo da incertezze elettorali – nei grandi gruppi privati. La legge dovrebbe infatti favorire il potere di acquisto delle televisioni commerciali, le sole a dividersi la torta dei ricavi pubblicitari – relegando Tve ai telegiornali e a format poco costosi, e sperando quindi di ridurre l’entità della spesa totale necessaria al suo finanziamento. Un dibattito simile è avvenuto poche settimane fa in Francia, dove il presidente conservatore Nicolas Sarkozy ha presentato e visto approvare una legge che riduce progressivamente e drasticamente la trasmissione della pubblicità sui canali di France Television, la tv di Stato (peraltro in Francia finanziata anche con il canone). I critici hanno affermato che Sarkozy voleva in primo luogo favorire i proprietari dei canali commerciali e privati, molti dei quali sono suoi amici personali. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: il conflitto tra new e old media.

da blitzquotidiano.it

Internet e i giornali/ Un sito americano, Gawker.com: portiamo ai giornali il 40% del traffico. E accusa gli old media di incompetenza

Una polemica sull’uso dei contenuti dei giornali da parte dei siti internet sta divampando negli Usa. A originarla è stata la tesi che i giornali dovrebbero farsi pagare per le informazioni, riprese e rilanciate dai siti, esi sostenuta da molti nel mondo della carta stampata e formalizzata da Dan Singleton, editore e presidente dell’agenzia Associated Press.

Gawker.com, un sito internet di New York molto attento all’informazione, dai grandi temi al piccolo pettegolezzo, è partito con veemenza all’attacco. Gawker ha accusato i diriegnti della carta stampata di ignoranza e incompetenza. Anche il Wall Street Journal e il New York Times, ha scritto, possiedono aggregatori, che fanno prorpi il mestiere messo sotto accusa: entrambi i quotidiani contengono sezioni in cui si trovano titoli e notizie ripresi da altre fonti. “Peccato che i proprietari dei due giornali non se ne siano accorti”.

Al di là della polemica, Gawker.com sostiene una tesi che favorisce i siti internet e gli aggregatori di notizie in particolare. Riproducendo un grafico che dimostra la costanza del flusso, Gawker.com fa vedere come il 40% del traffico versi i siti ei giornali venga proprio da aggregastopri e motori di ricerca. (Beh, buona giornata).

[The] WSJ (a News Corp. property) and NYT (a key AP member) are both themselves news aggregators. Both maintain sections which quote headlines from external sites. So, constituents of these organizations already know aggregation is useful and fair. This knowledge just hasn’t reached AP’s and News Corp.’s leadership.

11 aprile 2009 | 16:47

FONTI INFORMATIVE
Gawker.com
Gawker.com – 2
Gawker.com – 3

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Attualità Popoli e politiche Pubblicità e mass media Società e costume

Un ragionamento sulle gaffes di Berlusconi.

da blitzquotidiano.it

Questo è un aggiornamento, basato sui fatti recenti, di un commento dedicato alla propensione alle gaffes del primo ministro italiano Silvio Berlusconi.

Lo si è visto durante il terremoto. Serio, durante i funerali, anche se visibilmente annoiato e impaziente. Ma composto, ineccepibile.

E ha dimostrato una capacità di rapporto con la gente, certo basata sul populismo più che sul sinceeroi sentimento, ma che ha fatto di sicuro bene alle migliaia e migliaia di abruzzesi rimasti senza casa e costretti a vivere sotto le tende. Passare con loro la Pasqua è stata una scelta giusta e intelligente, che si discosta dal freddo e imbarazzato comportamento del passato.

Non è che questo renda più buono Berlusconi: per i suoi avversari, però dovrebbe essere una ulteriore prova di quanto sia abile e per loro pericoloso.

Se poi ci voleva una conferma della tesi che le gaffes di Berlusconi sono in prevalenza frutto di scelte politiche, il terremoto in Abruzzo, nel grande dolore che ha provocato, l’ha data.

A smontare questa teoria non è valsa la montatura fatta da alcuni giornali stranieri di una frase detta da Berlusconi ad alcuni bambini rimasti senza casa a causa del terremoto in Abruzzo. Semmai si tratta della logica conseguenza di un uso e abuso di battute di spirito da parte del premier italiano, che spesso viene classificato come “gaffes”.

Per chi pensa che il premier Silvio Berlusconi non faccia mai niente a caso, quelle che per gli osservatori superficiali sono delle gaffes diventano invece degli atti politici ben precisi.
Non a caso Berlusconi le fa: come direbbero i suoi odiati giudici, reitera. Uno come lui, che vive di tv, politica e sondaggi, non lo farebbe se ne avesse, dai sondaggi dei riscontri positivi dalla sua base elettorale, o almeno una consistente parte di essa.

