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«L’Italia rischia di trovarsi di fronte a un bivio tra la stagnazione e la crescita». Il governatore della Banca d’Italia smentisce clamorosamente il ministro dell’Economia, e manda alle ortiche le politiche del governo italiano.

(fonte:ilmessaggero.it)
«L’Italia rischia di trovarsi di fronte a un bivio tra la stagnazione e la crescita»: è l’allarme lanciato dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel suo intervento al convegno della facoltà di Economia dell’università olitecnica delle Marche. Per Draghi gli effetti della recessione sulla struttura produttiva italiana «devono ancora essere valutati» e la «difficoltà dell’economia italiana di crescere e creare reddito non deve smettere di preoccuparci».

«L’inerzia sulla crescita colpisce di più i giovani». «L’inerzia, l’inazione sulla crescita del Paese – dice Draghi – privilegiando il passato rispetto al futuro esclude dalla valutazione del benessere la visione di coloro per cui il futuro è l’unica ricchezza: i giovani». Secondo Draghi gli indicatori internazionali dicono che «gli italiani sono mediamente ricchi» e «sono in gran parti soddisfatti delle loro condizioni», ma gli stessi indicatori mostrano che «l’inazione ha costi immediati. La ricchezza è il frutto di azioni e decisioni passati, mentre il pil, legato alla produttività, è frutto di azioni e decisioni prese guardando al futuro.

«Stabilizzare i precari per una migliore produttività». Per Draghi è indispensabile offrire una prospettiva di stabilizzazione ai precari. «Senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari si hanno effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità» rileva Draghi, secondo cui nel nostro Paese «rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata dall’Istat in circa il 12% del totale dell’unità di lavoro».

«Produttività deludente anche al Nord». «Per capire le difficoltà di crescita dell’Italia – sostiene il governatore di Bankitalia – dobbiamo interrogarci sulle cause del deludente andamento della produttività. La stagnazione della produttività nel decennio precedente la crisi, è stata uniformemente diffusa sul territorio. E’ un problema del Paese». Per Draghi i dati mostrano una «evidente perdita di competitività rispetto ai partner europei». Il governatore ha spiegato come non risponda a verità che la diminuzione della crescita del prodotto per abitante «sia media di un Nord allineato al resto d’Europa e di un Centro-Sud in ritardo. Ma così non è». Il governatore ha ricordato che la crescita del prodotto per abitante in Italia «si va riducendo da tre decenni: siamo passati da un aumento annuo del 3,4% negli anni ’70 a uno del 2,5% negli anni ’80, dell’1,4% negli anni ’90 fino alla stasi dell’ultimo decennio». Nel confronto con gli altri paesi europei, Draghi ha quindi evidenziato come nei primi dieci anni dell’Unione Europea (1998-2998) il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 24% in Italia, del 15% in Francia, mentre «è addirittura diminuito in Germania». Divari, ha argomentato il governatore, i quali riflettono «i diversi andamenti alla produttività del lavoro. Nel decennio citato questa è aumenta del 22% in Germania, del 18% in Francia e solo del 3% in Italia». Per il governatore i fattori all’origine di tali meccanismi «sono molteplici», fra cui, citando l’economista Giorgio Fuà, «sono simili a quelli che distinguevano il modello di sviluppo tardivo dell’Italia con marcati e persistenti dualismi nella dimensione delle imprese, nel mercato del lavoro». Proprio la dimensione delle imprese, ha concluso Draghi, «rimane ridotta nel confronto internazionale». (Beh, buona giornata).

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Elezioni Usa: Sbarack Obama?

di Pino Cabras – Megachip.

La sconfitta di Barack Obama a metà del suo mandato è nettissima e apre scenari inediti. La crisi economica ereditata dalla sua amministrazione sta mettendo in ginocchio la classe media di Main Street che – contrariamente alle promesse – ha dovuto comunque cedere il passo a Wall Street. L’inerzia del leader che urlava “Yes, we can” è stata punita fino a prefigurare una sua sconfitta certa fra due anni, se le cose rimarranno così e se una guerra non lo salverà (come gli suggeriscono dal «Washington Post»).

Il movimento del Tea Party che ha rivitalizzato il Partito Repubblicano è una galassia di opposizione variegata. Nel suo grembo contiene tante contraddizioni, essendo una vasta protesta anti-establishment che però viene accanitamente foraggiata da pezzi da novanta dell’establishment stesso, e incitata a far suo un programma demagogico e ultraliberista.

Eppure emergono candidati che sono espressione di tendenze ben distinte dal cappello che vogliono mettervi sopra i plutocrati come Murdoch o i fratelli Koch.

Su tutti appare squillante la vittoria di Rand Paul, neosenatore del Kentucky e figlio del parlamentare Ron Paul, un repubblicano che ha corso anche alle ultime primarie presidenziali, il quale sosteneva e sostiene che gli USA debbano immediatamente ritirarsi da tutti gli scenari di guerra nel globo e ridurre drasticamente le immani spese militari statunitensi. Non solo, Ron Paul attacca frontalmente da anni tutti i tabù del potere washingtoniano, a partire dalla Federal Reserve. Il figlio segue la stessa scia.

Saltano insomma gli schemi, sullo sfondo di un paese che in tantissime città sta ormai rinunciando all’asfalto perché non ci sono nemmeno più i soldi per la manutenzione delle strade. La presidenza Obama viene associata a un declino terminale dell’Impero.

I democratici tenteranno disperatamente una correzione che potrebbe persino portare a contrapporre un altro candidato a Obama nel 2012. Tra una sconfitta certa con Obama e la brutta figura di una sostanziale sconfessione di un presidente in carica – e senza un vero programma per invertire la tendenza al declino, mentre il peso demografico della Florida si riversa di nuovo sui repubblicani – le speranze dei democratici di tenere la Casa Bianca sono minime.

I repubblicani soffieranno implacabilmente sul fuoco della protesta, cercando di coalizzare una massa impaurita sempre più consistente. Sarah Palin ha sponsor facoltosi, ma continua a rimanere un personaggio imbarazzante. La sorpresa potrebbero perciò essere i Paul padre e figlio, che avevano predetto la crisi e propongono soluzioni insieme più solide e più rivoluzionarie, che potrebbero incontrare favori anche nell’agone nazionale. I giornali d’oltreoceano e anche i nostri li etichettano come ultraconservatori. Etichetta sbagliata e fuorviante. Assistiamo invece a una spinta potenzialmente in grado di rovesciare in profondità lo stile di governo delle istituzioni statunitensi. Di conservatore c’è un richiamo plurisecolare alla Costituzione, un’idea di Stato federale in ritirata, una riduzione isolazionista della presenza nel mondo. Ma le implicazioni di un simile programma vanno ben oltre la dicotomia progresso-conservazione (non parliamo di destra-sinistra). Molta sinistra europea, per dire, è per la guerra in Afghanistan ed è pronta per una guerra in Iran. Ron Paul vuole invece smantellare il complesso militare industriale. Come andrà a finire? Quali risorse metterà in campo il potere minacciato dalla tenuta del paese più potente?

Tutto può succedere, la portata della crisi rende lo scenario più imprevedibile. Nel pieno di una crisi così grave e con un presidente ridotto ad “anatra zoppa”, l’Impero non ha una guida solida. Lo sbando sta durando da anni, e le vere decisioni sono prese da poteri irresponsabili. (Beh, buona giornata).

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Contro Berlusconi ci vuole il piano b.

L’ennesimo scandalo che riguarda Berlusconi, ci pone due semplici alternative:
a) Berlusconi e il berlusconismo sono la causa di tutti i mali del Paese (xenofobia, precariato, disoccupazione, disoccupazione giovanile, aumento delle imposte regionali, illegalità dei forti, repressione contro i deboli, violazioni Costituzionali, attacco alla Magistratura, attacco alla contrattazione collettiva, criminalizzazione della FIOM, distruzione del welfare, umiliazione della Cultura, licenziamento di massa degli insegnanti della Scuola, evasione fiscale, aumento parossistico della popolazione carceraria, monnezza, manganellate, caste, cosche, mafie e bunga bunga): in questa ottica scagliarsi contro “il bunga-bunga” è giusto, è possibile. Speriamo che il puzzone cada dal balcone (quello da cui ieri si affacciava Mussolini; quello da cui oggi si affaccia Berlusconi: balconi e televisioni fanno anche rima). E’ la tesi che sostengono Scalfari, Travaglio, Floris, Santoro, Gabbanelli. Un po’ lo fanno anche Fini, e la Marcegaglia di Confindustria, e don Sciortino di Famiglia Cristiana.

b) Berlusconi e il berlusconismo non sono la causa, ma il prodotto (marcio) della crisi profonda dell’economia italiana, della politica italiana, della cultura italiana, dei poteri forti italiani (imprese, clero, corporazioni, banche). E allora, la protesta contro il ” bunga-bunga” è inutile ai fini di un cambio dello scenario. E’ utile ai Fini, ai Casini, ai Di Pietro, ai Bersani, e perché no, ai Vendola, (e ancora a Marcegaglia di Confindustria e magari anche a don Sciortino di Famiglia Cristiana) per proporre una cambio della compagine di governo, ma non, certamente non a un cambio della visione politica, e dunque della prospettiva ontologicamente fattuale delle contraddizioni della crisi della democrazia, della crisi della produzione di merci, della crisi della produzione di idee , della crisi delle relazione tra le classi sociali, della crisi della difesa dell’ambiente, dello sviluppo delle nuove risorse ambientali, della crisi della prefigurazione di nuove e più promettenti prospettive del ruolo della nostra società nel mare magnum della globalizzazione. E’ la tesi che sostengono le proteste dei pastori sardi, dei metalmeccanici, dei precari della scuola, dei cassaintegrati, dei cittadini incazzati per la monnezza, dei migranti, degli internati nei centri di prima accoglienza, degli studenti e dei ricercatori, dei nuovi schiavi dei quello che una volta era il lavoro salariato, e che oggi si chiama “flessibilità”; è la tesi che sostengono le proteste dei precari in tutti i settori produttivi, ma anche dei piccoli imprenditori, le cui piccole aziende fanno grandi cose, nonostante le banche e gli enti locali (ancorché “federalisti”).

Personalmente opto per il piano b. Perché ha una forza creativa tale che nessuna rappresentanza politica è ancora riuscita a portare a valore elettorale. Finché dura farà cultura (del nuovo che avanza contro il “modernismo” controriformatore). Beh, buona giornata.

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“L’assurdo dell’attuale situazione è che tutti parlano dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori e gli unici che non hanno la possibilità di discutere, di decidere e di votare sugli accordi che li riguardano sono proprio le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici.”

