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Confindustria scarica Berlusconi?

“Nei primi mesi della crisi il governo ha tenuto i conti pubblici a posto e abbiamo visto invece cosa succede in Portogallo e Spagna, ma ora serve di più: da sei mesi a questa parte l’azione del governo non è sufficiente”.

Lo afferma la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, intervistata da Fabio Fazio durante la trasmissione “Che tempo che fa”. Marcegaglia ha denunciato l’immobilismo del governo, a fronte della necessità di varare le riforme, favorire la crescita e superare la crisi. Se il governo non è in grado di farlo, ha concluso la presidente di Confindustria, “bisogna fare altre scelte”. Beh, buona giornata.

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Il caso Fiat: tutto, ma proprio tutto quello che non va dopo il referendum a Mirafiori.

La classe operaia deve tornare in Paradiso, di EUGENIO SCALFARI-la Repubblica.

ANZITUTTO l’aritmetica. A Mirafiori ha votato il 94 per cento dei dipendenti, 5.136, tra i quali 441 impiegati, capireparto e capisquadra. Le tute blu, cioè gli operai veri e propri, erano dunque 4.660 in cifra tonda. I “sì” all’accordo sono stati il 54 per cento e i “no” il 46 per cento.
Al netto del voto impiegatizio i “sì” hanno vinto per 9 voti, due dei quali contestati. Marchionne aveva dichiarato che per andare avanti doveva avere almeno il 51 per cento. Con il voto dei colletti bianchi lo ha avuto, ma senza quel voto no: ha avuto il 50 più nove voti (o sette), per arrivare al 51 gli mancano 41 voti.

Questa è l’aritmetica, che ovviamente non dice tutto ma dice già abbastanza. Dice cioè che la situazione di Mirafiori che esce da questa votazione sarà assai difficilmente governabile tenendo soprattutto presente che una parte notevole dei “sì” ha votato di assai malavoglia e molti l’hanno esplicitamente dichiarato.
Ed ora una prima domanda alla quale, oltre che Marchionne, dovrebbero rispondere i dirigenti Cisl, Uil e gli altri firmatari dell’accordo: è possibile che in queste condizioni il 49,91 per cento degli operai di Mirafiori sia privo di rappresentanza?

Sulla base di un referendum del 1995 infatti – ribadito nell’accordo Fiat-Cisl-Uil ed altri – la rappresentanza è riservata soltanto ai sindacati che hanno firmato l’accordo, ma i loro delegati non saranno eletti dai dipendenti, saranno “nominati”
dai sindacati firmatari.
Avete capito bene? Nominati. Esattamente come avviene per i deputati nominati dai partiti con la legge elettorale chiamata “porcellum”, porcheria dal suo autore, il leghista Calderoli, circondata ormai da una generale e bipartisan disistima.

La “porcheria” della rappresentanza a Mirafiori che esclude anziché includere, è in regola, lo ripeto, con quanto stabilito dalle intese sindacali vigenti, ma è clamorosamente contraria al buonsenso e al ruolo di una rappresentanza effettiva. Dequalifica metà dei dipendenti al ruolo di “anime morte” reso celebre da Gogol e prassi costante nelle campagne della Russia zarista fino alla rivoluzione del 1905. Si può adottare nella Fiat del 2011? Ancora qualche numero. I lavoratori di Mirafiori iscritti alla Fiom sono seicento; quelli non iscritti a nessun sindacato sono più di duemila.

Sommandoli insieme, i lavoratori che non avranno rappresentanza saranno a dir poco 2.600 su un totale di cinquemila. Se ne deduce sulla base dei numeri che la maggioranza largamente assoluta degli operai di Mirafiori non sarà rappresentata.
Bonanni e Angeletti ritengono che una situazione del genere sia accettabile da veri sindacalisti, senza degradarli oggettivamente a sindacalisti “gialli”?

* * *

Ho scritto ripetutamente (e ancora il due gennaio) che il problema sollevato da Marchionne non è peregrino e non riguarda soltanto la Fiat.
L’economia globale ha reso possibile la formidabile emersione economica di interi “continenti”: Cina, India, Indonesia, Brasile, Sudafrica. Erano paesi addormentati nella loro miseria che ora irrompono terremotando l’intero pianeta e provocando un trasferimento di benessere dal vecchio mondo opulento verso un mondo nuovo di imprenditori, finanzieri, consumatori e lavoratori.

Il caso Marchionne-Fiat ha messo l’economia italiana di fronte a questa realtà, ma in ordine di tempo è l’ultimo (per ora) non il primo; era stato preceduto da centinaia di altri analoghi casi riguardanti imprese di dimensioni medio-piccole messe fuori mercato dall’economia globale. Ne cito due tra le più note: Merloni e Omsa, ma l’elenco ne comprende (e ne comprenderà) moltissime altre. Il trasferimento di benessere dall’Occidente ricco ai paesi emergenti è un dato di fatto che nessuno potrà bloccare. Un altro dato di fatto riguarda gli assetti sociali e la loro auspicabile evoluzione nei paesi emergenti. Non c’è dubbio che col tempo i diritti dei lavoratori, le loro condizioni e i loro salari tenderanno ad allinearsi a quelli occidentali, ma questa evoluzione sociale richiederà un tempo molto più lungo dell’involuzione economica in atto nell’Occidente. È in corso nei paesi emergenti quello che l’economia classica definì il “risparmio forzato” e cioè l’accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.

Pensare quindi di livellare fin d’ora verso l’alto i diritti e le retribuzioni dei lavoratori di quei paesi è pura illusione. Avverrà viceversa (sta avvenendo) il contrario: sono le condizioni di lavoro in Occidente che scenderanno.
Un’alternativa c’è: il soccorso dello Stato alle aziende in difficoltà. E chiaro che imboccare questa strada porta verso un sistema di economia interamente sovvenzionata. È pensabile un’ipotesi di questo genere? Certamente no.
Allora qual è la strada da seguire? L’ipotesi Marchionne è correggibile senza imboccare quella della sovvenzione alle aziende come sistema?

* * *

Sì, l’ipotesi Marchionne è correggibile anzi, deve essere corretta al più presto perché, così come si è delineata a Pomigliano e a Mirafiori, non è accettabile. Non solo perché moralmente ingiusta ma perché non è funzionalmente percorribile. Ezio Mauro, nel suo articolo di venerdì scorso su questo stesso argomento, ha segnalato che – a detta dello stesso Marchionne – il costo del lavoro dell’automobile grava per il 7 per cento sul costo totale.
È evidente a tutti che non si risolve una crisi di queste proporzioni riducendo quel 7 per cento ed è altrettanto evidente che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di sapere come è composto il restante 93 per cento e quali misure vengono prese per ridurlo.

Abbiamo già documentato su queste pagine (Massimo Giannini di ieri) che i salari dei lavoratori dell’auto nelle nazioni europee nostre concorrenti sono nettamente maggiori dei nostri. Dunque c’è un difetto, se non altro conoscitivo, nello schema Marchionne e c’è un altro difetto, in questo caso compensativo, che va colmato. Si toglie benessere da un lato; che cosa si dà dall’altro? Il posto di lavoro, risponde la Fiat. Errore. Il posto di lavoro è un salario che compensa il lavoro. Qui c’è un contratto che incide sul benessere complessivo. Come viene compensato?

* * *

Se si cambia il rapporto tra aziende e lavoratori, tra imprese e sindacati, a causa d’una rivoluzione economica di dimensioni planetarie che incide sui rapporti sociali nei paesi opulenti, la conseguenza è che non si può scaricarne tutto il peso su uno solo dei fattori di produzione. Anche l’altro fattore deve entrare in gioco, deve impegnarsi nell’innovazione dei processi e dei prodotti, deve far aumentare la propria produttività e non solo quella proveniente dal lavoro. E così come l’imprenditore e il management controllano le frazioni di minuto del rendimento dei lavoratori, altrettanto concreto e puntuale deve essere il controllo dei rappresentanti dei lavoratori sugli investimenti innovativi dell’imprenditore. Tanto più se le retribuzioni e i premi del manager dipendono dai risultati.
Quali risultati? Gli incrementi del titolo in Borsa o l’attuazione di un piano industriale? I fattori in gioco non sono due ma tre: il lavoro, il management, gli azionisti. La sede è il consiglio di amministrazione.

Perciò i lavoratori debbono essere rappresentati nei consigli di amministrazione, soprattutto per le imprese quotate in Borsa o al di sopra di certi livelli di fatturato e di occupazione. E debbono essere rappresentati anche in appositi organi che vigilano sull’evoluzione della produttività e sulla sua distribuzione.
La soluzione adottata in proposito dalla Volkswagen è la più aderente a questo tipo di rapporti: una “governance” aziendale duale, con un consiglio di sorveglianza dove siedono anche i rappresentanti dei lavoratori e un consiglio di amministrazione che ne attua la strategia. Ma esiste ancora più pertinente, il caso Chrysler dove i lavoratori allo stato dei fatti sono proprietari dell’azienda.
Infine, poiché la perdita di benessere riguarda l’intera società nazionale e l’intero Occidente, mutamenti compensativi dovrebbero anche avvenire sul recupero di una concertazione tra parti sociali e governo, che fu instaurata da Amato e poi soprattutto da Ciampi nel 1992-93 e durò con indubbi risultati fino al 2001, poi fu smantellata e infine soppressa nell’era berlusconiana.

Quando si chiedono sacrifici ad una parte della società, essi vanno bilanciati con un accrescimento dei poteri di quella parte, altrimenti si provocano terremoti sociali di incalcolabili effetti.
A proposito del movimento studentesco si è detto e scritto che il conflitto va molto al di là della riforma Gelmini.
Il conflitto esterna un disagio profondo dei giovani che riguarda il loro futuro, il loro lavoro, la loro partecipazione alle decisioni che riguardano l’avvenire del Paese.

Credo che analogo sia il modo di sentire degli operai. Il conflitto con la Fiat è un aspetto del problema ma non è il problema. Gli operai sono ancora molti milioni ma nell’opinione generale sembrano inesistenti, non hanno più luoghi appropriati nei quali esprimersi e farsi sentire, i sindacati soffrono della stessa separatezza di cui soffrono i partiti.