Facendo il cucù alla cancelliera tedesca Angela Merkel, trattando da pari a pari, come un coscritto, il presidente francese Nicolas Sarkozy, Berlusconi fa superare al nostro inconscio italiano un complesso di inferiorità verso gli stranieri, che trova riscontro in tanti film di Alberto Sordi o di Totò.

Siamo abituati a essere guardati dall’alto in basso un po’ in tutto il mondo. Ci consoliamo dicendoci da soli che siamo simpatici perché distribuiamo pasta e pomodoro (salvo poi essere ripagati da bombe e fucilate): infatti quegli stessi stranieri extracomunitari che umilmente ci servono come badanti o camerieri, a casa loro ci chiamano proprio così, “macaroni”. E così fanno anche i francesi: anche in questo caso, un classico del cinema, “Rififi”, di Jules Dassin, conferma.

Berlusconi in un certo senso pareggia il conto, ci rende giustizia, ci fa sentire alla pari degli altri. Noi lo neghiamo, ma intimamente li sentiamo superiori a noi. Che poi così facendo ribadisca nelle loro teste il concetto che non siamo gente simpatica sì, ma poco seria e quindi poco affidabile, diventa marginale. A un’intepretazione politica è certamente ascrivibile la più clamorosa delle gaffes, quella a Buckinghan Palace, davanti alla regina d’Inghilterra, anzi, dietro le sue spalle. E anche la susseguente ira di Berlusconi, che se l’è presa con i giornali invece che con sé stesso, ha una evidente motivazione politica.

Vediamo i due episodi.
Berlusconi, dopo la foto di gruppo a Buckingham Palace la vigilia del summit dei G20, non sta nella pelle, vuole a tutti i costi la foto con il presidente americano Barack Obama e lo chiama a gran voce, come si sente chiaramente nel video diffuso da Youtube. «Mister Obamaaaaaa!», chiama a voce alta, provocando, come in tanti hanno potuto vedere, il fastidio della sovrana.

La foto che ne consegue, è anch’essa una foto di gruppo , molto meno informale della prima, con tutti i personaggi ritratti felici e sorridenti come scolari in gita. Al vertice del gruppo, più in alto di tutti, c’è Berlusconi. Accanto Obama. Berlusconi non sta nella pelle dalla gioia. Obama, col pollice trionfalmente alzato e un ghigno soddisfatto, è anche lui al settimo cielo. Le ragioni della gioia di Obama sono evidenti: un summit che poteva naufragare davanti agli occhi del mondo intero per il nulla di fatto che vi è stato ottenuto, è invece riuscito a trasferire al mondo un’immagine di successo il cui effetto psicologico, se non altro sui sondaggi, almeno qualche tempo dovrebbe continuare.

E Berlusconi? Beh, lui ha le sue ragioni e sono più di una. Ha fatto la pace con Obama. Posando con lui, Obama ha mostrato di non essersela presa proprio per la battuta sulla abbronzatura del presidente americano. Anzi, non solo posa, ma posa felice, e quasi quasi le loro teste si sfiorano nel sorriso.
Obama, che ha escluso l’Italia dal suo viaggio in Europa quasi per punire il governo Berlusconi dell’eccessivo appiattimento su Bush (e dato che l’Italia conta nel mondo molto poco, gli americani hanno fatto finta di niente con l’Inghilterra di Gordon Brown ma a noi ce l’anno fatta pagare, umiliandoci: Obama è stato in Gran Bretagna, Francia, Germania e Turchia, ha visto testa a testa i premier di Spagna e Grecia, ma con Berlusconi solo la foto, con tutti gli altri, e a gentile insistenza).

Ora tutto sembra superato, Obama verrà in Italia in luglio, per il G8, ma nel frattempo Berlusconi gli ha strappato un invito a Washington, del genere «se proprio vuoi, vieni pure». Non c’è che dire: «Silvio l’è propi simpatic, ogni tanto sarà un po’ monello, ma alla fine tutti lo perdonano e vince semper lu».

In questa logica, anche l’irritazione per il risalto che siti e giornali italiani hanno dato all’aristocratico scatto di nervi della regina è un fatto politico. La regina, oltre a essere una signora di ottant’anni che non sopporta i rumori e i toni di voce eccessivi, è anche discendente da una stirpe che, per dritto o per traverso occupa quel trono da quasi mille anni. Subire un rimbrotto da una persona così è come entrare al Grand’Hotel con le scarpe gialle o bicolore e essere guardati dall’alto in basso da ospiti e portieri con quel “mepris” che ti fa arrossire per la brutta figura (espressione italiana entrata ormai nel linguaggio internazionale).
Il rimprovero della regina è old money contro new money, è la maionese impazzita che rovina il pesce.