Oggi accadrà, di Maurizio Landini*-il manifesto

Quella di oggi sarà una grandissima giornata di lotta in difesa della democrazia, del contratto, dei diritti delle persone e del lavoro.
Abbiamo indetto questa manifestazione dopo l’accordo separato alla Fiat di Pomigliano, aprendo anche un dialogo con chi pensa che il nostro paese abbia bisogno di un cambiamento, che il lavoro deve tornare a essere un elemento centrale, che quello firmato a Pomigliano non può essere il modello, che il contratto nazionale va difeso per tutti e che far votare e decidere le persone è la condizione per ricostruire l’unità.

Con il ricatto che la Fiat ha voluto imporre a Pomigliano (se vuoi lavorare devi rinunciare alla dignità e ai diritti) è partito un attacco ai diritti del lavoro che non ha paragoni per gravità nella storia della nostra Repubblica. Non a caso la Confindustria ha chiesto di estenderlo a tutto il mondo del lavoro. Il contratto nazionale, lo Statuto dei lavoratori, la stessa Costituzione sono in discussione. Il recente accordo separato che prevede si possa derogare al contratto nazionale sempre, perché le deroghe possono essere attuate sia quando l’azienda è in crisi che quando investe per competere sui mercati, porta alla cancellazione del contratto nazionale, alla «guerra» tra imprese e quindi alla contrapposizione tra lavoratori. Questa scelta porta con sé l’idea che di fronte alla globalizzazione non c’è diritto che tenga e che lo sfruttamento e l’impoverimento ne siano conseguenze inevitabili. Un disegno supportato dalle modifiche alle leggi sul lavoro che il governo sta attuando (dall’arbitrato allo statuto dei lavori) alle vicende sui precari della scuola, dal blocco delle elezioni delle Rsu al contratto separato del pubblico impiego.

Quando noi diciamo che «il lavoro è un bene comune» intendiamo dire che il lavoro deve tornare a essere interesse generale di questo paese per dare una prospettiva ai giovani, alle donne, al fatto che non si può essere precari sempre e che la sicurezza del proprio lavoro e del proprio futuro serve anche a far funzionare meglio le imprese. Vuol anche dire porsi il problema di un diverso modello di sviluppo, che guardi alla qualità e all’innovazione dei prodotti e dei processi, alla valorizzazione del lavoro e alla sostenibilità ambientale e sociale.

Quella di oggi è anche una manifestazione per la legalità. L’estensione del sistema criminale in economia non ha precedenti e non riguarda solo il Sud, ma l’intero paese. In particolare, la frantumazione del processo lavorativo e il sistema di appalti e subappalti – purtroppo diventato la regola – permette sempre più all’illegalità di entrare strutturalmente nel sistema economico. Legalità per noi significa difesa del lavoro, la sua riunificazione e quella del processo produttivo, l’estensione dei diritti, l’applicazione della Costituzione come elementi non solo formali ma come valori che determinano la condizione di un cambiamento. Ed è in questo quadro che la libertà di informazione è elemento irrinunciabile non solo per la Fiom, ma per tutto il paese.

L’assurdo dell’attuale situazione è che tutti parlano dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori e gli unici che non hanno la possibilità di discutere, di decidere e di votare sugli accordi che li riguardano sono proprio le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici. Non a caso abbiamo presentato una legge di iniziativa popolare che chiede diventi un diritto il fatto che tutti gli accordi a qualsiasi livello – aziendale, nazionale, interconfederale – per essere validi debbano essere approvati dalla maggioranza delle persone coinvolte. Gli eventi di questi mesi indicano che questo è il tema decisivo per poter ricostruire un’azione unitaria; senza democrazia, cioè senza la possibilità per le lavoratrici e i lavoratori di poter decidere anche quando ci sono punti di vista diversi fra sindacati, non solo si mantiene una divisione, ma fa sì che siano le imprese a decidere di volta in volta con chi fare gli accordi, sulla base delle proprie convenienze.

Oggi siamo in piazza con tutti coloro che condividono e che difendono questi principi e questi valori. Questa grande giornata di lotta non è un punto di arrivo, perché una mobilitazione generale è assolutamente necessaria.
*segretario generale della Fiom
(Beh, buona giornata)

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Il prossimo 16 ottobre il mondo del lavoro si ribella. E il mondo della cultura e della comunicazione potrebbero riscoprire che ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile.

di Marco Ferri-3dnews, inserto settimanale del quotidiano Terra.

Se agli intellettuali di questo nostro Paese torna in mente la classe operaia, vuol dire che siamo a una svolta epocale.

Il prossimo 16 Ottobre 2010 forse non sarà il 5 marzo del 1943, quando gli operai del Nord fecero sciopero, decretando storicamente, di fatto l’inizio della fine del Fascismo.
Però lo schieramento odierno di molte personalità di scienza e di cultura al fianco degli operai assume, nell’Italia di oggi, un’importanza straordinaria.

Tuttavia, potrebbe esserci qualcosa di più: la rinnovata saldatura sociale tra gli operai, la società civile, gli intellettuali, gli studenti e chi più ne ha più ne metta è un notizia che fa bene all’animo democratico di un Paese che troppe angherie ha dovuto subire.

Fosse anche per un giorno solo, il 16 ottobre, appunto, il desiderio razionale di un cambiamento dei rapporti di produzione potrebbe significare la voglia di rovesciare non solo una compagine di governo, ma prefigurare una prospettiva completamente nuova della società italiana

Comunque, qui non si tratta più di dare scampoli di visibilità mediatica al lavoro e alle sue sofferenze; qui non si tratta più di mandare qualche telecamera sul tetto di una fabbrica, su cui, per farsi vedere dall’opinione pubblica sono saliti operai ingiustamente perseguitati da questa o quella azienda; qui non si tratta più dare conto, tra un gossip e l’altro, di operai che crepano, come mosche sul loro posto di lavoro.

Qui si tratta di rompere i recinti del mainstream: le contraddizioni tra capitale e lavoro non sono gestibili con un politica compassionevole. La verità, nuda e cruda è che siamo di fronte a una specie di moderna soluzione finale: elimina i lavoratori, così elimini il lavoro.

Il prossimo 16 ottobre il mondo del lavoro si ribella. E il mondo della cultura e della comunicazione potrebbero riscoprire che ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile.
Beh, buona giornata.

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Colpo Grosso: Paolo Romani ministro dello Sviluppo. Esulterebbe Maurizia Paradiso, se sapesse che Magic America è più importante di Magic Italia.

IL CASO-Sviluppo, Romani giura da ministro
Il premier lascia l’interim dopo 5 mesi-Dopo 153 giorni Berlusconi si decide alla nomina, dopo le ripetute pressioni del Colle e le lamentele degli industriali. Ma il dicastero è stato smembrato. Il gelo di Napolitano durante la cerimonia
di MATTEO TONELLI-repubblica.it

Stavolta è vero. Silvio Berlusconi ha nominato il nuovo ministro dello Sviluppo. Dopo 153 giorni di interim e vane promesse, il Cavaliere e Paolo Romani, attuale viceministro alle Comunicazioni, sono saliti al Quirinale per il giuramento. Un giuramento svoltosi nel gelo del rapporto fra premier e capo dello Stato. Le formalità, ridotte all’essenziale, sono durate pochi minuti, il tempo di leggere la formula del giuramento. Berlusconi si è presentato puntuale e ha atteso in piedi insieme a Gianni Letta ed al candidato ministro. Tutte spie, si ragiona in ambienti parlamentari dei dubbi del Capo dello Stato su questa nomina ma anche della presa di distanza del Colle dalle ultime esternazioni del Cavaliere, comprese quelle sulla magistratura. Il presidente della Repubblica è arrivato cinque minuti dopo, si è scusato per il ritardo e ha invitato a procedere senz’altro. Poi ha stretto la mano al neo-ministro, gli ha augurato “buon lavoro”, ha salutato Berlusconi e lo ha congedato.

Si chiude così una vicenda che si è trascinata per cinque mesi, portandosi dietro uno strascico velenoso di polemiche e problemi irrisolti. Per 153 giorni, infatti, la poltrona lasciata vacante dopo l’addio traumatico di Claudio Scajola, 1 è stata “occupata” dal premier. Lo stesso che, ciclicamente, davanti alle continue sollecitazioni, rispondeva spostando in avanti l’orizzonte temporale della scelta. “La prossima settimana avrete la nomina” è stato il ritornello ripetuto più volte nonostante le sollecitazioni del Colle, degli industriali e delle opposizioni. 2

Eppure all’inizio sembrava una questione destinata a chiudersi in breve tempo. Dopo le dimissioni di Scajola il Cavaliere dava l’impressione di voler chiudere la partita alla svelta. Anche perché la crisi economica assegnava (e assegna) un ruolo più che attivo allo Sviluppo. E così il 4 maggio maggio il premier assicura: “L’interim sarà breve e sarà un incarico limitato nel tempo. È un incarico diciamo così, tecnico. Durerà giorni”. Ma la partita si complica rapidamente e diventa una partita che il premier fa fatica a sbrogliare. Meglio, allora, far passare del tempo. Ma quel vuoto di potere, nonostante le continua assicurazioni del Cavaliere sulla sua assoluta capacità di occuparsi del dicastero, si nota eccome. Lo nota Giorgio Napolitano, che più di una volta ne segnala l’urgenza. Lo nota l’opposizione che accusa il governo di disinteressarsi di un ruolo centrale in un momento di crisi economica. E lo notano anche gli industriali, che di un ministro del genere hanno bisogno come il pane.

Dopo l’interim il premier riceve una serie di “no grazie” di peso. Il primo è quello del presidente della Ferrari Luca Cordero di Montezemolo. Il secondo tentativo è ancor più plateale. Il 27 maggio, all’assemblea annuale della Confindustria, il premier, dal palco, si lascia andare: “Volete che Emma Marcegaglia diventi ministro?”. La risposta è il gelo della sala e l’imbarazzo del presidente. Uno schiaffo per il premier che replica stizzito: “Allora non potete lamentarvi..”. Passa il tempo e la poltrona restra vacante. Anche perché sfuma il tentativo (informale) di piazzarci il leader della Cisl, Raffaele Bonanni. Dopo due industriali e un sindacalista, Berlusconi pensa bene di fare una nomina ministeriale. Non quella delle Attività produttive, però. Bensì quella di Aldo Brancher, ministro per l’Attuazione del federalismo (che sarà costretto a lasciare sull’onda delle polemiche per i suoi processi in corso).

Si va avanti così. Con le tensioni sociali che crescono e le situazioni di difficoltà che si moltiplicano. Ci vorrebbe un referente nel governo. Ma non c’è. Scoppia il caso Pomigliano, protestano i minatori del Sulcis. ma Berlusconi non molla l’interim. Repubblica decide di far partire un contatore dei giorni senza ministro. Le opposizioni si scuotono. L’Idv scrive a Napolitano che non manca di far sentire la sua voce. «L’istituzione governo non può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come quella della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo Economico e del presidente di un importante organo di sorveglianza come la Consob…» dice il capo dello Stato.