I lavoratori, stabili o precari, dipendenti o autonomi, reclamano partecipazione e rappresentanza e questi loro diritti stanno scritti in Costituzione. Anzi, la loro formulazione sta addirittura nell’articolo numero 1 della nostra Carta fondamentale. Ecco perché penso che Marchionne sia stato involontariamente utile. Ha aiutato gli immemori a ricordarsi di quei diritti e alla necessità di attuarli. (….). (Beh, buona giornata).

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Perché Alemanno ha fallito?

Gianni Alemanno deve decidere sulle nuove deleghe dopo l’azzeramento della giunta. Berlusconi preme per i finanziamenti alla capitale. Ma il ministro e la Lega resistono. Come dimostra la “parentopoli”, gli ex fascisti si sono adeguati alla peggiore politica di CURZIO MALTESE-Repubblica.

In bancarotta e con l’incubo Tremonti fallisce il sogno dei “bravi camerati”.

In queste ore Gianni Alemanno, dopo decine di estenuanti incontri, è rimasto solo a decidere sulla nuova giunta 1, dopo l’azzeramento delle deleghe 2. Chiuso nell’ufficio del Campidoglio, affacciato sulla più suggestiva vista di Roma, la maestà dei Fori Imperiali illuminati, che ricorda a ogni sindaco come la città eterna sopravvivrà anche a lui. Roma resisterà anche al sindaco marziano e alla banda di alieni andati al potere nella Capitale tre primavere fa, fra la sorpresa generale e soprattutto di loro stessi. Gli ex ragazzi del Fronte della Gioventù degli anni Ottanta, amici di scuola, di lotta, di carcere, quindi amici di sempre. Un manipolo, una banda di quartiere, una curva di ultras della politica, cui il potere ha dato alla testa fin dal primo giorno. Quando, non sapendo come altrimenti festeggiare, nella piazza del Campidoglio hanno fatto scattare in automatico il braccio teso, come piccoli dottori Stranamore, in un saluto romano finito sulle prime pagine di mezzo mondo.

Questa è per metà la loro storia, quella di una generazione di ex ragazzi dell’estrema destra romana che realizza il sogno di una vita, strappare la Capitale ai “rossi”, e ne rimane travolta. Per l’altra metà è
la cronaca della guerra finale nel centrodestra, non più fra Berlusconi e Fini, ma fra il Cavaliere e Tremonti, ormai venuto allo scoperto per la successione. Due vicende parallele, ma separate nei personaggi e nei luoghi. La prima corre frenetica, in una gozzoviglia euforica da potere, nei saloni del Campidoglio e nelle sedi delle società controllate, l’Atac, azienda dei trasporti, l’Ama dei rifiuti, l’Acea di acqua ed elettricità, Risorse per Roma. I forzieri del consenso che gli ex ragazzi del Fronte hanno occupato militarmente, circondati dai propri cari, sul modello, come dicono alcuni ex camerati schifati “di una Comunione e Liberazione de’ noantri”. La partita nazionale si gioca invece nel trilatero dei palazzi della politica, Palazzo Chigi, Montecitorio e il più importante di tutti, visti i tempi, Palazzo Grazioli.

Cominciamo dalla seconda storia, la meno raccontata, la più importante per il resto d’Italia. Berlusconi e Tremonti sono alla resa dei conti e il comune di Roma è diventato in queste ore l’epicentro del conflitto. Perché Gianni Alemanno, prima ancora che di un rimpasto, di una svolta che porti fuori il comune dalla parentopoli 3raccontata da Giovanna Vitale su Repubblica e lui dalla caduta libera di consensi, ha bisogno anzitutto di una cosa: soldi. Tanti, maledetti e subito.

In tre anni di finanza allegra il comune s’è mangiato il regalone ricevuto dal governo nell’aprile del 2008 con i decreti di Roma Capitale ed è di nuovo sull’orlo del baratro. Mancano i fondi per riparare le strade, per le mense scolastiche, l’assistenza agli anziani, la raccolta dei rifiuti che cominciano a crescere agli angoli delle vie. Il Campidoglio continua a emettere obbligazioni, che hanno ormai sfondato il tetto dei tre miliardi. E qualcuno ricorda che al comune di Milano, per aver emesso un miliardo e duecento milioni di obbligazioni, sono arrivati ventiquattro avvisi di garanzia.

L’incubo del crac, del default, insomma del fallimento è alle porte. Se non arriva una pioggia di milioni dal governo nei prossimi giorni, la capitale rischia di finire come Napoli. Ma Tremonti è ben deciso a chiudere i cordoni della borsa. Sostenuto dalla Lega, da Bossi e Maroni che si sentono già in campagna elettorale e inorridiscono al pensiero di presentarsi alle genti padane dopo aver votato un altro provvedimento eccezionale a favore di Roma ladrona. Berlusconi, furibondo, ripete ogni giorno a Tremonti che “non possiamo mollare Alemanno”, gli fa mandare avvertimenti dal Giornale a “non fare il Fini”. Tremonti prende tempo, finge di aspettare le scelte di Alemanno. Ha fatto sapere che se il sindaco decidesse di sostituire i camerati con una squadra di tecnici, ci potrebbe ripensare. In realtà il ministro sa già che la montagna di Alemanno partorirà domani il topolino di un mini rimpasto, un valzerino di poltrone.

L’azzeramento è soltanto una mossa mediatica per giocare il ruolo del sindaco onesto tradito da qualche mariuolo.
Del resto, come potrebbe Gianni Alemanno darla vinta a Tremonti, che ha sempre cordialmente detestato, e mollare i suoi fedelissimi? Camerati che sbagliano, certo. Ma pur sempre camerati. E torniamo a quel giorno di primavera, alle braccia levate nel saluto. In piazza a festeggiare c’era lo stato maggiore di Alemanno, il manipolo schierato come nella formazione classica a testuggine, con in capo gli ardimentosi luogotenenti, il deputato Fabio Rampelli e il senatore Andrea Augello. Rampelli, ex responsabile del servizio d’ordine del Fronte della Gioventù, campione di nuoto e ora di risse parlamentari, capo della setta evoliana dei Gabbiani, pare ancora attiva dalle parti di Colle Oppio, dove si riuniva per inscenare riti esoterici che avrebbe fatto la gioia del Corrado Guzzanti di “Fascisti su Marte”. E’ laureato in architettura ed è un po’ l’Albert Speer di Alemanno, quello che suggerisce le sparate marinettiane tipo abbattere con la dinamite Tor Bella Monaca e il Corviale. Odia i lavori di Meyer e Renzo Piano. Non ha mai digerito la restituzione della stele di Axum agli etiopi e la sconfitta di El Alamein, che commemora ogni anno come vi avesse preso parte.

Andrea Augello, un po’ meno pittoresco, ex sindacalista nero, gran motore di consensi anche per Storace prima e la Polverini poi, esperto di storia del Sacro Graal e più pragmaticamente di bilanci delle controllate. E’ l’uomo che governa l’affarone del secolo, la privatizzazione del colosso Acea, il gioiello e la cassaforte del comune, quotata in Borsa. Veltroni voleva farne una joint venture con la francese Suez. Nei tre anni di Alemanno il primo socio privato è diventato, guarda caso, il gruppo Caltagirone. Alla faccia dello slogan “basta coi poteri forti cittadini”. Nella seconda fila, in rigoroso ordine gerarchico, venivano gli altri. A cominciare dal naziskin Stefano Andrini, già condannato a quattro anni e mezzo per aver ridotto in fin di vita due giovani di sinistra davanti al cinema Capranica, futuro amministratore delegato dell’Ama, la nettezza urbana. Per finire con gli adepti dell’ultima ora, come Adalberto Bertucci, ex amministratore delegato dell’Atac, l’azienda dei trasporti, dove è riuscito nell’impresa di aumentare il debito di 180 milioni in un anno solo, anche grazie al diluvio di assunzioni da scioglilingua. Sentite: il figlio, il genero, il nipote, la cognata del figlio, l’ex segretaria, suo figlio e sua nuora, la figlia della segretaria del figlio, più una ventina di parenti di assessori e consiglieri, e dulcis in fundo, la famosa cubista scovata dalle Iene.

La picaresche avventure di potere della banda prenderebbero molte pagine. Alemanno s’è difeso con il vecchio alibi dei “mariuoli”. Chi lo conosce bene dice: “Di suo, Gianni non ruberebbe mai, però ha lasciato nutrire la bestia”. La corruzione certo non l’hanno inventata loro, ma stupisce che gli ex camerati, fanatici ma fondamentalmente onesti, si siano adattati così presto ai costumi della peggior politica. Che siano passati tanto in fretta dall’ideologia di Rauti ed Evola al magistero di Vittorio Sbardella. Il fascista che incontra Andreotti, rimane fascista dentro, ma si finge convertito alla democrazia per sguazzare da squalo nelle acque del sottogoverno. In questo crollo di valori, per quanto sbagliati, l’appartenenza al clan, al gruppo, alla famiglia, è rimasto l’ultimo collante identitario. Proiettato verso l’ambizione di fare il grande leader nazionale, Alemanno ha compiuto mille giravolte, da neo pagano a papalino, da fascista “sociale” e “di sinistra” a gran protettore dei poteri forti, da paladino di una destra “non berlusconiana” a berlusconiano di ferro. E ha lasciato che i camerati si consolassero con le prebende: “E’ costretto a dire bene di froci, zingari ed ebrei, ma intanto lo vedi quanti posti ha dato ai nostri?”. Pensava in questo modo, il sindaco marziano, di tenerli a bada, come un eccentrico signore che giri con una pantera al guinzaglio. Ora è lui il prigioniero, nell’ufficio del Campidoglio, al cospetto di troppa grandezza e di un sogno fallito. (Beh, buona giornata).

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“Perché il 2011 sia migliore del 2010, è cruciale che la crescita diventi un fenomeno più diffuso e non più un fenomeno per pochi.”