È quello sguardo che ti dice: sei sempre lo stesso, un povero “macarone”. E dopo tanti sforzi per accreditarsi con “Mister Obamaaa”, la delegittimazione più nera e umiliante.

E un po’, che uno sia pro o contro Berlusconi sul piano politico poco importa, la cosa dovrebbe irritare tutti. Non c’è solo Berlusconi a fare gaffes al mondo. Un giornale inglese di recente ha stilato l’elenco delle venti gaffes più recenti del presidente americano Barack Obama e del suo vice Joe Biden. E non hanno proprio nulla da imparare dal povero cavaliere. Ma tant’è, Lui è Lui, è ricco, e soprattutto italiano. E gli italiani nel mondo sono, ci piaccia o no, quel che i romeni sono in Italia. Anche per questo, forse, un politico che, nonostante l’età, nutre ancora grandi ambizioni di rappresentare l’unità nazionale, alle belle o brutte figure dovrebbe stare più attento. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi secondo il nuovo direttore de Il Corriere della Sera.

(fonte: advexpress.it)
Ecco uno stralcio del discorso di insediamentoidi Ferruccio De Bortoli alla direzione del Corriere della Sera:

“Viviamo in una stagione nella quale l’informazione è una commodity gratuita, purtroppo – ha dichiarato – La si può avere ovunque. La nostra unica salvezza, ma anche la nostra grande opportunità, è spingere su una informazione di qualità, con notizie, approfondimenti e inchieste. Una informazione di qualità che si integri meglio con la rete. Ma sia difficilmente replicabile e giustifichi il suo valore d’uso. Noi dobbiamo spingere al massimo, ancora di più di quanto abbiate fatto finora, nell’integrazione fra web e carta. Ma distinguendo di più fra i due mezzi. Affinché il primo non soffochi la seconda e la rete costituisca la difesa e la promozione, con tutte le modalità multimediali, di un grande marchio di qualità come il Corriere della Sera. I giornali sono in crisi. In tutto il mondo. Ma non sono mai stati così letti, su carta e sul web, come oggi. Ci sarà una ragione se un navigatore sceglie, per avere un’informazione certificata, una testata storica. Vuol dire che quella testata è credibile, affidabile. I giornalisti devono affrontare la sfida, mettersi in gioco, uscire dalle protezioni corporative”.

E poi uno sguardo al futuro dei quotidiani: “I quotidiani hanno un futuro? Io sono convinto di sì e non lo dico per farmi coraggio o per farvi coraggio. Dico sempre, a mo’ di battuta, che i giornali vengono da lontano ma non appartengono al passato. Pensate a quanto è ancora forte, pur con diffusioni calanti, il rapporto fra un lettore e il suo giornale (…). Però, ve lo dico subito, bisogna essere più umili, mettersi di più nei panni di chi legge, avere la pazienza di rispondere alle mail, per esempio. Ogni lettore va curato personalmente, non deve mai sentirsi abbandonato dal proprio quotidiano. Perché poi non torna più. E perché, ricordatevi, nella rete il lettore sta un gradino sopra di noi. E’ insieme navigatore, utente, consumatore, certificatore e persino giornalista. Qualche volta migliore di noi. Guardate con interesse il fenomeno dei social network e del citizen journalism. Non con sufficienza. Nel minuto successivo alla scossa del terremoto in Abruzzo c’erano già otto persone che l’avevano comunicato, facendo i cronisti, su Twitter”.

Infine de Bortoli ha delineato le caratteristiche che dovrà avere il ‘nuovo’ Corriere della Sera. “Dobbiamo affrontare la sfida del cambiamento – ha detto – cercando di fare un giornale di maggiore qualità, più snello, con una grafica più sobria ma ugualmente accattivante, con un’infografica che consenta un vero secondo percorso di lettura, non una divagazione estetica. Avendo cura di spiegare e semplificare realtà complesse a un lettore che al 52% ci legge la sera, dopo cena. E al mattino ci sfoglia soltanto. Con un’ attenzione maggiore ai fatti e meno alla sovrastruttura degli avvenimenti. Più costruttivi e meno distruttivi”. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: L’Associated Press contro i siti web, il New York Times contro l’Associated Press.

(fonte: blitzquotidiano.it)

Le aziende editrici di quotidiani americane, colpite dal calo della pubblicità, delle vendite e dal fatto che i lettori preferiscono collegarsi a internet per leggere le notizie gratuitamente piuttosto che acquistare i giornali, sono pronte al contrattacco.