Poche ore dopo Berlusconi prova a correre ai ripari. E ripete: “La prossima settimana procederemo alla nomina del nuovo ministro per lo Sviluppo Economico…”. Sembra fatta. Ma non è così. Agosto si apre senza il ministro 3. Le opposizioni insorgono e dal Colle trapela una noteva irritazione. Comincia a circolare il nome di Paolo Romani, attuale viceministro delle Comunicazioni, un passato nelle aziende del Cavaliere. Ma i suoi legami con l’editoria (che lui circoscrive al passato) gli mettono il piombo sulle ali.

Passa l’estate e i contrasti con i finiani esplodono. Le indiscrezioni dicono che dietro allo stallo ci sia l’intenzione del premier di “calmare” i fedelissimi del presidente della Camera affidando il dicastero ad un loro uomo. Vero o falso che sia, non se ne fa nulla. Persino il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti è costretto ad ammettere 4: “Serve un ministro”. L’ad della Fiat, Sergio Marchionne, è lapidario: “Il ministro? Lo aspettiamo anche noi”.

Si arriva così al voto di fiducia per il governo. Berlusconi la ottiene e torna a promettere: “Lunedì avrete il nuovo ministro”. 5Stavolta è vero. Dopo 154 giorni è fumata bianca. Sul tavolo Romani troverà il dossier nuclare, la legge sulla concorrenza, quella sul made in Italy e le tante crisi aziendali ancora aperte. E risentirà le parole di Berlusconi che, in Senato, rivendicava l’ottimo lavoro fatto. Sarà, ma in questi mesi il ministero è stato, silenziosamente, smembrato: la manovra 2011 gli ha sottratto 900 milioni di fondi di dotazione, i fondi Ue e Fas sono stati trasferiti al ministro degli Affari regionali Raffaele Fitto, i circa 800 milioni di fondi per il turismo sono passati direttamente sotto la gestione di Michela Vittoria Brambilla, l’Istituto per la Promozione Industriale è stato soppresso. Colpi di scure che fanno dire al segretario del Pd Pier Luigi Bersani, “che dopo aver cercato per tanto tempo un ministro, adesso si corre il rischio di non trovare più il ministero”.

(04 ottobre 2010) © Riproduzione riservata (Beh, buona giornata).

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Rivalutare, riconcettualizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare: le sei erre del futuro prossimo venturo.

di Serge Latouche – Traduzione di Laura Pagliara

Fonte: http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100917/pagina/11/pezzo/287060/.

Di che cosa parliamo se parliamo di felicità. La differenza sostanziale tra il ben-avere e il ben-essere e i passaggi necessari per raggiungerlo.
Bisogna risalire alla seconda metà del ‘700 per trovare le origini del pensiero economico che fa coincidere il «benessere» statistico con il «ben avere», sebbene nello stesso periodo l’illuminista napoletano Antonio Genovesi avesse sottolineato la necessità di una economia fondata sulla ricerca del bene comune. Temi che si ripropongono oggi con grande urgenza e che richiedono l’elaborazione di nuovi codici e regole. L’anticipazione di un intervento a Pordenonelegge.

Per concepire e costruire una società di abbondanza frugale e una nuova forma di felicità, è necessario decostruire l’ideologia della felicità quantificata della modernità; in altre parole, per decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite, dobbiamo capire come si è radicato.

Quando, alla vigilia della Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è un’idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un benessere materiale e individuale, anticamera del PIL pro capite degli economisti.

Effettivamente, in questo senso, si tratta proprio di un’idea nuova che emerge un po’ ovunque in Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia. La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati Uniti d’America, paese in cui si realizza l’ideale dell’Illuminismo su un terreno ritenuto vergine, proclama come obiettivo: «La vita, la libertà e la ricerca della felicità».

Nel passaggio dalla felicità al PIL pro capite si verifica una tripla riduzione supplementare: la felicità terrestre è assimilata al benessere materiale, con la materia concepita nel senso fisico del termine; il benessere materiale è ricondotto al «ben avere» statistico, vale a dire alla quantità di beni e servizi commerciali e affini, prodotti e consumati; la stima della somma dei beni e dei servizi è calcolata al lordo, ossia senza tenere conto della perdita del patrimonio naturale e artificiale necessaria alla sua produzione.

Il primo punto è formulato nel dibattito fra Robert Malthus e Jean Baptiste Say. Malthus comincia col comunicarci la propria perplessità: «Se la pena che ci si dà per cantare una canzone è un lavoro produttivo, perché gli sforzi che si fanno per rendere divertente e istruttiva una conversazione e che sicuramente offrono un risultato ben più interessante, dovrebbero essere esclusi dal novero delle produzioni attuali? Perché non vi si dovrebbero comprendere gli sforzi che dobbiamo fare per moderare le nostre passioni e per diventare obbedienti a tutte le leggi divine e umane che sono, senza possibilità di smentita, i beni più preziosi? Perché, in sostanza, dovremmo escludere un’azione qualsiasi il cui fine sia quello di ottenere il piacere o di evitare il dolore, sia del momento che nel futuro?».

Materiali e immateriali

Certo, ma è Malthus stesso poi a osservare che questa soluzione porterebbe direttamente all’autodistruzione dell’economia come campo specifico. «È vero che in tal modo potrebbero esservi comprese tutte le attività della specie umana in tutti i momenti della vita», nota giustamente. Infine, aderisce al punto di vista riduttivo di Say: «Se poi, insieme a Say», scrive Malthus «desideriamo fare dell’economia politica una scienza positiva, fondata sull’esperienza e capace di dare risultati precisi, dobbiamo essere particolarmente precisi nella definizione del termine principale di cui essa di serve (cioè, la ricchezza) e comprendervi solamente quegli oggetti il cui aumento o diminuzione siano tali da potere essere valutati; e la linea più ovvia e utile da tracciare è quella che separa gli oggetti materiali da quelli immateriali».

In accordo con Jean-Baptiste Say, che definisce così la felicità del consumo, non molto tempo fa Jan Tinbergen proponeva di ribattezzare il PNL semplicemente FNL (felicità nazionale lorda). In realtà, questa pretesa arrogante dell’economista olandese è solo un ritorno alle fonti. Se la felicità si materializza in benessere, versione eufemizzata del «ben avere», qualsiasi tentativo di trovare altri indicatori di ricchezza e di felicità sarebbe vano. Il PIL è la felicità quantificata.

È facile condannare questa pretesa di equiparare felicità e PIL pro capite, dimostrando che il prodotto interno o nazionale misura solo la «ricchezza» commerciale. In effetti, dal PIL sono escluse le transazioni fuori mercato (lavori domestici, volontariato, lavoro in nero), mentre invece le spese di «riparazione» sono contate in positivo e i danni generati (esternalità negative) non vengono dedotti, neppure la perdita del patrimonio naturale. Si dice ancora che il PIL misura gli outputs o la produzione, non gli outcomes o i risultati.

È appropriato ricordare il bellissimo discorso di Robert Kennedy (scritto probabilmente da John Kenneth Galbraith) pronunciato qualche giorno prima del suo assassinio. «Il nostro PIL (…) include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade. Include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa della natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. In compenso, il pil non conteggia la salute dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione, l’allegria dei loro giochi, la bellezza della nostra poesia o la saldezza dei nostri matrimoni. Non prende in considerazione il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra saggezza. Misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».

La società economica della crescita e del benessere non realizza l’obiettivo proclamato dalla modernità, cioè: la felicità più grande per il maggior numero di persone. Lo constatiamo chiaramente. «Nel XIX secolo, nota Jacques Ellul, la felicità è legata essenzialmente al benessere, ottenuto grazie a mezzi meccanici, industriali, e grazie alla produzione. (…) Una tale immagine della felicità ci ha condotti alla società del consumo. Adesso che sappiamo per esperienza che il consumo non fa la felicità, conosciamo una crisi di valori». Il fatto è che nella riduzione economicista , come osserva Arnaud Berthoud, «tutto ciò che fa la gioia di vivere insieme e tutti i piaceri dello spettacolo sociale dove ognuno si mostra agli altri in tutti i luoghi del mondo – mercati, laboratori, scuole, amministrazioni, vie o piazze pubbliche, vita domestica, luoghi di svago… sono rimossi dalla sfera economica e collocati nella sfera della morale, della psicologia o della politica. La sola felicità che ci si aspetta ancora dal consumo è separata dalla felicità degli altri e dalla gioia comune». (…)

Il progetto di una «economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da un gruppo di economisti italiani (rappresentato principalmente da Stefano Zamagni, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti) si ricollega alla tradizione aristotelica e trae origine da una critica dell’individualismo. La costruzione di una tale economia resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della scuola napoletana del XVIII secolo che il trionfo dell’economia politica scozzese ha respinto. La felicità terrestre, in attesa della beatitudine promessa ai giusti nell’aldilà, generata da un governo retto (buon governo) che persegue la ricerca del bene comune era, in effetti, l’oggetto di riflessione degli Illuministi napoletani. Integrando il mercato, la concorrenza e la ricerca da parte del soggetto commerciale di un proprio interesse personale, essi non ripudiavano l’eredità del tomismo. Questi teorici dell’economia civile sono perfettamente coscienti del «paradosso della felicità» riscoperto dall’economista americano Richard Easterlin. «È legge dell’universo – scriveva Genovesi – che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Ci sono voluti due secoli di distruzione frenetica del pianeta grazie al «buon governo» della mano invisibile e dell’interesse individuale eretto a divinità per riscoprire queste verità elementari. (…)

Merci fittizie

Come aveva visto bene Baudrillard a suo tempo, «una delle contraddizioni della crescita è che produce beni e bisogni allo stesso tempo, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzata, che, dice, «definisce la società di crescita come l’opposto di una società di abbondanza».

La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società di abbondanza sulla base di quello che Ivan Illich chiamava la «sussistenza moderna». Vale a dire, «il modo di vita in un’economia postindustriale all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la propria dipendenza nei confronti del mercato, e l’hanno fatto proteggendo – con mezzi politici – un’infrastruttura in cui tecniche e strumenti servono, essenzialmente, a creare valori di uso non quantificato e non quantificabile dai fabbricanti professionali di bisogni». Si tratta di uscire dall’immaginario dello sviluppo e della crescita, e di re-incastonare il dominio dell’economia nel sociale attraverso una Aufhebung (toglimento/superamento).