PERCHÉ È COSÌ LENTA LA RIPRESA ITALIANA
di Francesco Daveri-lavoce.info

La ripresa dell’economia italiana nel 2010 è stata lenta. Per due ragioni. Alcune aziende guadagnano quote di mercato, ma ce ne sono molte altre che stanno perdendo competitività, il che fa salire le importazioni. E i consumi privati e pubblici sono frenati dal cattivo andamento del mercato del lavoro e dalle politiche di bilancio restrittive. Per un migliore 2011, è cruciale che la crescita diventi un fenomeno più diffuso. Con piccole imprese che crescono e giovani lavoratori che non vengono tenuti ai margini per troppi anni.

Un tipico esercizio di inizio anno è quello di tirare le somme di che cosa è andato e cosa non è andato nell’anno precedente. Nel caso dei dati macroeconomici, per tirare le somme in modo ufficiale sul 2010 bisogna però aspettare addirittura più o meno la metà di marzo 2011. Solo allora infatti l’Istat fornirà i risultati relativi al Pil del quarto trimestre e alle sue varie componenti. Per il momento l’Istat ha pubblicato – a metà dicembre – i dati relativi all’andamento dell’economia italiana nei primi tre trimestri del 2010. Con questi bisogna lavorare, se si vuole fare un pre-consuntivo di fine anno. È comunque del tutto improbabile che i dati del quarto trimestre cambino in modo sostanziale il quadro che emerge fino a questo momento.

2010, UNA RIPRESA LENTA

Il 2010 è stato un anno di ripresa per tutte le economie dopo l’orribile 2009. In Italia è stato un anno di ripresa lenta, tuttavia, se confrontato con l’ultimo anno in cui l’economia italiana si era risollevata da una fase di rallentamento, e cioè il 2006. La crescita 2010 si fermerà con tutta probabilità a un +1 per cento, più o meno la metà della crescita registrata nel 2006 rispetto al 2005.

Italia, due fasi di ripresa a confronto: 2010 e 2006
Crescita 2010 sul 2009 Crescita 2006 sul 2005 quote sul Pil 2009
Pil +1.0 +1.9 100,0
Import +7.8 +5.9 24,3
Consumi +0.7 +1.3 59,6
Spesa pubblica -0.5 +0.5 22,0
Investimenti +2.4 +2.6 18,9
-Macchinari +10.1 +5.0 6,8
-Mezzi di trasporto +4.4 +4.1 1,8
-Costruzioni -3.0 +0.6 10,2
Export +6.9 +6.2 23,9

Nota: i dati si riferiscono ai primi tre trimestri dell’anno di riferimento. Ad esempio: “crescita 2010 sul 2009” vuol dire “crescita nel gennaio-settembre 2010 rispetto al gennaio-settembre 2009”.

EXPORT E IMPORT

Oggi come nel 2006, la ripresa è trainata prima di tutto dall’export ma anche dagli investimenti, soprattutto quelli in macchinari e attrezzature, mentre i consumi delle famiglie crescono meno del Pil. Sono dati del tutto normali: sia esportazioni che investimenti ripartono sempre più rapidamente dei consumi dopo le recessioni anche perché, tra le voci del Pil, proprio export e investimenti risentono maggiormente dell’impatto negativo della congiuntura economica. Quindi il dato favorevole di export e investimenti è anche un effetto di rimbalzo.
Le esportazioni vanno bene perché il Pil del mondo è già ritornato a crescere del 4,6 per cento nel 2010, cioè solo di qualche decimo di punto percentuale inferiore alla crescita 2006 (che fu del 5 per cento). La crescita mondiale è tornata quasi a livelli pre-crisi e così anche le importazioni mondiali, dalla qual cosa tutti gli esportatori traggono vantaggio. Siccome però la composizione del Pil del mondo sta cambiando molto rapidamente e l’asse economico si sta spostando da Occidente a Oriente, non era scontato che le aziende italiane potessero beneficiare della ripresa di oggi nello stesso modo in cui ne avevano beneficiato quattro anni fa. E invece l’export di oggi cresce quasi del 7 per cento contro il +6,2 del 2006. Vuol dire che almeno alcune delle aziende italiane sanno farsi valere in giro per il mondo, non semplicemente beneficiando della ripresa mondiale, ma guadagnando competitività e quote di mercato. Tutto ciò induce a ben sperare per il futuro.
Si può tuttavia presumere che i leoni dell’export siano solo una minoranza delle imprese italiane: la crescita 2010, anche se più modesta di quella 2006, porta infatti con sé un vero e proprio boom delle importazioni che crescono oggi dell’8 per cento, mentre crescevano solo del 6 per cento nel 2006. Per crescere esportando bisogna anche importare di più: nel 2010 ciò avviene molto di più che nel 2006. Forse è un segno del rapido processo di modernizzazione dell’economia italiana che sta diventando sempre più globale e sempre più coinvolta in processi di delocalizzazione. Ma è anche un segno della perdita di competitività dei fornitori di servizi locali e dei terzisti manifatturieri che hanno sempre sostenuto le grandi imprese che competevano sui mercati internazionali. I dati sembrano indicare che oggi le grandi imprese, per riuscire a essere vincenti, si rivolgono più spesso a fornitori esteri.

IL FRENO DEI CONSUMI SULLA CRESCITA

La tabella contiene qualche altro elemento di preoccupazione che contribuisce a spiegare perché la crescita di oggi è la metà di quella del 2006. Le brutte notizie vengono dai consumi, sia privati che pubblici. I consumi privati (delle famiglie) crescono oggi solo dello 0,7 per cento (il dato era +1,3 nel 2006). Qui la colpa è del mercato del lavoro: quando la disoccupazione raggiunge l’8,7 per cento della forza lavoro (dato di ottobre 2010) con un parallelo incremento dei disoccupati scoraggiati, e quando le ore di cassa integrazione non accennano a diminuire, non ci si può stupire che la dinamica dei consumi rimanga fiacca. Alla crescita debole dei consumi privati si deve poi aggiungere la riduzione dei consumi pubblici: nel 2006 la spesa pubblica cresceva di mezzo punto percentuale, mentre nel 2010 la spesa pubblica è diminuita di mezzo punto percentuale. Questo processo riflette il contenimento della dinamica della spesa pubblica indotto dalla necessità di riequilibrare i conti pubblici per non caricare ulteriormente il salasso fiscale che colpirà comunque le giovani generazioni. È l’inizio di un processo che continuerà negli anni a venire e che riguarderà tutte le sfere dell’intervento pubblico. Inutile quindi aspettarsi il ritorno dei tempi delle vacche grasse sul fronte della finanza pubblica.

SI PUÒ FARE DI PIÙ?

L’Italia è cresciuta poco nel 2010, sia rispetto agli altri grandi paesi europei (tranne la Spagna) che rispetto all’Italia di qualche anno fa. Il guaio è che la bassa crescita 2010 non è un fenomeno congiunturale. Il Pil dell’Italia cresce poco perché il boom dell’export non crea abbastanza fatturato per le piccole imprese terziste che oggi sono meno competitive di un tempo. E cresce poco perché, con un mercato del lavoro depresso e dualistico in cui chi ha il lavoro se lo tiene e gli altri non entrano mai, la dinamica dei consumi è fiacca. Non ci sono scorciatoie: perché il 2011 sia migliore del 2010, è cruciale che la crescita diventi un fenomeno più diffuso e non più un fenomeno per pochi. Con piccole imprese che crescano e giovani lavoratori che non vengano tenuti sull’uscio del mercato per troppi anni. È solo un velleitario desiderio di inizio anno o potrà diventare un obiettivo da mettere in pratica? (Beh, buona giorn

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Qualcuno dica a quei cretini del centrodestra e ai quei tonti della Lega che la Cina è più vicina di quanto pensino. Magari Tremonti, il furbetto, glielo ha tenuto nascosto.

I prestiti di Pechino ad Atene, Dublino e Lisbona e gli investimenti strategici

portafogliopechino, di Marco Del Corona e Giuseppe Sarcina – «Corriere della sera».

Il sorpasso è vicino. Nel grande portafoglio cinese presto saranno custoditi più bond europei che titoli di Stato americani. Ieri il vicepremier cinese Li Keqiang era ancora sulla via del ritorno a Pechino con le borse gonfie di contratti tedeschi e spagnoli, che ecco arrivare una dichiarazione del vicepresidente della Banca Popolare cinese, Gang Yi. «L’euro e i mercati finanziari europei sono una parte importante del sistema finanziario globale e sono stati, sono e saranno uno dei settori di investimento più importanti per le riserve cinesi in valuta estera» . I bond del Dragone Negli ultimi giorni sulla stampa internazionale e tra gli economisti sono girati parecchi numeri.
C’è chi ha tenuto una sorta di contabilità doppia, incrociando affari e politica. Esemplare, da questo punto di vista, l’accordo su due voci, siglato martedì 4 gennaio a Madrid da Li Keqiang e dal primo ministro José Luis Rodriguez Zapatero.

Da una parte intese commerciali per un controvalore di 7,3 miliardi di euro; dall’altra l’impegno di Pechino a sottoscrivere titoli di Stato spagnoli per circa 6 miliardi di euro (secondo quanto rivelato dal quotidiano «El País» ). Ma è solo l’ultimo passaggio. Da settimane a Lisbona non si fa che parlare di un soccorso cinese a sostegno della traballante finanza pubblica portoghese. E nei mesi scorsi l’intervento di Pechino ha sicuramente dato una mano a tenere in piedi la Grecia. E subito dopo l’Irlanda. Certo, le mosse degli investitori cinesi diventano visibili solo quando c’è burrasca sui mercati. Ma sarebbe fuorviante pensare che a Pechino interessino solo i titoli europei più scalcagnati (o se si preferisce i «junk bond» della finanza mondiale).

Qualche tempo fa, sulla stampa internazionale («Financial Times» , «La Tribune» ) sono circolate stime che, dopo aver visto all’opera Li Keqiang, assumono un significato più profondo. Lo stock del debito pubblico europeo in mani cinesi oggi sarebbe pari a circa 630 miliardi di euro, vale a dire circa 819 miliardi di dollari. Il dato sull’esposizione americana, invece, è ufficiale: nell’ottobre 2010 Pechino (riserve dirette più il patrimonio dei fondi sovrani controllati dal governo) possedeva titoli statunitensi per un valore di 910 miliardi di dollari. Ora, i segnali che arrivano, ormai da mesi, dal grande Paese orientale sono inequivocabili. Vendere bond americani e comprare altro. Anche (non solo) titoli di Stato europei.