Dean Singleton, presidente dell’Associated Press (una cooperativa con 1.400 abbonati solo negli Stati Uniti), ha dichiarato che «è giunto il tempo di finirla con i siti web che si appropriano illegalmente del nostro materiale giornalistico».

Intervenendo ad un convegno della Newspaper Association of America (NAA) a San Diego, California, Singleton ha detto che l’Ap si accinge a prendere provvedimenti per meglio tutelare i contenuti dei suoi clienti.

Cosa esattamente intende fare l’Ap e come non è ancora chiaro, ma si sa che cercherà la collaborazione dei portali web per individuare e perseguire legalmente chi si appropria di materiale Ap a sbafo.

La reazione dell’Ap e di altre aziende proprietarie di giornali si inquadra nella crisi che sta falcidiando i quotidiani americani, molti dei quali hanno chiuso o stanno per chiudere.

Al fine di aiutarli a sopravvivere, l’Ap ha annunciato una riduzione delle quote che i giornali abbonati pagano per ricevere i suoi servizi.

La controffensiva ad internet delle aziende proprietarie di giornali ha suscitato reazioni diverse da parte degli analisti, alcuni dei quali la trovano giusta, mentre altri ritengono che sia una perdita di tempo.

«Quello che l’Ap sta cercando di fare nel riconoscere la minaccia di internet – ha dichiarato alla Reuters Tom McPhail, esperto di media all’Università del Missouri – è troppo poco e troppo tardivo».

Le difese dei linking a internet dai quotidiani sono state, prevedibilmente, prese da un esperto legale di Google, Alexander MacGillivray, il quale ha sottolineato che la prassi convoglia traffico verso i siti dei giornali e conseguentemente pubblicità.

La realtà, ha detto MacGillivray, è ormai che «la vasta maggioranza» dei lettori preferiscono le news gratuite su internet, e che i giornali dovrebbero considerare Google un partner e non un rivale nei loro sforzi di aumentare la pubblicità online.

Il New York Times pubblica un’analisi del suo columnist Saul Hansell sul vespaio suscitato dal presidente dell’Associated Press, Dean Singleton, che minaccia ritorsioni ed azioni legali contro i siti web che si appropriano del materiale dell’agenzia.

Secondo Hansell, anche se l’Ap vincesse la sua battaglia «è difficile capire quali benefici otterrebbero l’agenzia o le aziende editoriali che ne sono proprietarie».

«Il vero problema – scrive Hansell – è che l’Ap non tiene in considerazione cosa rubano coloro che accusa di pirateria. Nel peggiore dei casi, costoro impediscono ai clienti dell’AP di mettere a disposizione dei lettori gli stessi articoli gratuitamente, riducendosi a raccogliere così ben scarse entrate pubblicitarie».

Ma quello che è veramente ironico riguardo alle sfuriate di Singleton, prosegue Hansell, «è che i suoi clienti paganti includono quasi tutti i siti web che offrono informazione gratuita».

Hansell conclude con un paradosso che certo non piacerà a Singleton, e cioè che «è la stessa esistenza dell’Ap a creare la piaga delle news gratuite. E quindi, in base alla logica dell’industria dei giornali, Singleton ha una sola scelta: risolvere il problema alla radice e chiudere la sua agenzia». (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi secondo il capo di Google.

(fonte: blitzquotidiano.it)

L’ad di Google, Eric Schmidt, ha suggerito agli editori di quotidiani di continuare ad affidarsi alla pubblicità, ma anche di trovare nuove idee per attirare lettori.

Intervenendo alla convenzione annuale della Newspapers Association of America a San Diego, California, Schmidt non ha presentato proposte specifiche per affrontare la grave crisi dei quotidiani ma ha delineato alcune possibilità, portando l’esempio di Wikipedia, l’enciclopedia online che consente agli utenti di contribuire con materiale o integrare contenuti.

Ha poi sollecitato gli editori a concentrarsi sulla tecnologia mobile e sullo sviluppo di nuove piattaforme per diffondere le notizie. Schmidt ritiene che ci sia ancora spazio per gli abbonamenti e gli articoli che possono essere letti a pagamento, ma ha insistito sull’importanza della pubblicità, che nel caso di Google rappresenta il 98 per cento delle entrate.

Schmidt ha poi rilevato che i notiziari su internet richiedono troppo tempo per essere letti, ancor più che sfogliare un giornale, ma che si tratta di un difetto che può essere corretto con nuove tecnologie.