Tuttavia, uscire dall’immaginario economico implica rotture molto concrete. Sarà necessario fissare regole che inquadrino e limitino l’esplosione dell’avidità degli agenti (ricerca del profitto, del sempre più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazione della dimensione delle imprese e così via. E in primo luogo la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie che sono il lavoro, la terra e la moneta. Si sa che Karl Polanyi vedeva nella trasformazione forzata di questi pilastri della vita sociale in merci il momento fondante del mercato autoregolatore. Il loro ritiro dal mercato mondializzato segnerebbe il punto di partenza di una reincorporazione/reinnesto dell’economia nel sociale. Parallelamente a una lotta contro lo spirito del capitalismo, sarà opportuno dunque favorire le imprese miste in cui lo spirito del dono e la ricerca della giustizia mitighino l’asprezza del mercato. Certo, per partire dallo stato attuale e raggiungere «l’abbondanza frugale», la transizione implica nuove regole e ibridazioni e in questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell’economia solidale fino alle esortazioni alla semplicità volontaria, possono ricevere l’appoggio incondizionato dei partigiani della decrescita. Se il rigore teorico (l’etica della convinzione di Max Weber) esclude i compromessi del pensiero, il realismo politico (l’etica della responsabilità) presuppone il compromesso per l’azione. La concezione dell’utopia concreta della costruzione di una società di decrescita è rivoluzionaria, ma il programma di transizione per giungervi è necessariamente riformista. Molte proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono dunque felicemente trovare posto all’interno del programma.

Lo spirito del dono

Un elemento importante per uscire dalle aporie del superamento della modernità è la convivialità. Oltre ad affrontare il riciclaggio dei rifiuti materiali, la decrescita si deve interessare alla riabilitazione degli emarginati. Se lo scarto migliore è quello che non è prodotto, l’emarginato migliore è quello che la società non genera. Una società decente o conviviale non produce esclusi. La convivialità, il cui termine Ivan Illich prende in prestito dal grande gastronomo francese del XVIII secolo Brillat Savarin (Le fisiologia del gusto. Meditazioni di gastronomia trascendentale), mira appunto a ritessere il legame sociale smagliato dall’«orrore economico» (Rimbaud). La convivialità reintroduce lo spirito del dono nel commercio sociale accanto alla legge della giungla e riprende così la philia (amicizia) aristotelica, ricordando al contempo lo spirito dell’agape cristiana.

Questa preoccupazione si ricollega appieno all’intuizione di Marcel Mauss che nel suo articolo del 1924, Apprezzamento sociologico del bolscevismo, sostiene, «a rischio di apparire antiquato» di dover tornare «ai vecchi concetti greci e latini di caritas (che oggi traduciamo così male con carità), di philia, di koinomia, di questa “amicizia” necessaria, di questa “comunità” che sono l’essenza delicata della città».

È importante anche scongiurare la rivalità mimetica e l’invidia distruttrice che minacciano ogni società democratica. Lo spirito del dono, fondamentale per la costruzione di una società di decrescita, è presente in ognuna delle R che formano il cerchio virtuoso proposto per dare vita all’utopia concreta della società autonoma. Soprattutto nella prima R, rivalutare, poiché indica la sostituzione dei valori della società commerciale (la concorrenza esacerbata, il ciascuno per sé, l’accumulo senza limiti) e della mentalità predatrice nei rapporti con la natura, con i valori di altruismo, di reciprocità e di rispetto dell’ambiente.

Il mito dell’inferno dalle lunghe forchette con cui si apre la seconda parte del libro La scommessa della decrescita è esplicito: l’abbondanza abbinata al ciascuno per sé produce miseria, mentre la spartizione, pur nella frugalità, genera soddisfazione in tutti, perfino gioia di vivere. La seconda R, riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di ripensare la ricchezza e la povertà. La «vera» ricchezza è fatta di beni relazionali, quelli fondati appunto sulla reciprocità e la non rivalità, il sapere, l’amore, l’amicizia. Al contrario, la miseria è soprattutto psichica e deriva dall’abbandono nella «folla solitaria», con cui la modernità ha sostituito la comunità solidale. (…)

È imperativo ridurre il peso del nostro modo di vita sulla biosfera, ridurre l’impronta ecologica i cui eccessi si traducono in prestiti richiesti alle generazioni future e all’insieme del cosmo, ma anche al Sud del mondo. Abbiamo dunque l’obbligo di dare in cambio ciò che si trova al centro della maggior parte delle altre R: ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ridistribuire rimanda all’etica della spartizione, ridurre (la propria impronta ecologica) al rifiuto della predazione e dell’accaparramento, riutilizzare, al rispetto per il dono ricevuto e riciclare, alla necessità di restituire alla natura e a Gaia ciò che è stato preso in prestito da loro. (Beh, buona giornata).

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“La Sinistra, invece di occuparsi della nuova aspra dialettica dello scontro Capitale-Lavoro, perde tempo all’inseguimento di governi di transizione, abbandonando a loro stessi i lavoratori.”

di Marco Ferri- 3DNews

Omar Thomas, un nero di 34 anni assunto da poco come autista dalla Hartford Distributors di Manchester, in Connecticut (USA), è entrato nello stabilimento in cui lavorava e ha ammazzato a rivoltellate otto persone, poi si è tolto la vita. Lo ha fatto perché temeva di essere licenziato.

Qualche giorno prima, Paolo Iacconi, un italiano di 51 anni, rappresentante di commercio presso la Gifas-Electric di Massarosa, in provincia di Lucca (Italia) è tornato in azienda e ha ucciso a colpi di pistola l’amministratore delegato e il responsabile delle vendite, poi si è sparato, togliendosi la vita. Era stato licenziato sei mesi fa. Era il 23 luglio di quest’anno.

Il giorno dopo, nei dintorni di Roma, un assicuratore ammazza a bastonate il suo datore di lavoro. Tornavano in macchina dopo aver visitato alcuni clienti. E’ nato un diverbio. Alla minaccia del licenziamento, è scattata la furia omicida. L’uomo è stato arrestato.

Cosa lega tra loro questi fatti? Una semplice, quanto terribile coincidenza: lo spettro della perdita del lavoro, la disoccupazione. Cosa stride tra la verità narrata dal mainstrem e la realtà delle cose? Un semplice, quanto lampante dato di fatto: governi e finanzieri parlano di segnali di ripresa dell’economia.

Una buona notizia? “Io considero fin troppo probabile che tra due anni la disoccupazione sarà ancora estremamente alta, se possibile addirittura più alta di adesso. Invece di assumersi la responsabilità di porre rimedio a questa situazione, i politici e i funzionari della Fed dichiareranno in uno stesso modo che un’ alta disoccupazione è strutturale, al di là del loro controllo.” Lo ha detto Paul Krugman, economista americano, Nobel 2008, in un articolo pubblicato su Repubblica (c .2010 New York Times News Service, traduzione di Anna Bissanti).

Allora le cose stanno così: la crisi economica globale ha distrutto i risparmi, la ripresa economica sta distruggendo il lavoro. Il Capitale vince due a zero. Se guardiamo le cose di casa nostra, possiamo vedere crescere la disoccupazione , siamo vicini a quota 9 per cento, in linea con quello che succede in Europa. Però, svettiamo a oltre il 29 per cento di disoccupazione giovanile, un gran bel record mondiale.

Senza contare, che sono stati annunciati circa tremila nuovi esuberi da Telecom Italia. Mentre Unicredit, una banca italiana tra le prime in Europa, augura buone vacanze estive 2010 agli italiani, annunciando 4.700 licenziamenti. Un sindacalista della Cisl ha detto che i licenziamenti della banca sono concepiti sul modello di pensiero di Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat: taglio posti di lavoro, porto fuori la produzione, chiudo stabilimenti, rompo le relazioni sindacali, mando all’aria i contratti collettivi di lavoro.

Il Lavoro perde due a zero. Perché il Sindacato tarda a comprendere il cambio di passo nelle relazioni industriali. Perché la Sinistra, invece di occuparsi della nuova aspra dialettica dello scontro Capitale-Lavoro, perde tempo all’inseguimento di governi di transizione, abbandonando a loro stessi i lavoratori. Che ogni tanto, come le formiche nel loro piccolo, si incazzano. (Beh, buona giornata).

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Il Lodo Pomigliano.

I confini del Lingotto, di LUCIANO GALLINO-Repubblica.

A POMIGLIANO prevale il sì all’accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l’accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell’interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.

In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l’anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.

Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all’estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l’applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.

Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l’impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D’accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell’inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.

Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all’ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un’impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.

Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l’art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell’articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l’art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.

Portare a Pomigliano il grosso dell’organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti. (Beh, buon giornata).

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La Seconda Repubblica è finita: “Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente.”

CETI ABBIENTI E SENSO DELLO STATO. Tra ricchezza e indifferenza, di Ernesto Galli Della Loggia-corriere.it
I dati sono ampiamente noti. Ma voglio ricordarli per l’ennesima volta riprendendoli da un recente articolo pubblicato sul Corriere da Sergio Rizzo. Ogni anno, in Italia, sfuggono completamente al fisco redditi per circa 300 miliardi di euro, con una perdita di entrate per le casse pubbliche pari a un dipresso a 100 miliardi di euro.

Venendo al dettaglio una cifra simile vuol dire che dovremmo credere all’incredibile: ad esempio che nel 2007 (ultime cifre disponibili) gli italiani con un reddito superiore a 200 mila euro sarebbero stati meno di 76 mila. Non solo, ma poiché solamente il 20 per cento di questi erano lavoratori autonomi (l’altro 80 per cento essendo dipendenti o addirittura pensionati), dovremmo pure credere che in tutta la Penisola, dalle Alpi al Lilibeo, non ci fossero allora più di 15 mila lavoratori autonomi che avessero un reddito di almeno 18 mila euro al mese. E dovremmo altresì credere—sempre stando a ciò che risultava al fisco — che in quello stesso anno soltanto 6.253 (dicesi 6.253) «percettori di reddito da imprese» avrebbero guadagnato più di 200 mila euro annui. Così come dovremmo convincerci che proprio in quelli che sono stati i 12 mesi precedenti la crisi ben il 45 per cento, vale a dire circa la metà delle società, avessero davvero, secondo quanto denunciato, un bilancio in perdita. Ma chi può credere a questa realtà di favola? Nessuno. Così come nessuno può credere che le tasse verrebbero pagate se solo fossero più basse (una favola che fa esattamente il paio con quella per cui se tutti pagassero le tasse queste diminuirebbero). Così come d’altra parte nessuno può credere ormai che faccia una differenza se al governo c’è la destra o la sinistra: la quale, anzi, ha dimostrato di non riuscire a dare alcuna concretezza alla sua astratta furia ideologica redistributiva.

E allora non resta che prendere atto di una diversa realtà, quella vera. E cioè che in Italia l’evasione fiscale, per la sua mole, la sua capillarità e la sua continuità nel tempo, è qualcosa di ben altro, e che va ben oltre una pur grave dimensione economica. Essa evoca piuttosto una fondamentale questione nazionale. Vale a dire qualcosa che rimanda immediatamente all’esistenza e alla consistenza stessa delle basi dello Stato nazionale, del nostro stare insieme. Infatti, se in una misura che non ha eguali in alcun altro Paese civilizzato la ricchezza, i ricchi, si sottraggono all’imposta, ciò vuol dire che di fatto, e nei fatti, essi mostrano di non riconoscersi in un’ appartenenza comune. Che una parte della popolazione— e proprio quella più produttiva — non intende sottostare a quel vincolo sociale che è tale appunto perché obbliga a comportamenti che non corrispondono al proprio personale e immediato interesse.