I numeri (oltre che la logica) dicono che nel portafoglio del Dragone cominciano a essere rappresentate tutte le emissioni disponibili, compresi quindi i buoni del Tesoro della Repubblica federale tedesca o della Repubblica francese.

Un euro per la Merkel

Attenzione, però, ai diversi angoli di osservazione. Visto da Pechino questo lavoro di «conversione» riguarda solo una parte della liquidità cinese, che rimane in parte prevalente parcheggiata in dollari. Come spiega al «Corriere» l’economista Wang Yuanlong, già capo dell’Ufficio ricerche dalla Bank of China e oggi esperto del centro studi Tianda: «Non saranno mai cifre enormi. Quello di Pechino è un gesto che darà comunque fiducia all’economia europea. Un’ipotetica scomparsa della moneta comune sarebbe contro gli interessi cinesi. Significherebbe tornare al dollaro come unica moneta di riferimento, mentre il presidente Hu Jintao ripete che Pechino punta a una riforma del sistema monetario globale. Dunque sostenere l’euro e l’Europa è nel triplice interesse della Cina, dell’Unione Europea e della comunità internazionale» . Una rappresentazione plastica di questo «triplice interesse» si è vista venerdì scorso a Berlino, dove Li Keqiang è stato vezzeggiato dai leader delle più importanti multinazionali tedesche (e quindi europee): Volkswagen, Daimler Benz, Siemens, Basf, Bayer, Deutsche Bank (firmati protocolli commerciali per 8,7 miliardi di euro).

La Germania ha più bisogno dei mercati, che dei soldi cinesi. Ma per la cancelliera Angela Merkel la «spugna orientale» può diventare decisiva per prosciugare il debito di vari Paesi dell’Unione Europea che sta mettendo a rischio la stabilità dell’euro.

La mappa degli affari

Il dividendo economico incassato dal governo cinese sarà molto alto e probabilmente porterà ad avvicinare i flussi di capitali industriali in entrata e in uscita. Secondo le cifre fornite dal viceministro Xu Xianping gli investimenti diretti dell’Europa in Cina, alla fine del 2009, erano pari a 6,8 miliardi di euro. Il flusso inverso (dalla Cina verso l’Europa), invece, si fermava a quota 6,8 miliardi di dollari, un decimo, con 1.400 imprese cinesi, precisa Xu Xianping, «che danno lavoro a circa 15 mila dipendenti locali» .

Uno studio dell’istituto britannico Chatham House segnala che il 50%delle risorse cinesi prende la strada di Gran Bretagna e Germania (l’Italia assorbe una quota pari al 4%). Ma da tempo Pechino sta allargando il compasso e ora è molto difficile tenere il conto delle ultime iniziative. La più clamorosa (forse): l’affare Volvo. La casa automobilistica svedese è stata ceduta dalla Ford al prezzo di 1,8 miliardi di dollari alla cinese Geely, guidata dall’imprenditore Li Shufu. In Svizzera c’è stata l’acquisizione della Addax Petroleum Corporation da parte del gruppo petrolifero Sinopec per 7,2 miliardi di dollari (nel 2009). In Grecia la Cosco, il più grande gruppo di trasporto marittimo cinese e fra i più grandi al mondo, sta costruendo un terminal per navi transoceaniche al Pireo, il porto di Atene. In Irlanda dovrebbe essere approvato il piano per insediare un distretto manifatturiero cinese nel centro del Paese (ad Athlone, investimento di 50 milioni di euro).
Simile il progetto di un parco industriale formato da piccole e medie imprese orientali a Chateauroux, cento chilometri a sud di Parigi. Mezza Bulgaria, dalla strade alle telecomunicazioni, dovrebbe essere sistemata dalle multinazionali di Pechino, come la Huawei. In Italia, infine, Cina non significa solo il tessile «low cost» di Prato, i centri massaggi di Milano o le bancarelle dei mercati rionali. Società cinesi sono già leader nel solare, aumentano il loro peso specifico nella farmaceutica, nella cantieristica in altri settori con discreto contenuto tecnologico.

La Quianjiang ha comprato le moto di Benelli; la Haier i frigoriferi di Meneghetti (in provincia di Padova) e poi si è insediata nel distretto di Varese; la Zoomlion ha rilevato la Cifa (macchine utensili per l’edilizia). Si potrebbe continuare per ore, basterebbe riferire del pellegrinaggio all’Expo di Shanghai intrapreso da tutti i governi europei (dal Belgio alla Romania), in cerca di investimenti cinesi da riportare a casa. L’esclusiva di Pechino Ancora una volta, però, è utile guardare lo scenario con gli occhi di Pechino. Con la sua economia avanzata e fortemente integrata sull’intero continente, l’Europa è certo un teatro privilegiato dell’espansione cinese, ma in un contesto allargato a tutto il mondo, Mare Artico compreso. Non è un caso se tra le dieci operazioni cinesi all’estero nel 2010 (acquisizioni o fusioni) solo due siano europee: la Volvo appunto (quarta in classifica per importanza), preceduta dalla conquista dell’australiana Arrow Energy a opera dell’alleanza tra PetroChina e l’olandese Shell, per 3,1 miliardi di dollari. Al primo posto della lista, compilata dall’agenzia ufficiale «Xinhua» , figura l’acquisizione di un’unità brasiliana della madrilena Repsol da parte del colosso petrolifero pubblico Sinopec (7 miliardi di dollari), al secondo posto l’acquisto di quote dell’argentina Bridas (energia).

Come dire: attenzione adesso a non immaginare un asse preferenziale Unione Europea Cina. È un errore che hanno già fatto gli americani nel 2008. Pechino parla e, soprattutto, fa affari con tutti. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Vi ricordate quando Berlusconi diceva di Putin “il mio amico Vladimir”?

(fonte: repubblica.it)

“Il monopolio di Gazprom per tenere i prezzi alti in Europa”. In questo dispaccio – inviato dall’ambasciata di Mosca nel settembre 2008 – si delinea la strategia di Gazprom nei confronti delle esportazioni di gas del gigante russo: “Il monopolio di Gazprom nelle esportazioni – spiega Ivan Zolotov, direttore delle relazioni esterne dell’azienda – è necessario per difendere gli alti prezzi che i consumatori europei pagano. L’accesso di terze parti ai gasdotti (possibile sul mercato interno, spiega Zolotov) non si applicherà mai alle esportazioni perché non si può permettere al gas russo di competere con altro gas russo: comporterebbe un calo dei prezzi in Europa” Director of Foreign Relationst
LEGGI “Monopolio Gazprom per tenere i prezzi alti in Europa” | “Da Gazprom 40% del budget del governo”
“Gazprom, inefficiente e corrotta” | “Ma non rinunciano a South Stream”

tag: russia, gazprom, energia, russia, unione europea, ambasciata di mosca

CODICE DATA CLASSIFICAZIONE FONTE
08MOSCOW2816 19/09/2008 CONFIDENTIAL Embassy Moscow
VZCZCXRO6521
PP RUEHFL RUEHKW RUEHLA RUEHROV RUEHSR
DE RUEHMO #2816/01 2630748
ZNY CCCCC ZZH
P 190748Z SEP 08
FM AMEMBASSY MOSCOW
TO RUEHC/SECSTATE WASHDC PRIORITY 0052
INFO RUCNCIS/CIS COLLECTIVE PRIORITY
RUEHZL/EUROPEAN POLITICAL COLLECTIVE PRIORITY
RUEHXD/MOSCOW POLITICAL COLLECTIVE PRIORITY
RHEHNSC/NSC WASHDC PRIORITY
RHMFISS/DEPT OF ENERGY WASHINGTON DC PRIORITY
C O N F I D E N T I A L SECTION 01 OF 02 MOSCOW 002816

SIPDIS

DEPT FOR EUR/RUS, FOR EEB/ESC/IEC GALLOGLY AND WRIGHT
EUR/CARC, SCA (GALLAGHER, SUMAR)
DOE FOR FREDRIKSEN, HEGBORG, EKIMOFF

E.O. 12958: DECL: 09/15/2018
TAGS: EPET ENRG ECON PREL PINR RS
SUBJECT: GAZPROM OFFICIAL DESCRIBES THE COMPANY AS A SOCIALIST RENT-SEEKING MONOPOLIST

REF: MOSCOW 2802

Classified By: Econ MC Eric T. Schultz for Reasons 1.4 (b/d)

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SUMMARY
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1. (C) Gazprom’s Director of Foreign Relations, Ivan Zolotov,
told us September 12 that the company’s top three priorities
are to: fulfill domestic gas demand, fulfill “social
obligations,” and to maximize control over domestic and
international oil and gas resources. Zolotov expressed
confidence that control of resources would eventually restore
the $200 billion in shareholder value losses the company has
recently sustained. He said Gazprom is steadfastly against
other Russian companies competing on gas exports to Europe,
which could lead to lower prices. Zolotov was unapologetic
about the difficulty in meeting with its senior officials,
noting that most of them were ill-suited to interacting with
foreign officials but that the company had no intention of
hiring people for that purpose. Finally, he expressed
optimism that there would be no difficulties this winter with
Ukraine. End summary.

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THE MINISTRY OF GAS
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2. (C) During a lengthy meeting at Gazprom’s elaborate
headquarters, a city within a city as Zolotov described it,
we asked Gazprom’s main interlocutor with Western Embassies
and officials to identify Gazprom’s top two or three
corporate priorities. In an unusually frank response,
Zolotov said Gazprom had two basic functions: to fulfill the
gas needs of domestic industrial and residential consumers,
and to fulfill its “social obligations,” which include a
variety of, in effect, charitable projects throughout the
country.

3. (C) When we suggested that most major global companies in
the West would likely have cited maximizing shareholder value
or market share as corporate goals, Zolotov added a third
priority — to maximize control over global energy resources.
He suggested that this control over resources is on par with
maximizing shareholder value, in that it raises the value of
a company’s asset base, which is the key to its long-term
profitability.

