di Michele Lancione, Il manifesto
É stata consuetudine per le Università italiane nascondere i loro rapporti con il complesso militare industriale.
I progetti di ricerca finanziati dal Piano di Ricerca Militare di Crosetto venivano a malapena annunciati, e l’appartenenza al club di Leonardo – Fondazione Med-Or – passata in sordina (si veda il Rettore Lorito di Napoli che, un anno fa, promise le sue dimissioni dal consiglio scientifico della Fondazione e poi, finite le proteste, non si dimise).
Oggi assistiamo a un cambio di passo. Il rapporto con il mondo militare non viene piú messo in secondo piano, ma incoraggiato.
Questo dipende dal mutato contesto politico, inclusi i fondi messi in campo con il ReArm Europe: 800 miliardi di euro da spendere anche per sviluppare tecnologie utili a garantire, come si legge nella pubblicistica, «la pace in Europa».
Il Politecnico per il quale lavoro, a Torino, ha preso posizione pubblica a favore di questa rinnovata stagione militare. La questione, qui, non é solo che il Politecnico lavori con chi produce armi – l’ha sempre fatto – ma come giustifica il rinnovato sentore militarista.
Da un lato, si mette mano al significato dell’etica e dell’integrità della ricerca. Il nuovo regolamento etico appena approvato a Torino é esemplare.
Ricercatori e ricercatrici si devono impegnare a “ripudiare la guerra” ma, allo stesso tempo, sarà possibile svolgere ricerca per “fini militari” se gli “usi militari” saranno limitati alla “difesa dello Stato”.
Dall’altro, il Politecnico difende il rapporto con partners militari sulla base del cosiddetto duplice uso: non si può controllare come terzi useranno il nostro lavoro.
Qui si sottolinea anche la distinzione tra ricerca e produzione: chi fa scienza non arriva a produrre il dispositivo militare, ma si ferma al prototipo.
Cosa c’è di male? In fondo, é tutto vero: se non li usiamo noi a Torino, i fondi di riarmo li useranno altri; il duplice uso é difficile da controllare; e il lavoro di ricerca non porta al prodotto utilizzabile. Cosa c’è di male se come università pubblica facciamo ciò che il pubblico – lo Stato, l’Unione – ci chiede? The devil is in the details… Ne cito due.
Primo. La “difesa dello stato” apre le porte a qualunque questione militare presente nel mondo del capitalismo razzializzato contemporaneo. Si pensi alla guerra al terrore di Bush, che ha permesso di vestire qualunque cosa come una questione di Stato, con conseguenze enormi in politica interna e estera (dalla necessità di avere militari nelle nostre stazioni, all’invasione preventiva di paesi sovrani, come l’Iraq).
La questione Ucraina, mobilitata come problema di sicurezza per l’intero blocco, é un altro esempio in tal senso.
Se possiamo fare ricerca militare solo per fini di “difesa”, ma la “difesa” può plasticamente includere tutto – anche l’azione militare preventiva – dove sta il limite?
Secondo. Il duplice uso é un falso problema, cosí come quello della distinzione ricerca-prodotto. Chiaramente il Politecnico non può controllare cosa faranno terze parti del nostro lavoro, né dai nostri cancelli uscirà un Eurofighter fatto e finito.
La questione é altra. Se io, istituzione universitaria pubblica, instauro legami diretti e formali con Leonardo, che ha l’80% del suo fatturato in armi e cybersecurity militare, sto facendo qualcosa che ha ripercussioni reali, che non esisterebbero senza il mio coinvolgimento.
Ci sono tre livelli. In primis, si offre legittimazione epistemica e culturale a Leonardo, che nella pubblicistica metterà il logo di Polito, non gli effetti dei razzi OTO Melara operati dalle corvette Sa’ar 6 di Israele sulla popolazione palestinese a Gaza.
In secondo luogo, si aumenta la capacità di ricerca e sviluppo di Leonardo, che potrà contare non solo sui suoi laboratori ma anche su quelli delle Università.
Terzo, se dobbiamo parlare di duplice uso, la relazione diretta con chi produce armi facilita il passaggio di consegna del civile al militare.
Come scienziato… chiedo piú rigore. Vogliamo prenderci i soldi di ReArm Europe? Vogliamo lavorare con Leonardo? Facciamolo senza creazioni discorsive atte a legittimare la scelta militare come inevitabile. Senza invocare, come fa il Rettore del mio Politecnico, la necessità di «orientarsi tra le oltre cinquanta sfumature di grigio che il tema della difesa può avere». Quali sfumature ci sono, Rettore, nell’abbracciare rapporti istituzionali diretti con chi le armi le produce, con chi la cybersecurity la vende a regimi di mezzo mondo, con chi (come Frontex, altro nostro partner) attua ed é complice di respingimenti razzializzati nel Mediterraneo Nero?
La stagione di totale apertura al militare é iniziata. Siamo già al lavoro nel complesso militare-industriale-accademico che farà implodere l’Università, cosí come la possibilità di vivere senza l’eterna presenza della guerra, o come la chiamano i buoni, “difesa”.