Tra questo interesse e quello generale la stragrande maggioranza degli italiani ricchi invece non ha dubbi: sceglie senza esitare il primo e manda al diavolo il secondo. Questa indomabile asocialità dei ricchi ha almeno due gravi conseguenze oltre quelle ovvie di carattere economico. La prima è la grandissima difficoltà che ha incontrato e che incontra da sempre in Italia la formazione di una vera classe dirigente. Infatti quell’asocialità non può che dare luogo anche ad una tendenziale astatualità, cioè ad una sostanziale indifferenza per le sorti dello Stato. Come si vede benissimo nel fondo di grottesco anarchismo protestatario che si annida così spesso nei ricchi italiani, e che fa sì che essi, quindi, possano identificarsi assai difficilmente con gli interessi collettivi del Paese come invece dovrebbe fare una classe dirigente.

La seconda conseguenza è di ordine politico. Come accade normalmente in tutti i Paesi anche da noi, in linea di massima, la ricchezza preferisce, non da oggi, farsi rappresentare politicamente dalla destra. Non c’è niente di male. Se non fosse però che una ricchezza asociale e antistatuale, come quella descritta, ha finito inevitabilmente per trasmettere questi suoi caratteri alla parte politica verso cui perlopiù convoglia il suo voto, condizionandone pesantemente il profilo ideologico e i comportamenti. Per non perdere tale voto, infatti, la destra politica italiana è stata spinta, lo volesse o no, ad assecondare regolarmente le pulsioni antisociali ed antistatali di quella parte così importante del proprio elettorato di riferimento. Ed è questo elemento che insieme ad altri ha impedito e impedisce alla destra italiana di incarnare il senso delle istituzioni e dello Stato così come di dare voce alta e forte alla dimensione degli interessi nazionali, secondo quanto avviene, invece, quasi dovunque altrove.

Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente. Tale problema riguarda principalmente la destra. La quale si è accontentata finora di seguirne pedissequamente i desiderata, senza neppure cercare di dare loro una prospettiva diversa da quella egoistica da essi naturalmente espressa. Con ciò però condannandosi ad una funzione politicamente subalterna e troppo spesso, se è permesso dirlo, eticamente alquanto penosa. (Beh, buona giornata).

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La Seconda Repubblica è finita. Tremonti lo dice, ma non lo ammette.

Tremonti: No a governi tecnici di MASSIMO GIANNINI-repubbica.it

«IL GOVERNO Berlusconi è forte,e non esistono alternative credibili. Né governi tecnici, né larghe intese. Sono fuori dalla storia, e l’ Europa non approverebbe». Giulio Tremonti non ha dubbi. A dispetto degli scandali della P3e dei conflitti sulla manovra, vede un’ Italia solida e coesa,e un governo in pieno «controllo», da qui alla fine della legislatura. Il ministro dell’ Economia nega conflitti e dimissioni. «Mai minacciato nulla. Tutt’ al più ho detto qualche volta “non firmo”».

Difende il Cavaliere su tutta la linea. Dalla P3, «al massimo una cassetta di mele marce», alle intercettazioni, «tutt’ al più una legge-bavaglino». E sbarra la strada a qualunque ipotesi di governo tecnico alla Draghi, o di larghe intese senza Berlusconi. «Governo tecnico? Governo di unità nazionale? Sono figure che sembrano stagionalmente incastrarsi nella forma di una geometria variabile che ricorda un vecchio caleidoscopio. Avrei preferito proseguire il discorso che abbiamo iniziato come discorso sulla “democrazia dei contemporanei”…».

D’ accordo, allora, partiamo pure dalla “democrazia dei contemporanei”. Cosa intende dire?

«La democrazia dei contemporanei è diversa da quella “classica”, e questa a sua volta era diversa dalla democrazia della agorà. E pure sempre è necessaria, la democrazia. Ed è ancora senza alternative- la democrazia- pur dentro la intensissima “mutatio rerum” che viviamo e vediamo. Intensa nel presente come mai nel passato, dalla tecnologia alla geografia.

La scienza muta l’ esistenza. La “medicina”, la “ars longa” sempre più estende il suo campo, non più solo sulla conoscenza del corpo umano, ma essa stessa ormai capace di ricrearlo per parti. L’ iPad muta le facoltà mentali, crea nuovi palinsesti, produce in un istante qualcosa di simile a quello che per farsi ci ha messo tre secoli, nel passaggio dal libro a stampa alla luce elettrica. Per suo conto, Google vale e conta strategicamente ormai comee forse più di uno Stato G7.

E poi è cambiata di colpo la geografia economica e politica. Di colpo, perché i venti anni che passano dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono un tempo minimo, un tempo non sviluppato sull’ asse della lunga durata tipica delle altre rivoluzioni della storia».
Dove porta questo ragionamento sul cambiamento della democrazia?
«Se cambia la geografia, la politica non può restare uguale. La politica come è stata finora è stata costruita sulla base territoriale chiusa tipica dello Stato-nazione, su confini impermeabili che concentravano nello Stato il monopolio della forza.E la politica era la forma di esercizioe di controllo della forza. La stessa democrazia era rapporto tra rappresentanza e potere.

Ora non è più così. L’ asse si sta inclinando, la rappresentanza cresce, il potere decresce, erosoe diluito dallo spazio globale. E la crisi radicalizza questa asimmetria. La crisi genera domande crescenti d’ intervento. I popoli chiedono interventi sempre più forti, a governi sempre più deboli».


Giusto, basta guardare alla debolezza del governo Berlusconi..
.

«Non è così. Il mio ragionamento vale per tutti i governi. La formula di soluzione e reazione politica non può essere più solo nazionale, ma internazionale. Ed è questo il senso politico della “poliarchia” disegnata nell’ enciclica “Caritas in veritate”.

È proprio questo quello che si sta facendo in Europa in questi mesi, in questi giorni, costruendo sopra gli Stati una nuova “architettura politica”».


Ministro, per favore, passiamo dalla filosofia alla cronaca di questi giorni. Parliamo delle difficoltà dell’ Italia e del suo governo. Qui si parla di crisi, di elezioni anticipate, di governi di transizione…

«In Italia la formula di soluzione non può essere quella del governo tecnico. Per due ragioni. Primo, perché non c’ è una “melior pars” fatta di ottimati, di tecnici, di illuminati, capaci di governare la complessità. Li vedo, certo, ma non li vedo capaci di governare. Secondo, perché un governo di questo tipo, non basato sul voto popolare, non avrebbe chance di prendere posto al tavolo dell’ Europa».

Cioè? Lei sta dicendo che l’ Europa avrebbe il potere di dire no a un governo tecnico in Italia?

«È così. E non solo perché l’ Europa è costruita sul canone della democrazia, ma soprattutto perché l’ Europa, avviata a prendere la forma di un comune destino politico, presuppone e chiede comunque una base di stabilità e di forza. Questa derivante solo dalla politica e dalla democrazia. Tipico il caso della Grecia: la fiducia europea è stata indirizzata verso il governo greco legittimamente eletto. La negatività, verso un ruolo esclusivo del Fondo monetario internazionale, era basata sulla diffidenza verso una formula che sarebbe stata più debole, proprio perché solo tecnica. La tecnica può essere solo complementare alla politica, e non sostitutiva».


Ma chi si potrebbe opporre, invece, a un governo politico di larghe intese, di cui parlano in molti, nel Pd e nell’ Udc?

«La casistica delle larghe intese si presenta solo in due scenari. Dopo elezioni che evidenziano la bilaterale insufficienza delle forze in campo, o per effetto di un trauma. Francamente, nel presente dell’ Italia non vedo un trauma tanto forte da spingere verso questa ipotesi di soluzione. Non un trauma “economico”, non un trauma “esterno”, non un trauma “giudiziario”».

Sull’ economia, in realtà, il trauma lo abbiamo rischiato di brutto con l’ attacco dei mercati, e forse continueremo a rischiarlo oggi e nei prossimi mesi. Non è così?

«Il trauma economico è stato ipotizzato subito, appena dopo la costituzione di questo governo, a fronte della crisi che arrivava. L’ ipotesi non si è verificata. Era un’ ipotesi basata tanto su di una insufficiente e solo parziale analisi della realtà, quanto sulla sottovalutazione della forza del governo. 2008, 2009, 2010. Siamo ormai verso il terzo autunno, e puntualmente per ogni autunno si prevedeva e ora si prevede la crisi. Una crisi esterna, causata dallo scatenarsi della speculazione finanziaria sul nostro debito pubblico. Una crisi interna, con la rottura dell’ ordine e della coesione sociale. In questi anni la sinistra ha puntato sulla paura, come se questa fosse un’ ideologia congiunturale sostitutiva. Non è stato così, non è così, non sarà così».

Ma è stato lei a dire che senza la manovra rischiamo la fine della Grecia…

«Appunto, senza la manovra. In realtà nel 2008 siamo partiti con la legge finanziaria triennale e siamo andati avanti sulla stessa linea.I numeri dell’ Italia sono ormai allineati nella norma e nella media europea. Avrebbe potuto essere diverso, e non è stato. E questo è stato certo per la forza propria e sottovalutata dell’ Italia. Ma anche, si vorrà ammettere, per la visione e per la forza nell’ azione di governo».

Eppure, basta parlare con un po’ di ambasciatori per sapere che i nostri partner occidentali temono per la tenuta politica del governo Berlusconi. Lo può negare?

«Sarebbe questo il secondo trauma, quello “esterno”. Una volta si diceva “tintinnare di sciabole”. Ora, in un’ età più pacifica, si parla di “voci di Cancelleria”. Francamente non mi pare che si tratti di dati rilevanti. Per due ragioni. Perché la crisi postula la stabilità come valore superiore. E poi perché non pare che tanti altri governi siano in condizioni di forza superiore a quella dell’ Italia. Per essere chiari, in giro per l’ Europa non vedo governi tanto forti e tanto determinati e determinanti. Ma, all’ opposto, tutti impegnati nella gestione delle proprie crisi interne. Gestione che, in giro per l’ Europa, non mi sembra più forte della nostra, ma spesso anche contraddittoria, incerta e contestata. In realtà, siamo tutti impegnati in Europa nella costruzione di una architettura nuova di comune e superiore interesse. Il ruolo dell’ Italia nello scenario europeo è forte, richiesto e reputato. Il ruolo di Silvio Berlusconi è forte. E, nel mio piccolo, per esempio martedì sono invitato in Germania a Friburgo per la “Lezione europea”. E non come professore di università, ma come ministro della Repubblica italiana».

Eppure la vostra maggioranza rischia ogni giorno l’ implosione interna. Che mi dice delle inchieste, dei ministri che si dimettono, dello scandalo della P3?