4. (C) Zolotov acknowledged that the steep slide in the
Russian stock markets since May, and especially since August
7, had taken a toll on Gazprom’s shareholder value. The
company was valued at more than $380 billion at its peak a
few months ago and is now worth less than $150 billion — a
stunning loss of over $200 billion of the company’s market
capitalization. Zolotov expressed confidence that the
company’s control of gas and oil reserves would ultimately
restore that lost value.

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MONOPOLY PROTECTS HIGH PRICES
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5. (C) In describing its priorities, Zolotov seemed to
appreciate that Gazprom is not a normal company, noting that
it had not yet completed the transition from its predecessor,
the Ministry of Gas. He was equally frank is discussing how
Gazprom’s monopoly powers work in practice. For instance,
when asked about recent efforts (ref A) to force Gazprom to
allow third-party access (TPA) to its pipelines, Zolotov said
that access in itself is not a problem. Indeed, he suggested
that in 15-20 years, some 30% of gas production in Russia
will come from independents.

6. (C) Zolotov added, however, that Gazprom draws a redline
against sharing access, through monetary compensation or
physical connection, to export markets. He explained that
Gazprom’s export monopoly is necessary to protect the high
prices charged to European consumers. He said TPA could
never apply to exports “because we can’t let Russian gas
compete against Russian gas; that would cause prices in
Europe to drop.”

—————————————-

MOSCOW 00002816 002 of 002

ONLY TWO INTERLOCUTORS; AND THEY’RE BUSY
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7. (C) Zolotov also touched on the reason it is so difficult
to get meetings with the company for high-level visitors.
According to Zolotov, in a company with over 400,000
employees, only two — CEO Alexey Miller, Deputy CEO
Alexander Medvedev — would be appropriate for such meetings.
He said few others, if any, would have the requisite
knowledge, authority, and diplomatic skills for such
meetings.

8. (C) Moreover, Zolotov said, both men were constantly
traveling, and hard to schedule; even scheduled meetings were
subject to sudden cancellations. By way of example, Zolotov
noted the recent visit to Moscow by Quebec’s Energy Minister.
Despite Gazprom’s desire to do a deal in Quebec, he could
not get a meeting for the Minister with either Miller or
Medvedev. Zolotov, however, brushed off the need for staff
to conduct such outreach saying “we’re not going to hire
someone just to meet with Energy Minister of Quebec.”

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UKRAINE
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9. (C) On Ukraine, Zolotov expressed optimism that there
would be “no problems” this year in price and contract
negotiations. He said there was even hope for a multi-year
contract to prevent the annual hand-wringing over the
Russia-Ukraine gas trade.

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COMMENT
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10. (C) Our own observations of Gazprom track with Zolotov’s
candid description — a rent-seeking monopolist, looking to
control resources wherever possible, and with a relatively
simplistic sense of responsibility to shareholders other than
the state. Perhaps the best hope for moving Gazprom toward a
model more compatible with modern definitions of a
competitive global business is continued and expanded
interaction with western partners. End comment.
Beyrle
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Marchionne, impara come si fa.

(fonte: Finanzaonline.com)
Nel 2010 le vendite di Volkswagen hanno toccato quota 4,5 mln di auto, mettendo a segno un rialzo del 13,9% rispetto a un anno prima. Si tratta di un record per la casa tedesca. L´ottimo dato è frutto di un rialzo delle vendite del 49% in Russia, del 35% in Cina e del 20% negli Stati Uniti. In calo il dato europeo, che mette a segno un -1,2%. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

Quest’anno, niente auguri di Buon Anno nuovo.

La vicenda della non concessione dell’estradizione a Cesare Battisti, chiude un anno di incapacità, gaffes e cialtronerie in politica estera del governo Berlusconi. Scrive Benedetta Tobagi, su Repubblica di oggi, 31 dicembre:

” La pagina nera della gestione vergognosa di questa vicenda di estradizione va ad aggiungersi alle gaffes collezionate dal premier Silvio Berlusconi all’estero, oggetto di scherno (per gli stranieri) e profondo imbarazzo (per buona parte dei cittadini italiani), che negli anni hanno degradato l’immagine dell’Italia e della sua diplomazia. E sì che la vicenda è antica, e si sa quanto sia delicata, su molteplici fronti. Nel campo dei rapporti bilaterali, la legittima
domanda della giustizia italiana si scontra con la Realpolitik, nutrita dai fortissimi interessi economici che legano Italia e Brasile: basti ricordare che Lula l’altroieri stava inaugurando un nuovo stabilimento Fiat in Brasile, oppure Telecom, che considera il Brasile “una seconda patria”, o l’accordo di partnership militare, 5 miliardi di forniture militari da Finmeccanica e Fincantieri (che imporrebbe al ministro della Difesa La Russa un imbarazzato silenzio, anziché dichiarazioni ammiccanti a un generico boicottaggio)”.

Per poi aggiugere la ferale notizia dell’ennesima lingua biforcuta di Berlusconi: ” Se si può dubitare della buona fede del senatore brasiliano Eduardo Suplicy, fiero sponsor di Battisti, altrettanto triste scetticismo suscitano le smentite da Palazzo Chigi da parte di un premier che è uso invalidare dichiarazioni battute dalle agenzie e riprese dalle telecamere”.

L’anno si chiude, ma le vicende che riguardano l’incapacità del governo Berlusconi continueranno anche oltre la mezzanotte dell’ultimo giorno del 2010. Esse riguardano la governabilità di una compagine senza maggioranza reale; la grottesca vicenda della munnezza a Napoli, perché di promesse in promesse i napoletani faranno il Capodanno tra i cumuli di immondizie nelle strade; l’apertura dell’inchesta a Lecce, promossa dagli azionisti Alitalia contro la dissennata scelta di liquidare la compagnia di bandiera, per farla mangiare da una nuova campagnia, permettendo di scaricare i debiti su una bad company, violando le leggi, come al solito; la vicenda della Fiat, che dimostra l’incapacità assoluta del governo di mediare le tensioni sociali,vicenda che porterà a una scontro frontale tra diritti acquisiti e interessi meramente finanziari dell’azienda torinese. E poi ci sono i terremotati de L’Aquila, cittadini senza città, dunque senza cittadinanza. E poi ci sono studenti, insegnanti, precari e ricercatori per i quali, come ha sottolineato lo stesso presidente della Repubblica, sono state varate norme sbagliate. E poi ci sono pastori sardi, trattati come servi della gleba, pestati, respinti e deportati in Sardegna, come se non fossero cittadini italiani, come se per il nostro governo fossero “indesiderati” sul territorio italiano. E poi c’è il generale impoverimento delle famiglie italiane, su cui graveranno, senza controlli, gli aumenti previsti di tutte le tariffe nel 2011. E poi, proprio oggi un altro militare italiano è caduto in Afghanistan

Purtroppo, il cambio di un anno è solo una superstizione del calendario. Il cambio di un governo, bugiardo, cialtrone, incapace, arrogante, sciagurato e pericoloso è da venire. Solo quel giorno ci potremo fare davvero auguri di buon anno. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Accordo di Mirafiori: alla Fiat tornano i sindacati gialli, urge lo sciopero generale contro i “padroni” e il governo dei “padrini”.

“E’ vero che l’accordo di Mirafiori è storico – dice Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale della Fiom – ha un solo precedente: il 2 ottobre 1925 quando Mussolini, la Confindustria e i sindacati fascisti e nazionalisti sottoscrissero l’abolizione delle commissioni interne. Oggi Marchionne Cisl e Uil aboliscono in Fiat e Mirafiori le Rsu e le elezioni democratiche. E’ un atto di un autoritarismo senza precedenti nella storia della Repubblica: nemmeno negli anni ’50 si tolse ai lavoratori Fiat il diritto a votare per le loro rappresentanze. Per Cisl e Uil è una vergogna assoluta”. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Poliziotti incazzati col Governo, circondano la villa di Berlusconi ad Arcore.

(fonte: corriere.it)

Duecento poliziotti sono tornati sotto Villa San Martino (la villa di Berlusconi di Arcore) per protestare contro il governo che «da due anni e mezzo non mantiene gli impegni». «Il pacchetto sicurezza è stato convertito in legge, ma purtroppo il nostro emendamento è stato ritirato: permangono quindi i disagi e i tagli alla sicurezza, per questo siamo tornati», dice Santo Barbagiovanni, segretario regionale della Silp Lombardia. «Abbiamo anche inviato delle letterine al premier per chiedergli che ci regali qualcosa di buono. La categoria è preoccupata – spiega Barbagiovanni – soprattutto di fronte alla possibilità che dopo il 31 dicembre i nostri straordinari rischieranno di non essere pagati. Non è un buon regalo alla categoria e c’è un forte disagio». «I nostri colleghi stanno tutti i giorni a prendere le botte in piazza o essere additati come comunisti e il governo li ripaga così: i carabinieri poi la pensano esattamente come noi, ma non possono dare voce ai loro disagi. Non si tratta di politica o ideologie, ma di impegni che il governo ha sottoscritto con il comparto e che non ha onorato. Sono fatti oggettivi», conclude il sindacalista, che poi fa un riferimento alle polemiche di questi giorni sulle «misure preventive» ipotizzate per scongiurare incidenti durante i cortei studenteschi: «Non condividiamo nessun tipo di Daspo, la piazza è giusto che esprima la propria opinione. Il bavaglio non è segno di una democrazia vera come quella del nostro Paese». (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro

Il 10 per cento possiede il 45 per cento della ricchezza. In Sudamerica? No, nell’Italia di Berlusconi.

Il 45% della ricchezza complessiva delle famiglie italiane alla fine del 2008 è in mano al 10% delle famiglie. E’ uno dei dati contenuti nel rapporto su “La Ricchezza delle famiglie italiane” elaborato dalla Banca d’Italia. La metà delle famiglie italiane, quelle a basso reddito, detiene solo il 10% della ricchezza complessiva. E’ il neoliberismo, bellezza. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Job gap.

(fonte: blitzquotidiano.it)

Segnali di ripresa troppo timidi, aziende scoraggiate dalla crisi. Il risultato? Il 2011 non sarà ancora l’anno della ripresa dell’occupazione. Gli economisti lo chiamano “job gap”, una lacuna del mercato del lavoro che si è aperta con la crisi e che ancora non si chiude.