«Noi di Google», ha proseguito Schmidt, «stiamo lavorando per risolvere le questioni tecnologiche, ma al momento non abbiamo risultati che possano essere definiti soddisfacenti». (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi secondo Arianna Huffington.

Il futuro dei quotidiani è sul web: parola dell’Huffington Post. da blitzquotidiano.it

«Fino a quando la generazione che è cresciuta prima dell’era di Internet non si sarà estinta, ci sarà un mercato per i quotidiani stampati»: così, Arianna Huffington, fondatrice e direttrice dell’ Huffington Post, il quotidiano on-line più influente negli Usa e non solo, con oltre 20 milioni di visitatori al mese, parla della crisi dei giornali stampati.

Intervistata dal Corriere della Sera, la direttrice cinquantanovenne, nata in Grecia, parla molto del suo sito e di come sia diventato grande nel tempo, e quando le viene chiesto se il destino dei quotidiani è comunque on-line, risponde sicura: «Sì. Il futuro è ibrido: i vecchi editori e lettori abbracceranno i newmedia (la trasparenza, l’interattività e l’immediatezza) e i newmedia adotteranno le pratiche migliori dei vecchi media: onestà e accuratezza».

Arianna Huffington è stata eletta dal Time, una delle 100 persone più influenti degli Stati Uniti. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: Newsweek scrive che “l’industria dei quotidiani ha un managment incapace e un futuro molto incerto».

I fallimenti dei giornali vanno attribuiti più che alla crisi ”a straordinariamente stupidi (e a volte criminali) comportamenti padronali”. da blitzquotidiano.it

Ogni volta che negli Stati Uniti un giornale chiude per bancarotta, come hanno fatto questa settimana il Chicago Sun-Times ed altri 58 quotidiani, gli analisti accorrono subito per inserire un altro chiodo nella bara dell’informazione scritta, puntando invece i loro occhi sulla nuova versione del giornale elettronico, il Kindle 2, a quanto scrive il settimanale Newsweek.

E ora che a Chicago, la seconda città degli Stati Uniti, i principali giornali sono sotto l’ombrello del Chapter 11 (che regolamenta i casi di bancarotta), e a Denver e Seattle i giornali stanno chiudendo, è difficile dissentire, rileva il settimanale, «con chi sostiene che l’industria dei quotidiani ha un managment incapace e un futuro molto incerto».

Ma secondo Newsweek le previsioni sulla morte dell’informazione scritta sono largamente esagerate. Perché se è vero che i giornali sono nei guai, i recenti fallimenti delle aziende che li possedevano non devono necessariamente «far pensare che l’apocalisse è vicina».

Ogni quotidiano ha subito drastici cali della pubblicità ed ha i conti in rosso. «Ma non tutte le aziende editrici sono finite in bancarotta per questi motivi», perchè i fallimenti sono da attribuire più «a straordinariamente stupidi (e a volte criminali) comportamenti padronali».

È vero, prosegue il settimanale, che molti piccoli giornali annaspano, ma molti altri tirano avanti, «come la nostra consorella Washington Post, posseduta da un’azienda che ha altre fonti di introito». O come il New York Times, la cui azienda ha la flessibilità finanziaria di per reperire capitali. O come la catena Gannett, che gestisce le spese in maniera aggressiva.

«Tutta l’informazione scritta – conclude Newsweek – è stata duramente colpita dalla recessione. Tutti i giornali sono in crisi esistenziali e potrebbero alla fine trovarsi in bancarotta. Ma ad essere finiti in bancarotta fin da subito sono quelle aziende i cui padroni che hanno considerato i loro giornali come assets da rigirare da un parte all’altra, aumentando il livello di indebitamento o semplicemente spogliandoli delle loro risorse». (Beh, buona giornata).

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Ancora su la “quarta crisi”.

(segnalato da Hans-Rudolf Suter)

« The premier of Media Talk USA1. Solve journalism’s data problem. 2. Kill the AP. 3. Invest in the next market. »The speech the NAA should hear
The Newspaper Association of America is meeting in San Diego this week and they’re preaching up at their own choir loft with angry, self-righteous fire and brimstone about their plight. Today, Google CEO Eric Schmidt will address them, but he’ll be polite because that’s the way he is and because there’ll be a few hundred aging but armed publishers with blunderbusses aimed at his heart. They need to hear a new message, a blunt message from the outside. Here’s the speech I think they should hear:

You blew it.

You’ve had 20 years since the start of the web, 15 years since the creation of the commercial browser and craigslist, a decade since the birth of blogs and Google to understand the changes in the media economy and the new behaviors of the next generation of – as you call them, Mr. Murdoch – net natives. You’ve had all that time to reinvent your products, services, and organizations for this new world, to take advantage of new opportunities and efficiencies, to retrain not only your staff but your readers and advertisers, to use the power of your megaphones while you still had it to build what would come next. But you didn’t.