«Per scelta politica, tendo sempre ad analisi di sistema. È certo che non si tratta solo di una mela marcia. C’ è qualcosa di più. Forse, e anzi senza forse, è venuta fuori una cassetta di mele marce. Ma l’ albero non è marcio, e il frutteto non è marcio. La combinazione perversa è tra le condotte personali e la crisi generale. La crisi postula la salita, e non la discesa nella scala dell’ etica, e se vuole anche dell’ estetica».

Quindi anche lei, come il premier, pensa che questi siano solo polveroni?

«La politica deve sempre distinguere tra ciò che è “reato” e ciò che è “peccato”, e non confondere l’ uno con l’ altro. Ci può essere reato senza peccato, come ci può essere peccato senza reato. I dieci comandamenti sono una cosa, i codici una cosa diversa. Un discorso politico serio deve e può essere avviato anche in casa nostra su questo campo. Anzi è già iniziato, ma proprio per questo non può essere generalizzato e banalizzato».

Banalizzato? Qui ci sono pezzi di Stato e di governo che cercano di infiltrarsi e condizionare le decisioni della magistratura, in nome di “Cesare”. Dove vede la banalità?

«Per banalità intendo la “banalità del male”. E anche per questo non credo che puntare sulla valanga delle intercettazioni renda un buon servizio all’ etica politica».

Le ultime intercettazioni ci hanno però permesso di svelare le trame intorno all’ eolico, e alla nuova cupola ribattezzata appunto P3…

«Le ultime intercettazioni costituiscono una lettura interessante. Ne emerge un bestiario fatto di faccendieri sfaccendati, di «poteri» impotenti, se si guarda i risultati, di reati più “tentati” che “consumati”. Più si affolla la scena, più tutto si confonde. E la presunta “tragedia” si fa commedia. Questo non vuol dire che non ci sia una questione morale…».

Meno male: riconosce che esiste una questione morale nel centrodestra?

«Ma quella morale è una questione generale. Questo è un Paese in cui molti “governi” locali si sono clonati e derivati in galassie societarie “parallele”. Spesso più grandi dei governi stessi. E non sempre sotto il controllo democratico e giudiziario. Leggasi la monografia della Corte dei Conti. Mezza Italia è in dissesto sanitario. E questo riduce drammaticamente la “cifra” della morale pubblica. Troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline verso gli affari. Oggi l’ affare degli affariè quello dell’ eolico, almeno questo non inventato da noi. Vastissime aree del Paese sono deturpate da pale eoliche sorte all’ improvviso, in un territorio che nei secoli passati non ha mai avuto i mulini a vento. E forse ci sarà una ragione. È in tutto questo che vedo la grande questione morale, questo è l’ albero storto che va raddrizzato. E per farlo non vedo alternative al federalismo fiscale. L’ unica, l’ ultima forma per riportare nella trasparenza e nell’ efficienza la cosa comune».


Nel frattempo, per nascondere tutto ai cittadini, il governo vara la legge-bavaglio. Leiè d’ accordo anche con questo?

«La traccia possibile di una discussione seria su di un tema serio, come quello della dialettica tra il diritto alla privacy e il diritto all’ informazione, si è persa in un labirinto. E solo ora forse può essere ritrovata. Più che di bavaglio, pare che si trattasse di un “bavaglino”. Si è troppo confuso, e non certo solo da parte nostra, fra i mezzi e i fini».

Bavaglino, dice lei? E allora perché avete paralizzato per questo il Parlamento per ben due anni, a discutere di intercettazioni, invece di parlare dei problemi veri del paese?

«Al Parlamento è bastato un mese per fare la “manovra”. Un’ azione effettiva, la prima fatta in Europa e qui dall’ Italia. Altrove siamo ancora allo stadio dei disegni, dei documenti, dei propositi, delle reazioni di piazza. Da noi non è stato così. E la “manovra” non è stata solo finanza, ma anche politica. Per la prima volta è riduzione del perimetro dello Stato, con l’ effettivo azzeramento di trenta enti pubblici, dei costi del governo e della politica».


Ministro, a parte i tagli alle Regioni, nella manovra non c’ è niente di strutturale…

«Nella manovra è stata fatta la riforma delle pensioni più seria d’ Europa in questi anni e pari data c’ è stata Pomigliano, con il lavoro che non esce ma torna in Italia e nel Mezzogiorno.E forse queste due, pensionie Pomigliano, sono dueP più importanti della P3. Con rispetto parlando, e con orgoglio parlando, l’ azione del governo contro la criminalità organizzata ha un’ intensità e un’ efficacia finora non conosciute. E forse anche questo va messo sul piatto della giustizia».

Ma le Regioni? Perché i governatori protestano? Perché Formigoni dice che dovrà tagliare i servizi ai cittadini?

«Qui vale la dialettica tesi, antitesi, sintesi. Il processo politico ha funzionato subito con i Comuni e le Province, e si sta chiudendo ora anche con le Regioni. Come Comuni e Province, così le Regioni hanno infine fatto propria la nostra ipotesi di discuterne all’ interno del federalismo fiscale tanto municipale quanto regionale. E alla fine il bilancio mi sembra positivo. Nell’ insieme la manovra è stata fatta su una vastissima base di consenso sociale».

E la crescita? Anche su questo il piatto della manovra è miseramente vuoto. Può negarlo?

«Come le ho detto, i numeri italiani sono allineati alla media europea. Nella manovra, oltre alla stabilità finanziaria, c’ è comunque una prima “cifra” dello sviluppo. Dalle reti di impresa alla drastica riduzione della burocrazia. Più in generale nel tempo presente non esiste lo sviluppo in un Paese solo, non si fa lo sviluppo con la Gazzetta ufficiale, soprattutto avendo il terzo debito pubblico del mondo. Del resto la ripresa in attoè portata più che dalle politiche economiche, dal cambio sul dollaro.E tuttavia certo molto deve esser fatto ancora. Dalla “battaglia per il diritto”, troppe regole sono infatti un costo e un limite allo sviluppo, per arrivare alla ricerca, per cui dovrebbe essere fatto un maxi fondo d’ investimento pubblico, alla combinazione tra la riforma degli istituti tecnici, cui devono concorrere anche le imprese, ed il contratto di apprendistato».


Bersani la invita da tempo ad andare in Parlamento, a discutere della crisi. Perché lei si rifiuta?

«La sequenza non può essere prima chi e poi cosa, e cioè prima si sceglie chi governa e poi si decide cosa si fa. Questa sequenza riflette un eccesso di odio antropomorfo. Prima si deve discutere sul cosa».

E dello scontro tra il premier e Fini cosa mi dice. Quello non è un pericolo, per la tenuta del Pdl?

«Anche questo tema rientra nell’ idea antropomorfa della politica, che non mi appartiene».

Non può negare che l’ altro scontro dentro la maggioranza riguarda lei e il presidente del Consiglio. È vero che venerdì scorso persino Gianni Letta l’ ha rimproverata in Consiglio dei ministri?

«Oggi ci abbiamo riso sopra. Vedo un eccesso di confusione tra “personale” e “politico”. Certo, in politica conta anche il personale, ma su troppi “scontri” ho letto troppo folklore…».

È vero o no che lei minaccia quasi ogni giorno le dimissioni?

«Non ho mai minacciato le dimissioni, ma spesso ho detto “non firmo”. E alla fine il voto è sempre arrivato, positivo e convinto. Tutto quello che ho fatto, e forse anche un po’ più della politica economica, l’ ho fatto convinto di fare comunque quello che mi sembrava bene per il mio Paese.E non avrei potuto farlo senza Berlusconi e Bossi, o contro Berlusconi e Bossi. E sarà così anche nel prossimo autunno e oltre». (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

In Italia un debito pubblico da record. Complimenti al governo.

Il debito pubblico italiano sale a maggio e tocca i 1.827,1 miliardi di euro, aumentando di 15 miliardi rispetto al mese precedente e raggiungendo un nuovo record in valori assoluti. Dalla fine del 2009 il valore del debito italiano è salito di 65,8 miliardi, segnando un incremento del 3,7%. Lo dice la Banca d’Italia. Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro

Regioni, Provincie e Comuni contro il governo. I ministri della Lega se ne sono accorti?

All’indomani della rottura avvenuta al termine del vertice con il premier Berlusconi e il ministro dell’Economia Tremonti, le Regioni si rivolgono al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, confermando l’orientamento, se la manovra economica non cambierà, di trovare la strada per restituire allo Stato le deleghe per funzioni che non sono più in grado di esercitare.

Preoccupati per le ricadute sul territorio, i governatori si riuniranno in una conferenza straordinaria mercoledìprossimo, mentre la manovra sarà al vaglio dell’aula di Palazzo Madama, e non escludono di proseguire i lavori del Parlamentino anche il giorno dopo, il giovedi del voto di fiducia al Senato.

Intanto, secondo quanto ha appreso l’agenzia Agi, dopo il muro contro muro andato in scena con il premier Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, è stato lo stesso presidente della Conferenza delle Regioni a informare telefonicamente il Capo dello Stato delle preoccupazioni dei Governatori.

Vasco Errani lo aveva annunciato, quando a nome della Conferenza, aveva chiesto di incontrare le massime cariche dello Stato. Un colloquio telefonico di pochi minuti in cui Errani avrebbe illustrato le buoni ragioni delle amministrazioni regionali nel confronto con il Governo e la ferma intenzione di proseguire un dialogo vero ed efficace, evitando scontri istituzionali.
Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Federculture, Civita, Fai, Italia Nostra, Legambiente e WWF contro il governo. Il Ministro Bondi e la ministra Prestigiacomo se ne sono accorti?

Federculture, Civita, Fai, Italia Nostra, Legambiente e WWF hanno diffuso oggi una lettera aperta, indirizzata al premier, al ministro per i Beni culturali e al ministro dell’Economia, nella quale si sottolinea che “l’Italia è a rischio recessione culturale”, e che i tagli operati dalla Finanziaria mettono in discussione “la tutela e la promozione del nostro patrimonio culturale e ambientale, sancita dall’art.9 della Costituzione”, e penalizzano “un settore vitale che contribuisce positivamente all’economia del Paese, con conseguenze negative sulle possibilità di uscita dall’attuale crisi e sulle prospettive di una futura e duratura crescita”.

“La riduzione del 50% delle risorse destinate agli istituti culturali – si legge ancora nella lettera – quasi fossero tutti enti inutili, senza l’individuazioen di criteri o parametri oggettivi che valutino l’effettiva esistenza di sprechi, decreterà un ulteriore e indiscriminato abbassamento dell’intervento pubblico per la cultura, che mette ormai a rischio quantità e qualità dei servizi culturali nel Paese”.
Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

I diplomatici italiani contro il governo. Il Ministro Frattini se ne è accorto?

I diplomatici italiani annunciano per il 26 luglio uno sciopero contro la manovra economica, della quale “non possono accettare quei tagli, alle risorse ed al funzionamento della loro carriera di servitori del Paese, che di fatto preludono allo smantellamento della Farnesina”.