Come scrive il Sole 24 Ore: “Secondo le ultime rilevazioni del Centro studi di Confindustria nel 2011 l’occupazione rimarrà pressoché immobile (+0,1%), dopo il forte calo registrato nel 2010 (-1,7%, dopo il -2,6% del 2009) e riprenderà a salire solo nel 2012 (+0,9%). Il tasso di disoccupazione invece continuerà ad aumentare tra il plotone sempre più consistente di chi cerca un impiego: solo dopo aver toccato l’apice (9%) nel quarto trimestre, inizierà a scendere molto gradualmente nel corso del 2012″.

Le notizie non sono confortanti per l’Italia, che recupererà il livello di attività pre-recessione solo nel secondo trimestre del 2015. Dall’inizio del 2010 il nostro Paese ha bruciato 600mila posti di lavoro e per l’anno prossimo il job gap sarà di 440mila. “Oltre che dalla crescita anemica del Pil – commenta Tito Boeri, ordinario di economia del lavoro alla Bocconi, al Sole 24 ore – il riassorbimento della forza lavoro è indebolito da un sistema di ammortizzatori sociali estremamente dilatato che prolunga la durata del paracadute pubblico anche in situazioni in cui si potrebbe tornare alle normali condizioni di attività. È fondamentale – commenta Boeri – riformare gli ammortizzatori sociali per evitare ogni forma di utilizzo improprio”. Secondo il Centro studi di Confindustria, nei prossimi mesi il ricorso alla Cassintegrazione interesserà 315mila lavoratori.

Il nodo è riuscire a fare riforme in tempi in cui, data la crisi, si fanno tagli ai bilanci. Come? Secondo il giuslavorista Michele Martone “Bisogna trovare un punto di equilibrio tra rigore dei conti pubblici e consenso sociale, è necessario incentivare fiscalmente le imprese avviate dai giovani, tagliare il più possibile la burocrazia e proseguire sulla strada della detassazione dei premi di produttività”.

Secondo l’economista Maria Cecilia Guerra: “Bonus e incentivi fiscali spot sono soluzioni tampone: tra gli interventi più urgenti c’è una riforma fiscale strutturale che sposti il baricentro del prelievo dal lavoro al patrimonio, in modo da abbassare il costo del lavoro e realizzare una redistribuzione della ricchezza più equilibrata”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La pressione del fisco in In Italia nel 2009 è salita al 43,5% del prodotto interno lordo. Vi ricordate il piccoletto che che diceva che non metteva le mani nelle tasche degli italiani?

(fonte: repubblica.it)

Aumenta la pressione del fisco in Italia: nel 2009 è salita al 43,5% del prodotto interno lordo, dal 43,3% del 2008. E’ quanto riferisce l’Ocse nelle stime preliminari relative all’anno scorso contenute in “Revenue Statistics”. L’Italia così supera il Belgio (che nel 2009 ha visto il peso del fisco diminuire al 43,2% dal 44,2% del 2008) e sale dal quarto al terzo posto nella classifica dei Paesi dove maggiore è il peso delle entrate rispetto al prodotto interno lordo. Prima dell’Italia nel 2009 si collocano solo la Danimarca (48,2%) e la Svezia (46,4%).

L’Ocse rileva che la crisi economica e le conseguenti azioni di stimolo fiscale messe in campo da molti governi hanno inciso sulla pressione fiscale che nell’area Ocse nel 2009 “ha toccato il livello più basso dagli inizi degli anni ’90”. La pressione si colloca, nella media dei Paesi, al 33,7%, rispetto al 34,8% del 2008 e al 35,4% del 2007.

Oltre a Danimarca, Svezia e Italia, i paesi Ocse che nel 2009 hanno registrato una pressione fiscale sopra il 40% sono l’Australia, il Belgio, la Finlandia, la Francia e la Norvegia. Il Messico con il 17,4% e il Cile con il 18,2% hanno registrato nel 2009 la più bassa pressione fiscale dell’area, seguiti da Stati Uniti (24%) e Turchia (24,6%). Gli incrementi più consistenti si sono registrati in Lussemburgo (dal 35,5% del 2008 al 37,5% del 2009) e in Svizzera (dal 29,1% al 30,3%).

L’Organizzazione di Parigi ha diffuso anche i dati relativi alla disoccupazione, che
nel mese di ottobre nell’area Ocse è stata dell’8,6%, lo 0,1% in più rispetto a settembre. In un comunicato si precisa tuttavia che il numero di disoccupati resta vicino ai massimi del dopoguerra, a 45,7 milioni.

Si conferma un quadro divergente nell’andamento del mercato dei lavoro tra i Paesi dell’area. Negli Stati Uniti si viaggia al 9,8% (+0,2% su base mensile), in Canada si scende al 7,6% (-0,3%). A livello di eurozona, il tasso di disoccupazione risulta stabile in Germania (6,7%), in calo in Francia al 9,8% (-0,1%), in aumento in Italia all’8,6% (+0,3%). Il nostro Paese resta comunque al di sotto della media dell’area euro (10,1%) e di quella dell’Unione europea (9,6%), ma al di sopra di quella del G7 (8,2%). I Paesi che presentano i maggiori tassi di disoccupazione sono Spagna al 20,7%, Slovacchia al 14,7% e Irlanda al 14,1%.

Se però si considera solo la fascia di età compresa tra i 15 e i 24, l’Italia diventa penultima tra i Paesi Ocse. Con il 21,7% infatti fa meglio solo dell’Ungheria, ferma al 18,1%, ed è ben al di sotto della media dei Paesi membri, 40,2%. Tra gli occupati inoltre, riporta ancora lo studio, il 44,4% ha un impiego precario, e il 18,8% lavora solo part time. Per quanto riguarda i disoccupati, oltre il 40% sono senza lavoro da lungo tempo, e il 15,9% appartiene al cosiddetto gruppo ‘neet’, che non studiano nè lavorano. (Beh, buona giornta).

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Lavoratori di tutta Italia scordatevi la pensione: quello che INPS tiene nascosto ai contribuenti.

(fonte: blitzquotidiano.it)

Il Corriere Della Sera aumenta il gelo che ci affligge in dicembre con una inchiesta di Enrico Marro sul futuro delle pensioni e sui loro “veri conti” e conferma quello che già sospettavamo, che “gli assegni diminuiranno”. Solo che lo fa con tanto di tabella. Il risultato è sconfortante: dipendenti e artigiani che andranno in pensione dopo il 2037, cioè tutti i giovani che abbiano la fortuna di trovare un posto di lavoro con contributi pagati oggi, prenderanno il 20 per cento di pensione in meno rispetto alla retribuzione di quanto ricevano i loro genitori.

La conclusione è che entra ora nel mondo del lavoro “avrà il 47% del reddito”. Ai precari andranno “6.351 euro l’anno”. Difficile pensare che in futuro le pensioni saranno adeguate a garantire almeno una parvenza del precedente tenore di vita, anche perché, secondo Marro, “la soluzione della previdenza integrativa appare ancora insufficiente”.

Marro si basa sulla “verifica tecnico-attuariale” con le stime fino al 2037 “contenuta in una quarantina di dossier che fotografano l’evoluzione delle pensioni di ciascuna categoria”. Sono documenti che risalgono allo scorso settembre “ma finora non divulgati dall’Inps” e confermano che “il sistema di calcolo contributivo ( pensioni commisurate ai contributi versati in tutta la vita lavorativa) […] riduce l’importo delle pensioni rispetto a quelle di una volta “effetto che proseguirà anche dopo il 2037, se si tiene conto che solo verso il 2050 l’Inps non pagherà più pensioni calcolate col più vantaggioso metodo retributivo”.

Di conseguenza. “il grado di copertura delle pensioni dei lavoratori dipendenti scenderà dall’attuale 52% della retribuzione (54% considerando anche le «gestioni separate» di elettrici, telefonici, trasporti, dirigenti d’azienda) al 46% nel 2037. In realtà, avverte Marro, il salto per i lavoratori dipendenti sarà ancora più alto, di ben 11 punti, se si considerano le sole pensioni di vecchiaia e anzianità, escludendo cioè quelle di invalidità e reversibilità che sono più povere: si passerà infatti dal 62,5% attuale al 51,5% del 2037″.

Ci sarà un piccolo e momentaneo miglioramento del rapporto, fino al 2015, ma non riguarda certo i giovani, bensì i loro genitori, ”la generazione del baby boom con una robusta vita lavorativa alle spalle e con l’assegno in buona parte ancora calcolato col retributivo”.

Stessa differenza di copertura anche per gli artigiani: “Nel 2010 un artigiano va in pensione in media con la metà di quanto guadagna lavorando: circa 10 mila euro contro 20 mila. Il grado di copertura [dopo un picco temporaneo nel 2018, in analogia con i dipendenti] scenderà fino al 43% nel 2037. Come per gli altri fondi, le medie nascondo situazioni diverse. Se si considerano per esempio le sole pensioni di anzianità, che sono le più ricche, il grado di copertura varia dal 73% attuale al 62% del 2037″.

La situazione dei commercianti è analoga a quella degli artigiani, ma calo sarà meno brusco: “Il grado di copertura delle pensioni, che attualmente è del 46% in media (cioè considerando insieme le prestazioni di vecchiaia, anzianità, invalidità e reversibilità) salirà fino al 52% nel 2017 per poi scendere fino al 44% nel 2037: 21 mila euro contro 48 mila di reddito da lavoro”.

Poi vengono i parasubordinati.Li aspettano, avverte Marro, ” pensioni da fame” ed è “uno dei dossier più delicati. Qui le stime dicono addirittura che nel 2037 la pensione media sarebbe pari al 14% della retribuzione. Ma si tratta di un dato poco significativo, perché tiene insieme tutto. Bisogna infatti considerare che nella gestione dei parasubordinati bastano 5 anni di contributi per maturare una pensione, fosse anche di pochi euro al mese. Si tratta cioè di un calcolo teorico che non distingue tra contribuenti esclusivi e chi ha un lavoro ma versa anche in questa gestione per consulenze o prestazioni accessorie alla sua occupazione principale. Insomma, per farsi un’idea di quale sarà la pensione di un precario tipo, uno che cambia più volte lavoro con numerosi intervalli di disoccupazione, meglio rifarsi ai vari centri di ricerca che stimano un grado di copertura fra il 36 e il 50-55%”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Scuola

Gelmini e Tremonti, i due veri somari.