You blew it.

And now you’re angry. Well, gentlemen – and that’s pretty much all I see before me: angry, old, white men – you have no right to anger. Instead, you are the proper objects of anger. The public should be angry with you for the poor stewardship you have exercised over the press and its service to society. Your journalists are angry at you for losing their jobs. Your pressmen and drivers and classified-ad takers are angry at you for the same reason (and at the journalists for paying attention only to their own plight). Your advertisers were angry at you for using your monopolistic power to overcharge them and for providing inefficient platforms and bad service for so long. But they’re not angry anymore because they left you for better advertising vehicles and better prices in a competitive marketplace.

But you’re the ones who are acting angry.

Yesterday, you delivered a foot-stomping little hissy fit over Google and aggregators. How dare they link to you and not pay you? Oh, I so want Eric Schmidt to tell you today that you’re getting your wish and that Google will no longer link to you. Beware what you wish for. You’d lose a third of your traffic overnight. If other aggregators (I work with one) and bloggers (I am one) and Facebook all decided to follow suit, you’d lose half your traffic. On most of your sites, only 20 percent of the audience in a day ever sees your homepage and its careful packaging; 4 of 5 readers instead come in through search and links. In the link economy – instead of the outmoded content economy in which you operate – Google and aggregators and bloggers are bringing value to you; they should be charging you for the value they bring. You should rise up today and give Mr. Schmidt a big thank you for not charging you. But you won’t, because you’ve refused to understand this new business reality.

You blew it.

Your Google snits don’t even address your far more profound problem: the vast majority of your potential audience who never come to your sites, the young people who will never read your newspapers. You all remember the quote from a college student in The New York Times a year ago, the one that has kept you up at night. Let’s say it together: “If the news is that important, it will find me.” What are you doing to take your news to her? You still expect her to come to you – to your website or to the newsstand – just because of the magnetic pull of your old brand. But she won’t, and you know it. You lost an entire generation. You lost the future of news.

You blew it.

You had a generation to reinvent the business but you did too little. I by all means include myself in that indictment because I spent my career in our industry: Guilty. I didn’t raise loud enough alarms (it felt as if they were too loud already) or accomplish enough change (not nearly enough). I blew it, too. But no last-minute hail-Mary passes will make up for our failings. Having not taken advantage of the last two decades to reinvent the news business, you’re not going to manage a rescue in two months, before the creditors come calling. That was your worst hail Mary: stoking up on debt and hoping to milk these cows for years to come. Mad cash-cow disease, that’s what too many of you had. Your other desperate moves: suddenly fantasizing that you can fix everything by going behind a wall (to tell with Google and its billions of readers!) and charging us because you think we “should” pay. Since when is a business plan built on “should?” I haven’t seen a sensible P&L justifying this dream from any of you. If you have one, please stand up show us now….. I thought so. Other desperation moves: fantasies of white knights from foundations buying you and letting you stay just the way you are…. government subsidies (do we even have to discuss the danger?)…. switching to not-for-profit, as if that suddenly takes away the need to sustain the business still… misguided, self-righteousness thinking that Google or cable companies owe you money, as if you have a God-given right to the revenue and customers you lost….. No, none of this will save newspapers and in your subconscious, at least, you know it. You know the truth.

You blew it.

So what can you do? Two years, even a year ago, I would have said that you had time to build the networks and frameworks and platforms that would support the ecosystem of news that will come next. I would have said you could retrain your staff to take on new responsibilities: organizing and supporting that ecosystem, curating the best, training people to be the best. I would have advised you to offer your staff members the opportunity to join that ecosystem, setting them up in business. I would have told you to take advantage of the efficiencies the web allows (do what you do best, link to the rest, I used to say). I would have argued that we need to invent new forms of marketing help for an entire new population of businesses-formerly-known-as-advertisers. I did say that. But the financial crisis only accelerated your fall. It didn’t cause the fall, it accelerated it. So now, for many of you, there isn’t time. It’s simply too late. The best thing some of you can do is get out of the way and make room for the next generation of net natives who understand this new economy and society and care about news and will reinvent it, building what comes after you from the ground up. There’s huge opportunity there, for them.

You blew it.