Lo annuncia un comunicato del Sindacato Nazionale Dipendenti Ministero Affari Esteri (Sndmae).”I diplomatici e tutti i lavoratori della Farnesina sono impegnati – si legge nel comunicato in cui si annuncia lo sciopero – a promuovere l’internazionalizzazione delle nostre imprese e ad appoggiarle quando investono e quando partecipano a gare e commesse.

Senza l’impegno dei diplomatici, ci sarebbero meno posti di lavoro in Italia e meno ricchezza per il nostro Paese, le cui aziende hanno ormai – e devono avere, per vivere e prosperare – come orizzonte i mercati mondiali. Il Ministero degli Esteri, i diplomatici che dirigono le sedi all’estero e gli uffici a Roma, tutto il personale della Farnesina devono essere sostenuti perché il risultato del loro lavoro viene toccato con mano dagli italiani.

Dagli italiani che scommettono sul mondo e da quelli che vogliono conoscerlo, e che la Farnesina non lascia soli in caso di crisi. Il Ministero degli Esteri, ricordiamolo, produce molto più di quanto costi al Paese”.
Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

Protestano le Regioni. Protestano i sindacati nel pubblico e nel privato. Protestano i docenti e i ricercatori. Protestano i medici. Protestano le forze dell’ordine. Protestano i generali dell’esercito. Protestano i diplomatici. Protestano i magistrati. E protestano anche i terremotati aquilani. Il berlusconismo è in crisi?

L’entropia dei conti, di MASSIMO GIANNINI-repubblica.it

L’eroica settimana del “ghe pensi mi” precipita nella prosaica entropia della manovra economica. Berlusconi ha disinnescato la mina Brancher, al prezzo di una penosa rinuncia che ha svelato il patto diabolico tentato sulla pelle delle istituzioni: un ministero ad personam in cambio di un’impunità personale. Ma non riesce a disinnescare la bomba del decretone da 25 miliardi, sul quale si concentrano le tensioni della maggioranza e le pressioni della società. La ragione è semplice. Per un governo non c’è atto politico più costitutivo di una legge finanziaria. E poiché questo governo non ha una proposta politica, non può sperare nel consenso del Paese sulla sua manovra economica.

C’è un’evidente confusione “tecnica”, che in queste ore supera i limiti della decenza. In una manovra già nata male, perché iniqua nella distribuzione dei tagli di spesa e incerta nella quantificazione delle voci di entrata, si stanno moltiplicando emendamenti sulle materie più astruse e disparate. A colpi di “refuso” quotidiano, e di blitz notturni di fugaci peones e audaci relatori, si aggiungono e si sottraggono impreviste stangate sulle assicurazioni e improbabili riforme del processo civile, intollerabili batoste sulle tredicesime e incredibili abbattimenti degli stipendi Rai.

Il tutto accompagnato dall’ennesima celebrazione del conflitto di interessi: l’immancabile norma ad aziendam (questa volta la Mondadori) che pagando un misero obolo del 5% sul dovuto potrà estinguere il suo contenzioso da 400 milioni con il Fisco. Il risultato di questo caos è a somma zero. Nessuno può alterare i saldi finali, come esige il ministro dell’Economia. Ma nessuno capisce più niente, come teme il presidente del Consiglio. Meno male che la riforma del bilancio su base triennale avrebbe dovuto metterci al riparo dagli indecorosi assalti alla diligenza della Prima Repubblica. Le cavallette all’opera nella Seconda Repubblica sono molto peggio.

Ma c’è soprattutto una patente convulsione politica, che in questi giorni mette a nudo i vizi di questo centrodestra in cui la logica irriducibile della monarchia assoluta comincia a patire il parziale squilibrio di una diarchia relativa. Lo scontro con le Regioni è forse il sintomo più inquietante. Il presidente del Consiglio sarebbe pronto ad ascoltare le grida di dolore che arrivano dai governatori, molti dei quali appartengono alla sua maggioranza, uscita già molto provata dalle elezioni amministrative della primavera scorsa. Berlusconi sarebbe pronto a venire incontro alle richieste non solo delle virtuose regioni del Nord di fresca marca leghista, ma anche delle disastrate regioni del Sud di vecchia marca forzista. Ma il suo ministro del Tesoro non può permettersi questo lusso: i tagli pesanti agli enti locali, insieme al salasso dilazionato sul pubblico impiego, sono l’unica certezza di questa manovra scritta sull’acqua. Tremonti non si può permettere di cedere su questo: non può dare ai mercati l’impressione che il governo italiano sia pronto a scendere a patti su una manovra che per il Paese (e per l’Eurozona) rappresenta la linea del Piave da opporre agli attacchi speculativi.

Questo spiega la resistenza del governo ad incontrare i governatori (con la discutibile eccezione dell’udienza “privata” concessa a Palazzo Grazioli agli azzurri Formigoni, Polverini, Caldoro e Scopelliti) e ad ascoltare le proteste delle categorie (con l’inaccettabile eccezione del presidente di Confindustria Marcegaglia, rassicurata personalmente al telefono sull’eliminazione dei nuovi adempimenti fiscali per le imprese). Questo spiega anche l’ennesimo schiaffo della doppia fiducia imposta a Camera e Senato, per blindare un testo che con tutte le sue clamorose storture deve comunque assicurare i 25 miliardi promessi sulla carta. Ma è evidente che, al di là delle smentite di rito, Berlusconi ha un problema serio con Tremonti. Persino più serio di quello che ha con Fini. Per la legge sulle intercettazioni si trova a dover fronteggiare il presidente della Repubblica e il presidente della Camera, dentro una cornice istituzionale difficile ma con un margine interno gestibile. Per la manovra deve fronteggiare il suo ministro del Tesoro che si propone come unico garante della stabilità economica, dentro un quadro di compatibilità politiche aperte ma con un vincolo esterno indisponibile.

Per questo la battaglia sulla manovra è più insidiosa per il premier, che su questo deve fare i conti non tanto e non solo con l’opposizione, ma con la sua constituency politica e, in definitiva, con il Paese. A parte le Regioni, i focolai di conflitto si diffondono con velocità e intensità impressionanti. Protestano i sindacati nel pubblico e nel privato. Protestano i docenti e i ricercatori. Protestano i medici. Protestano le forze dell’ordine. Protestano i generali dell’esercito. Protestano i diplomatici. Protestano i magistrati. E protestano anche i terremotati aquilani. Un dissenso concentrico così vasto non si era mai visto. Meno che mai nei confronti del leader che, più di chiunque altro non solo in Italia ma forse nell’intero Occidente, ha fatto della sua popolarità l’unico metro per misurare la sua politica.

Qui sta il drammatico limite del berlusconismo, che forse per la prima volta assaggia, anche tra la sua gente, il frutto amaro dell’impopolarità. Mai come in questo momento, sulla manovra e non solo su questa, servirebbe un presidente del Consiglio capace di fare una sintesi più avanzata tra le tesi del suo ministro dell’Economia e le antitesi espresse dagli enti locali e dalla società civile. Mai come in questo momento servirebbe una vera politica del fare, e non la solita mistica del potere. E invece, con quel grottesco “ghe pensi mi”, il Cavaliere ci ripropone l’eterno ritorno dell’uguale. Se in campo c’è lui, la politica non serve: Silvio è il messaggio. È stato vero per molto tempo, nell’Italia dell’egemonia sottoculturale televisiva. Ora, forse, non lo è più. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Il Vecchio Continente ce l’ha coi giovani.

UNA CRISI PAGATA DAI GIOVANI
di Samuel Bentolila , Tito Boeri e Pierre Cahuc-lavoce.info

La disoccupazione giovanile è al 20 per cento in Europa. Si tratta anche di una conseguenza di riforme del mercato del lavoro rimaste incomplete. Per rendere politicamente accettabili quelle intraprese a partire dalla fine degli anni Ottanta, si è lasciato che influissero solo sulle nuove assunzioni. Si è così creato un dualismo nel mercato del lavoro, tra contratti a tempo indeterminato e contratti a tempo determinato. Che è iniquo e fortemente distorsivo. Si può risolverlo ricorrendo a forme di tutela progressiva del lavoro.

Mai prima d’ora una crisi aveva colpito così tanto i giovani. Questa volta non abbiamo avuto soltanto il congelamento delle assunzioni, anche una grande quantità di contratti temporanei non sono stati rinnovati. Di conseguenza, la disoccupazione giovanile nell’area euro è balzata in maggio al 20 per cento con livelli più alti nei paesi con maggiore dualismo nel mercato del lavoro, dal 15 per cento di prima della crisi. In Spagna, quattro giovani su dieci che partecipano al mercato del lavoro sono disoccupati, in Italia uno su tre, in Francia e Svezia – due paesi con un dualismo simile nel mercato del lavoro – siamo a uno su quattro. È il momento di correre ai ripari se non vogliamo perdere un’intera generazione.

CONSEGUENZE DELLE RIFORME
I governi europei hanno fatto sforzi notevoli per riformare le istituzioni del mercato del lavoro e uscire così dalla Eurosclerosi degli anni Ottanta: nei venticinque anni che hanno preceduto la grande recessione, nei paesi dell’Europa a 15 sono state avviate circa 200 riforme delle tutele dell’occupazione, che in più della metà dei casi hanno aumentato la flessibilità del mercato del lavoro.

Un effetto delle riforme è un aumento della volatilità dell’occupazione. L’occupazione cresce di più nei periodi di crescita che in assenza di riforme . Questo ha contribuito all’eccezionale andamento dell’occupazione negli anni 1995-2007, quando la disoccupazione è scesa di un quarto, la disoccupazione di lungo periodo si è dimezzata e sono stati creati 21 milioni di nuovi posti di lavoro. È il lato positivo della flessibilità. Il lato negativo lo abbiamo visto nel corso della recessione: la riduzione dell’occupazione associata al calo della produzione è considerevolmente superiore nei paesi che hanno attuato queste riforme duali. In altre parole, la perdita di posti di lavoro sarebbe stata minore senza le riforme.

Il fatto è che le riforme si sono fermate a metà ed è l’ora che i governi le completino. Per renderle politicamente accettabili, le riforme hanno per lo più comportato cambiamenti solo per i nuovi assunti e hanno introdotto un vasto assortimento di nuove figure contrattuali flessibili, a tempo determinato, oppure hanno esteso il loro raggio d’azione laddove già esistevano. Non c’è stato alcun cambiamento delle regole per i contratti regolari a tempo indeterminato
Di fatto, si sono così creati due mercati del lavoro: uno largamente al riparo dagli shock e formato dai lavoratori con contratti a tempo indeterminato; l’altro formato dai lavoratori temporanei, sul quale si sono concentrati tutti i rischi.

Un esempio eclatante di dualismo è il settore delle costruzioni spagnolo, colpito dallo scoppio della bolla immobiliare e dalla recessione: nel 2009 l’occupazione dipendente è scesa del 25 per cento, con perdite del 35 per cento tra i lavoratori a tempo determinato, ma i salari reali dei lavoratori a tempo indeterminato sono cresciuti del 4 per cento circa.
Oltre a sollevare importanti problemi di equità, una simile asimmetria è fortemente distorsiva.