Nella scuola pubblica si impara di più-L’Italia in basso per colpa delle private-La lettura approfondita dei dati resi noti qualche giorno fa dimostra che senza le paritarie il nostro Paese scalerebbe le tre classifiche (Lettura, Matematica e Scienze) anche di dieci posizioni
di SALVO INTRAVAIA-repubblica.it

Nella scuola pubblica si impara di più L’Italia in basso per colpa delle private
La scuola pubblica italiana sta meglio di quello che sembra, basta leggere correttamente i dati. Sono le private la vera zavorra del sistema. Almeno stando agli ultimi dati dell’indagine Ocse-Pisa 1 sulle competenze in Lettura, Matematica e Scienze dei quindicenni di mezzo mondo. Insomma: a fare precipitare gli studenti italiani in fondo alle classifiche internazionali sono proprio gli istituti non statali. Senza il loro “contributo”, la scuola italiana scalerebbe le tre classifiche Ocse anche di dieci posizioni. La notizia arriva nel bel mezzo del dibattito sui tagli all’istruzione pubblica e sui finanziamenti alle paritarie, mantenuti anche dall’ultima legge di stabilità, che hanno fatto esplodere la protesta studentesca.

“Nonostante i 44 miliardi spesi ogni anno per la scuola statale i risultati sono scadenti. Meglio quindi tagliare ed eliminare gli sprechi”, è stato il leitmotiv del governo sull’istruzione negli ultimi due anni. E giù con 133 mila posti e otto miliardi di tagli in tre anni. Mentre alle paritarie i finanziamenti statali sono rimasti intonsi. Ed è proprio questo il punto: le scuole private italiane che ricevono copiosi finanziamenti da parte dello Stato fanno registrare performance addirittura da terzo mondo. I dati Ocse non lasciano spazio a dubbi. Numeri che calano come una mazzata sulle richieste avanzate negli ultimi mesi dalle associazioni di scuole non statali e da una certa parte politica. Questi ultimi rivendicano
la possibilità di una scelta realmente paritaria tra pubblico e privato nel Belpaese. In altri termini: più soldi alle paritarie.

Un mese fa, nel corso della presentazione del XII rapporto sulla scuola cattolica, la Conferenza episcopale italiana ha detto a chiare lettere che in Italia manca una “cultura della parità intesa come possibilità di offrire alla famiglia un’effettiva scelta tra scuole di diversa impostazione ideale”. Il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, ha anche sottolineato come, da un punto di vista economico, “la presenza delle scuole paritarie faccia risparmiare allo Stato italiano ogni anno cinque miliardi e mezzo di euro, a fronte di un contributo dell’amministrazione pubblica di poco più di 500 milioni di euro” e ricorda che “in Europa la libertà effettiva di educazione costituisce sostanzialmente la regola”. Sì, ma con quali risultati?

Il quadro delineato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico attraverso l’indagine Pisa (Programme for International Student Assessment) è impietoso. Il punteggio medio conseguito dai quindicenni italiani delle scuole pubbliche in Lettura e comprensione dei testi scritti è pari alla media Ocse: 489 punti, che piazzano la scuola pubblica italiana al 23° posto. Con le scuole private scivoliamo al 30° posto. Discorso analogo per Matematica e Scienze, dove il gap con la media dei paesi Ocse è di appena 5 punti: 492 per le statali italiane, che ci farebbero risalire fino al 25° posto, e 497 per i paesi Ocse. Mescolando i dati con quelli degli studenti che siedono tra i banchi delle private siamo costretti ad accontentarci in Scienze di un assai meno lusinghiero 35° posto.

Ma c’è di più: la scuola pubblica italiana, rispetto al ranking 2006, recupera 20 punti in Lettura, 16 in Scienze e addirittura 24 in Matematica. Le private, nonostante i finanziamenti, invece crollano. L’Ocse, tra gli istituti privati, distingue quelli che “ricevono meno del 50 per cento del loro finanziamento di base (quelli che supportano i servizi d’istruzione di base dell’istituto) dalle agenzie governative” e quelli che ricevono più del 50 per cento. E sono proprio i quindicenni di questi ultimi istituti che fanno registrare performance imbarazzanti: 403 punti in Lettura, contro una media Ocse di 493 punti, che li colloca tra i coetanei montenegrini e quelli tunisini. (Beh, buona giornata).

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“Il deficit medio dei bilanci pubblici nei paesi della zona euro era appena dello 0,6 per cento del Pil nel 2007. Nel 2010 risulta aumentato di 11 volte, toccando il 7 per cento.”

di Luciano Gallino, la Repubblica, 11 novembre 2010

La rivolta degli studenti inglesi e le manifestazioni di massa contro i tagli delle pensioni in Francia o quella promossa dalla Fiom a Roma in difesa del lavoro possono essere lette come un primo tentativo di difendere dall’Europa il modello sociale europeo. Un’espressione che suona un po’ astratta, ma è ricca di significati concreti. Essa vuol dire infatti pensioni pubbliche non lontane dall’ultima retribuzione; un sistema sanitario accessibile a tutti; scuola pubblica gratuita e università a costo minimo; un esteso sistema di diritti del lavoro, e molte altre cose ancora. Negli ultimi cinquant’anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di persone ed ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori.

Ora il modello sociale europeo è sotto attacco nientemeno che da parte dell’Europa. Tutti sostengono che è necessario tagliare tutto: pensioni, sanità, scuola, università, salari, diritti. Il motivo lo ha spiegato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. In un articolo apparso sul “Financial Times” nel luglio scorso, il cui titolo suonava “è tempo per tutti di stringere la cinghia”, egli scriveva che per sostenere la “sfera finanziaria” è stato accollato ai contribuenti Ue il rischio di dover sborsare 4 trilioni di euro (cioè quattromila miliardi: quasi tre volte il Pil dell’Italia) tra ricapitalizzazioni, garanzie e acquisto di titoli tossici.

Il “sillogismo di Trichet” dice: voi cittadini vi siete indebitati per trilioni di euro al fine di salvare dalla crisi il settore finanziario; chi contrae debiti deve ripagarli; dunque voi dovete rinunciare a trilioni di spesa pubblica per consolidare il bilancio degli stati. Il che significa tagliare pensioni, sanità, scuola, università, diritti. Già un mese prima il nuovo governo liberal-conservatore del Regno Unito aveva deciso di ridurre del 60 per cento gli investimenti governativi, di tagliare 600.000 posti nel settore pubblico e triplicare le tasse universitarie (portandole da 3.000 a 9.000 sterline).

I governi d’Europa danno la colpa a un’accoppiata infernale: il deficit crescente dei bilanci pubblici indotto dai costi eccessivi dello stato sociale, e la parallela diminuzione delle entrate fiscali causata dalla crisi. Nessuna delle due giustificazioni sta in piedi. Il deficit medio dei bilanci pubblici nei paesi della zona euro era appena dello 0,6 per cento del Pil nel 2007. Nel 2010 risulta aumentato di 11 volte, toccando il 7 per cento.

Colpa di un eccesso di spesa sociale? Certo che no.

Nel periodo indicato essa è stabile o in diminuzione. Semmai colpa della crisi finanziaria. Quanto alle entrate, sono diminuite prima della crisi a causa della forte riduzione delle tasse di cui hanno beneficiato soprattutto i patrimoni e i redditi più alti. In Francia, ad esempio, un rapporto presentato all’Assemblea a fine giugno 2010 lamentava che a causa delle “massicce riduzioni” delle imposte, susseguitesi dall’anno 2000 in poi, le entrate fiscali del bilancio dello stato hanno subito perdite valutabili tra i 100 e i 120 miliardi di euro.

Nel quadro dell’attacco che i governi di destra d’Europa – magari con etichetta socialista, come quello di Zapatero – stanno portando al modello sociale europeo, il governo italiano appare del tutto allineato e coperto. Taglia alla grossa la spesa sociale in modi diretti e indiretti, tra cui la drastica riduzione dei trasferimenti agli enti locali. Per di più il paese Italia è messo assai peggio degli altri. Gli italiani non possono infatti contare su sussidi di disoccupazione che toccano l’80% della retribuzione e possono durare per anni, o su ampi e solidi servizi alle famiglie, come avviene in Danimarca. Né su un reddito minimo garantito come hanno i francesi. E tantomeno ricevono gli alti salari inglesi o tedeschi, che almeno quando uno lavora permettono di reggere meglio le riduzioni dei servizi sociali.

L’attacco dell’Europa al proprio modello sociale non è soltanto iniquo, è pure cieco, perché apre la strada a una lunga recessione. Meno scuola e meno università significano avere entro pochi anni meno persone capaci di far fronte alle esigenze di un’economica innovativa e sostenibile. Infrastrutture sgangherate costano miliardi solo in termini di tempo. Servizi sociali in caduta libera vogliono dire meno occupazione sia tra chi li presta, sia tra chi vorrebbe disporne per poter lavorare.

A una generazione intera la quale va incontro a pensioni che per chi ha la fortuna di decenni di lavoro stabile stanno scendendo verso la metà dell’ultima retribuzione, è arduo chiedere di pagare la crisi una seconda volta. Ma l’attacco al modello sociale europeo è anche peggio della vocazione al suicidio economico che tradisce. Significa ferire gravemente uno dei maggiori fondamenti dell’identità europea, quello che forse giustifica più di ogni altro l’esistenza della Ue. (Beh, buona giornata).

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Rejected by Terra, quotidiano ecologista (questo articolo non è uscito su 3Dnews, inserto del quotidiano Terra: è stato respinto perché “troppo generalista”).

Dopo B ci vuole un piano b.

La sera del giorno in cui Berlusconi sarà costretto alle dimissioni e il suo governo cadrà, Bruno Vespa mostrerà in tv il plastico di Palazzo Grazioli, mentre, in segno di lutto, le tv di Mediaset manderanno in onda il monoscopio, con il sottofondo delle canzoni di Apicella.