: LATER: When Eric Schmidt did take the podium at NAA, as reported by PaidContent’s Staci Kramer, he expressed some nicely ironic befuddlement at the AP going after them when Google has “a multimillion-dollar deal with the Associated Press not only to distribute their content but also to host it on our servers.” Then he did chasten the publishers:

But Schmidt came down harder on concerns about intellectual property and fair use: “From our perspective, we look at this pretty thoroughly and there is always a tension around fair use … I would encourage everybody, think in terms of what your reader wants. These are ultimately consumer businesses and if you piss off enough of them, you will not have any more.” (Beh, buona giornata).

RIght, pissing off customers is not a business model. Not anymore.

This entry was posted on Tuesday, April 7th, 2009 at 9:00 am and was tagged newbiznews, newspapers, wwgd.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il terremoto batte il Grande Fratello. Mediaset cambia la programmazione, come voleva Mentana per la morte di Eluana. E’ la campagna elettorale, bellezza.

In seguito al terremoto che ha sconvolto l’Abruzzo, stasera, 6 aprile, cambia la programmazione di Canale 5. Lo comunica Mediaset in una breve nota. Dopo il Tg5 delle 20, andrà in onda un’edizione speciale di ‘Striscia la notizia’ a cui seguirà una lunga diretta ‘Tg5-Matrix ‘.

Nello studio di ‘Matrix’, Cesara Buonamici e Alessio Vinci commenteranno l’evolversi degli eventi con vari osservatori, giornalisti ed esperti. I servizi in diretta dall’Aquila saranno a cura di Toni Capuozzo e degli altri inviati del Tg5 e di ‘Matrix’ accorsi sul posto fin dalle prime luci dell’alba.

La puntata di Grande Fratello prevista per questa sera è spostata a giovedì 9 aprile, salvo nuove esigenze informative legate ai tragici fatti in corso. (Beh, buona giornata).

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Vogliono irreggimentare la rete, trasformarla in un servizio controllato dall’industria dei contenuti, privarla della neutralità?

Pacchetto Telecom, blackout europeo?
di Gaia Bottà

Una rete in cui il cittadino è telespettatore, una rete soggetta alle istanze dei detentori dei diritti. Emendamenti e votazioni, dibattiti e aggiustamenti: il Pacchetto Telecom sta progressivamente assumendo una forma. Quelli che ora sembrano punti fermi, osservano in molti, potrebbero irreggimentare la rete, trasformarla in un servizio controllato dall’industria dei contenuti, privarla della neutralità.

Le istituzioni europee si sono riunite nei giorni scorsi per affinare il testo delle disposizioni e per prepararle ad essere messe al voto. Alla Commissione Mercato Interno (IMCO) sono stati sottoposti testi ed emendamenti: IMCO, nell’intervenire sulla Direttiva Servizi Universali, sembra essersi espressa a favore di una rete alla mercé dei provider. Ha infatti dominato la linea tracciata dal rapporto stilato da Malcom Harbour, relatore che, nella propria attività in Europa, sembrerebbe mostrarsi sensibile alle istanze dell’industria dei contenuti. Ha sbaragliato la possibilità di prendere in considerazione certi emendamenti che avrebbero garantito tutele al cittadino in linea con quanto approvato nel rapporto Lambrinidis: filtraggio e potere discrezionale agli ISP, che si troverebbero in una posizione privilegiata per avvantaggiarsi o per stringere alleanze strategiche con i detentori dei diritti, denuncia ad esempio il candidato svedese all’europarlamento Erik Josefsson, veicolando contenuti e servizi attraverso corsie preferenziali e corsie discriminate.

Via libera dunque a non meglio precisate “politiche di gestione della rete”. L’obbligo al quale saranno sottoposti i provider sarà semplicemente quello di informare i propri utenti: nel contratto che stipuleranno con i cittadini dovranno indicare le “condizioni che limitano l’accesso o l’uso dei servizi e delle applicazioni”, dovranno garantire informazioni riguardo ad “ogni procedura di analisi del traffico e di traffic shaping messa in campo” al fine di non sovraccaricare l’infrastruttura.
Sembrano ora mancare i riferimenti alla proporzionalità nell’utilizzo di queste misure, che erano contenuti nell’emendamento conosciuto in prima lettura come 166: ai provider non viene più raccomandato di soppesare l’introduzione di strumenti per la gestione del traffico tenendo contro della loro effettiva necessità e limitandone il raggio d’azione in modo che non ostacolino “lo sviluppo della società dell’informazione” e che non collidano con “i diritti fondamentali del cittadino, incluso il diritto alla privacy e il diritto ad un giusto processo”. L’emendamento è per ora in fase di stallo, verrà ridiscusso.