La coesistenza di forte tutela del lavoro a tempo indeterminato e lavoro a tempo determinato comporta una inefficienza del turnover nel mercato del lavoro perché le aziende sono riluttanti a trasformare i posti di lavoro a tempo determinato in posti di lavoro a tempo indeterminato. I lavoratori temporanei hanno accesso a minore formazione perché né i lavoratori né i datori di lavoro vedono un futuro per il rapporto di lavoro. È probabile che la perdita di formazione di capitale umano divenga più acuta negli anni a venire.

COME ELIMINARE IL DUALISMO
La ripresa dopo le crisi finanziarie è generalmente associata con un ampio utilizzo di contratti temporanei, dal momento che incertezza e vincoli di liquidità scoraggiano le aziende dall’assumere impegni a lungo termine. L’esperienza del Giappone e della Svezia negli anni Novanta lo dimostra. All’uscita dalla recessione, i due paesi hanno sperimentato un forte incremento nella quota di contratti temporanei, che ha significato anche una minore acquisizione di qualificazione sul posto di lavoro per le nuove generazioni di lavoratori.

Nella maggior parte dei paesi europei i lavoratori con contratti a tempo indeterminato sono fortemente tutelati. Per fare qualche esempio, in Italia i lavoratori a tempo indeterminato sono protetti fin dall’inizio del rapporto di lavoro da norme che obbligano il datore di lavoro a reintegrarli in caso di licenziamento senza giusta causa. In Francia il licenziamento per ragioni economiche è praticamente impossibile se l’azienda realizza profitti. In Spagna è prassi usuale contestare in tribunale il licenziamento per motivi economici: i datori di lavoro perdono la causa in tre quarti dei casi, cosicché generalmente evitano il ricorso al tribunale pagando in anticipo al lavoratore l’indennità a cui l’avrebbero condannato i giudici. Indennità che possono arrivare a 36 mesi di salario in Italia e a 42 mesi in Spagna. I procedimenti giudiziari in questi paesi sono molto lunghi e costosi.

Per completare i processi di riforma, i governi dovrebbero combattere il dualismo dei mercati del lavoro europei, ma le misure finora adottate sono ben lungi dall’essere soddisfacenti. Per esempio, il 16 giugno il governo spagnolo ha approvato una riforma che abbassa l’entità delle indennità nei contratti a tempo indeterminato. Ma il provvedimento non risolverà il dualismo del mercato del lavoro spagnolo perché le procedure amministrative e giudiziarie per il licenziamento fanno sì che i contratti temporanei siano ancora molto più vantaggiosi per le aziende.

Una strategia migliore è quella di garantire una tutela progressiva del lavoro con flessibilità in ingresso. In particolare i governi dovrebbero favorire un ingresso a fasi nel mercato del lavoro a tempo indeterminato, facendo sì che il grado di tutela aumenti via via che i lavoratori completano il percorso che li porta al lavoro permanente, con dettagli che si possono definire in accordo con le legislazioni nazionali. Se la tutela del lavoro cresce di pari passo con l’anzianità, è possibile evitare il divario tra lavoratori con uno status diverso, che produce inefficienze del turnover nel mercato del lavoro, e considerare anche i costi psicologici associati alla perdita del lavoro, che normalmente aumentano all’aumentare del tempo trascorso in un posto di lavoro. Resterà così la flessibilità, senza però la necessità di creare una struttura duale del mercato del lavoro. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il costo della crisi sono stati miliardi di risparmi, costo della ripresa sono 17 milioni di posti di lavoro persi.

Ocse, persi 17 milioni di posti di lavoro: disoccupati al massimo nel dopoguerra
In Italia svaniti 500mila posti, senza cig disoccupazione +4%. A picco occupazione dei giovani, pesante impatto su precari-ilmessaggero.it

La crisi ha distrutto nell’area Ocse 17 milioni di posti di lavoro, 500mila dei quali in Italia, dove il tasso di occupazione è al 57,3%, quart’ultima nazione tra i paesi industrializzati (solo Messico, Ungheria e Turchia stanno peggio). I danni sarebbero stati peggiori senza il massiccio ricorso alla Cig. Nel nostro paese il salario medio lordo è di circa 31mila dollari, sotto la media. Sono dati riportati nel annuale sulle Prospettive dell’Occupazione.

Quasi 17 milioni di persone hanno perso il posto di lavoro nell’area Ocse tra la fine del 2007, quando il tasso di disoccupazione era al minimo record del 5,8% e il primo trimestre 2010 quando ha raggiunto un massimo post-bellico dell’8,7%. La stima a fine 2011 è di una disoccupazione ancora superiore all’8%. Ad essere colpiti sono stati i livelli occupazionali degli uomini (-3%) più che delle donne (-1,2%), perché settori come l’edilizia (occupazione -7,7%), il manifatturiero (-8,7%) e il minerario (-5,3%) ad alta occupazione maschile hanno pagato il prezzo più duro. Aggiungendo coloro che non stanno cercando attivamente l’occupazione e i sotto-occupati, la disoccupazione nell’area Ocse e anche nel G7 risulta del 15% circa a fine 2009 contro poco più del 10% nel 2007.

A picco l’occupazione dei giovani (-8,4%), mentre la fascia dei 25-54 anni ha avuto danni minori (-2,2%) e gli ultra 55enni hanno messo a segno addirittura un +1,7%. Un incremento legato in parte alla necessità di restare al lavoro per le perdite dei risparmi previdenziali causate dalla crisi finanziaria e dall’innalzamento dell’età di pensionamento.

Drammatico l’impatto sui precari (-7,7%), mentre i lavoratori a tempo indeterminato hanno retto (-0,6%) e gli autonomi hanno limitato i danni (-2,1%). Il grado di istruzione ha fatto la differenza: l’occupazione dei meno qualificati è calata del 6,4%, mentre i cosiddetti “high skilled” hanno registrato un aumento dell’1,1%.

La crisi è costata quasi mezzo milione di posti di lavoro all’Italia e ha ulteriormente ridotto il tasso di occupazione, sceso dal 58,7% nel 2007 al 57,3%, al quart’ultimo posto tra i Paesi industrializzati (solo di Messico, Ungheria e Turchia fanno peggio). Per riportare l’occupazione ai livelli ante-crisi servirebbero 657mila nuovi posti. Le proiezioni suggeriscono che la disoccupazione resterà agli attuali livelli (8,9%) o sopra almeno fino alla fine del 2011. L’Ocse stima che senza il ricorso alla Cassa Integrazione, aumentata di oltre il 600% dall’inizio della crisi, la disoccupazione sarebbe stata quasi 4 punti percentuali più alta. L’Italia è classificata dall’Ocse tra i Paesi in cui la recessione ha avuto nell’insieme un impatto meno duro sul lavoro, considerando che il tasso di disoccupazione è salito di 2,2 punti rispetto al dicembre 2007, meno quindi dei 2,9 punti della media Ocse. L’incremento della disoccupazione e la riduzione del tasso di occupazione sarebbero stati ancora peggiori se il numero delle ore lavorate durante la crisi se non fosse calato del 2,7%, il doppio della media dei Paesi industrializzati.

Un altro riflesso della crisi si è visto nell’aumento dei lavori part-time (+10%), in gran parte riconducibile a lavoratori che hanno accettato il tempo parziale perchè non sono riusciti a trovare occupazioni a tempo pieno. Dall’inizio della crisi, più del 4% dei lavoratori in Italia hanno un part-time involontario, uno dei dati più alti dell’Ocse. Se al numero dei disoccupati ufficiali, si aggiungono anche i sottoccupati e coloro che vorrebbero lavorare, ma non cercano attivamente un’occupazione, l’incidenza dei senza lavoro – nelle stime dell’Ocse – si avvicinava al 20% a fine 2009 (il livello più elevato tra i big a parte la Spagna) dal 15% circa di due anni prima, contro una media dell’Ocse del 15% lo scorso anno e del 10% circa nel 2007 rispettivamente.

Il salario medio lordo in Italia è di 30.794 dollari l’anno a parità di potere d’acquisto e di 39.789 dollari ai cambi attuali. La media tra i Paesi industrializzati è 41.435 dollari nel primo caso e 47mila nel secondo. Gli Usa hanno i salari più elevati (51mila euro), ma spiccano anche Svizzera (47.300 dollari a parità di potere d’acquisto), Lussemburgo (49mila), Australia (45.500), Regno Unito, Irlanda e Olanda (oltre 44.000). Sotto la media, invece, Francia e Germania, appaiate poco sopra i 36mila dollari, come pure Giappone (33mila) e Spagna (31mila). Portogallo a parte (22mila), i salari più bassi sono nei Paesi dell’Est Europa: Repubblica Ceca e Ungheria sono attorno a 19mila dollari, la Polonia si ferma a 17.500 dollari e la Repubblica Slovacca scende a 16mila. Dal rapporto emerge anche un calo delle ore lavorate a 1.773 per l’Italia dalle 1.807 del 2008. Flessione, peraltro comunque a tutti i Paesi avanzati (meno il Lussemburgo), che riflette l’impatto della crisi.

Riequilibrio tra lavoro permanente e lavoro precario. Secondo John Martin, direttore della divisione occupazione, lavoro e affari sociali dell’Ocse, è necessario «creare gli incentivi giusti perchè le aziende assumano». Oltre a sussidi temporanei per le assunzioni e agli sforzi per migliorare le qualifiche di quanti cercano lavoro, questo dovrebbe includere «un riequilibrio della protezione» del lavoro tra i contratti permanenti e i temporanei, che hanno pagato il prezzo più alto durante la crisi. In questo modo «si permetterebbe ai lavori a tempo determinato di funzionare meglio come fase di passaggio verso un lavoro permanente e non come una trappola». (Beh, buona giornata).

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Il piccoletto Berlusconi cerca di difendere la piccola figura dell’Italia a un vertice piccino.

“I giornali disinformano. I lettori dovrebbero scioperare per insegnare a chi scrive a non prenderli in giro”. Il premier Silvio Berlusconi, a San Paolo del Brasile per una visita istituzionale, ha inaugurato il viaggio attaccando la copertura dedicata dalla stampa italiana al vertice G20 in Canada: “I resoconti sono l’esatto contrario della riunione”, ha detto. “Da molti mesi”, ha aggiunto, “vedo una disinformazione inconcepibile”. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro

Aspettando la manovra finanziaria del governo Berlusconi, quello che non metteva le mani nelle tasche degli italiani.

L’Italia sale al quinto posto nella classifica europea: lo scorso anno il peso del fisco sul pil è stato del 43,2%, in aumento rispetto al 2008. Debito pubblico è sempre il più alto d’Europa: nel 2009, in rapporto al prodotto interno lordo, è aumentato di quasi 10 punti rispetto all’anno precedente. Lo dice l’Istat. Beh, buona giornata.

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