Il giorno dopo, Libero e il Giornale saranno in edicola listati a lutto. Negli uffici, nelle fabbriche, nel metrò, nei bar e nei ristoranti non si parlerà d’altro. Poi, la vita di questo Paese scorrerà normale, come dopo la pioggia di monetine che costrinse alla fuga dall’Italia il compianto Bettino Craxi.

Si dirà che Berlusconi e il berlusconismo furono la causa di tutti i mali del Paese (xenofobia, precariato, disoccupazione, disoccupazione giovanile, aumento delle imposte regionali, illegalità dei forti, repressione contro i deboli, violazioni Costituzionali, attacco alla Magistratura, attacco alla contrattazione collettiva, criminalizzazione della FIOM, distruzione del welfare, umiliazione della Cultura, licenziamento di massa degli insegnanti della Scuola, evasione fiscale, aumento parossistico della popolazione carceraria, monnezza, manganellate, caste, cosche, mafie bunga bunga, il crollo di Pompei, l’alluvione di Vicenza). Questa tesi sarà sostenuta da Scalfari, Travaglio, Floris, Santoro, Gabbanelli. Ma anche da Fini, e la Marcegaglia di Confindustria, e don Sciortino di Famiglia Cristiana.

Qualcuno proverà a dire che in realtà Berlusconi e il berlusconismo non furono la causa, ma il prodotto (marcio) della crisi profonda dell’economia italiana, della politica italiana, della cultura italiana, dei poteri forti italiani (imprese, clero, corporazioni, banche).

Che la caduta di Berlusconi favorì il cambio dello scenario politico, utile ai Fini, ai Casini, ai Di Pietro, ai Bersani, e perché no, ai Vendola, (e ancora a Marcegaglia di Confindustria e magari anche a don Sciortino di Famiglia Cristiana) per proporre una cambio della compagine di governo, ma non certamente un cambio della visione politica, né delle contraddizioni della crisi della democrazia, della crisi della produzione di merci, della crisi della produzione di idee, della crisi delle relazione tra le classi sociali, della crisi della difesa dell’ambiente, dello sviluppo delle nuove risorse ambientali, della crisi della prefigurazione di nuove e più promettenti prospettive del ruolo della nostra società nel mare magnum della globalizzazione. (vedi: “Il governo Berlusconi è in crisi. Qui non si tratta della crisi di un governo, questa è la crisi di una intera collettività: “Se poi vogliamo guardare “come stanno le cose” oggi, dobbiamo constatare che siamo caduti più degli altri durante la crisi del 2009 e stiamo ora crescendo decisamente meno della Germania, di Francia e della Gran Bretagna.”- su questo sito: https://www.marco-ferri.com/?p=4143).

E allora i nuovi governi, tecnici o politici, le nuove maggioranze parlamentari torneranno a fare i conti con le proteste dei pastori sardi, dei metalmeccanici, dei precari della scuola, dei cassaintegrati, dei cittadini incazzati per la monnezza, dei migranti, degli internati nei centri di prima accoglienza, degli studenti e dei ricercatori, dei nuovi schiavi dei quello che una volta era il lavoro salariato, e che oggi si chiama “flessibilità”; con le proteste dei precari in tutti i settori produttivi, ma anche dei piccoli imprenditori, le cui piccole aziende sanno fare grandi cose, nonostante le banche e gli enti locali (ancorché “federalisti”). (Beh, buona giornata).

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Il governo Berlusconi è in crisi. Qui non si tratta della crisi di un governo, questa è la crisi di una intera collettività: “Se poi vogliamo guardare “come stanno le cose” oggi, dobbiamo constatare che siamo caduti più degli altri durante la crisi del 2009 e stiamo ora crescendo decisamente meno della Germania, di Francia e della Gran Bretagna.”

di ROMANO PRODI-Il Messaggero.

Per decidere cosa fare bisogna prima di tutto sapere “come stanno le cose”. Quest’affermazione è scontata, ma sono costretto a ripeterla perché oggi non mi sembra applicata né nelle scelte mondiali né in quelle nazionali. A livello mondiale il G.20 di Seoul si è tutto svolto nell’illusione che la crisi sia ormai sotto controllo e che siano sufficienti misure minori per riprendere senza radicali riforme il tradizionale cammino. Lo stesso errore di base impedisce l’analisi e quindi la cura dei nostri problemi nazionali.

Ci fa infatti comodo , ed è oggettivamente consolatorio, sostenere che ci stiamo comportando in modo simile a tutti e che soffriamo della stessa malattia degli altri grandi paesi della vecchia Europa.

Le cose purtroppo non stanno così. Le cose stanno diversamente sia quando analizziamo l’andamento di lungo periodo della nostra economia sia quando ne osserviamo i comportamenti a breve. Riflettendo sul lungo periodo, è passata ad esempio sotto silenzio un importante tabella, elaborata da El Pais su dati del Fondo Monetario Internazionale. Una tabella che mette in fila le percentuali di crescita dei 180 paesi più importanti del mondo (e cioè in pratica di tutti i paesi) negli ultimi dieci anni. Io stesso sono stato sorpreso nel leggere che l’Italia è addirittura penultima, precedendo solo Haiti. Nell’intero primo decennio del secolo la nostra intera economia è cresciuta solo del 2,43% cioè quasi nulla. Sfiguriamo anche a confronto degli altri grandi paesi della pigra Europa perché la Gran Bretagna ha progredito del 15% , la Francia del 12% e la Germania del 9%. Si tratta di progressi modesti anche da parte dei nostri confratelli europei se li paragoniamo al 170% della Cina, al 103% dell’India o al 45% della Turchia, ma nettamente superiori a quelli italiani.

Se poi vogliamo guardare “come stanno le cose” oggi, dobbiamo constatare che siamo caduti più degli altri durante la crisi del 2009 e stiamo ora crescendo decisamente meno della Germania, di Francia e della Gran Bretagna. Continuando in questo modo ci occorreranno altri cinque anni per ritornare al livello di reddito che l’Italia aveva nel periodo precedente la crisi. Ed è chiaro che, se gli altri paesi continueranno a camminare più in fretta di noi, il nostro distacco non può che aumentare.

Ecco “come stanno le cose”. Ben poco potremo consolarci per il fatto che siamo ancora un paese relativamente ricco. Negli ultimi dieci anni siamo infatti passati dal 24esimo al 28esimo posto della scala mondiale del reddito pro-capite e tutti sappiamo bene che, continuando in questa lenta discesa, non solo dovremo abbassare il nostro tenore di vita ma ancora di più lo dovranno abbassare i nostri figli. Vivere in un periodo di decadenza, o almeno di aspettative decrescenti, è quanto di peggio possa capitare a una comunità nazionale. E noi lo dobbiamo evitare a ogni costo, discutendo con serenità e con atteggiamento costruttivo sui semplici dati che ho appena esposto e cercando soluzioni che, nella situazione in cui siamo, debbono essere condivise, o almeno comprese, da tutte le componenti della società italiana.

Credo, ad es. che Marchionne abbia sollevato un problema vero sul futuro del nostro paese. Credo che abbia fatto qualche errore tattico ma credo anche che le sue analisi sul settore dell’automobile debbano essere allargate ad altri settori della nostra società, per obbligarci a un sereno dibattito sul futuro dell’intera nostra economia e, forse, dell’intera nostra organizzazione civile. Il Paese si è invece spaccato e si è schierato secondo vecchi schemi, impedendo in questo modo quel dibattito così necessario per il nostro futuro. Un dibattito che deve mettere sotto esame tutti i comportamenti incompatibili con i cambiamenti che avvengono nelle altre parti del mondo.

E’ infatti l’intera nostra società che rifiuta i comportamenti che, ci piacciano o no, caratterizzano ormai tutte le società avanzate del pianeta. Non si può infatti correre alla velocità degli altri quando l’evasione fiscale copre almeno un quarto della nostra economia e non da segni di calare. E nemmeno quando la scuola e la ricerca hanno un ruolo sempre più marginale nella società e nelle strutture produttive: E potremo continuare con la lista delle ragioni che spingono ogni anni decine di migliaia dei nostri migliori giovani ad emigrare per trovare le occasioni di lavoro che non sono reperibili in Italia. L’elenco potrebbe davvero continuare ma quest’elenco non serve a nulla se non ci si accorge che il cammino della decadenza è già cominciato e che questa caduta sarà sempre più accelerata se ci dedicheremo ancora a elencare primati che non abbiamo più o a sperare che i pochi primati che ancora possediamo si estendano per magia a tutta la nostra economia o a tutta la nostra società. Un processo di rinascita collettiva nasce sempre da un’analisi impietosa della realtà. Per fare cose nuove ci si deve prima rendere conto di “come stanno le cose.” (Beh, buona giornata).

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Svelato il motivo per cui Berlusconi ha annullato la conferenza stampa al G20 di Seul.

Pare che alla cena inaugurale del G20 di Seul, il premier italiano Berlusconi è stato piazzato in posizione periferica. Se non addirittura umiliante, per chi come lui si ritiene uno dei massimi statisti della storia del mondo. Insomma, da una parte c’erano Obama, il presidente cinese Hu Jintao, la Merkel, Sarkò e via dicendo. Da un’altra parte, ecco Silvio: l’hanno fatto sedere, lontano dai super-big, fra il presidente del Malawi, Bingu Wa Muharika e il presidente sudafricano Jacob Zuma. La cena l’ha talmente mal digerita che se l’è legata al dito. Ecco perché poi non ha neanche voluto fare la conferenza stampa di fine summit. E voi che credevevate che non voleva rispondere alle eventuali domande sulla crisi di governo in Italia. Che ingenui: ma quale crisi di governo, qui c’erano tutti gli estremi di una vera e propria crisi di nervi. Beh, buona giornata.

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Il governo non c’é più. Per fortuna, il Capo dello Stato c’è.

“Attenzione alle scadenza di impegni inderogabili per il Paese. In particolare alla legge di stabilità e a quella di bilancio”. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica dixit. Beh, buona giornata.

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