A presidio dei diritti del netizen ci sarebbe dovuto altresì essere l’emendamento noto come 110, che prevedeva che i provider non fossero coinvolti nel controllo di ciò che i cittadini avessero fatto della connettività, se non sotto l’ordine dell’autorità giudiziaria. L’emendamento è stato modificato: potrebbe agevolare, presso gli stati membri, l’introduzione di sistemi di risposta graduale come quello che la Francia ha ormai innestato nel proprio quadro normativo.

A tutela dei netizen europei nei confronti di meccanismi fatti di giustizia privata, di sorveglianza, di avvertimenti e di disconnessioni avrebbe inoltre dovuto agire l’emendamento 138. Introdotto nel Pacchetto Telecom nei mesi scorsi, stralciato e di nuovo reintrodotto dalla parlamentare europea Catherine Trautmann, avrebbe dovuto impedire che calassero ghigliottine deterrenti e punitive sulle connessioni, sul diritto del cittadino a informarsi e ad esprimersi. Nel corso del trilogo tra le istituzioni europee, sotto le pressioni di Francia e Regno Unito, la disposizione ha subito delle modifiche: non rappresenta più un paletto all’avvento di un regime di risposta graduale che culmina con il blocco dell’erogazione di connettività. Si tratterebbe ora di una semplice raccomandazione non vincolante.

Ma non è tutto: se la prima versione dell’emendamento imponeva che fosse l’autorità giudiziaria l’unica a poter agire sulle libertà del cittadino, ed eventualmente a poterle comprimere per sanzionare comportamenti illegali, il testo del frammento dispone ora che non sia necessariamente l’autorità giudiziaria ad essere investita da questa responsabilità, ma siano invece “le autorità che la legge definisce competenti”. L’Hadopi francese, ad esempio, l’Haute Autorité pour la diffusion des ouvres et la protection des droits sur Internet, che non sarà composta da magistrati, avrà libertà di imporre identificazioni e disconnessioni in quanto riconosciuta dalla legge. Sarà la Commissione Industria, ricerca e energia (ITRE) a doversi esprimersi a riguardo in una votazione che, salvo variazioni di programma, avverrà il 21 aprile.

Il voto finale al Pacchetto Telecom è previsto per il 5 maggio. I cittadini della rete hanno organizzato la resistenza. L’Europa si prepara al blackout. (Beh, buona giornata).

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Dopo Sky, anche il Tribunale di Milano attacca Auditel.

Tv sul satellite, la nuova beffa dell’Auditel

Dopo 4 anni, il Tribunale di Milano dà ragione a 4 canali satellitari che avevano fatto causa all”Auditel per uso improprio dei loro dati. Ma poi decide che ” non c’è danno”

Dopo quattro anni, la Corte di Appello del Tribunale di Milano ha riconosciuto le ragioni del Gruppo Sitcom, editore delle televisioni Alice, Leonardo, Marcopolo e Nuvolari, nella causa promossa contro Auditel nel 2005 per chiedere la revisione del panel su cui calcolare gli ascolti della tv satellitare. Ma per il giudice non c’è stato alcun danno.
Dopo quattro anni, e con una sentenza di 25 pagine, la Corte di Appello del Tribunale di Milano (presidente Flavio Lapertosa, relatore Filippo Lamanna) ha riconosciuto le ragioni del Gruppo Sitcom, editore delle televisioni Alice, Leonardo, Marcopolo e Nuvolari, nella causa promossa contro Auditel. Il Tribunale ha altresì deciso che vista la tempestività della richiesta del Gruppo Sitcom e della misura cautelare attivata dalla Prima sezione della stessa Corte d’Appello, con il conseguente adeguamento dichiarato da Auditel alle indicazioni nel frattempo dettate dall’Agcom, si è limitato il danno strutturale al mercato. Di conseguenza non viene quantificato un danno economico a favore di Sitcom. L’editore tv dichiara: “Pur vedendo ampiamente riconosciute le proprie ragioni esprimiamo perplessità circa le effettive misure correttive (e di trasparenza) dichiarate da Auditel sia in materia di governance sia in materia di rilevazione e ci riserviamo, pertanto, le opportune valutazioni”. La causa era stata avviata nel 2005 da Sitcom poiché riteneva che la pubblicazione dei dati di ascolto delle tv satellitari, prevista da Auditel, avrebbe creato alle stesse tv un danno anziché un vantaggio, se prima non fossero stati fatti da Auditel adeguamenti statistici al panel. Il Tribunale aveva appunto sospeso cautelativamente la pubblicazione dei dati, che era poi partita dall’aprile 2007 dopo che Auditel aveva assicurato di aver adottato alcune misure correttive, su indicazioni dell’Agcom. (Beh, buona giornata)

da www.pubblicitalia.it

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